7 – Ponti e viadotti

 

In senso generale il termine ponte indica qualsiasi manufatto che serva per far passare una strada, o un corso d’acqua, sopra un’altra strada o corso d’acqua o vallata. In senso ristretto si chiama propriamente ponte il manufatto che provvede alla continuità di una strada, interrotta da un fiume o da un canale; acquedotto quello che serve ad un canale d’irrigazione, ad un canale industriale, o alla condotta d’acqua potabile; ponte-canale se è adibito ad un canale navigabile; cavalcavia se serve ad una via che sovrappassa un’altra; viadotto se fa passare una strada sopra un’ampia o profonda vallata.

 

7.1 – Possibili classificazioni

 

Una classificazione dei ponti si può eseguire in base:

 

–       alla loro destinazione: e si hanno i ponti ordinari, i ponti ferroviaria, i ponti acquedotti, i ponti-canali e i ponti pedonali o passerelle;

–       alla loro durata: e si hanno i ponti stabili e i ponti provvisori;

–       alla loro immobilità o mobilità: e si hanno i ponti fissi, i mobili, i volanti, gli smontabili;

–       all’angolo formato dall’asse del piano stradale del ponte con quello del filo del fiume, o dell’asse della via attraversata, e si distinguono perciò i ponti rotti e i ponti obliqui, a seconda che tale angolo è retto od acuto;

–       all’andamento planimetrico o altimetrico dell’asse del ponte: e si hanno ponti rettilinei, curvilinei, a semplice pendio, a doppio pendio, a piano orizzontale;

–       al materiale di cui sono formate le armature principali del ponte: e si distinguono i ponti in legno, i ponti metallici, i ponti, in muratura;

–       alla funzione meccanica di tali armature, e precisamente al modo con cui trasmettono gli sforzi agli appoggi: e si hanno i ponti a travate, ad arco o spingenti, pensili o sospesi, secondo che le azioni sugli appoggi siano dirette verticalmente o obliquamente, verso l’esterno o verso l’interno delle luci del ponte;

–       all’essere tali armature staticamente determinate, oppure no, avendosi quindi: ponti a travate semplici, a travate contigue, a travate continue, articolate: arcate incastrate, a doppia o a tripla articolazione, ponti sospesi a catenaria deformabile o rigida etc.

 

Le parti essenziali che compongono un ponte sono:

 

–       le opere di fondazione, che comprendono tutte quelle costruzioni sotterranee o subacquee, che stanno fra il piano di fondazione, ossia quello del terreno naturale d’appoggio, e il piano del soprassuolo o del pelo di magra ordinaria del fiume, detto anche piano di risega. La posizione da assegnarsi al piano di fondazione dipende non solo dalla struttura, dai materiali impiegati e dal metodo seguito nei lavori di fondazione, ma ancora dalla natura del terreno attraversato, e dalla

–       potenza escavatrice della corrente del fiume;

–       i piedritti o sostegni dell’armatura principale: questi comprendono le spalle o testate, le pile, le pile-spalle, i piloni, le palate o stilate;

–       le strutture maestre che sorreggono il piano stradale, e sono quelle parti del ponte, che, per il materiale di cui sono formate, per la loro forma, per il modo con cui poggiano sui piedritti, danno l’impronta caratteristica al ponte e ne determinano la sua denominazione;

–       il piano stradale, costituito dalla carreggiata, marciapiedi, binari, od alveo di canale, con la relativa orditura di sostegno.

 

Le opere complementari comprendono:

 

–       le strutture di controvento introdotte per dare al ponte sufficiente rigidezza per resistere alle forze esterne, dirette orizzontalmente (traffico e ventosità);

–       le opere di difesa quali parapetti, cappe, arginature, pennelli, gettate, palizzate etc.

 

Nei ponti di muratura si dice archivolto il risalto sulla fronte, col quale si mette in evidenza lo spessore del volto, sovente però con minore grossezza per ragioni estetiche. Esso è ordinariamente profilato come gli architravi negli ordini di architettura. Si chiamano armille i cunei del volto posti lungo la fronte. La superficie inferiore del volto si chiama intradosso, quella superiore estradosso; lo spazio compreso fra l’estradosso e il piano stradale si dice timpano.

I timpani possono essere massicci, oppure traforati nel senso trasversale al ponte, fin sulle fronti, formando così gli occhi di ponte; oppure possono essere traforati nel senso longitudinale con struttura a pilastri e volte. Si dice cappa uno strato d’asfalto o di cemento (5 cm di spessore) il quale ricopre tutto l’estradosso della volta e la difende dalle infiltrazioni d’acque pluviali o d’altra provenienza.

 

7.2 – Ubicazione ottimale dei ponti

 

Nello studio del tracciato di una via di comunicazione risulta oltremodo importante porre particolare attenzione nella scelta delle località dove conviene effettuare la traversata dei corsi d’acqua o delle vallate, allo scopo di ottenere sicure garanzie di solidità e durevolezza per il manufatto da erigersi. Qualora infatti risultasse possibile spostare l’asse stradale si devono ubicare i punti di passaggio in località dove:

 

–       le acque corrano riunite in un solo alveo;

–       il sottosuolo presenti un buon terreno di fondazione;

–       la lunghezza del manufatto risulti minima;

–       il fondo dell’alveo e il filone di piena siano stabili.

 

La condizione relativa alla natura del terreno è certamente la più importante; avendo ragione di temere eventuali variazioni nell’andamento del filone di piena, è necessario studiare una conveniente sistemazione dell’alveo, presidiando il ponte sia a monte che a valle, con argini, pennelli etc. Si deve, di conseguenza, eliminare il pericolo che per effetto di piene il fiume muti di alveo, lasciando a secco il manufatto, interrompendo in altro punto la via. Raramente

Il ricorso all’espediente di deviare il corso d’acqua al fine di ottenere un buon attraversamento conviene di rado in quanto, eccettuati i piccoli canali, tale soluzione non risulta né economica né di effetto sicuro; quando, infatti, si opta di pilotare la corrente di un fiume lungo un nuovo alveo può darsi, nel caso le condizioni d’equilibrio fra la resistenza del nuovo letto e la forza escavatrice del fluido non siano state correttamente verificate, che la corrente in breve tempo si faccia strada per l’antico alveo.

Qualora, invece, si tratti di studiare su quale località di una profonda vallata convenga poggiare il viadotto per passare con una strada da un versante a un altro, torna spesso conveniente porre a confronto 2 progetti: uno corrispondente al minimo di percorrenza stradale, a mezzo di un alto viadotto; l’altro, viceversa, riferito, all’attraversamento in un punto più interno della valle e quindi con maggior sviluppo stradale ma minore altezza di manufatto.

 

7.3 – Determinazione dello sbocco del ponte

 

Si dice luce libera del ponte la somma delle larghezze dei vani che il manufatto presenta per lo sfogo delle maggiori piene. Tali larghezze vanno misurate da paramento a paramento dei piedritti e in direzione normale al filone della corrente.

Poiché, di norma, le spalle di un ponte internano le fondazioni nell’alveo, per tale motivo, e per l’eventuale presenza di pile, il manufatto costituisce un ostacolo al deflusso delle acque; di conseguenza si verificano 2 fenomeni nel regime della corrente: l’uno, caratterizzato da un sopralzo a monte del ponte, o rigurgito; l’altro da un incremento della velocità in corrispondenza della sezione ristretta. Il rigurgito può creare danni elevati sia minacciando di sormonto gli argini, sia rendendo impossibili gli scarichi di eventuali scolmatori sia,infine, alterando i battenti delle derivazioni a monte del ponte.

L’aumentata velocità in corrispondenza del manufatto, inoltre, può riuscire pericolosa per la stabilità dei piedritti e per la navigazione. Occorre quindi assegnare alla luce del ponte un valore calcolato in base al massimo rigurgito ammissibile o dalla massima velocità tollerabile. Si deve tuttavia evitare anche l’eccesso opposto, ossia una soverchia ampiezza di detta luce, poiché oltre alla spesa inutile per l’aumentata lunghezza del manufatto, può nascere l’inconveniente che durante le magre del fiume si formino dei depositi fertili sotto alcune luci e tali depositi, resi poi consistenti dalla vegetazione formatasi, siano poi d’ostacolo allo sfogo della piena.

L’idraulica fluviale stabilisce diverse relazioni che legano la luce libera di un ponte e il rigurgito della corrente: quella più semplice è nota sotto il nome di formula di D’Aubuisson, espressa dalla:

 

 

dove Q è la portata di piena, Δz il rigurgito effettivo (dislivello del pelo d’acqua da valle a monte del manufatto) h l’altezza media dell’acqua a valle, L la larghezza media normale del corso d’acqua, I la luce libera del ponte ed m un coefficiente sperimentale di contrazione.

La formula si ricava partendo dal principio di Bernoulli: chiamando u1 la velocità media della corrente nella sezione contratta e u2 quella nella sezione immediatamente a monte del ponte, si ha, non tenendo conto delle resistenze d’attrito e delle perdite di carico per cambiamento brusco di velocità:

 

poiché per il principio di continuità si ha pure:

 

risulta:

 

tali valori, sostituiti nella precedente equazione conducono, all’enunciato di D’Aubuisson.

Il valore di m dipende dalla forma dei rostri delle pile e dalle ampiezze delle singole luci: per piccole arcate e per rostri semicircolari si può ritenere m = 0.7; per luci di 10m si ha m = 0.8; per luci di 30m si ha m = 0.9 mentre per luci maggiori m = 1; per luci intermedie m si calcola per interpolazione lineare.

L’equazione iniziale, essendo di 3° grado rispetto a Δz, e di 2° rispetto alla luce totale l, si presta meglio al calcolo di I quando risulta noto Δz. Se l’incognita fosse Δz conviene viceversa la risoluzione per tentativi, o per successive approssimazioni, assegnando dapprima un valore plausibile a Δz nel secondo membro e calcolando quindi il Δz risultante poi ripetendo il calcolo col nuovo valore ricavato, e così via fino alla convergenza dei valori.

Per il calcolo della velocità media nella sezione contratta si utilizza la relazione u = Q/mlh; per quello della velocità massima v = u/0.8 e per la minima al fondo um = 2u – v.

Dal valore di um e dalla natura del fondo del corso d’acqua si può valutare se esiste pericolo di escavazione e quindi se siano necessarie delle opere particolari di consolidamento.

Per i calcoli visti in precedenza è necessario comunque conoscere vari elementi del regime di piena che non sempre è possibile raccogliere. Quasi mai, infatti, per corsi d’acqua a carattere torrentizio, è nota la portata di piena.

In tali casi, quando si tratta di progettare un ponte, si è obbligati a stabilire la luce libera con criteri semiempirici. Questo valore può essere determinato per analogia in base a quello di altri ponti esistenti in località prossime lungo il medesimo corso d’acqua, o situati su altri corsi d’acqua in condizioni paragonabili, tenendo tuttavia conto delle ampiezze dei rispettivi bacini di scorrimento. Occorre però usare tale criterio di analogia con cautela in quanto, anche a parità di portata massima, la luce necessaria può variare di molto, nei diversi punti, a causa della diversa pendenza e della diversa resistenza dell’alveo.

La luce del ponte può anche essere desunta dall’ampiezza del bacino versante, dalla massima altezza di pioggia, dalla permeabilità del terreno e della sua pendenza.

Alcuni autori consigliano di proporzionare la sezione liquida, in corrispondenza alle luci del ponte, all’estensione del bacino versante, ossia: 0.05 m2 per km2 di bacino quando questo presenta delle elevazioni ≤ 20 m; 0.094 m2 per elevazioni ≤ 40 m e 0.125 m2 per dislivelli maggiori. Risulta altresì chiaro come questi valori debbano essere stabiliti sperimentalmente per ogni regione desumendoli dal rapporto fra lo sbocco superficiale dei ponti esistenti e l’ampiezza del bacino a monte.

 

7.4 – Considerazioni generali su materiali e tipi di manufatto

 

Attualmente la quasi totalità dei ponti e dei viadotti viene realizzata in cemento armato o in misto lasciando solo a strutture semiprovvisorie o ferroviarie l’attivazione di eventuali manufatti metallici. In generale, tuttavia, quando la portata da superarsi con una sola campata è > 100 m oppure quando la distanza fra il piano stradale e il pelo di piena o, in mancanza d’acque, il piano che segna superiormente la luce libera del manufatto, non sia sufficiente a dare sviluppo ad un’arcata avente una freccia ≥ 1/12 della corda, si preferiscono talora soluzioni che prevedano l’impiego di strutture misto-metalliche. In quest’ultimo caso, tuttavia, con luci ≤ 15m, costituisce scelta diffusa l’impiego di travi di cemento armato. Negli altri casi la determinazione della convenienza di adottare l’uno piuttosto che l’altro genere di costruzione viene effettuata tenendo conto dell’intera spesa reale, computando non solo il valore di primo impianto ma anche quello delle spese attualizzate di manutenzione sia ordinarie che straordinarie.

Di norma le strutture metalliche hanno il pregio della rapidità di messa in opera, risultando talvolta più economiche principalmente per la spesa di primo impianto; esigono, per contro, una più accurata sorveglianza richiedendo forti spese di manutenzione per il rinnovamento di chiodature, verniciature etc.

Quando la larghezza del ponte diventi grande, come nel caso di manufatti insieme autostradali e ferroviari, le strutture miste si presentano quasi sempre come le più economiche. Fino a qualche decennio fa erano comuni, per le strade ferrate, i ponti metallici, un po’ per moda ma più per il bisogno di costruire rapidamente e risparmiare sulla spesa d’impianto. Adesso tuttavia, per le nuove linee, si tiene in maggior conto sia l’opportunità di approfittare dei materiali acquisibili in sito, sia del fatto che i ponti a struttura mista o in cemento amato si rivelano di durata illimitata esigendo nel contempo ridotte spese di manutenzione. Se sotto il piano stradale esiste uno spazio sufficiente, potendo contare su un buon terreno di fondazione, può essere conveniente il sistema misto ad arco. Nel caso contrario occorre ricorrere alle travate. Di rado, e solo in circostanze singolari (ad es. qualora la luce da superarsi sia riveli assai ampia) conviene ricorrere ai sistemi pensili.

 

7.5 – Considerazioni generali sulla ripartizione della luce totale del ponte in luci parziali

 

La determinazione del numero delle arcate (o di quello delle travate) di cui debba comporsi un ponte di luce complessiva assegnata, é una questione principalmente economica. Infatti se col diminuire il numero delle campate si consegue una minor spesa per fondazioni e pile, si viene ad aggravare notevolmente la spesa delle impalcature, dovendosi provvedere a portate maggiori.

Si esprima, per un caso particolare, la spesa complessiva di costruzione in funzione del numero delle campate; supponendo allora si tratti di un ponte ferroviario, a travate metalliche, tutte aventi un’uguale portata, sia n il numero delle campate, l la luce complessiva del ponte, P il costo totale di una pila, P1quello di una spalla, p il costo a metro (corrente) del ponte per le soli travi maestre, q quello dell’impalcatura stradale e controvento. Chiamando S la spesa totale di costruzione sarà:

 

S = 2P1 + (n-1)P + (p+q)l

 

Le quantità P e P1 dipendono dalla natura del terreno, dalle dimensioni delle travate, dal regime del corso d’acqua (per quanto possa trasportare ghiacci, galleggianti o altro) e infine, per le spalle, dall’altezza del terrapieno addossato. Tuttavia, facendo astrazione dei ponti di a portata eccezionale, le dimensioni delle pile e delle spalle risultano principalmente determinate dalla resistenza del sottosuolo e dalla forza viva della corrente; quindi, per variazioni non troppo estese di luce, trattandosi di considerare sempre la medesima località del corso d’acqua, si possono ritenere P e P1 come costanti rispetto ad n. Il valore di pvaria notevolmente con la portata e si può ritenere proporzionale (a) alla portata stessa, ossia:

 

p = a l/n

 

II valore di q dipende dalla distanza cui si collocano fra loro le travi principali costituenti la medesima campata, ed è indipendente da n. Il valore della spesa risulta perciò dato da:

S = 2P1 + (n1)P + [(al/n)+ql

 

Volendo individuare il valore n che dà il minimo della funzione S, nell’ipotesi che n vari con continuità si pone dS/dn = 0, cioè:

P – (al2/n2) = 0

si ottiene:

l/n = √P/a

 

Poiché la precedente relazione si può scrivere anche come:

 

P = (al/n) (l/n) = pl/n

 

risulta che si raggiunge il minimo della spesa quando si proporzionano le luci in modo che la spesa di costruzione di una pila (P) uguagli sensibilmente quella della costruzione delle travi maestre di una campata.

Nella costruzione di lunghi viadotti, dopo aver assegnata la luce delle campate, si presenta il problema di determinare quante pile-spalle convenga interpolare nel viadotto onde ridurre al minimo il danno per l’eventuale cedimento di una e quindi per il cedimento di tutto e solo il gruppo di elementi compreso fra 2 pile-spalle consecutive. La somma da rendersi minima, in questo caso, si compone della maggior spesa d’impianto del manufatto, per effetto dell’ingrossamento di alcune pile, onde formarne delle pile-spalle, ed inoltre della spesa di ricostruzione di un gruppo di elementi compreso fra due pile-spalle consecutive.

Chiamando L la lunghezza del viadotto; n il numero delle pile-spalle occorrenti, λ la larghezza del piano stradale, c1 il costo del manufatto al m2 di prospetto, c2 il costo del cemento armato al m3h l’altezza media del viadotto, d la maggior volumetria della pila-spalla in confronto a quella della pila semplice. La somma S da rendersi minima risulta da:

 

 

Per il minimo di S deve essere dS/dn = 0 e quindi:

 

da cui:

 

7.6 – Dimensionamento classico dei ponti in muratura

 

Prima di trattare i problemi costruttivi e geologico-tecnici relativi alla realizzazione di ponti e viadotti nel senso moderno risulta opportuno, per completezza d’analisi, prendere visione dei criteri adottati fino a pochi decenni fa per la realizzazione dei manufatti classici in muratura, soprattutto alla luce del fatto che una buona parte di questi costituisce, ancor oggi, la struttura più diffusa lungo le normali vie di comunicazione.

Anche secondo il modello statico classico applicato per le realizzazioni in muratura la superficie che i piedritti devono presentare al loro piano di fondazione dipende essenzialmente dalla resistenza del sottosuolo; la pressione unitaria ammissibile con sicurezza sui terreni naturali, infatti, varia in ampia misura da quelli più consistenti a quelli più cedevoli, potendo passare da 1 a 8÷10 kg/cm2.

Solo nel caso di fondazioni su roccia, infatti, la pressione specifica può aumentare di molto, e spingersi, secondo consuetudine, fino a 1/20 del carico di schiacciamento. Le spalle di un ponte, di conseguenza, dovevano presentare spessori sufficienti per resistere alla spinta trasmessa dall’arco nelle condizioni di massimo sovraccarico; dovendo, inoltre, essere atte a resistere anche all’azione del terrapieno addossato senza che si tenesse conto della controspinta dell’arco.

Molte sono state le formule applicate per la determinazione degli spessori delle spalle in relazione alla spinta dell’arco. In genere, tuttavia, queste sono ottenute dall’equazione di equilibrio dedotta dai momenti di tutte le forze riferiti allo spigolo esterno della base ponendo, per sicurezza, che il momento di stabilità, cioè quello relativo ai pesi, risulti uguale da 1.5÷2.0 volte il momento di rovesciamento, cioè quello dovuto alla spinta. Poiché tali formule riuscivano spesso alquanto complesse se ne erano allora elaborate ulteriori (dando per assunte alcune grandezze) col cui  utilizzo si potessero ottenere risultati sufficientemente approssimati grazie ad operazioni più semplici. Una di queste formule, dovuta a Lesguiller, è la seguente:

 

 

dove e2 è lo spessore della spalla al piano di risega, I la luce o corda dell’arco, f la sua freccia ed h la distanza fra il piano di risega e quello di imposta (Fig. 7.1).

Fig. 7.1 – Modello d’arcata per ponti in muratura.

Per poter giudicare la stabilità delle spalle, dei muri di ala, dei muri di sostegno etc., rispetto all’azione dei terrapieni che vi sono addossati, si ricorreva alla teoria dell’equilibrio delle terre onde stabilire la risultante delle pressioni che il terrapieno esercitava sul paramento al quale s’appoggiava. Per le necessità operative erano sufficienti alcune regole dedotte in via approssimativa da tali teorie, facendo comunque astrazione dell’attrito fra terra e muro.

Le medesime si possono compendiare nelle seguenti determinazioni grafiche:

 

Se AB è la parete verticale del muro (Fig. 7.2) e AC il livello orizzontale cui termina il terrapieno, si determina BC inclinata all’orizzonte di un angolo φ uguale a quello d’equilibrio della terra considerata (secondo la consistenza di questa, variabile entro 30°÷40°). Si determina la retta BD bisettrice dell’angolo ABC e quindi si traccia DE in modo che risulti l’angolo ADE = ABD = α.

Fig. 7.2 – Definizioni geometriche del modello di spinta.

 

Oppure (il che fa lo stesso) in modo che EDB = φ.

Chiamando con δ il peso specifico della terra (1.6÷1.8), il valore della spinta S agente su 1 m di fuga della parete AB, viene dato dall’uguaglianza:

S = ½ AB AE δ

La medesima spinta, se la si vuole calcolare per via puramente analitica, si deduce dalla relazione:

 

S = ½ δ AB2 tg2α

dove α = (45°φ/2).

La direzione della spinta è nel senso perpendicolare alla AB e il suo punto d’applicazione è in F, essendo BF = 1/3 AB. Se sopra AC agisse un sovraccarico il cui peso fosse uguale ad uno strato di terra d’altezza AM, la spinta parziale S1 dovuta a questo sovraccarico sarebbe data dalle relazioni:

S1 = AM AE δ        oppure        S1 = AB AM tg2α δ

 

La S1 agisce perpendicolarmente ad AB ed è applicata in O, punto di mezzo di AB.

Trattandosi di un muro di sostegno, avente contro terra un paramento a piccola scarpa o a riseghe, e nell’ipotesi che la superficie superiore del terrapieno sia un piano inclinato, la determinazione della spinta si può effettuare supponendo il terrapieno limitato all’orizzontale AN (Fig. 7.3) e sostituendo al paramento del muro la sua proiezione sulla verticale.

Fig. 7.3 – Spinta sul muro di sostegno.

 

Determinata la spinta S che risulta da queste ipotesi, si calcola l’altra spinta S1 dovuta al prisma di terreno AEDC, considerato come sovraccarico. Infine si trova la risultante di S e S1. Nel caso di un terrapieno compreso fra 2 muri paralleli (Fig. 7.4), come avviene ordinariamente nelle testate di un ponte, la spinta su uno dei muri si può valutare nel seguente modo:

 

Fig. 7.4 – Spinta del terrapieno tra 2 muri di sostegno.

 

Dopo aver determinato la retta BE, inclinata di φ all’orizzonte, e la bisettrice BC dell’angolo ABE prolungata fino all’incontro del paramento opposto nel punto C, si traccia l’orizzontale CD. Con le regole già esposte si calcola la spinta S che il terrapieno, limitato alla DC, esercita sul paramento BD. Quindi si calcola l’altra spinta dovuta al sopraccarico ADCF, accresciuto eventualmente da quello accidentale che vi potrebbe agire. Infine si costruisce la risultante y delle forze S e S1 e questa sarà la spinta totale su uno dei muri. Non si deve tuttavia dimenticare che questa determinazione ha valore fintantoché sia effettivamente trascurabile l’attrito fra terra e paramento del muro.

Se si trattasse di valutare la stabilità di un muro di sottoscarpa, come spesso accade per gli argini di accesso al ponte, si può procedere alla scomposizione del terrapieno nel modo riportato in Fig. 7.5.

Fig. 7.5 – Stabilità di un muro di sottoscarpa (argine d’accesso al ponte).

Si calcola quindi la spinta come se il terrapieno terminasse ad AC, poi la spinta prodotta dal prisma ACDE, considerato come sovraccarico. Il prisma AFE, a cavaliere del muro, rappresentando un peso utile per la stabilità, viene a comporsi col peso del muro.

Tutti i metodi utilizzati in precedenza dai tecnici erano fondati su ipotesi particolari relative al modo di scomporsi del terrapieno e del peso che costituiva il sovraccarico qualora si fosse sorpassato il limite di equilibrio. In tutti i casi, come già ricordato, veniva trascurato l’attrito fra muro e terra.

Avendo voluto, tuttavia, prendere in considerazione anche questa forza e ammettendo che la superficie di scorrimento risultasse un piano, e precisamente quello corrispondente alla massima spinta, si arrivava alla seguente regola, esposta da Rebhann, per stabilire il valore di tale spinta.

Fig. 7.6 – Costruzione di Rebhann.

Si descrive BD (Fig. 7.6) in modo da formare l’angolo DBA = (φ + φ’) essendo φ l’angolo di equilibrio della terra, e φ‘ l’angolo di attrito fra terra e muro. Si  costruisce poi la media geometrica fra AD e AC descrivendo su AC il semicerchio, la perpendicolare ad AC nel punto D e misurando la corda AE.

Determinato AF = AE, si traccia FG parallela a BD. La retta AG definisce il piano di scorrimento. Per ottenere la misura della spinta si pone FH = FG e si descrive GH. La spinta su 1 m di fuga del muro è data da S = δ area FHG.

Il punto d’applicazione O si trova a 1/3 AB a partire da A, ed è diretto in modo da formare con ON, normale ad AB, l’angolo NOS = φ‘.

Il diagramma delle pressioni specifiche sul paramento AB si ottiene descrivendo un triangolo, equivalente al triangolo HFG e che abbia la sua base sull’orizzontale condotta per A, ed il vertice su quella condotta per B. Moltiplicando per il peso specifico δ un segmento rettilineo orizzontale, compreso in questo diagramma, si ottiene il valore della pressione specifica agente in quel punto di AB che si trova alla medesima altezza di tale segmento.

Se invece si moltiplica per δ l’area del trapezio delimitato in questo diagramma da 2 orizzontali, si ottiene il valore della pressione totale agente sulla porzione di AB compresa fra queste orizzontali. Il punto d’incontro di AB con la baricentrica orizzontale di questo trapezio è il centro di pressione. Per la direzione della spinta vale ancora quanto detto per quella agente su tutto il paramento AB. Dopo aver determinato le spinte parziali o quella risultante per uno qualunque degli esempi riportati, si calcola il momento Mr di rovesciamento attorno allo spigolo inferiore esterno del muro, ossia il momento prodotto da tali spinte. Si valuta poi il momento Ms di stabilità dovuto al peso del muro riferito al medesimo spigolo. Per l’equilibrio rispetto al ribaltamento è opportuno che si verifichi Ms ≥ Mr; per la stabilità conviene che sia almeno Ms = 1.5÷2.0 Mr.

Volendo esaminare in modo completo le condizioni statiche e resistenti del muro, occorrerebbe per ogni giunto del muro stabilire la risultante delle forze al giunto medesimo. Dalla direzione di questa risultante, dalla sua intensità e dalla posizione del punto in cui essa interseca il giunto, si poteva stabilire se era assicurata la stabilità rispetto al ribaltamento, rispetto allo scorrimento così come allo schiacciamento del materiale (→).

Con le regole esposte risultava quindi possibile progettare con sufficiente sicurezza le dimensioni dei muri costituenti gli spalloni dei ponti, quelli di risvolto e quelli di controscarpa degli argini di accesso; riusciva invece più difficile la ricerca razionale delle dimensioni delle pile in muratura, poiché tali dimensioni dipendono da molti elementi, alcuni dei quali non perfettamente conosciuti. Infatti su tali dimensioni influiscono il peso portato dalla pila, il peso proprio di questa, le spinte trasmesse delle arcate adiacenti, la forza escavatrice della corrente, la forza viva dei galleggianti, la spinta verticale dell’acqua, la resistenza del suolo al piano di fondazione e quella d’attrito sulle pareti incassate nel suolo.

In ogni caso, dopo aver preventivato per via empirica lo spessore della pila, il passo successivo era quello di procedere alla verifica della sua stabilità, motivo per cui le dimensioni della pila dovevano essere tali che questa si trovasse al limite d’equilibrio rispetto al rovesciamento, nell’ipotesi che vi si appoggiasse una sola delle arcate adiacenti. In altre parole, supposta tolta una delle arcate e ridotta, quindi, la pila alla condizione di una spalla, il momento di rovesciamento, rispetto allo spigolo esterno della base d’appoggio, doveva risultare uguale a quello di stabilità rispetto allo stesso spigolo.

In Francia, infatti, s’era potuto verificare, in seguito alla distruzione di alcune arcate di ponti durante la guerra, che in molte pile resistite alla spinta di una sola arcata adiacente, il momento di stabilità risultava inferiore a quello di rovesciamento, e precisamente di un fattore 0.9. L’equilibrio era evidentemente dovuto alla coesione delle malte.

Proseguendo comunque nel ragionamento, se sulle pile fossero state poggiate delle travate lo spessore di quelle sarebbe risultato minore. Detto s questo spessore ed l la portata in m delle travate adiacenti, si poteva allora ritenere:

 

sm = 1+0.03 l          per l < 50

s = 2+0.01 l            per l > 50

 

La lunghezza delle pile dipendeva dalla larghezza del piano stradale, che variava tra 7.5÷9 m per ponti ordinari; tra 5÷6 m per ponti ferroviari a 1 binario e tra 8÷9 m per ponti a 2 binari. Gli archi in muratura erano caratterizzati dalla forma speciale assunta dalla linea che è la direttrice della superficie cilindrica d’intradosso.

Le linee più impiegate per tale scopo erano l’arco di circolo a tutto sesto (semicirconferenza) e l’arco scemo o ribassato. Una volta conosciuti tutti i pesi permanenti e accidentali gravanti sull’arco e rimasti costanti di valore e posizione, la linea più razionale che si doveva adottare quale asse dell’arco era una delle catenarie di quel sistema di pesi. Con tale scelta l’arco veniva a trovarsi nelle migliori condizioni di resistenza essendo sollecitato in tutte le sue sezioni ad una semplice compressione.

Distribuendo uniformemente il sistema dei pesi anzidetti rispetto all’orizzontale, la catenaria diveniva una parabola ordinaria ad asse verticale; se, viceversa, il sistema di pesi fosse stato crescente dalla chiave verso le imposte, la catenaria avrebbe presentato alle imposte una curvatura più pronunciata che non in chiave, avvicinandosi per il suo andamento ad una ellisse con l’asse maggiore orizzontale. Nel caso poi che i maggiori pesi si fossero addensati intorno alla chiave, o anzi, se vi si fosse concentrato qualcuno dei pesi, la catenaria avrebbe presentato attorno alla chiave una maggiore curvatura che non alle imposte e, nella seconda ipotesi, avrebbe avuto in chiave un punto singolare, con cambiamento brusco nella direzione della tangente.

Gli archi che si presentano con tale singolarità si dicono a sesto acuto od ogivali. Il loro impiego è razionalmente giustificato nel solo caso che, oltre ad un carico continuo sull’arco, se ne abbia uno concentrato in chiave. Questo potrebbe avvenire, ad es., se l’arco dovesse sostenere in chiave un pilastro sorreggente un’altra struttura. Nei ponti ordinari l’arco a sesto acuto non si può ritenere conveniente a meno che il suo impiego non sia giustificato da motivi inerenti a difficoltà costruttive presentate in determinate circostanze da altre forme di archi. Così nei paesi ove scarseggiava il legname d’opera e, quindi, fosse riuscita o impossibile o troppo gravosa la costruzione delle centine necessarie per l’erezione degli archi ordinari in muratura, conveniva ricorrere all’arco ogivale, perché fino a grande altezza lo si può costruire senza l’aiuto delle armature di sostegno. Non riscontrandosi serie difficoltà d’esecuzione si assumevano per curve direttrici archi di ellissi, principalmente se l’opera doveva realizzarsi in mattoni o in piccoli cunei di pietra.

Per la descrizione dell’ellisse si potevano adottare le note regole geometriche tuttavia, per un tracciamento esatto tanto sul progetto che in corso d’opera conveniva ricorrere al calcolo diretto delle coordinate dei vari punti riferiti agli assi della curva. Per la corda l e la monta f, l’equazione dell’ellisse diviene:

(4x2/l2) + (y2/f2) = 1

da cui si deduce:

y = f √1 – (4x2/l2)

 

Assegnando ad x diversi valori si calcolano con questa formula i corrispondenti valori di y.

Infine si può menzionare che come linea direttrice delle arcate muratura venia impiegata anche la catenaria corrispondente ai carichi effettivi dell’arco determinata analiticamente mediante la sua equazione.

Negli archi in muratura, essendo il peso permanente assai rilevante in confronto a quello dei carichi accidentali, il valore degli spessori necessari per la stabilità dipende principalmente dall’apertura e dalla monta dell’arco, motivo per cui risultano abbastanza approssimate quelle formule empiriche che danno tale valore come funzione di queste sole dimensioni. I valori così forniti, infatti, non rappresentano che una soluzione di massima dovendo essere necessariamente convalidati con ricerche accurate intorno al modo di comportarsi dell’arco nelle diverse ipotesi di caricamento possibile.

Fra le numerose formule proposte la più significativa era quella di Croizette dove, chiamando R il raggio dell’arco dato (oppure quello del cerchio circoscritto al primo, passante cioè per le imposte e la serraglia della linea d’intradosso) lo spessore in chiave, espresso in m, viene dato dalla relazione:

e = 0.15 + 0.15 √2R per ponti ordinari

e = 0.2 + 0.17 √2R per ponti ferroviari

 

Lo spessore dell’arco va ordinariamente crescendo dalla chiave verso le imposte, raggiungendo al giunto di rottura lo spessore e1 definito dalla relazione 1.5÷2.0 e.

In via approssimativa si poteva ritenere che, per archi aventi un’ampiezza > 120°, il giunto di rottura fosse a 60° dalla chiave e per gli altri all’imposta.

 

7.7 – Gli elementi strutturali

 

A parte le scelte strutturali e tipologiche e al di là dell’ubicazione nel senso funzionale dell’opera e/o del suo corretto inserimento tra territorio e ambiente, la competenza geologico-tecnica in relazione a ponti e viadotti assume valenza soprattutto per quanto concerne i problemi inerenti la qualità e la risposta delle fondazioni, quindi in rapporto agli elementi portanti del manufatto incluse le valutazioni antisismiche, nonché il mantenimento della struttura nel tempo in seguito all’eventuale insorgere, successivo alla realizzazione, di azioni di spinta, erosione o variazioni di flusso entro l’alveo e nei pressi dell’opera medesima.

Pur rinviando al capitolo relativo alle fondazioni (vol. 2°) per quanto attiene agli elementi base di volta in volta prescelti (plinti, cordoli, platee, pali etc.) si rivela opportuno, a questo punto, introdurre una breve descrizione dei manufatti-tipo incontrabili nel merito durante le operazioni d’allestimento delle strutture.

 

7.7.1 – Pile

 

Gli appoggi intermedi del ponte, laddove esistano, prendono il nome di pile (anche piloni): la loro disposizione è condizionata dall’andamento sia planimetrico che altimetrico dell’asse stradale e, in presenza d’acqua, dall’andamento della corrente che talvolta influenza anche la loro forma.

Le pile in acqua presentano quasi sempre andamento parallelo alla corrente con sezione a parete piena (o ad elementi strutturali divisi) che, nella parte impegnata dall’acqua, si raggruppano in un unico elemento a forma di rostro; qualora l’asse della pila non possa essere allineato con la corrente si preferisce la forma circolare.

In generale la forma delle pile può essere la più varia possibile ed in molti casi diventa l’elemento caratterizzante dell’intera opera. In Fig. 7.7 sono riportate le sezioni più usuali: a) a parete piena; b) a doppia parete; c) a cassone; d) a cassoni separati; e) a telaio; f) a colonna; g) a più colonne. Immediatamente al di sotto dell’intradosso d’impalcato questi vari elementi sono tra loro collegati da un robusto elemento trasversale che nel linguaggio tecnico e spesso indicato col nome di pulvino.

 

Fig. 7.7 – Moduli base di pile.

 

L’impalcato può essere rigidamente connesso al pulvino realizzando un nodo a incastro ma, più spesso, è collegato ad esso mediante cerniere o appoggi semplici (travi Gerber, travi appoggiate). Nel caso di ponti in curva le pile e i relativi pulvini assumono in pianta forma trapezia mentre la zona d’appoggio delle travi cade sul pulvino sagomato a gradini (baggioli) che tengono conto della pendenza trasversale dell’impalcato.

Nei grandi ponti sospesi e nei ponti strallati le pile costituiscono delle grandi torri che superano notevolmente la quota dell’impalcato per poter raccogliere in sommità i cavi (o stralli) di sospensione: tali torri sono concepite come grandi telai a ritti inclinati o paralleli che sostengono l’impalcato mediante travi trasversali di collegamento.

In generale le pile sono realizzate in calcestruzzo armato e più raramente in acciaio.

 

7.7.1.1 – Carichi e azioni agenti sulle pile

 

Carichi trasmessi dall’impalcato

 

–       a) Generalmente si cerca di trasmettere le azioni derivanti dai carichi fissi e dai sovraccarichi agenti sull’impalcato in modo da rendere prevalente sulla pila la sollecitazione di sforzo normale: a ciò si riesce quando è possibile contenere in limiti modesti le azioni orizzontali e le eccentricità dei carichi verticali. Questo risultato si raggiunge più facilmente per impalcati continui sulle pile e con buona approssimazione nel caso d’impalcati semplicemente appoggiati, purché si abbiano campate contigue aventi luci pressoché uguali.

–       b) Le azioni dovute al ritiro e alle variazioni termiche si traducono in forze orizzontali trasmesse alla sommità delle pile: esse inducono, quindi, sforzi taglianti e flettenti tanto più gravosi quanto più le pile sono alte. È opportuno pertanto, se non è possibile eliminarle del tutto, almeno ridurle. Il problema del ritiro è superato per tutti gli impalcati realizzati, interamente o prevalentemente, fuori opera. Gli effetti delle variazioni termiche sono eliminabili con l’interposizione di opportuni dispositivi d’appoggio tra pila e impalcato.

–       c) L’azione di frenatura dei carichi mobili si estrinseca in una forza orizzontale agente alla quota del piano viario.

–       d) Ad un’altra forza orizzontale, sempre applicata al livello del piano viario, si riduce l’azione centrifuga esercitata dai sovraccarichi per ponti in curva.

–       e) In presenza di forze orizzontali applicate alla loro sommità si riduce, per le pile, l’azione del vento sulle strutture d’impalcato.

 

Carichi agenti direttamente sulle pile

 

Sono costituiti dal peso proprio e dal vento; quest’ultimo, specie per pile molto alte, può assumere un ruolo predominante in quanto induce carichi flettenti: l’entità della pressione esercitata è funzione del luogo in cui l’opera è realizzata e dell’altezza della pila. In assenza di specifici accertamenti è possibile far riferimento a tabelle e/o a  normative. E’ tuttavia da rammentare come in gole montane o in profondi valloni la pressione del vento possa raggiungere valori ben più rilevanti di quelli previsti mediamente per la zona in cui l’opera e realizzata. In tali casi è opportuno procedere ad una valutazione diretta locale degli effetti del vento.

 

Carichi derivanti da azioni sismiche

 

L’effetto sismico induce un’azione dinamica stabilita da norme specifiche; dette norme prevedono che, nei casi più usuali, l’azione sismica può essere tradotta in forze orizzontali convenzionali che agiscono staticamente.

 

Azioni dovute all’acqua

 

La corrente esercita una spinta idrodinamica sulle strutture immerse; inoltre il disturbo al libero deflusso della corrente creato dalla pila induce fenomeni di rigurgito e, nella zona a valle delle fondazioni, dei vortici che possono produrre (specie in terreni sabbiosi e limosi) grosse buche nel letto del fiume con conseguente azione di scalzamento delle fondazioni. Infine, vanno valutate caso per caso le azioni dovute agli urti dei corpi solidi trasportati dalla corrente.

 

7.7.1.2 – Verifiche di stabilità

 

Le azioni agenti sulle pile sono riconducibili a forze verticali ed orizzontali, queste ultime possono avere direzione fissa o variabile. Nel caso delle pile-torri dei ponti sospesi o strallati le azioni dei cavi o si equilibrano perfettamente, dando luogo a risultanti verticali, o danno luogo a risultanti sempre decomponibili in forze verticali ed orizzontali.

Le sollecitazioni che si riscontrano nelle pile sono pertanto: sforzo normale, flessione in generale deviata, taglio e raramente (se non per condizioni eccezionali o effetti secondari) torsione. Si rivela in ogni caso opportuno eseguire numerose verifiche in funzione delle possibili combinazioni dei carichi verticali e della direzione delle forze orizzontali.

 

–       un 1° gruppo di verifiche riguarda l’azione dei carichi fissi e mobili. Occorre verificare le pile sotto gli effetti del carico fisso nelle varie fasi della costruzione del ponte; l’esempio più comune é costituito dalla presenza di una sola campata sulla pila. A volte, come nelle costruzioni di alcuni ponti a sbalzo, si ricorre all’ausilio di particolari accorgimenti costruttivi per ottenere diversi schemi strutturali nelle diverse fasi (costruzione ed esercizio). Sono quindi necessarie le verifiche sotto l’azione contemporanea dei carichi fissi e delle azioni dovute ai sovraccarichi, combinate nei modi più sfavorevoli per la struttura.

–       un 2° gruppo di verifiche riguarda l’azione del vento, che va considerata sia a ponte carico che a ponte scarico: é indispensabile eseguire più verifiche modificando la direzione del vento. Per le pile alte spesso la condizione più gravosa si ha ipotizzando l’azione del vento nel piano a 45° con gli assi centrali d’inerzia della sezione trasversale della pila.

–       un 3° gruppo di verifiche é da eseguirsi nel caso di azioni sismiche, combinando queste con i carichi fissi nel modo più sfavorevole possibile, secondo quanto previsto dalla normativa in vigore.

 

In tutti i gruppi di verifiche citate sono da considerare, ove esistano, le azioni dovute all’acqua così come é necessario assicurarsi della stabilità della pila: il calcolo del carico critico è influenzato dalla forma della sezione trasversale.

Molto spesso nelle verifiche di stabilità ci si può limitare alla determinazione delle caratteristiche della sollecitazione, calcolate tenendo conto dei coefficienti amplificativi previsti dai vigenti regolamenti. In casi di particolare importanza, invece, occorre eseguire uno studio accurato dell’instabilità della struttura. Ad es. nel caso di pile alte in calcestruzzo armato spesso avviene che l’instabilità, data anche la presenza del vento e della frenatura, avviene con superamento del campo clastico e pertanto le verifiche con formule che portano in conto il solo comportamento elastico cadono in difetto. Si deve allora ricorrere a particolari metodi di calcolo per i quali si rimanda a pubblicazioni specifiche.

 

7.7.1.3 – Fondazioni delle pile

 

Presentano i medesimi problemi che s’incontrano nelle fondazioni di qualsiasi grande struttura: spesso le difficoltà sono aumentate dal rilevante valore delle forze in gioco e dalla necessità di doversi appoggiare su profondi fondali o in acque poco tranquille. Si richiamano in breve i metodi più usati.

 

1) Fondazioni dirette: si scelgono nel caso di terreno di fondazione abbastanza resistente (almeno alcuni decine di N/cm2 di carico limite) a limitata profondità (di solito ≤ 8÷10 m). È bene ricordare che quando ci si trova lungo pendii non è sufficiente garantire una pressione ammissibile sul terreno, ma è indispensabile assicurarsi della stabilità globale dell’opera e del circostante terreno.

2) Fondazioni su pali: si rendono indispensabili quando i! terreno presenta scarsa resistenza fino a profondità notevoli; dati i carichi in gioco nelle pile da ponte si usano di solito pali armati di grande diametro.

3) Fondazioni speciali: sono le fondazioni a pozzi, a tappi, mediante setti, oppure fondazioni eseguite con l’ausilio di cassoni auto-affondanti. I pozzi sono circolari e vengono immersi per auto-affondamento, munendo il fondo di apposito tagliente. Le fondazioni a tappo consistono nel realizzare alla base della struttura un volume troncoconico di calcestruzzo armato, sulla cui superficie laterale si esercita la spinta passiva del terreno. In alcuni casi sono stati creati dei setti verticali, al di sotto del plinto di base, che s’immergono profondamente nel terreno.

Per piccole altezze d’acqua, potendo realizzare fondazioni dirette, si getta il calcestruzzo dentro casseri. Questi possono essere recuperabili se formati con pareti di legno od acciaio; nel caso di casseri in calcestruzzo non recuperabili, essi sono resi solidali alla fondazione.

 

7.7.2 – Spalle

 

Col termine spalle s’indicano, genericamente, le strutture d’estremità del ponte. Alla spalla propriamente detta è associato l’insieme delle strutture che realizzano il collegamento tra corpo stradale ed opera d’arte. Le spalle sono fondamentalmente costituite dalle seguenti parti:

 

azona realizzante il vincolo d’estremità del ponte: la sella d’appoggio e la parete paraghiaia nel caso di ponti a travate; nel caso degli archi le spalle realizzano i vincoli alle imposte.

bstruttura di sostegno propriamente detta: poiché di solito la strada al raccordo con l’opera d’arte è in rilevato, possono aversi spalle passanti o di contenimento. Le prime consentono al terreno di passare al di sotto del ponte secondo la scarpa naturale, e sono generalmente realizzate con un semplice telaio. Le seconde invece presentano una parete verticale, o con leggera scarpa, che ha la funzione di contenere il rilevato.

cmuri di contenimento: per le spalle non passanti, il terreno del rilevato deve essere contenuto non solo frontalmente, ma anche lateralmente; ciò si ottiene mediante muri di risvolto o mediante muri d’ala.

dfondazioni delle spalle: la disposizione delle spalle è un elemento fondamentale del progetto di un ponte, ed è influenzata dall’orografia locale e dalla qualità dei terreni interessati. I tipi di fondazione delle spalle sono gli stessi di quelli già indicati per le pile; di regola essi interessano anche il complesso dei muri di contenimento.

 

In Fig. 7.8 si riportano alcuni tipi schematici di spalle.

Fig. 7.8 – Sezioni schematiche di spalle.

Dato l’elevato costo di queste strutture (incrementantesi rapidamente all’aumentare dell’altezza), si preferisce molto spesso aumentare la luce dell’opera o aumentare il numero di campate pur di limitare l’onere dovuto alle spalle.

 

7.7.2.1 – Carichi e azioni agenti sulle spalle

 

I medesimi tipi di carico considerati per le pile agiscono sulle spalle; a questi si aggiungono le azioni esercitate dal terreno: le stesse sono date dal peso proprio e dalla spinta. La determinazione di quest’ultima viene effettuata secondo i metodi della meccanica delle terre. Le spalle, per la loro funzione, non sono soggette, generalmente, all’azione dell’acqua.

Il progetto delle spalle è strettamente legato alla loro localizzazione lungo il tracciato stradale: attestandosi lungo pendii poco scoscesi dove la zona sottostante l’opera può, almeno verso le estremità, essere ingombrata da scarpate, risulta possibile orientarsi, spesso con grande convenienza, verso spalle passanti. In alcuni casi l’ingombro della scarpata può essere limitato da muretti o gabbionate; negli altri casi é necessario che le spalle contengano il terreno sia frontalmente che lateralmente.

Scartata dalla moderna tecnica la primitiva soluzione in muratura, diviene obbligatorio scegliere tra massicce spalle in calcestruzzo non armato (spalle a gravità) e strutture in calcestruzzo armato. In generale può confermarsi che, dato l’esiguo onere dovuto all’armatura, spesso sia da preferirsi la soluzione in calcestruzzo armato. In tale progetto delle spalle é buona norma definire con cura l’attacco tra muro frontale e muri d’ala o di risvolto: dati i diversi carichi cui sono sottoposti, questi muri tendono a subire cedimenti diversi.

Se il terreno di fondazione è molto buono ed il rilevato è ben costipato, si possono evitare giunti; in caso contrario diviene consigliabile realizzare giunti nel collegamento dei muri d’ala mentre si preferisce evitare ancora i giunti armando adeguatamente le zone di collegamento tra il muro frontale e i muri di risvolto. Il collegamento di questi con la spalla accresce notevolmente la stabilità di quest’ultima. In aggiunta e a modifica di quanto già affermato per le pile, si rivelano opportune alcune considerazioni:

 

– il vento esercita la sua azione solo attraverso la reazione d’impalcato: di conseguenza tale azione diretta sulla spalla diviene trascurabile;

– le verifiche da eseguirsi possono così suddividersi:

 

–       il primo gruppo tiene conto dell’azione del terreno e del solo peso della spalla; tale condizione si può verificare se in precedenza viene sistemata la spalla col terrapieno retrostante,e a seguire si realizza l’impalcato;

–       il secondo gruppo di verifiche è da eseguirsi per l’azione dell’impalcato e del solo peso proprio della spalla: ciò accade se si realizza l’opera d’arte prima di sistemare il rilevato;

 

Infine sono da eseguirsi tutte le verifiche nella condizione di esercizio del ponte. La loro schematizzazione è in tutto simile a quanto già riportato per le pile, tenendo presente che per queste strutture viene solitamente meno, dato l’usuale rapporto delle dimensioni trasversali rispetto all’altezza, il problema della stabilità dell’equilibrio.

 

7.7.3 – Vincoli e giunti

 

La natura e la distribuzione dei vincoli sono elementi fondamentali per la caratterizzazione dello schema statico e quindi del comportamento strutturale di un ponte/viadotto. I vincoli generalmente usati sono: l’incastro e gli appoggi sia fissi che mobili, più raramente vengono usati i pendoli.

Nell’incastro si deve ottenere un elemento di rigidezza praticamente infinita rispetto all’elemento strutturale che ad esso si vincola, per rispettare le condizioni teoriche di rotazione e spostamenti nulli. Sono generalmente realizzati mediante grandi blocchi di calcestruzzo armato che trasmettono le reazioni vincolari direttamente al terreno, oppure ad una palificata.

E’ necessario sottolineare che un incastro non deve assolutamente essere soggetto a cedimenti, perché questi possono indurre nello stato pensionale dell’intera struttura alterazioni tali da comprometterne la stabilità; di conseguenza è possibile realizzare un incastro mediante fondazione diretta solo quando, stante i rilevanti carichi trasmessi, ci si trovi di fronte a terreni sicuramente stabili e di elevata resistenza.

Con riferimento agli archi, per ridurre al minimo le sollecitazioni tangenziali sul piano di posa, si dispone la superficie di base del blocco normalmente alla direzione media della massima reazione (Fig. 7.9).

L’incastro può essere ottenuto mediante un unico blocco pieno o una struttura a cassone opportunamente irrigidita da costole: la Fig. 7.10 illustra un esempio di ponte ad arco, con l’indicazione delle fondazioni dell’arco.

Nel caso degli arco-telai la struttura d’incastro viene spesso realizzata con cassone nervato e zavorrato, ed assolve anche le funzioni di spalla.

Nel caso di travi continue con impalcato solidale ai piedritti il nodo di collegamento tra piedritto ed impalcato può essere riguardato come un incastro, in quanto oltre alle caratteristiche di sforzo normale e taglio un’aliquota di momento (proporzionale al rapporto tra le rigidezze pila-impalcato) viene assorbita dalla pila.

Fig. 7.9 – Particolare relativo a Ponte Maillart (plinti).

Gli appoggi fissi e mobili costituiscono i vincoli più diffusi e di essi esiste una vasta gamma di tipi adatti alle molteplici esigenze della tecnica costruttiva. Dalla progettazione dell’impalcato discende lo schema dei vincoli da adottare per consentire gli spostamenti richiesti. Il tipo più semplice (Fig. 7.11), adatto per travi di modesta luce (≤ 15 m) e realizzato con una piastra metallica sagomata secondo una superficie convessa, sulla quale poggia una piastra piana solidale alla trave d’impalcato. Si dispone un dispositivo per ciascuna trave d’impalcato; tali appoggi sono resi fissi dalla presenza di bordi che ne impediscono lo scorrimento.

Fig. 7.10 – Viadotto ad arco incastrato: sezione longitudinale con centina (da notare il particolare delle fondazioni dell’arco e delle spalle.)

La larghezza della piastra dipende dalla larghezza della trave, mentre la sua lunghezza si sceglie ~10 cm, per ottenere sollecitazioni accettabili sul sottostante appoggio di calcestruzzo. La monta della superficie convessa è dell’ordine di 1/25 della lunghezza della piastra.

Per strutture di luce maggiore si deve ricorrere ad apparati d’appoggio che definiscono in maniera univoca la posizione della reazione dell’appoggio, e consentono scorrimenti per rotolamento senza strisciamento. Sono costituiti da due piastre sagomate: quella collegata alla trave presenta una superficie concava, che s’appoggia alla superficie convessa (di diverso raggio) della piastra collegata all’elemento di sostegno.

Nel caso di appoggio mobile, tra il piano fisso e la piastra inferiore sono predisposti uno o due rulli metallici. Al variare della luce il numero dei rulli può aumentare, ma risulta buona norma disporne sempre un numero pari.

 

Fig. 7.11 – Appoggi fissi per impalcato con 3 travi in cemento armato: a) particolare dell’appoggio; b) pianta dell’impalcato.

 

Nel caso semplice di un rullo solo la parte a bilanciere manca. Quando i rulli hanno dimensioni notevoli essi vengono realizzati solo parzialmente. La Fig. 7.12 mostra gli schemi d’appoggi scorrevoli su uno o più rulli. Nel raso d’impalcati molto larghi per i quali risulti necessario assicurare lo scorrimento in ogni direzione, si possono realizzare apparati d’appoggio a rulli sovrapposti o apparati d’appoggio su sfere. Gli appoggi fissi, nei casi più importanti, sono costituiti da un bilanciere o dal contatto tra superfici cilindriche; questo contatto può anche essere ottenuto interponendo un cilindro tra due superfici concave di uguale raggio. Il calcolo degli appoggi metallici viene condotto in base alla teoria di Hertz relativa al contatto tra corpi cilindrici.

 

 

Fig. 7.12 – Schemi d’appoggio.

 

Di seguito si riportano le formule per il calcolo degli appoggi più comuni; per la loro applicazione Prr1 e r2, rappresentati in Fig. 7.13, devono essere espressi in t e cm.

Fig. 7.13 – Appoggi metallici a perno.

Le formule seguenti definiscono le sollecitazioni ammissibili negli apparecchi di appoggio: in esse l è la lunghezza del contatto tra gli elementi che consentono i movimenti:

 

a) appoggio a perno:                                                                          4P/σam = rl

 

b) appoggio con due rulli:                                                       0.179 EP/σ2am = 2rl

 

c) appoggio con n rulli:                                                           0.240 EP/σ2am = nrl

 

d) appoggi oscillanti con contatto lineare:                              0.179 EP/σ2am = r1r2l/(r2r1)

 

e) appoggi oscillanti con contatto puntuale:                         0.0612 EP/σ2am = [r1r2/(r2r1)]2

 

Sollecitazioni ammesse negli apparecchi d’appoggio:

 

– per contatto lineare: σ ≤ am 

 

– per contatto puntuale: σ ≤ 5.5 σam

 

Nel caso di rulli di grandi dimensioni risulta economicamente conveniente realizzare in acciaio le piastre di contatto tra sostegno e trave e in calcestruzzo armato la parte centrale del rullo. Il calcolo del diametro del rullo e delle piastre va sempre svolto secondo la teoria di Hertz; l’armatura del blocco in calcestruzzo è costituita da ferri verticali e staffe a spirale.

Nel caso in cui la localizzazione della reazione di appoggio venga ottenuta mediante piastre piane, la pressione media di contatto superficiale deve risultare σs≤ 1.35 σam 

Ai dispositivi d’appoggio base illustrati vengono oggi tuttavia preferiti apparecchi di diversa e più avanzata concezione tecnologica. Essi consentono, a parità di reazioni e di movimenti rispetto agli appoggi basculanti, a rullo o a contatto puntuale interamente metallici, ingombri più ridotti, maggiore affidabilità in esercizio, più agevoli operazioni manutentive e di sostituzione, maggiore aderenza agli schemi teorici di progetto. Per la loro realizzazione si utilizzano, accanto ad elementi in acciaio inossidabile con superfici lavorate a specchio, lastre di teflon e dischi elastomerici di neoprene. Con questi materiali si ottengono attriti molto ridotti fra le parti a contatto soggette a cinematismo ed è possibile realizzare dispositivi di vincolo compatti e di semplice funzionamento. I tipi più adottati risultano:

 

–       a sella cilindrica e a calotta sferica (Fig. 7.14): i movimenti sono realizzati nel primo tipo dall’accoppiamento di una superficie cilindrica in acciaio con una piana ricoperta di teflon; nel secondo tipo dall’accoppiamento di una superficie sferica in acciaio con una piana guarnita di teflon. Essi consentono rotazioni comunque ampie attorno ad un asse orizzontale e possono essere fissi, mobili in una sola direzione longitudinale nel senso dell’asse dell’impalcato  (unidirezionali), mobili in due direzioni perpendicolari (multidirezionali). Il comportamento per carichi verticali può essere bilatero. Questi appoggi s’impiegano quando non è agevole assicurare il parallelismo di contatto tra gli elementi strutturali vincolati (travi prefabbricate e varate) o quando distorsioni di montaggio o termiche producono consistenti rotazione. Con le versioni commercialmente disponibili possono espletarsi reazioni verticali V = 103÷60 103 kN; reazione orizzontale massima H = 0.1 V; massima elongazione longitudinale Sl = 50 mm; massima elongazione trasversale St = 20 mm; massima rotazione α = ± 3° (± 0,05’);

 

–       ad elastomero incapsulato (Fig. 7.15): le rotazioni sono ottenute dalla deformabilità di un disco in neoprene confinato in una base d’acciaio e chiuso da un coperchio agente da pistone; le traslazioni sono rese possibili dall’accoppiamento di una superficie in acciaio con un’altra guarnita in teflon. Questi appoggi possono essere fissi o scorrevoli, in una o in due direzioni. Essi s’impiegano quando sono richieste rotazioni di entità limitata (α ≤ 0.015 rad) e devono essere espletate elevate reazioni orizzontali concomitanti con carichi verticali limitati. Una robusta armatura metallica, disposta nella zona terminale della costola e nel blocco, provvede ad assorbire il flusso di tensioni dovuto alla reazione concentrata. Sia negli archi a 3 cerniere che nelle travi Gerber è necessario realizzare delle sconnessioni interne; queste, nelle strutture di calcestruzzo, sono attuate mediante appoggi a sedia dette sedie Gerber che ben si prestano anche come appoggi di estremità.

Fig. 7.14 – Rappresentazione schematica di un appoggio a sella cilindrica (sx) e di uno a calotta sferica (dx).

Fig. 7.15 – Rappresentazione schematica di un appoggio in elastomero incapsulato.

Si realizzano sia appoggi mobili mediante rulli, sia appoggi fissi collegando le 2 travi mediante ferri di armatura. Si rivela buona norma disporre nelle zone delle travi a contatto delle lastre di piombo che rendono uniforme la superficie di appoggio. L’azione che si trasmette tra le 2 travi è una forza verticale, la quale sollecita la mensola a taglio e flessione in una sezione ed a tenso-flessione nell’altra.

Per i ponti in struttura metallica o mista acciaio-calcestruzzo nel caso di schemi strutturali particolari che prevedono vincoli interni (ad es. pendoli, snodi di travi Gerber etc.) questi ultimi non sono tipizzabili, ma vengono realizzati ad hoc come parte integrante della struttura, richiedendo un’appropriata progettazione e lavorazione di officina da specificarsi caso per caso.

Negli ultimi anni sono stati realizzati e si sono rapidamente diffusi e affermati appoggi in gomma: generalmente a base di neoprene. Essi sono costituiti da piastre di gomma scanalate intervallate tra loro con sottili piastre di lamiera zincata anch’esse scanalate efficacemente incollate tra loro.

Gli appoggi in neoprene hanno la possibilità di trasmettere forze orizzontali e di consentire spostamenti orizzontali, attraverso deformazioni di scorrimento della piastra di gomma. Qualora si richieda la realizzazione di un vincolo con reazione solo verticale, si può fare uso di fogli di teflon che ha un bassissimo coefficiente di attrito e consente quindi i necessari spostamenti orizzontali. Nel proporzionamento dei traversi di testata della struttura è buona norma considerare la condizione di carico dovuta al sollevamento della travata mediante martinetti piatti: questa condizione rende possibile l’eventuale sostituzione di appoggi che si siano deteriorati nel tempo.

 

L’accostamento d’elementi d’impalcato appartenenti a campate diverse strutturalmente separate, o di elementi d’impalcati a spalle fisse, impone l’adozione di elementi strutturali atti a sostenere la pavimentazione, lasciando nel contempo la possibilità di spostamenti relativi, ossia giunti.

La tecnica costruttiva e i tipi impiegati hanno subito in questi ultimi anni notevoli miglioramenti per far fronte sia all’aumento delle luci adottate, sia alle sollecitazioni cui i giunti sono attualmente sottoposti data la velocità e il peso dei carichi transitanti sui ponti.

Per spostamenti relativi di qualche cm (quali possono aversi in elementi strutturali d’impalcato di lunghezza ≤100 m), possono utilizzarsi profilati di ferro con piastra

Con le versioni commercialmente disponibili possono espletarsi reazioni verticali V = 500÷60 103 kN; reazione orizzontale massima H = 0.1 V; massima elongazione longitudinale Sl = 50 mm; massima elongazione trasversale St = 20 mm.

L’installazione degli apparati di vincolo descritti avviene in genere con zanche d’ancoraggio, con tirafondi o tasselli ad espansione o chimici. Per le versioni commercialmente disponibili le basi degli apparecchi sono dimensionate per ottenere pressioni medie di contatto all’interfaccia con le opere in elevazione al più di 20 N/mm2.

I tipi di appoggio descritti si usano indifferentemente sia in strutture metalliche che in calcestruzzo; essi sono in genere disponibili (come già detto) come prodotto industriale di serie per un ampio campo di valori di reazioni. Sovente, tuttavia, i vincoli delle strutture in calcestruzzo si possono eseguire in modo più semplice e più conforme alla stessa tecnologia del materiale usato, ad es., negli archi incernierati alla base, il vincolo è realizzato mediante l’appoggio di una piccola superficie delle costole dell’arco sul blocco di fondazione: l’unico elemento che rende solidali le due parti di struttura è un fascio di armature metalliche in grado di assorbire le azioni taglianti.

Sono oggi disponibili giunti di produzione industriale che coprono una vasta gamma di esigenze strutturali pur nella semplicità del dispositivo ispiratore. Per opere in calcestruzzo è molto adottata, per travi ≤ 30÷40 m la tecnica di realizzare uno riempimento con opportune sostanze bituminose trattenute da risalti e scanalature ugualmente in calcestruzzo. E’ diffusa anche la tecnica d’interporre per un tratto di 4÷5 m una rete di plastica tra struttura e pavimentazione, in modo da diffondere su detto tratto le deformazioni della pavimentazione risultanti dalla dilatazione del giunto stesso, evitando così il formarsi di una fessura macroscopica proprio in corrispondenza dell’interspazio. Nel caso in cui per luci notevoli o per strutture iperstatiche gli elementi monolitici d’impalcato abbiano lunghezze di centinaia di metri, i tipi suddetti non sono più accettabili (dati gli spostamenti relativi da prevedersi) e sono sostituiti da opportuni giunti a pettine che con un sistema di piastre di acciaio realizzano un vero e proprio cinematismo (Fig. 7.16).

 

 

Fig. 7.16 – Esempio di giunto di dilatazione a pettine.

 

Funzione essenziale del giunto e anche quella di evitare differenze notevoli nella deformabilità del piano di sostegno della pavimentazione stradale che, date le velocità attuali dei carichi transitanti, comporta inevitabilmente rotture per fenomeni di fatica.

Ciò va tenuto presente nelle sezioni di passaggio tra rilevato e spalle, e a tal fine e utile predisporre una solettina d’invito in calcestruzzo, sotto la pavimentazione o anche ad una certa profondità (0.54÷1 m) nel rilevato.

In particolari circostanze (ad es. per la funzione e/o la tipologia dell’opera; per le caratteristiche di sismicità del sito etc.) può risultare necessaria l’adozione d’idonei provvedimenti tecnologici per ridurre la vulnerabilità strutturale dei ponti sotto sollecitazioni dinamiche di particolare natura e/o entità.

I principali dispositivi adottati in questo ambito sono gli appoggi antisismici, fissi o mobili, e le catene cinematiche. Nelle versioni prodotte industrialmente i primi si ottengono assemblando in un unico dispositivo un appoggio tradizionale, un dissipatore elasto-plastico in acciaio ed un accoppiatore viscoso a pistone. Allo smorzatore elasto-plastico é affidata la funzione di dissipare l’energia associata alle sollecitazioni dinamiche, mentre all’accoppiatore viscoso è demandato il compito d’inibire istantaneamente i movimenti dell’impalcato sotto sollecitazione impulsiva, in Fig. 7.17 è riportato un moderno esempio d’appoggio antisismico.

 

Fig. 7.17 – Apparato d’appoggio antisismico a POT in acciaio-PTFE con sistema di dissipatori a fuso attivati da choc-transmitter.

 

In definitiva, in base allo schema strutturale del ponte, dall’opportuno assortimento e disposizione di questi appoggi può conseguirsi una marcata riduzione degli effetti dei carichi dinamici, ottenuta sostanzialmente con l’equidistribuzione sulle strutture in elevazione dei carichi stessi.

Le catene cinematiche sono dispositivi di collegamento, a livello di soletta, di travi in semplice appoggio contigue o di connessione tra spalle ed impalcato, realizzati con giunti tampone in elastomero e con barre di collegamento in acciaio allocate in guaine iniettate di materiale elastico (Fig. 7.18).

 

 

Fiig. 7.18 – Giunto tampone e barra di collegamento di catena cinematica.

 

Si ottiene così un collegamento sostanzialmente rigido tra gli impalcati in senso longitudinale ma con bassissima rigidezza flessionale ed un conseguente comportamento dell’impalcato sotto carichi dinamici più favorevole rispetto a quello associato allo schema isostatico. Il dispositivo permette, in pratica, di riportare le azioni dinamiche trasversali sulle pile e di assorbire, grazie all’elasticità delle connessioni, le mutue rotazioni fra impalcati contigui che possono derivare dalle oscillazioni in controfasce di pile successive durante un’oscillazione degli elementi in elevazione.

E’ opportuno infine ricordare che per alcune strutture sotto particolari condizioni di carico dinamico (ad es. viadotti delle linee ferroviarie ad alta velocità) si possono reperire quali prodotti industriali dispositivi elastici, dissipatori elasto-plastici, accoppiatori viscosi installabili anche singolarmente in base agli specifici problemi strutturali.

 

7.7.4 – Céntine

 

Sono costituite dall’insieme di strutture provvisorie necessario per eseguire in sito la costruzione degli impalcati e delle strutture portanti principali dei ponti: esse riguardano in maniera specifica le opere in muratura ed in cemento armato (sia o no precompresso), cioè tutti quei materiali che all’atto della loro messa in opera non sono in grado di esplicare una funzione autoportante.

Le céntine si differenziano dalle casserature, utilizzate per la costruzione di elementi strutturali verticali (pile-spalle) in quanto, mentre a queste ultime e affidata solo un’azione di contenimento dei getti di calcestruzzo, le prime devono esplicare una vera e propria funzione portante, sia pure provvisoria. L’esigenza specifica e fondamentale delle centine da ponti è la quasi indeformabilità sotto carico perché, come visto in tutti gli schemi strutturali iperstatici (e in particolare per gli archi) eventuali modifiche della linea d’asse possono causare alterazioni notevoli del comportamento strutturale dell’opera. Le medesime, tuttavia, rappresentano spesso un onere economico di particolare incidenza e, di conseguenza, la possibilità della loro eliminazione ha profondamente influenzato i sistemi costruttivi. Con riferimento al materiale utilizzato si possono schematicamente suddividere le céntine nei tipi di seguito elencati.

 

7.7.4.1- Céntine di legno

 

Rappresentano opere provvisionali utilizzate per millenni ma che la moderna tecnologia ha di fatto abbandonato. Sono essenzialmente composte da una superficie di carpenteria (che segue la forma dell’intradosso dell’arco da costruire), dagli elementi di sostegno propriamente detti (che con la loro disposizione differenziano i vari tipi di centine), dai vincoli al suolo e dagli apparecchi per il disarmo. La carpenteria superiore è generalmente realizzata con un tavolato, di spessore 3÷8 cm, sostenuto da elementi trasversali che collegano il tavolato alle strutture di sostegno.

Fig. 7.19 – Céntina a puntoni.

Queste sono realizzate con una serie di elementi contenuti in piani verticali distanti 1.5÷2 m tra loro. Se la struttura di sostegno ha appoggi solo alle estremità, la céntina è detta a sbalzo; se invece si hanno sostegni in punti intermedi della luce, la céntina è detta fissa.

Le céntine a sbalzo sono usate per piccole luci o quando sono imposte dalle caratteristiche dell’attraversamento (acque profonde, valloni o necessità di passaggio libero); esse si distinguono in:

 

– céntine a puntoni: sono costituite da due incavallature inclinate, collegato tra loro (Fig. 7.19).

– céntine radiali: che presentano razze dirette secondo i raggi di curvature della volta (Fig. 7.20).

 

Fig. 7.20 – Céntina radiale.

 

Le céntine fisse possono essere:

 

– a contraffissi isolati: dai ritti partono razze a ventaglio che sostengono la sovrastruttura superiore.

– a contraffissi contrapposti: quando su ciascun punto d’appoggio della sovrastruttura concorrono due razze contrapposte di punta

– a contraffissi radiali: quando i contraffissi sono normali alla curva d’intradosso e convergono negli appoggi o in punti di correnti orizzontali rinforzati da saettoni (Fig. 7.21).

 

Fig. 7.21 – Céntina a contraffissi radiali.

 

La pressione sulla centina per arcate in muratura è data da:

 

p = γS [1+(S/2R)] √sen 4/

 

dove γ è il peso specifico della volta; S lo spessore della volta; R il raggio di curvatura della volta nel punto in cui la normale all’intradosso dell’arco forma con l’orizzontale l’angolo α (< 90°).

La quantità in m3 di legname di centinatura per m2 di volta può essere, di massima, valutata come segue: l = luce dell’arco; h = altezza massima dei sostegni:

 

Céntine a puntoni                         v = 0.06 + 0.016 l m3/m2

Céntine radiali                              v = 0.05 + 0.013 l m3/m2

Céntine fisse (h = l/2)                   v = 0.06 + 0.011 l m3/m2

Molta cura va osservata nelle operazioni di disarmo, per realizzare un abbassamento della céntina il più possibile simultaneo ed uniforme. Questo può ottenersi mediante cunei di legno, martinetti o scatole a sabbia. Queste ultime sono costituite da un cilindro metallico aperto superiormente: in esso può scorrere uno stantuffo in legno cerchiato con armatura metallica, o in calcestruzzo armato; l’abbassamento dello stantuffo viene contrastato da un sottostante strato di sabbia che durante il disarmo fuoriesce lentamente da apposite aperture.

Per le deformazioni elastiche e per gli assestamenti dei vari collegamenti, nonché per altre varie cause (quali assestamenti dei piani d’appoggio etc.), l’estradosso delle centine s’abbassa; tale abbassamento, che non è prevedibile con esattezza, è ritenuto in media di 2 mm per metro di luce nelle céntine a sbalzo e 1.5 mm per céntine fisse.

Numerosi autori hanno proposto formule teoriche che hanno, tuttavia, carattere orientativo; si riporta quella di Melan secondo cui il sovralzo deve essere uguale a:

 

s = 0.003 l + 0.0005 Ro

 

dove l è la luce dell’arco e Ro raggio di curvatura in chiave; questa formula conduce a valori superiori a quelli anzidetti. Si rivela opportuno precisare che l’abbassamento del vertice di una céntina è direttamente connesso all’esecuzione dell’opera, alla qualità del materiale, alla scelta dei collegamenti e ciò ne rende incerta la previsione.

Oltre alle céntine propriamente dette si hanno céntine a travi e ad archi.

Le céntine a travi possono essere realizzate oltre che in legno anche in ferro, sia con profilati che con travature reticolari: consistono nel disporre una serie di travi (con opportuni appoggi intermedi) a quota poco inferiore all’intradosso dell’opera da eseguire. L’impalcato realizzato con le travi costituisce piano di lavoro e sostegno per la carpenteria necessaria alla costruzione della volta.

Le céntine ad arco sono costituite da un arco provvisorio di luce e freccia simili a quello da realizzare, dove il problema fondamentale risulta il montaggio dell’arco provvisorio. Un metodo ormai classico per l’esecuzione di archi con cerniera in chiave è quello di costruire i 2 semiarchi come dei pilastri pressoché verticali, facendoli poi ruotare rispetto alle articolazioni di base fino a collegarsi in chiave (Fig. 7.22). Con questo metodo sono stati realizzati anche archi provvisori incastrati, predisponendo articolazioni di montaggio che poi venivano bloccate.

 

 

Fig. 7.22 – Céntine ad arco realizzate mediante semiarchi provvisori verticali.

 

Un altro procedimento di montaggio prevede l’esecuzione di una passerella sospesa molto deformabile, sulla quale sono predisposti gli elementi di carpenteria per la realizzazione dell’arco (Fig. 7.23).

La sospensione e predisposta in modo da far assumere alla passerella la forma dell’estradosso della céntina: si possono allora eseguire i primi getti che costituiranno céntine per i successivi.

Infine gli archi possono essere realizzati a tratti, e montati in opera con l’aiuto di teleferiche tipo blondin (Fig. 7.24).

Fig. 7.23 – Montaggio dell’arco provvisorio tramite passerella: a) prospetto; b) sezione trasversale A-A.

Fig. 7.24 – Montaggio dell’arco mediante teleferiche blondin.

7.7.4.2 – Céntine in ferro

 

Possono essere eseguite in carpenteria metallica o in tubolari. Le céntine in carpenteria metallica si differenziano poco nella loro concezione dalle céntine in legno; anch’esse compromettono in parte la riutilizzazione del materiale a causa delle trasformazioni necessarie per la realizzazione della céntina (chiodature, saldature e tagli dei profilati). Viceversa, la struttura in tubolari viene realizzata con elementi modulari che non subiscono alcuna alterazione durante il montaggio e la permanenza in opera, e quindi sono completamente recuperabili.

Un’attrezzatura in materiale tubolare è costituita da tubi di lunghezze diverse, da giunti di collegamento e da una serie di accessori che consentono di risolvere i vari problemi posti dalle impalcature e dalle strutture di puntellamento. Utilizzando questo materiale si può ottenere una vasta gamma di schemi strutturali, ma in pratica ci si può ricondurre a due tipi fondamentali di centinature.

 

7.7.4.2.1 – Céntine tipo Innocenti

 

Lo schema statico utilizzato per assorbire i carichi trasmessi da un arco su una centina del tipo Innocenti è illustrato in Fig. 7.25.

 

 

Fig. 7.25 – Céntina Innocenti.

La componente ortogonale alla catenaria dei carichi si ripartisce in una forza verticale assorbita da un pilastro tubolare, e in una forza inclinata assorbita dall’armatura ed equilibrata da quella trasmessa dal concio simmetrico. Questa semplice suddivisione degli sforzi diventa più complessa via via che s’incontrano i nodi inferiori, i quali contribuiscono a riportare i carichi al suolo.

Il giunto delle aste verticali e di quelle inclinate è realizzato mediante un raccordo che consente di ottenere angoli fino a 45° tra gli elementi collegati ed assicura una perfetta trasmissione assiale degli sforzi. Un giunto particolare realizza il collegamento sia per sforzi di compressione, che di trazione. È sempre previsto un sistema di controventi sia per assicurare la resistenza a forze trasversali (prima di tutto il vento), sia per irrigidire convenientemente la struttura.

L’esperienza ha dimostrato la buona capacità delle centine in tubolari ad assorbire carichi eccezionali non prevedibili, in quanto si è constatato che tutta la struttura è chiamata a collaborare in caso di necessità con gli elementi più sollecitati, conseguendo una significativa redistribuzione degli sforzi. Questa proprietà si è dimostrata particolarmente utile nella fase di disarmo della céntina durante la quale, quasi inevitabilmente, si manifestano notevoli dissimmetrie nei carichi.

Generalmente il distacco della centina dall’opera consolidata è ottenuto mediante cunei di legno e scatole a sabbia. Nel caso di realizzazioni particolarmente impegnative, il tavolame di grosso spessore che forma l’estradosso della centina viene sostituito con fasci di tubolari curvi, che assicurano alla struttura una grande stabilità: in questi casi il ruolo del tavolato si riduce alla funzione di cassaforma. Nelle céntine molto alte sono stati adottati tiranti metallici per garantirne la stabilità sotto l’azione del vento. Per ridurre l’onere dovuto alle céntine si è fatto ricorso ad archi gemelli: si è realizzata la céntina per un solo arco e, a maturazione avvenuta, la si è traslata trasversalmente su rulliere d’acciaio fino a predisporla per il getto del secondo arco.

 

7.7.4.2.2 – Céntine tipo Mills

 

La caratteristica fondamentale di questo tipo di céntina è che gli elementi tubolari che direttamente sostengono il carico sono appoggiati al suolo e ricevono il carico assialmente. Di conseguenza in questo schema (Fig. 7.26) la sollecitazione in ciascun elemento dipende dal carico direttamente agente su di esso e quindi risulta indipendente dalla programmazione dei getti.

 

 

Fig. 7.26 – Centina tipo Mills: a) veduta s’insieme; b) particolari del nodo A, in cui convergono gli elementi tubolari 1 e 2.

 

Il carico viene trasmesso dal tavolato ad un cuneo di legno che a sua volta lo riporta a 2 tubi, ciascuno munito di manicotto filettato. Il calcolo degli sforzi trasmessi dalla sovrastruttura ai tubolari risulta semplice, specialmente se si trascurano gli effetti secondari. Dopo aver definito l’orditura principale, realizzata con gli strati colleganti l’intradosso della volta e gli appoggi a terra, si devono stabilire le controventature necessarie per assicurare la stabilità della céntina. Queste controventature sono, in genere, impostate in una serie di piani orizzontali realizzando, in tal modo, le strutture dei piani di lavoro per il montaggio. Infine elementi diagonali collegano i tubolari portanti di ciascuno strato, e i vari strati tra loro. Il disarmo si esegue facilmente agendo sui manicotti filettati. Attualmente, per i ponti a travate, i sistemi citati di ponteggi in legno o tubolari sono adottati soltanto nei casi di altezze dal suolo limitate (10÷12 m); in pratica si ricorre al varo delle travi prefabbricate, alla costruzione per conci etc.

7.8 – Tipologie strutturali

 

Le tipologie costruttive per ponti e viadotti attualmente più diffuse sono:

 

–       strutture in cemento armato (soprattutto ad arco);

–       strutture in cemento armato precompresso (miste);

–       strutture strallate (acciaio-miste);

–       strutture sospese.

 

7.8.1 – Strutture ad arco in cemento armato

 

Sono costituite da un impalcato avente la funzione di sopportare direttamente i carichi, e da un arco che funge da sostegno dell’impalcato stesso mediante una successione di montanti, o setti o colonne, di varia forma. Talvolta l’arco in chiave s’innesta nelle travi d’impalcato, oppure tocca le medesime con la superficie di estradosso.

Dal punto di vista strutturale e opportuno differenziare i ponti nei quali l’arco abbia completamente la funzione di struttura portante principale, da quelli in cui è prevista una collaborazione sostanziale arco-travi d’impalcato (ponti Maillart e ponti Nielsen).

Data la presenza di spinte in fondazione necessarie ad assicurare il previsto funzionamento ad arco, con prevalenza di sforzo normale nello stesso, la natura del terreno risulta determinante riguardo alla possibilità d’impiego delle strutture in esame. Laddove non si possa essere certi sia dell’opportuna portanza dei terreni che dell’entità dei cedimenti, conviene ricorrere ad altre soluzioni. Fanno eccezione gli archi ad impalcato inferiore e spinta eliminata.

 

7.8.1.1 – Archi in calcestruzzo

 

La tecnica per la costruzione degli archi da ponte (a parte alcune recenti realizzazioni cui si fa accenno in seguito) rimane spesso ancora oggi quella tradizionale dell’esecuzione su céntine, le quali costituiscono un piano continuo d’appoggio riproducente la sagoma d’intradosso dell’arco. Disposta l’armatura metallica, il getto può avvenire per conci o per rotoli:

 

–       nel primo caso si prevede una serie di conci (generalmente realizzati in numero dispari) che vengono successivamente gettati in un ordine ben stabilito e scelto con lo scopo di sollecitare le céntine il meno possibile (Fig. 7.27).

Fig. 7.27 – Programma di getto di un portale in calcestruzzo armato.

–       nel secondo caso, particolarmente utilizzato per opere di notevole impegno, il getto viene eseguito a strati avendo cura di predisporre tutti gli accorgimenti necessaria garantire la monoliticità dei getti. Questo tipo d’esecuzione riduce sensibilmente gli sforzi indotti sulla céntina in quanto i successivi getti vanno a gravare sull’arco chiuso costituito dai rotoli precedentemente gettati (Fig. 7.28).

 

Fig. 7.28 – Arco in calcestruzzo eseguito con getto a rotoli.

Poiché il costo della céntina incide in modo determinante sul costo di un ponte ad arco, si cerca di concepire la struttura in modo da ridurre o attenuare l’onere. Negli ultimi tempi è invalsa la consuetudine di concepire, nel caso di ponti e viadotti autostradali, strutture gemelle indipendenti per ciascuna via di corsa; questo comporta la possibilità di realizzare la céntina per una sola struttura e di riutilizzarla per la struttura affiancata mediante traslazione.

Una procedura che ha trovato in passato alcune brillanti applicazioni è quella di eseguire una céntina autoportante, che costituisce l’armatura del conglomerato (Fig. 7.29). In un’opera del tipo vengono costruite più costole metalliche ad arco gettando solo il primo dei 2 rotoli costituenti la costola centrale; dopo 2÷3 giorni si passa al getto contemporaneo dei primi rotoli delle campate esterne, e successivamente si completa la costola centrale. Si prevede un modesto intervallo di tempo tra i getti, al fine di utilizzare le proprietà viscose del calcestruzzo impiegato per ottenere la voluta redistribuzione degli sforzi. A questo punto si procede al completamento dell’opera mentre solo ad impalcato ultimato si tagliano le diagonali di controventamento esistenti tra costola e costola: queste vengono montate in verticale sulle rive e poi ribaltate.

Tale metodo è stato applicato ripetutamente da Krall sia per ponti ad arco che per arcotelai.

I metodi descritti prevedono sempre il getto in opera delle arcate con sollevamento e trasporto in sito del materiale mentre una nuova concezione è stata, viceversa, applicata nel colossale ponte sul fiume Parramatta a Sydney con un arco di 305 m di luce (Fig. 7.30) dove la sezione trasversale venne realizzata con 4 archi gemelli affiancati, ciascuno costituito da conci prefabbricati e montati con l’ausilio di un’unica gru e slittamento dei conci sulla céntina, dalla chiave verso le imposte.

 

 

Fig. 7.30 – Céntina metallica autoportante per ponte ad arco.

A posizionamento avvenuto si riempie con malta di cemento una scanalatura predisposta tra concio e concio mentre un diaframma (ogni 5 conci) assicura con la sua precompressione il collegamento trasversale tra le varie arcata. La monoliticità della struttura viene poi completata con getti in opera, larghi 30 cm, entro scanalature longitudinali fasciate tra le arcate contigue.

Il disarmo viene ottenuto provocando l’innalzamento dell’arcata dalla céntina mediante l’interposizione di batterie di martinetti alle reni dell’arco.

Esaminate fin qui le tecniche costruttive, si riportano alcune particolarità specifiche per i vari tipi di ponti ad arco precisando tuttavia preliminarmente che l’arco, progettato generalmente come catenaria dei carichi fissi, per effetto dello sforzo normale di compressione tende ad accorciarsi. Poiché i vincoli fissi alle imposte impediscono tale accorciamento, il regime tensionale della struttura dell’arco risulta modificato da una diminuzione dello sforzo normale e da una distribuzione di momenti flettenti; tale fenomeno prende il nome di caduta di spinta. Analogo effetto hanno il ritiro e le variazioni termiche. Questi fenomeni risultavano preoccupanti soprattutto qualche decennio fa date le modeste resistenze meccaniche dei materiali allora impiegati; di conseguenza furono studiati metodi (ad es. Ritter) per diminuire gli effetti della caduta di spinta. Attualmente questi sono caduti in disuso, sia per le migliori qualità dei materiali impiegati, che per i notevoli carichi accidentali da prevedersi, i quali inducono sempre sollecitazioni flessionali.

Oltre ai citati archi incastrati, in merito allo schema statico si hanno:

 

– archi a 3 cerniere (alle imposte e in chiave) che risultano isostatici e non risentono quindi degli effetti citati;

– archi a 2 cerniere che non sono di uso frequente in quanto, pur essendo strutture iperstatiche e quindi risentendo gli effetti dovuti alla caduta di spinta, al ritiro ed alle variazioni termiche, non presentano i vantaggi statici dell’arco incastrato. Nei primi ponti di questo tipo si è cercato di eliminare gli effetti dovuti alla caduta di spinta imponendo un avvicinamento delle imposte mediante martinetti oppure allontanando, sempre con l’ausilio di martinetti, le sezioni di chiave in modo da ottenere anche il distacco dalla céntina. Questi metodi sono stati però abbandonati, perché molto complessi nell’esecuzione e di risultati incerti;

– archi a spinta eliminata, che derivano direttamente dagli archi a due cerniere. Essi si ottengono rendendo isostatica la struttura per vincoli esterni e collegando le imposte con un tirante atto ad assorbire la spinta. Questi ponti hanno trovato largo impiego nei casi in cui non sia possibile ingombrare l’alveo sottostante; essi infatti realizzano un impalcato a quota tirante reggi-spinta, mentre gli archi si sviluppano al di sopra di tale quota (Fig. 7.31).

 

Fig. 7.31 – Ponte ad arco a spinta eliminata.

 

Questo schema risulta abbastanza economico anche se di aspetto poco piacevole, in quanto oltre alle sospensioni d’impalcato è necessario disporre collegamenti tra i due archi con funzione di controventi. Questi possono essere eliminati se la sezione dell’arco e sufficientemente rigida nei riguardi degli spostamenti trasversali. II maggiore inconveniente nella realizzazione di queste strutture è costituito dalla trazione nelle travi d’impalcato che può produrne la fessurazione. A ciò s’é cercato di ovviare facendo gravare i carichi fissi sui tiranti prima del loro rivestimento col calcestruzzo; tali inconvenienti sono superati dalla tecnica attuale mediante la precompressione delle travi reggispinta (→).

 

7.8.1.2 – Ponti Nielsen

 

Sono degli archi a spinta eliminata, nei quali i tiranti di sospensione vengono inclinati come nello schema di Fig. 7.32: l’inclinazione dei tiranti induce nell’impalcato degli sforzi orizzontali che riducono drasticamente i momenti flettenti indotti nell’arco dai carichi accidentali rispetto ad un ponte a sospensione verticale.

 

 

Fig. 7.32 – Ponte Nielsen: a) tipo tradizionale; b) tipo Krall.

 

Nello schema Nielsen tradizionale i tiranti hanno inclinazione costante e convergono sull’orizzontale per la chiave, mentre Krall suggerì lo schema con tiranti inclinati convergenti sull asse dell’arco: questa modifica rende il comportamento statico più semplice e la struttura può riguardarsi come una travatura reticolare ad asse parabolico.

Anche nell’esecuzione i 2 tipi si differenziano: nello schema Nielsen vengono realizzati prima i due archi avendo cura di sospendere ai tiranti cassoni zavorrati di peso equivalente all’impalcato, poi si procede al getto di quest’ultimo eliminando via via i cassoni. Nello schema proposto da Krall, viceversa, si esegue prima l’impalcato e si predispongono i tiranti, e dopo si gettano gli archi: in questo caso i tiranti sono rivestiti di calcestruzzo per resistere al peso proprio nella fase esecutiva. Un’evoluzione delle strutture ad arco è costituita dagli arco-portati realizzati recentemente su strade italiane: il comportamento statico si avvicina a quello di una struttura a telaio; i vincoli di base sono costituiti da cerniere, o da incastri, ricorrendo alla precompressione per l’armatura degli elementi portanti.

 

7.8.1.3 – Ponti Maillart

 

Sono costituiti da una volta sottile di larghezza pari alla sezione trasversale, e da travi d’impalcato notevolmente rigide rispetto alla volta. Il rapporto tra le rigidezze flessionali dei due elementi è solitamente dell’ordine di 40÷50. Il collegamento tra volta ed impalcato viene realizzato mediante montanti sottili, a parete piena o a telaio, larghi quanto la volta. In questo tipo di ponte l’impalcato non ha più il mero ruolo di struttura secondaria atta alla sola trasmissione del suo peso e dei carichi accidentali all’arco, bensì funzione portante, equamente distribuita tra i due elementi: la volta é concepita per assorbire gli sforzi di compressione, mentre all’impalcato si affidano le sollecitazioni flettenti e taglianti. Lo schema tipico è riportato in Fig. 7.33.

Fig. 7.33 – Ponte Maillart.

La volta può avere spessore leggermente variabile tra i diversi montanti e viene gettata su céntina tradizionale: questa risulta tuttavia notevolmente alleggerita rispetto ai ponti ad arco in quanto deve sopportare la sola volta il cui peso é pari al 25-40% di quello della struttura completa. Sulla volta, sagomata come catenaria dei carichi fissi dell’intera struttura, si costruiscono i montanti e poi l’impalcato: poiché in questa fase la volta sottile potrebbe essere soggetta a fenomeni d’instabilità, è necessario lasciare in opera la céntina fino al completamento dell’impalcato.

Infine i ponti Maillart risultano particolarmente utili nella soluzione di attraversamento in curva, data la loro elevata rigidezza torsionale.

 

7.8.2 – Strutture in calcestruzzo armato precompresso

 

L’utilizzazione della precompressione conduce ad una sostanziale differenza di comportamento di una struttura precompressa rispetto ad un’analoga in calcestruzzo armato ordinario. Una struttura in precompresso, infatti, può considerarsi come interamente reagente in quanto, anche sotto i massimi carichi d’esercizio, raramente lavora a sezione parzializzata; le modalità di progettazione e di verifica si avvicinano quindi a quelle delle strutture metalliche. Partendo da tali premesse, le prime realizzazioni di ponti isostatici in c.a.p. sono state sostanzialmente caratterizzate da una tipologia costituita da travi a doppio T con sovrastante soletta.

Con riferimento alla teoria del precompresso risultano necessarie, infatti:

 

– un’espansione o bulbo inferiore per limitare, a ponte scarico, le tensioni normali causate essenzialmente dalla precompressione;

– un’espansione o bulbo superiore per limitare, a ponte carico, le tensioni normali provocate dai carichi esterni agenti.

 

Quanto esposto è più evidente nelle strutture isostatiche rispetto a quelle iperstatiche, poiché in tal caso, anche per le strutture in c.a. normale, l’alternanza di segno dei momenti flettenti rende spesso necessario creare una controsoletta inferiore e, di conseguenza, la sezione trasversale viene ad assumere le caratteristiche di un cassone chiuso.

Anche tale tipologia trova una corrispondenza nelle strutture in acciaio del tipo Verbund-Traeger, ove viene a volte introdotto uno stato artificiale di coazione, che maggiormente avvicina i due tipi progettuali.

I vantaggi peculiari del precompresso (incidenti anche sulla sua tipologia) necessitano, per le strutture da ponte, una sommaria descrizione. Tra le strutture a schema isostatico si ricordano:

 

–       a) i ponti a travata, costituiti da travi portanti collegate da una soletta superiore ed irrigidite da travi trasversali (traversi); in tal caso è di norma corrente la prefabbricazione delle travi portanti precompresse, con successivo varo, in quanto i pesi da trasportare sono contenuti nelle possibilità di un cantiere normalmente attrezzato. Le travi possono essere pretese o post-tese a cavi scorrevoli, successivamente iniettati;

–       b) i ponti a cassone; gli esigui spessori delle anime e delle solette rendono anche in questo caso possibili una prefabbricazione a pie d’opera ed un successivo varo su céntine opportunamente studiate.

 

Tra le strutture a schema iperstatico si ricordano:

 

–       c) i ponti costruiti a sbalzo per conci successivi gettati in opera o prefabbricati, resi solidali mediante cavi di precompressione tesati in opera; tale procedura costruttiva evita il ricorso a centine appoggiate a terra. Generalmente tale schema viene mutato ad opera ultimata, unendo i due sbalzi con una cerniera o con una trave centrale appoggiata. Tuttavia, poiché l’aumento delle inflessioni indotto dalle deformazioni viscose può provocare inaccettabili brusche variazioni di pendenza del piano dell’impalcato in corrispondenza delle cerniere, è preferibile solidarizzare gli estremi delle mensole;

–       d) i ponti realizzati con travi di lunghezza pari alla luce tra gli appoggi o a costituire schemi isostatici del tipo Gerber, con successiva solidarizzazione agli appoggi e delle cerniere mediante cavi tesati in opera, per realizzare la continuità. Nei casi descritti risulta evidente il ruolo essenziale che giocano i cavi per assicurare l’effettiva realizzazione di una continuità che non potrebbe essere garantita con uguale efficacia da armature metalliche ordinarie.

L’utilizzazione della precompressione nella realizzazione dei ponti non si limita ai casi precedentemente indicati: essenziale in alcuni casi risulta la precompressione provvisoria in fase di montaggio:

 

–       nei ponti costruiti con elementi in c.a. la precompressione può riguardare solo alcuni clementi o zone dove significativi livelli di trazione impongono la creazione di stati di coazione;

–       di particolare interesse risulta la precompressione esterna, soprattutto nelle operazioni di ripristino o adeguamento di strutture esistenti;

–       nei ponti ad arco la precompressione può essere utilizzata per la creazione del tirante.

 

Per contro, l’utilizzo della precompressione prevede una profonda conoscenza degli effetti delle deformazioni differite del calcestruzzo (viscosità e ritiro), le quali, nel tempo, riducono in termini pesanti gli effetti positivi ottenuti attraverso gli stati di coazione impressi con la precompressione. In particolare, per gli elementi precompressi assemblati in opera, si deve tener conto tanche delle redistribuzioni lente che si verificano tra parti gettate o sottoposte a carico in tempi successivi, e quelle che derivano dalle variazioni dei vincoli.

 

7.8.2.1 – Criteri progettuali e costruttivi generali

 

Le normative tecniche per i ponti in c.a. e c.a.p. mettono in evidenza come il progetto strutturale di tali manufatti non si possa limitare all’analisi delle condizioni statiche finali dell’opera ma si debba sviluppare in un’analisi più articolata che tenga conto delle modalità esecutive dell’opera stessa. Nei casi di variazione di schema statico, al fine di controllare lo stato di sollecitazione, si prevede la possibilità d’imprimere alla costruzione un sistema di distorsioni tale da rendere lo stato di sollecitazione della struttura prossimo a quello valutabile assumendo lo schema statico finale.

Le verifiche di resistenza degli elementi prefabbricati, precompressi e non, devono quindi riguardare tutte le condizioni statiche in cui si vengano a trovare durante la costruzione, oltre che nella condizione finale (scasseratura, sollevamento, trasporto e posa in opera); e poiché i tempi di realizzazione hanno in genere una notevole influenza sugli effetti indotti dalle deformazioni viscose e data l’incertezza nella definizione di una tempistica che possa rappresentare con sufficiente attendibilità quella che possa essere la sequenza temporale effettivamente sviluppata in cantiere (ritardi imprevisti possono modificare le previsioni di progetto), le istruzioni per le strutture ferroviarie suggeriscono di svolgere l’analisi delle sollecitazioni per 2 diversi tempi d’esecuzione delle fasi interessate costituenti i 2 casi limite entro i quali vada a collocarsi la situazione reale.

Le disposizioni tecniche, inoltre, mettono in evidenza come la progettazione non termini con l’analisi statica, ma debba essere completata dallo studio dei problemi connessi con la durabilità, l’ispezionabilità e la manutenzione dell’opera.

 

7.8.3 – Strutture isostatiche

 

Secondo le prescrizioni ferroviarie le tipologie strutturali di tipo isostatico sono da preferirsi quando l’opera da progettare ricade in zone nelle quali é forte il rischio di cedimenti delle fondazioni (terreni molto comprimibili, pile in alveo etc.). Per la realizzazione dello schema isostatico, tali prescrizioni non ammettono la creazione di seggiole Gerber. Al fine di evidenziarne le peculiarità, si distinguono gii impalcati a trave da quelli a cassone completo.

 

7.8.3.1 – Impalcati a trave

 

La tipologia del ponte a travata, pur essendosi sviluppata negli anni del dopoguerra quando la necessità di una rapida ricostruzione aveva favorito la standardizzazione del processo costruttivo mediante l’uso di elementi in c.a.p. prefabbricati realizzati in serie, trova ancor oggi una diffusa applicazione, soprattutto per < 30÷35 m.

Da un punto di vista economico, qualora non esistano soggezioni particolari dipendenti da obbligati indirizzi di progetto, il rapporto luce tra gli appoggi (L)/(H) altezza travi risulta accettabile nei seguenti limiti:

 

–       per luci fino a 40 m: L/H = 1/15÷1/18

–       per luci oltre i 40 m: L/H = 1/18÷1/20

Con una progettazione corretta l’incidenza globale di calcestruzzo risulta al massimo pari a 0.5 m3/m2 d’impalcato completo. Ove possibile (per ragioni dipendenti dalla ripartizione trasversale dei carichi) si adotta un n° pari di travi, per un loro più razionale sfruttamento. Si rivela consigliabile prevedere sempre un discreto numero di travi poiché i vantaggi derivanti dalla possibilità di assimilare un grigliato ad una piastra ortotropa vengono meno nel caso di travi troppo distanziate. Nella quasi totalità dei casi le travi risultano prefabbricate mentre la soletta viene gettata successivamente, oppure prefabbricata a settori e, comunque, posta in opera in tempi successivi alle travi longitudinali.

Indipendentemente dal sistema di precompressione adottato (con cavi pre- o post-tesi) la determinazione delle grandezze progettuali dipende sia dallo spessore della soletta, sia dalla forma o dimensione dell’espansione superiore b delle travi, nonché dalle caratteristiche della piattaforma stradale; dall’analisi delle più significative realizzazioni è possibile ricavare le seguenti indicazioni d’uso progettuale (Fig. 7.34).

 

 

Fig. 7.34 – Impalcato di ponte in c.a.p. a travi.

 

–       l’interasse i delle travi può indicativamente assumersi variabile nell’intervallo 2.5 m ≤ i ≤ 3.5 m;

–       la dimensione bs si assume pari a ~ i/3; in ogni caso è consigliabile non scendere sotto 80 cm per avere una sufficiente zona di contatto con la soletta superiore, nella quale realizzare, mediante armatura ordinaria, un’efficace solidarizzazione;

–       la luce di sbalzo a, in genere, può essere posta ≥ 0.5 i.

 

Per quanto riguarda lo spessore minimo delle anime delle travi longitudinali a T, per ragioni costruttive, è opportuno distinguere le travi pre-tese dalle travipost-tese (Fig. 7.35).

 

– per le travi pre-tese lo spessore b0 dell’anima deve essere pari ad almeno 1/10 dell’altezza dell’anima e non può comunque scendere al di sotto di 16 cm;

– per le travi con precompressione a cavi scorrevoli, per ragioni costruttive dipendenti dall’ingombro delle guaine dei cavi, si rivela consigliabile uno spessore b0 ≥ 20 cm. Almeno nella zona di deviazione dei cavi tale spessore deve risultare ≥ 3 volte il diametro esterno delle guaine dei cavi rialzati, con un minimo di 22 e ≥ 5 volte il diametro esterno delle guaine qualora vengano rialzati 2 cavi contemporaneamente.

Fig. 7.35 – Sezione trasversale delle travi longitudinali.

Inoltre, deve essere opportunamente studiata la pendenza dell’espansione inferiore onde consentire un facile rialzamento dei cavi verso le zone di testata. In entrambi i casi è consigliabile che, in vicinanza delle zone d’appoggio e al fine d’assorbire le elevate tensioni tangenziali, le anime si allarghino con b0 = bi; l’allargamento (d) deve essere posto in relazione con la luce tra gli appoggi ed é opportuno che tale dimensione risulti d ≥80 cm.

Lo spessore minimo dell’ala inferiore deve essere adeguato alla larghezza e alla pendenza dell’estradosso dell’ala medesima, tenuto conto anche della quantità di armatura presente; lo spessore della soletta di impalcato non deve risultare < 20 cm.

Relativamente ai traversi, per gli impalcati a trave (a doppio T o a sezione scatolare), si devono prevedere traversi almeno in corrispondenza dei vincoli.

Le istruzioni per la progettazione ferroviaria impongono la predisposizione anche di traversi intermedi, nel rispetto dei seguenti valori minimi: almeno 1 per luci ≤ 10 m; almeno 2 per luci comprese entro 10÷25 m e almeno 3 per luci > 25 m. Di norma i traversi devono risultare precompressi. Il loro spessore è usualmente di 20÷30 cm in relazione alla quantità d’armatura necessaria o al tipo di precompressione prevista. Per ragioni costruttive ed economiche i traversi delle travi possono, in casi particolari, non interessare la soletta superiore, ossia la soletta può risultare passante rispetto al traversi stessi mentre, nel caso di ponti ferroviari, le istruzioni impongono che i traversi di testata siano sempre solidali con la soletta dell’impalcato. La precompressione può essere applicata ai traversi dopo aver collocato le travi sugli appoggi: in tal caso si deve tener conto degli effetti che la presenza di tali vincoli genera sull’azione di precompressione.

 

7.8.3.2 – Impalcati a cassone completo

 

La moderna tecnica di attrezzature di cantiere ha reso possibile ed economica la formazione di un impalcato a cassone, in sostituzione dell’impalcato a travi.

Le soluzioni a cassone possono essere realizzate, sia con getto dell’impalcato completo, sia mediante assemblaggio in opera di conci prefabbricati. Si rivela conveniente adottare tale tipo strutturale per luci > 40 m e il rapporto luce tra gli appoggi (L)/(H) altezza del cassone risulta economicamente accettabile nell’intervallo L/H = 1/17 – 1/20.

Con una progettazione corretta l’incidenza globale del calcestruzzo risulta al massimo di 0.6÷0.7 m3/m2 d’impalcato completo: tale maggiore incidenza rispetto all’impalcato a travi è compensata da una minore incidenza di mano d’opera. Compatibilmente con le caratteristiche della piattaforma stradale, è preferibile l’adozione del tipo unicellulare (Fig. 7.36).

Fig. 7.36 – Impalcato di ponte in c.a.p. a cassone completo.

Tale preferenza dipende essenzialmente da considerazioni sul comportamento torsionale del cassone sotto carichi eccentrici, che evidenzia come un’anima centrale o delle anime interne siano pressoché ininfluenti sulle circuitazioni del flusso torsionale relativo all’eccentricità di detti carichi. Per le sezioni a cassone rimangono valide le limitazioni sugli spessori minimi delle anime e della soletta forniti per le sezioni aperte. Anche in questo caso lo spessore della soletta superiore non deve scendere per ragioni costruttive al di sotto di 20 cm (opportunamente smussato e raccordato), mentre lo spessore della contro-soletta risulterà direttamente dal calcolo delle tensioni principali; é comunque consigliabile non scendere con gli spessori al di sotto di 14 cm, per ricoprimento dell’armatura metallica, per ingombro delle guaine dei cavi e per uniforme diffusione della precompressione.

E’ da sottolineare che, anche in questo caso, si rivela opportuno ingrossare le anime verso gli appoggi per assorbire le elevate tensioni tangenziali. Nel caso in esame, per la forma raccordata che possono assumere gli sbalzi e per il comportamento a telaio del cassone, la luce a di sbalzo potrà risultare notevolmente superiore ad i/2 di Fig. 7.36.

Nel caso di piattaforma stradale di notevoli dimensioni, è preferibile la torma trapezoidale (Fig. 7.36) per meglio calibrare il rapporto i/a. Nel caso specifico soletta e cassone vengono gettati assieme e non esiste alcuna soluzione di continuità. Per quanto riguarda lo spessore b delle anime, per ragioni costruttive e per considerazioni dipendenti dal valore delle tensioni principali delle anime stesse, è conveniente progettare una dimensione ≥ 35÷40 cm.

Inoltre il rialzamento plani-altimetrico dei cavi, specialmente nel caso del cassone unicellulare (indipendentemente da ogni verifica di calcolo), consiglia almeno lo spessore minimo sopra accennato. Particolare cura, in tal caso, deve essere osservata nel progettare i raccordi tra le pareti del cassone e le solette, sempre per un facile avviamento dei cavi e per ridurre i momenti statici delle sezioni di attacco con le anime.

Si consigliano setti o traversi di testata, particolarmente robusti, sia per assolvere la funzione d’irrigidimento del profilo, sia per accogliere costruttivamente le testate dei cavi.

Per evitare l’infiltrazione accidentale di acqua all’interno del cassone dovranno prevedersi adeguati fori di drenaggio delle acque.

 

7.8.4 – Strutture iperstatiche

 

Come premessa si può dire che, indipendentemente dai sistemi costruttivi, la progettazione di una struttura iperstatica, adottando la tipologia dell’impalcato a travi, è oggi in disuso.

La forma tipica dell’’impalcato è quella a cassone, in quanto la semplicità costruttiva s’associa all’elevata rigidezza flesso-torsionale caratteristica delle sezioni chiuse. Considerati i limiti della trattazione si tralasciano le opere speciali, quali archi e telai, a favore della più vasta tipologia di applicazione nei viadotti: travi continue, portali multipli etc. Le indicazioni progettuali, relative alla forma e spessori della sezione trasversale, sono le medesime suggerite per gli impalcati semplicemente appoggiati. Data l’alternanza dei momenti flettenti, caratteristica delle strutture iperstatiche, lo spessore della contro-soletta è anche funzione dell’azione flettente nelle diverse sezioni.  Al fine di porre in evidenza le molteplici possibilità costruttive di tali strutture, si descrivono di seguito in termini sommari le tecniche d’uso più comune per costruire:

 

a) viadotto a schema di trave continua, realizzato per assemblaggio di vari elementi tra loro solidarizzati;

b) viadotto a portale, costruito a conci prefabbricati o realizzati in sito, posti in opera mediante la tecnica dell’avanzamento a sbalzo.

 

 

Fig. 7.37 – Viadotto a trave continua: 1) posizionamento della centina mobile sulla 1a campata; 2) varo del 1° elemento mediante la céntina mobile e traslazione della centina mobile alla 2acampata; 3) varo del 2° elemento mediante traslazione su rulli; 4) posizione finale del 2° elemento e traslazione della centina mobile alla 3a campata; 5) solidarizzazione del giunto Gerbermediante cavi di sola cucitura.

7.8.4.1 – Viadotto a schema di trave continua

 

La tecnica di costruzione meglio si presta ad essere rappresentata graficamente con commenti sulle operazioni più caratteristiche. In Fig. 7.37 sono riportate le fasi più significative di costruzione della trave continua con l’impiego di céntina mobile, atta al varo in opera, mediante traslazione su rulli dei vari elementi prefabbricati.

La céntina mobile è impiegata anche per il getto in opera dei singoli elementi: in tal caso varia la fase 5 di fig. 7.37 dove la solidarizzazione si realizza con la tesatura nell’ultimo elemento di cavi ripresi dall’elemento precedente.

 

7.8.4.2 – Viadotto a portale costruito a conci in avanzamento

 

La tecnica d’avanzamento a sbalzo consiste nel far sopportare alla parte già costruita la centina e la relativa apparecchiatura di sostegno per l’esecuzione a sbalzo di un ulteriore tronco elementare di viadotto, ovvero concio.

Tale concio, allorché ha maturato una resistenza sufficiente al permettere la precompressione, viene utilizzato per sopportare i conci seguenti e così di seguito. Questa tecnica non muta, se si sostituisce il getto in opera con elementi prefabbricati; in tal caso il tempo di attesa per la maturazione del getto si riduce a 0.

Nella fase di progettazione delle procedure costruttive si deve tener conto della necessità di garantire la continuità delle armature in acciaio ordinario, sia in direzione longitudinale  che  trasversale. Anche per questo tipo strutturale la schematizzazione grafica meglio si presta a rappresentare le operazioni più caratteristiche (Fig. 7.38).

Fig. 7.38 – Viadotto a portale: 1) fase generica con presenza dei carrelli di costruzione e avanzamento alle estremità di ogni stampella; 2) fase finale col concio Δ che garantisce la continuità strutturale; 3) fase finale col concio Δ che trasmette i soli sforzi taglianti. La fase generica viene caratterizzata dalla presenza dei carrelli di costruzione e avanzamento alle estremità di ogni stampella. Il concio di lunghezza Δ viene gettato in opera o prefabbricato e garantisce, a mezzo della tesatura dei cavi di precompressione, la continuità strutturale dell’opera (MNT ≠ 0: Fase finale tipo A). Per evitare rotazioni relative dell’impalcato, con la formazione di cuspidi che possono far nascere disagi nell’utilizzazione, tale soluzione è da preferirsi alla realizzazione di un concio speciale di lunghezza Δ avente la funzione di creare un pattino centrale atto a trasmettere i soli sforzi taglianti (M = N = 0T ≠ 0: Fase finale tipo B).

Agli inizi delle costruzioni a sbalzo, l’impiego del pattino centrale sembrava ai progettisti la soluzione più idonea, in quanto consentiva di non mettere in conto sbalzi termici e ritiro, die nella struttura continua danno luogo a sollecitazioni di notevole entità. Successivamente, constatato che con tale soluzione le deformate d’insieme risultavano eccessive ed incompatibili con l’esercizio dell’opera, la progettazione si è orientata verso soluzioni continue.

Per le costruzioni a trave continua, ad altezza pressoché uniforme d’impalcato, il rapporto luce massima tra gli appoggi/altezza dell’impalcato risulta accettabile nei limiti (L)/(H) = 1/20 – 1/30.

Per le costruzioni a sbalzo la variabilità della sezione non consente di fissare un rapporto in altezza: si rimanda quindi ai valori caratteristici delle opere di maggior rilievo eseguite con tale metodo, da assumere come riferimento. E’ consigliabile adottare la tecnica della costruzione a sbalzo per portate tra le pile > 60 m e, comunque, in quei casi ove una centinatura risulterebbe troppo onerosa.

In entrambi i casi citati l’incidenza di calcestruzzo per m2 d’impalcato risulta di poco superiore a quella degli impalcati appoggiati risultando comunque meno caratteristica (quale numero indice per l’economia dell’opera) in quanto, per tali strutture, altri fattori (ad es. incidenza delle fondazioni) concorrono a determinare la soluzione e quindi il costo ottimale.

Nei ponti costituiti da conci è necessario porre particolare attenzione alla disposizione e quantità di armatura in corrispondenza delle sezioni di attacco.

 

7.8.3 – Strutture strallate

 

L’impalcato dei ponti strallati può essere realizzato con struttura interamente in acciaio, con struttura composta acciaio-calcestruzzo oppure in cemento armato (normale o precompresso). Utilizzando lo schema di ponte strallato a comportamento reticolare e con passo degli stralli ravvicinati, l’impalcato può assumere snellezze elevate e pesi ridotti.

Nel caso delle luci maggiori, viste le basse rigidezze (flessionali, assiali, torsionali) dei vari elementi strutturali (antenne, stralli, impalcato) si possono rivelare non trascurabili gli effetti del 2° ordine geometrico nell’impalcato, corrispondenti ad incrementi di momenti flettenti negli impianti autoancorati (laddove gli sforzi assiali associati sono di compressione) e a riduzioni dei medesimi negli impianti ancorati a terra, dove gli sforzi assiali associati ai momenti flettenti sono di trazione.

 

7.8.3.1 – Impalcato interamente in acciaio

 

Le tipologie dell’impalcato interamente in acciaio sono generalmente riconducibili a sezioni scatolari ad unico o a doppio cassone o a sezioni aperte a 2 travi laterali, secondo gli impianti in Fig. 7.39. L’impalcato interamente in acciaio risulta conveniente dal punto di vista economico unicamente nei seguenti casi:

 

– per grandi luci (> 500 m);

– per impianti statici con stralli ancorati a terra, dove l’impalcato risulta tenso-inflesso;

– per strutture in cui le condizioni geologiche richiedono limitati carichi in fondazione.

Fig. 7.39 – Sezioni trasversali d’impalcati in acciaio.

7.8.3.2 – Impalcato composto in acciaio-calcestruzzo

 

L’impalcato in acciaio-calcestruzzo si utilizza per luci < 500 m e per impiantii autoancorati, presentando vantaggi economici maggiori rispetto agli impalcati interamente in acciaio. Ponti strillati possono essere realizzati con impalcato composto da travi in acciaio e soletta in c.a. collaborante secondo le tipologie costruttive indicate in Fig. 7.40.

Queste tipologie trovano il loro campo ottimale di applicazione per ponti strillati aventi luce centrale fino ≤ 500 m per impalcati del tipo in Fig. 7.40 e ≤ 400 m per impalcati scatolari in relazione ai limiti imposti dalla deformabilità torsionale degli impalcati stessi. La distanza longitudinale tra i punti di attacco degli stralli all’impalcato varia generalmente tra i 10 m ed i 20 m per gli impalcati con due piani di stralli, ed entro 6÷12 m per gli impalcati con strallatura centrale.

Fig. 7.40 – Viste longitudinale di ponte strallato con impalcato composto in acciaio-calcestruzzo.

Le modalità esecutive di questi ponti sono affini a quelle dei ponti strallati con impalcato in acciaio (identiche per quanto concerne la parte metallica dell’impalcato), distinguendosi da questi nelle fasi di costruzione della soletta in c.a. e, in particolare, per la sequenza delle operazioni di getto previste nel progetto esecutivo della struttura.

 

7.8.3.3 – Impalcato in c.a.

 

Ponti strallati possono essere realizzati con impalcato in cemento armato ordinario (Fig. 7.41) per luci ≤ 500 m. Questa tipologia, che non richiede la precompressione longitudinale dell’impalcato, può essere realizzata adottando sezioni trasversali scatolari caratterizzate da un nocciolo d’inerzia di notevole altezza e da un valore molto elevato del rapporto g/p fra il carico permanente ed il carico accidentale (entrambi per unità di lunghezza d’impalcato), in modo da avere sezioni uniformemente compresse per il carico g, e sezioni linearmente compresse (e in nessun punto tese) per la concomitanza dei carichi accidentali, nella maggior parte delle sezioni dell’impalcato.

In prossimità della mezzeria della campata centrale le tensioni di trazione indotte dai momenti positivi associati alle minime azioni assiali vengono riprese dalle armature metalliche.

Fig. 7.41 – Vista longitudinale di un ponte strallato con impalcato in c.a..

Questa tipologia costruttiva di ponti strallati è più facilmente realizzabile per carichi mobili leggeri e presenta impalcati piuttosto pesanti. La realizzazione di questa tipologia di ponti strallati richiede in genere un’attrezzatura autovarante per il getto dell’impalcato (di non semplice movimentazione) che di volta in volta viene studiata e adeguata alle caratteristiche di progetto della sezione trasversale dell’impalcato stesso.

 

7.8.3.4 – Impalcato in c.a.p.

 

Tale tipologia rappresenta i modelli più diffusi di ponti strallati che prevede un impalcato in c.a.p. in cui la forma della sezione trasversale e la sua altezza risultano poco superiori (40÷50%) rispetto a quelli relativi ai ponti strallati con impalcato composto (Fig. 7.42); in questo caso il passo (longitudinale) tra i punti di attacco degli stralli all’impalcato risulta più ravvicinato (5÷10 m). Data la bassa flessorigidezza dell’impalcato nel piano verticale, lo stato tensionale di pressoflessione in esso presente è caratterizzato da grandi eccentricità dello sforzo normale di compressione, per cui si rende generalmente necessaria la precompressione longitudinale, in particolare nelle zone in prossimità della mezzeria della campata centrale. Tale precompressione, se puramente assiale, consente di controllare agevolmente l’evoluzione delle deformazioni viscose nelle fasi di costruzione in situ e a lungo termine.

Fig. 7.42 – Vista longitudinale dell’impalcato in c.a.p. di un ponte strallato.

7.8.3.5 – Impalcato misto

 

Facendo riferimento all’impianto di ponte strallato con disposizione degli stralli ad arpa o ad arpa-ventaglio può risultare particolarmente vantaggioso dal punto di vista economico l’adozione di un impalcato in c.a. o in c.a.p. nelle campate di riva (di piccola luce, 20÷50 m) e di un impalcato composto in acciaio-calcestruzzo nella campata centrale (di luce considerevole, 200÷600 m). Il passaggio da un tipo di impalcato all’altro avviene in una sezione trasversale della campata centrale ubicata in prossimità delle antenne (Fig. 7.43).

Fig. 7.43 – Vista longitudinale dell’impalcato misto di un ponte strallato (Rio Higuamo, Santo Domingo).

Se la campata centrale è molto grande (ad es. dell’ordine 1000 m) la parte d’impalcato a cavallo della mezzeria del ponte (per una lunghezza pari a ~30÷40% della campata stessa) può convenientemente realizzarsi tutta in acciaio purché le caratteristiche geometriche della sezione trasversale mantengano la configurazione geometrica della sezione corrente.

7.8.3.6 – Aspetti specifici dei ponti strallati in calcestruzzo armato

 

Nel caso d’impalcato in c.a./c.a.p., ed in misura minore a struttura composta acciaio-calcestruzzo, si riscontrano alcune problematiche particolari in relazione essenzialmente ai fenomeni lenti del calcestruzzo ed alle procedure esecutive. Per quanto riguarda gli effetti di viscosità e ritiro, gli stessi vanno attentamente analizzati in quanto possono indurre significative variazioni nello stato tensionale degli elementi strutturali.

Il ritiro del calcestruzzo dell’impalcato e delle antenne, con i conseguenti accorciamenti assiali di tali elementi strutturali, comporta l’effetto principale di un incremento delle deformazioni flessionali dell’impalcato e come effetto secondario un incremento dei momenti flettenti in funzione dello schema statico adottato, peraltro limitato dalla stessa viscosità del calcestruzzo che riduce gli stati di coazione indotti da distorsioni impresse.

La viscosità del calcestruzzo dell’impalcato e delle antenne produce 2 diversi effetti concomitanti:

 

– un aumento delle deformazioni assiali dell’impalcato con effetti analoghi a quelli del ritiro;

– una redistribuzione nel tempo delle sollecitazioni flessionali nell’impalcato e degli sforzi assiali negli stralli dovuta ai seguenti effetti:

 

a) l’evoluzione nel tempo degli schemi statici nelle diverse fasi di costruzione;

b) la presenza di materiali con differenti caratteristiche viscose; in particolare la presenza degli stralli in acciaio fa sì che la distribuzione dei momenti nell’impalcato tenda a tempo infinito alla distribuzione corrispondente alla configurazione di trave continua su appoggi rigidi posti in corrispondenza dei punti di sospensione dell’impalcato agli stralli.

 

Tale circostanza è di grande rilevanza in quanto tende ad annullare gli effetti indotti da coazioni e distorsioni impresse alle strutture d’impalcato: in particolare tende ad eliminare i momenti flettenti indotti nell’impalcato mediante tiri differenziati negli stralli o mediante la precompressione eccentrica, tendenti a contrastare i momenti indotti nelle fasi successive dai carichi permanenti e dai carichi mobili. Inoltre essa può modificare sensibilmente i tiri negli stralli per i carichi permanenti. Poiché gli effetti dei fenomeni lenti, e in particolare della viscosità del calcestruzzo, possono essere rilevanti, tenendo conto del margine relativamente ampio di indeterminatezza nella caratterizzazione quantitativa di tali fenomeni, è opportuno valutare tali effetti mediante lo studio di un inviluppo di possibili condizioni corrispondenti a diverse ipotesi nella caratterizzazione del comportamento viscoso del calcestruzzo.

 

7.8.4 – Analisi strutturale

 

L’analisi strutturale può fare riferimento a schemi piani, per l’analisi per carichi permanenti e a schemi piani o spaziali per l’analisi dei carichi mobili. Si distinguono le due seguenti fasi:

 

7.8.4.1 – Analisi delle fasi di costruzione

 

In tale fase vengono analizzati gli schemi statici evolutivi durante le fasi esecutive, sommando progressivamente gli effetti statici e le deformazioni.

Per determinare le geometrie di costruzione ed i tiri da applicare agli stralli si effettua una back-analysis realizzando il progressivo disassemblaggio della struttura a partire dalla condizione di ponte al termine delle fasi di costruzione, soggetto ad uno stato predeterminato (di progetto) di azioni trasmesse dagli stralli, che equilibra i carichi permanenti. Si adotta di norma, come stato di progetto, la condizione di trave continua su appoggi fissi in corrispondenza degli ancoraggi degli stralli sull’impalcato.

 

7.8.4.2 – Analisi in esercizio

 

Si considera il sistema strutturale completo e finale, soggetto alle azioni di calcolo.

Si determinano le linee d’influenza delle caratteristiche della sollecitazione adottando generalmente modelli di calcolo adeguati alla complessità della struttura (bidimensionali o tridimensionali) in cui si tiene conto della non linearità della rigidezza degli stralli col metodo del modulo elastico equivalente tangente o secante, e se necessario, della non linearità geometrica della risposta dell’impalcato con analisi iterative. Per i calcoli di predimensionamento è possibile adottare le seguenti espressioni:

 

Condizione di stabilità (trazione) degli stralli d’ormeggio, sistema a ventaglio

 

g/p > 1/[(K2/4) – 1]

 

dove K = L/l è il rapporto tra campata centrale e laterale, g il carico permanente e p il carico mobile.

 

Azione assiale nell’impalcato per stesa di carico uniforme (Fig. 7.44)

 

a) Sistema a ventaglio

N(x) = q/H (Lx/2 – x2/2)

Nmax = qL2/8H

b) Sistema ad arpa

Fig. 7.44 – Diagramma delle azioni assiali nell’impalcato.

Momenti flettenti nella trave d’impalcato per carichi accidentali per schemi a ventaglio a 3 luci con sospensione continua (Fig. 7.45):

 

dove p è il carico accidentale distribuito, K = 0.1585 √4EJ ΔΔ l’interasse stralli sull’impalcato e β è dato dai riquadri in Tab. 7.1:

Sforzi negli stralli

Tab. 7.1 – Valori di β per campate centrali e laterali.

Fig. 7.45 – Momenti flettenti lungo l’asse longitudinale.

7.8.5 – Stabilità aerodinamica

 

Per luci in genere > 150 m la grande leggerezza dell’impalcato e le basse frequenze di vibrazione determinano la necessità di verificare le condizioni di stabilità aerodinamica qui riassunte sinteticamente insieme ad alcuni criteri di verifica.

 

7.8.5.1 – Vortici di Von Karman

 

II distacco di schiere alternate di vortici sottovento all’impalcato induce azioni aerodinamiche pulsanti che, se in risonanza con le frequenze di vibrazione dell’impalcato, possono produrre oscillazioni flessionali e torsionali nello stesso. La velocità critica, per la quale si verifica il distacco di vortici alla stessa frequenza dell’impalcato risulta pari a:

 

Vcr = nr d/ST (m/s)

 

dove n è la frequenza naturale nel modo r, nel piano normale alla direzione del vento (Hz), b la larghezza efficace dell’impalcato (m), d l’altezza dell’impalcato (m) ed ST il numero di Strouhal.

 

 

Possono verificarsi oscillazioni verticali se risulta:

 

Vcr ≤ 1.2 Vm

 

dove Vm è la velocità media caratteristica del vento (media su 10′) (m/s).

In tal caso vanno valutati i carichi aerodinamici applicati alla struttura, l’ampiezza delle oscillazioni e le sollecitazioni indotte. Il massimo spostamento flessionale è dato, in prima approssimazione, da:

 

con valori m genere sovrastimati rispetto ai reali spostamenti, soprattutto in caso di impalcati continui e di grande lunghezza. L’entità della risposta strutturale all’azione aerodinamica dipende dalla forma della sezione trasversale dell’impalcato, dalla turbolenza atmosferica (e quindi dall’orografia e dall’altezza dal suolo) e dall’effettivo smorzamento aerodinamico.

 

7.8.5.2 – Flutter flesso-torsionale

 

II fenomeno consiste, in sintesi e con qualche semplificazione, nelle oscillazioni accoppiate di flessione e torsione dell’impalcato alimentate e amplificate dall’azione del vento.

L’instabilità si verifica quando la velocità del vento è tale da ridurre la frequenza torsionale (che è influenzata dall’azione aerodinamica torcente) allo stesso valore della frequenza flessionale.

La velocità critica per flutter, per sezioni profilate aerodinamicamente, risulta in prima approssimazione:

 

dove ηβ è la 1a frequenza flessionale (Hz), ητ 1a frequenza torsionale (Hz), m la massa unitaria (kg/m), Q la densità dell’aria (kg/m3), b la larghezza impalcato (m) ed r il raggio polare d’inerzia della sezione in mezzeria (m); e deve essere:

 

Vf ≥ 1.5 Vm

 

in cui il moltiplicatore 1.5 tiene conto dell’incremento di velocità del vento per periodi brevi e di un margine di sicurezza, e Vm è la velocità media caratteristica per un periodo di 10′ all’altezza dell’impalcato.

Per sezioni non profilate Vf risulta minore, fino anche al 50%, del valore relativo a sezioni profilate, e va valutato basandosi su indagini effettuate su sezioni simili o con prove in galleria del vento.

 

7.9 – Ponti sospesi

 

II ponte sospeso (Fig. 7.46) è formato da una o più funi in acciaio (o cavi portanti) che sostengono l’impalcato mediante elementi di sospensione, verticali o inclinati (pendini).

 

 

Fig. 7.46 – Ponte sospeso di Akashi (1998).

 

I cavi portanti sono sostenuti da piloni, che ne elevano i punti d’imposta rispetto al livello dell’impalcato, e sono generalmente ancorati al suolo alle estremità del ponte o, più raramente, ancorati all’impalcato (Fig. 7.47).

Fig. 7.47 – Elementi strutturali del ponte sospeso.

L’impalcato è caratterizzato da una inerzia flessionale la cui entità, variabile in funzione della tipologia del ponte e della impostazione progettuale, contribuisce ad aumentare la rigidezza del sistema strutturale. La rigidezza e la capacità portante del ponte sospeso moderno, ed in particolare dei ponti di maggiore luce, è comunque conferita prevalentemente dai cavi.

La forma che assumono i cavi corrisponde alla catenaria dei carichi applicati ai cavi stessi (Fig. 7.48):

 

–       nelle prime fasi di costruzione, durante la formazione dei cavi, la forma da essi assunta corrisponde alla catenaria;

–       l’applicazione del peso proprio dell’impalcato e degli altri carichi permanenti porta la forma dei cavi ad approssimarsi ad una parabola, funicolare di una stesa di carico uniforme;

–       l’applicazione dei carichi mobili modifica tale configurazione facendo disporre i cavi secondo la curva funicolare del carico risultante (permanente più mobile) trasmesso ad essi dai pendini.

 

 

Fig. 7.48 – Profili dei cavi nelle fasi di costruzione ed esercizio

Per condizioni di carico con distribuzioni simili alla distribuzione dei carichi permanenti, quindi praticamente uniforme, la deformazione dei cavi è essenzialmente assiale ed elastica, con minime variazioni di forma e piccoli spostamenti.

Per carichi asimmetrici o localizzati il cavo deve modificare sensibilmente la sua configurazione per mantenere l’equilibrio delle forze, ed è quindi soggetto ad elevati spostamenti.

Il ponte sospeso risulta quindi soprattutto adatto a sostenere carichi prevalentemente uniformi, in cui il peso proprio è preponderante rispetto ai carichi mobili, come è il caso dei ponti di grande luce.

Risulta anche adatto a situazioni in cui la deformabilità in servizio, per carichi localizzati, non sia pregiudizievole nei riguardi dell’esercizio del ponte, come è il caso dei ponti pedonali, anche su piccole luci o dei ponti per tubazioni.

Non risulta adatto, in generale, per ponti ferroviari, con elevati carichi localizzati e ristrette limitazioni di deformabilità: pochissimi ponti ferroviari sospesi sono stati fino ad oggi realizzati.

L’impalcato viene eseguito, di norma, interamente in acciaio pur esistendo alcuni esempi di ponti di media luce (100÷200 m) e di passerelle pedonali con impalcato in calcestruzzo. Per ponti stradali trova il suo campo d’impiego per luci da 500 a 2000 m.

 

7.9.1 – Analisi e comportamento statico

 

L’analisi globale comprende analisi statiche e dinamiche, lineari e non lineari, verifiche aeroelastiche e di stabilità delle antenne. L’analisi locale comprende le verifiche tensionali e a fatica degli elementi dell’impalcato, nonché le verifiche locali dei cavi per azioni assiali, trasversali, e momenti flettenti localizzati in prossimità delle selle e degli ancoraggi dei pendini.

Si riportano sinteticamente i principali criteri generali alla base delle analisi globali.

 

7.9.1.1 – Analisi per carichi verticali

 

II tema classico nell’analisi del ponte sospeso consiste nella determinazione dello stato di deformazione e di sollecitazione dei cavi e della travata irrigidente d’impalcato tenendo conto dell’interazione tra gli stessi.

Nell’arco di circa un secolo, dai primi decenni dell’800, sono state sviluppate la teoria di Rankine, semplice ma approssimata, la teoria del 1° ordine (elastic theory), che conduce a risultati corretti al 1° ordine per ponti autoancorati e cautelativi ma accettabili per ponti con travate molto rigide, e la teoria del 2° ordine (deflection theory), che consentì di ottenere risultati accurati anche per ponti con impalcati deformabili e, in sostanza, consentì di realizzare i moderni grandi ponti sospesi.

 

7.9.1.1.1 – Geometria e sollecitazioni per carichi permanenti

 

Si assume tipicamente che la travata irrigidente, al termine della costruzione, risulti priva di momenti flettenti e che pertanto la forma del cavo corrisponda alla catenaria dei carichi permanenti applicati. La geometria del cavo in campata centrale, con distanza / tra le estremità del cavo, è quindi definita dalla funzione:

 

y(x) = Mo(x)/H (ordinata dell’asse del cavo)

 

dove H = Mo(l/2)f è la componente orizzontale del tiro per carichi permanenti ed Mo(x) è il momento dei carichi permanenti esterni su una trave in semplice appoggio di luce l.

Nel caso di carico permanente uniformemente distribuito p, su una trave di luce L, si ha:

 

y = 4f(Lx)/L2

H = pL2/8f

 

7.9.1.1.2 – Geometria e sollecitazioni per carichi mobili

 

L’equazione differenziale di equilibrio verticale, nella teoria del 2° ordine può scriversi nella seguente forma:

 

in cui h rappresenta la variazione della componente orizzontale del tiro del cavo per effetto del carico mobile. L’ultimo termine dell’equazione, che dipende dalla variazione di carico applicato alla trave a causa del tiro del cavo prodotto dalla variazione della geometria, viene trascurato nella teoria del 1° ordine che fornisce quindi risultati accettabili quando:

 

 

circostanza che si verifica per travate d’impalcato molto rigide.

L’equazione può essere risolta attraverso diversi metodi per iterazioni successive ed il momento flettente nell’impalcato può quindi essere espresso da:

 

M = M‘ – hy (1° ordine)

M = M‘ – hy – (H + h)y (2° ordine)

 

in cui M‘ rappresenta il momento dei carichi mobili su una trave appoggiata di luce l.

Si può rilevare che in una sezione generica dell’impalcato il momento flettente risulta pari al prodotto tra la componente orizzontale del tiro del cavo e lo spostamento tra la configurazione deformata effettiva del cavo e la configurazione che esso assumerebbe in assenza di impalcato, ovvero la funicolare dei carichi esterni applicati (Fig. 7 49).

Se si considera, in prima approssimazione, anziché la deformata effettiva del cavo la configurazione che esso assume per l’azione dei carichi permanenti, si ottengono i risultati della teoria del 1° ordine.

Fig. 7.49 – Deformazioni del cavo e momenti dell’impalcato per carichi mobili.

 

7.9.1.1.3 – Predimensionamento

 

Per le analisi finali dei ponti sospesi si adottano procedure numeriche non lineari in regime di grandi spostamenti, sia per l’analisi delle fasi esecutive e delle geometrie iniziali che per l’analisi del ponte in esercizio. Tuttavia, per un calcolo di predimensionamento, è possibile utilizzare le seguenti espressioni approssimate derivate in parte dalla teoria del 2° ordine linearizzata.

 

Geometria ed equilibrio del cavo per carichi permanenti

 

 

Spostamento verticale in mezzeria per spostamenti orizzontali della testa delle antenne, trascurando la rigidezza dell’impalcato

Variazione di tiro e spostamento verticale in corrispondenza del carico, per l’azione di un carico concentrato P applicato ad un’ascissa x, trascurando la rigidezza dell’impalcato

 

 

Momento flettente massimo per carico mobile distribuito su una stesa (o < x < a) per una travata d’impalcato semplicemente appoggiata

 

 

Mmax si verifica per:

 

7.9.1.2 – Analisi per carichi orizzontali

 

L’elevata snellezza trasversale dell’impalcato nel piano orizzontale per ponti sospesi di grande luce (l/b = 40÷60), rende significativi gli effetti del 2° ordine geometrico nel calcolo degli spostamenti e dei momenti flettenti nell’impalcato nel piano orizzontale.

In sintesi, i cavi portanti, collegati all’impalcato mediante i pendini, seguono lo spostamento dell’impalcato per l’azione del vento disponendosi su piani inclinati, assorbendo, quindi, parte delle azioni orizzontali e trasferendole in sommità delle antenne (Fig. 7.50).

Fig. 7.50 – Contributo del sistema di sospensione nell’assorbimento della spinta del vento.

L’impalcato risulta quindi soggetto alle azioni orizzontali direttamente applicate ed alle reazioni, di segno opposto, fornite dai cavi e dai pendini; ne risultano momenti flettenti e spostamenti sensibilmente minori (Fig. 7.51) rispetto a quelli calcolabili con la teoria del 1° ordine ed un trasferimento di azioni trasversali dall’impalcato alle sommità delle antenne.

 

Fig. 7.51 – Momenti flettenti nell’impalcato nel piano orizzontale per l’azione del vento.

7.9.2 – Stabilità aerodinamica

 

In diversi ponti sospesi si sono manifestate oscillazioni dovute al vento per effetto dei vortici di Von Karman e del buffeting, ed in alcuni casi sono stati presi provvedimenti per ridurle o eliminarle. Le oscillazioni per flutter quando si sono, raramente, manifestate hanno avuto esiti catastrofici.

La stabilità aerodinamica è pertanto un problema primario nel progetto dei ponti sospesi sia di piccole dimensioni (pipelines, passerelle) che di media e grande luce.

Le condizioni di stabilità aerodinamica sono più critiche in fase di costruzione che in fase di esercizio, in quanto durante le fasi esecutive la struttura, incompleta, è maggiormente deformabile. Tuttavia in fase di costruzione possono essere considerate velocità di progetto minori perché correlate a periodi di ritorno minori (tipicamente 10 anni).

Su ponti di notevole lunghezza le oscillazioni per vortici di Von Karman possono essere innescate su modi di vibrare relativamente alti, a differenza di quanto si verifica nei ponti a travata o strallati. L’azione trasversale del vento sull’impalcato, per luci elevate, ha prevalentemente carattere dinamico: agli effetti della componente uniforme della spinta del vento vanno sommati gli effetti di buffeting, che spesso risultano prevalenti.

 

Fig. 7.52 – Tipologie diffuse di ponti sospesi.

 

7.9.3 – Elementi strutturali

 

7.9.3.1 – Antenne (sostegni tensori verticali)

 

Possono essere realizzate in acciaio o, più economicamente, in cemento armato, e recentemente anche per ponti di grandi dimensioni. Alcune configurazioni tipiche sono riportate nella Fig. 5.53. Sulla sommità delle antenne vengono disposte le selle d’appoggio dei cavi portanti, generalmente in acciaio fuso, che possono essere o stabilmente ancorate alle teste delle antenne stesse, o scorrevoli longitudinalmente rispetto ad esse per le sole fasi di costruzione.

Fig. 7.53 – Tipologie d’antenne.

La stabilità aerodinamica delle antenne durante le fasi di costruzione è spesso un aspetto critico: per antenne in acciaio di elevata altezza vengono utilizzati smorzatori dinamici o dissipatori ad attrito. Antenne in calcestruzzo, con maggiore smorzamento e massa e sezioni trasversali semplici con spigoli smussati, si sono rilevate stabili (con oscillazioni presenti ma accettabili) anche per le maggiori altezze (254 m, Storebaelt Bridge).

 

7.9.3.2 – Cavi portanti

 

Sono sempre in acciaio ad alta resistenza a fili paralleli, zincati, con diametri di 5,2 – 5,7 mm. In base alle modalità di formazione dei cavi si distinguono i sistemi:

 

– aerial spinning method, ossia il sistema tradizionale usato per oltre un secolo nella costruzione dei ponti sospesi, che consiste nell’assemblaggio sul posto del cavo, operando per singoli fili (Fig. 7.54);

– formazione con trefoli prefabbricati di fili paralleli, sistema che consente teoricamente una maggiore indipendenza dalle condizioni ambientali ed una maggiore velocità di esecuzione.

 

Fig. 7.54 – Aerial Spinning Method per filatura cavi di un ponte sospeso.

La realizzazione dei cavi prevede le seguenti fasi:

 

– montaggio di passerelle di servizio (catwalk) realizzate in trefoli d’acciaio, traversine in legno e rete di protezione, disposte ~1÷1.5 m sotto l’asse del cavo;

– montaggio di un sistema di controventatura e di stabilizzazione dei catwalk, costituito da controfuni e pendini e da passerelle trasversali;

– installazione di una teleferica, posta sopra il cavo e stabilizzata dai catwalk;

– filatura dei fili (o dei trefoli) da un blocco di estremità di ancoraggio all’altro blocco, e formazione del cavo mediante affiancamento dei fili, secondo la geometria di progetto;

– compattazione progressiva dei cavi;

– installazione delle selle d’ancoraggio dei pendini;

– installazione del sistema di protezione superficiale, costituita tipicamente da una verniciatura e da una fasciatura con filo zincato di piccolo diametro (3÷4 mm).

I cavi dei maggiori ponti sospesi di recente costruzione hanno diametri di 0.82 m.(Storebaelt, Danimarca) e 1.12 m (Akashi, Giappone).

 

7.9.3.3 – Pendini

 

Vengono realizzati con funi a trefoli o con funi spiroidali chiuse o a fili paralleli, sempre in acciaio zincato e spesso protetti da guaine in polietilene ad alta densità. Le selle di ancoraggio ai cavi portanti sono tipicamente in fusione di acciaio, con ancoraggi a perno. Gli ancoraggi all’impalcato sono necessariamente a cerniera per i pendini prossimi ai blocchi d’ormeggio, dove è massima la rotazione longitudinale dei pendini, mentre possono essere di tipo rigido, con eventuali ghiere di regolazione, per i pendini intermedi.

 

7.9.3.4 – Impalcato

 

In funzione del tipo di vincolo dell’impalcato al sistema di sospensione ed agli appoggi si possono avere impalcati semplicemente appoggiati o continui sugli appoggi o senza appoggio fisso in corrispondenza delle antenne (con sospensione continua); possono anche distinguersi i sistemi di cavi ancorati a terra o autoancorati (Fig. 7.55). Si distinguono in generale i seguenti tipi di impalcato:

 

–       con travi principali a parete piena;

–       con travate reticolari;

–       con trave scatolare.

 

7.9.3.4.1 – Impalcati con travi a parete piena

 

Di fabbricazione economica, non sono tuttavia adatti a ponti di grande luce in quanto dotati di elevata resistenza aerodinamica e scarsa rigidità torsionale e, conseguentemente, di basse velocità critiche per flutter. Quest’ultima circostanza può essere in parte superata realizzando impalcati permeabili all’aria, utilizzando aperture longitudinali centrali, o grigliati in acciaio che neutralizzano la portanza alare dell’impalcato. Con tale tipologia sono stati realizzati alcuni ponti negli USA (anni ’30-’40) quando la reale importanza dei fenomeni aeroelastici negli impalcati da ponte non era stata ancora riconosciuta e valutata.

 

7.9.3.4.2 – Impalcati con travate reticolari

 

Consentono di ottenere travate di elevata rigidità flessionale e torsionale con resistenze aerodinamiche relativamente ridotte ed elevati smorzamenti aerodinamici. Ap- partengono a questa tipologia i maggiori ponti realizzati da imprese statunitensi (Verrazzano-NarrowsTagoMackinak).

La maggiore campata finora realizzata con questa tipologia strutturale e la campata centrale del ponte Akashi Kaikyo in Giappone, con 1990 m di luce.

La travata ha una altezza di 14 m ed una larghezza di 35.50 m (interassi di correnti), 6 corsie stradali, una massa di circa 24 t/m, ed è comunque dotata di appendici aerodinamiche che ne elevano sensibilmente la velocità critica per flutter.

 

Fig. 7.55 – Diverse configurazioni di ponti sospesi ancorati a terra (ae) ed auto-ancorati (fg)

7.9.3.4.3 – Impalcati con travate scatolari o alari

 

Consentono di ottenere basse resistenze aerodinamiche ed elevate rigidità torsionali.

La rigidezza flessionale del sistema è affidata essenzialmente ai cavi, mentre alla travata scatolare è affidato il compito di elevare la rigidezza torsionale per impedire il flutter e di ridurre le resistenze aerodinamiche del sistema d’impalcato. Si ottengono elevate snellezze (luce/altezza impalcato = 300÷400) e costruzioni più economiche rispetto agli impalcati reticolari.

Appartengono a questa tipologia i maggiori ponti progettati da studi inglesi (BosforoSevern Humber, Tsing-Ma) e il più recente ponte sullo Storebaelt, progettazione danese, che rappresenta attualmente il più lungo ponte a travata scatolare nel mondo, con una luce centrale di 1624 m. La travata ha una altezza totale di 4.3 m ed una larghezza di 32 m; 6 corsie stradali ed una massa media di impalcato di 12 t/m.

 

7.9.4 – Metodologia di costruzione

 

Nei ponti sospesi la sequenza operativa corrisponde necessariamente alle seguenti fasi:

 

–       costruzione delle antenne e dei blocchi d’ormeggio;

–       formazione dei cavi portanti e montaggio dei pendini;

–       montaggio della travata d’impalcato.

 

Il montaggio dell’impalcato avviene sollevando dal mare (o dal fiume, o da terra) gli elementi strutturali dell’impalcato (o i pannelli di trave reticolare o interi conci) mediante gru posizionate sui cavi o sull’impalcato già realizzato. Nei ponti con impalcato reticolare si parte normalmente dalle antenne procedendo simmetricamente verso la mezzeria della campata centrale e verso gli ormeggi di estremità. Nei ponti con travata scatolare si montano inizialmente i conci di mezzeria procedendo simmetricamente verso le antenne per ridurre il rischio di flutter durante la costruzione.

Dopo il sollevamento i conci vengono collegati temporaneamente con dispositivi atti a consentirne le reciproche rotazioni durante il montaggio dei conci successivi, ma anche a garantire la necessaria stabilità per gli effetti dinamici del vento.

 

7.9.5 –  Ponti di grande luce

 

S’intendono di norma per grandi luci quelle > 500 m, per le quali il peso proprio strutturale è preponderante e diventa naturale adottare un sistema strutturale leggero basato su funi. La scelta del sistema strutturale dipende da 3 aspetti:

 

–       ottimizzazione del peso e del costo del materiale strutturale;

–       garanzie di stabilità aerodinamica in esercizio e durante la costruzione;

–       realizzabilità, ovvero fattibilità dei sistemi esecutivi.

 

Dal punto di vista delle quantità di materiali impiegati, per luci comprese entro 500÷1500 m, il ponte strallato risulta più conveniente del ponte sospeso a parità di luce (Fig. 7.56).

Fig. 7.56 – Quantità d’acciaio per i cavi di ponti sospesi e strillati al variare della luce e del rapporto tra l’altezza delle antenne e la luce.

Esso comporta, tuttavia, antenne più alte del 60÷70% e richiede, nell’impianto autoancorato, la realizzazione di grandi sbalzi in fase di costruzione, sensibili agli effetti del vento. Sono infatti gli aspetti esecutivi e di stabilità aerodinamica che fino ad oggi hanno fatto preferire il ponte sospeso per le luci maggiori. Attualmente le massime luci realizzate risultano:

 

– ponte strallato autoancorato:              L = 890 m (Tatara Bridge, Giappone);

– ponte sospeso a travata alare:           L = 1624 m (Storebaelt Bridge, Danimarca);

– ponte sospeso a travata irrigidente:   L = 1990 m (Akashi Kaikyo, Giappone).

 

Tali ponti rappresentano il culmine di una lunga e progressiva evoluzione (Fig. 7.57) degli schemi strutturali e delle sezioni d’impalcato tradizionali, con le quali sembrano essere stati probabilmente raggiunti, quanto meno per i ponti sospesi, i limiti di luce libera.

Per superare tali limiti sono state proposte varie soluzioni innovative, tra le quali appaiono interessanti le seguenti:

 

– travata d’impalcato con aperture centrali o con impalcati separati, per migliorare la stabilità aerodinamica;

– uso di appendici aerodinamiche fisse o a controllo attivo;

– sistemi di ponte strallato parzialmente autoancorato;

– sistemi di sospensione misti: strallato-sospeso.

 

L’integrazione di tali soluzioni, di materiali ad elevate prestazioni e di moderne tecniche esecutive dovrebbe consentire di superare l’attuale limite dei 2000 m e realizzare, progressivamente, luci anche più grandi.

Fig. 7.57 – Progresso nelle luci libere dei ponti sospesi.

 

7.10 – Problemi geologici connessi all’esecuzione di ponti

 

Al di là dei generali problemi di fondazione, riscontrabili nella realizzazione degli ancoraggi di grandi strutture (quali ponti e viadotti) nonché della ripartizione dei relativi carichi, argomenti per i quali si rinvia alla trattazione specifica presentata nel vol. 2°, i rapporti corrente/strutture sia per quanto concerne i manufatti di sostegno sia per quanto attiene alle difese spondali e di bacino a monte dell’opera comprendono un’importante categoria d’interventi e scelte per le quali l’operatore progettista deve portare la massima attenzione.

 

7.10.1 – Franco e luci dei ponti

 

Un importante aspetto da considerare nella collocazione altimetrica dei ponti riguarda il franco e la sua misura: l’uno e l’altra da intendersi come riserva di sicurezza per controllare, da un lato, eventi di piena più rari di quello di progetto e, da un altro, fatti e fenomeni che, pur legati al deflusso di piena, possano dare luogo a pericolose forme di instabilità idraulica o strutturale. E’ appena il caso di ricordare che i corsi d’acqua arginati dispongono generalmente del franco di 1 m rispetto alla sommità arginale dove franco e sommità sono assunti con riferimento alla massima piena conosciuta in un lungo periodo d’osservazione e, comunque, alla piena stimata con frequenza centenaria.

In questa possibile prospettiva assegnare il franco con un riferimento che sia solo limitato alla massima quota idrometrica imposta dalla piena di progetto (franco minimo ≥ 1.5÷2m) può non essere sufficiente per conferire alle opere un adeguato grado di sicurezza rispetto anche ad eventi non propriamente né secondari né improbabili quali il trasporto da parte della corrente di piena di corpi galleggianti voluminosi (ad es. alberi o carcasse).

La considerazione di questi aspetti, specie per i ponti nelle parti alte o relativamente alte del bacino, deve portare anche ad una sorta d’analisi critica dello stato del bacino stesso in rapporto alla copertura vegetale ed alla stabilità con un maggiore impegno quando il ponte non sia a unica campata. L’ostruzione di un ponte può infatti creare condizioni di estrema pericolosità.

La sua tracimazione o il suo sormonto, in aggiunta a una sollecitazione (orizzontale) impropria delle sue strutture, può determinare, infatti, uno stato di deflusso rigurgitato verso monte non più contenibile entro l’alveo; e tuttavia può anche dare luogo, per l’improvvisa rimozione dell’ostruzione, se non per il cedimento della struttura, ad un’onda pressoché improvvisa che, liberando in brevissimo tempo l’invaso e i materiali accumulati a monte, si propaga verso valle con singolare potenza distruttiva.

Accanto a questi problemi sono da considerare anche gli accumuli in corrispondenza delle pile, i quali incrementano i fenomeni erosivi localizzati dovuti alla loro presenza. Le disposizioni da adottare per fare fronte a possibili condizioni del tipo di quelle più sopra indicate devono allora riguardare non solo il franco, ma anche il valore del dislivello tra la quota di sottotrave e il fondo dell’alveo, la distribuzione delle luci e il loro valore minimo; a titolo d’indicazione, in aggiunta alla prescrizione di un franco normale minimo, é da raccomandare che il dislivello tra fondo e sottotrave sia ≥ 6÷7 m quando si possa temere il transito d’alberi d’alto fusto: con l’avvertenza di valori maggiori per ponti con luci < 30÷40 m o per ponti posti su torrenti esposti a sovralzi d’alveo per deposito di materiali lapidei provenienti da monte o dai versanti.

Quando il franco e il dislivello dal fondo non siano assicurati si ricorre all’aumento della quota della livelletta stradale e, in qualche caso per luci > 30 m, all’adozione di ponti a via inferiore; la Fig. 7.58 mostra un ponte Langer con luce 35 m (spinta eliminata) e un ponte strallato n. con luce 70 m.

 

 

 

Fig. 7.58 – Ponte Langer e Ponte strallato

 

La struttura morfologica del corso d’acqua e delle sue condizioni di deflusso sono anche da considerare per assegnare le luci o l’interasse tra le eventuali pile. Si deve infatti raccomandare che la parte maggiormente attiva dell’alveo debba essere possibilmente lasciata sgombra da pile, dovendosi preferire la disposizione che colloca le pile in golena o nelle zone dove l’altezza d’acqua in piena sia relativamente modesta (minore esposizione all’erosione), ma con l’avvertenza di non disporre le pile prossime al piede arginale per evitare che l’eventuale scavo indotto dalle pile abbia, interessando l’argine, a comprometterne la stabilità. Quasi superfluo, infine, richiamare l’opportunità che le pile in alveo siano circolari e rivestite nella parte bassa con una camicia d’acciaio. Nessun, o limitato, problema (che non sia, ovviamente, quello del franco) si pone quando il ponte venga a realizzato senza pile e con spalle fuori alveo, come raccomandabile per ponti con luce ≤ 40 m, valore, questo, che può oggi raggiungersi con la relativamente vasta produzione prefabbricata che offre il mercato; é anzi opportuno ricordare come sia oggi relativamente facile superare con un’unica campata luci > 100 m, adottando le strutture cosiddette a cassone.

Il franco (o tirante d’aria) sotto i ponti su corsi d’acqua navigabili dipende dalla classe dell’idrovia, ma pur sempre col primato del deflusso di piena rispetto ai possibili usi; la luce minima sotto i ponti è da assegnarsi, oltre che con riferimento alla classe della linea navigabile per la sua misura, anche in rapporto al valore della velocità: ossia per una portata limite cui corrisponda una velocità ≤ 1.5 m/s (dell’ordine della metà rispetto a quella dei natanti), valore oltre il quale la navigazione è da sospendersi.

Le attività o gli interventi che la costruzione di un ponte comporta in alveo e in prossimità delle arginature fluviali sono da considerare con particolare cura per evitare che da essi possano derivare danni alla struttura o che processi di moto che si instaurino nel corpo arginale e nel sottosuolo possano evolversi pericolosamente (impaludamenti, fontanazzi etc.).

Per argini importanti (ad es. quelli del Po) può tuttavia essere talvolta imposto di non interessare il corpo arginale, ma di effettuare il suo scavalco tenendo le due pile (quella a campagna e quella a fiume) a una distanza ≥ 10 m dall’unghia arginale.

In quest’ultimo caso, quando il tirante d’aria sotto il ponte, misurato sulla sommità dell’argine, non consenta il transito dei mezzi sull’argine stesso per la manutenzione e il servizio di piena, il passaggio può essere ottenuto utilizzando, con la creazione di una rampa di discesa e una di salita, la sottobanca o il piede dell’argine.

 

7.10.2 – Accumulo di detriti in corrispondenza dei ponti

 

II trasporto di materiali legnosi nei corsi d’acqua coinvolge un vasto numero di problemi, sia a carattere ambientale, legati agli habitat naturali che si creano per la presenza di tronchi nelle aree di deposito che naturalmente si producono nei fiumi, sia più strettamente tecnici, legati all’interazione del materiale con i manufatti presenti in alveo; depositi rilevanti di materiale galleggiante quali quelli che si rilevano in occasione di eventi di piena, possono infatti causare l’intasamento di sezioni ristrette del corso d’acqua, ad es. delle luci dei ponti, quando queste non posseggano dimensioni adeguate.

Le conseguenze sono il sopralzo dei tiranti liquidi e la possibile inondazione dei terreni circostanti, quando il cedimento di questi sbarramenti improvvisati, liberando di colpo la massa d’acqua e di detriti accumulatasi a monte, non risulti addirittura causa di onde impulsive ancora più distruttive. Inoltre l’accumulo di materiale a monte può anche contribuire al collasso dei ponti deviando la corrente verso le pile e le spalle, che vengono di conseguenza ad essere maggiormente soggette ad azioni erosive.

Nella letteratura anglosassone, i tronchi dove Ø >10 cm e lunghezza ≤ 2 m, prendono il nome di Large Woody Debris (LWD) mentre con l’acronimo (CWDCorse Woody Debris) si indicano solitamente i pezzi di dimensioni minori. Con il termine pezzi principali (key pieces) vengono designati i tronchi di dimensione predominante eventualmente con l’apparato radicale. Questi, per la possibilità di arrestarsi sulle sponde o al fondo dell’alveo, costituiscono la base per la formazione di accumuli di materiale lungo il fiume o in prossimità di manufatti.

Complessivamente il problema del materiale galleggiante riguarda la produzione, il trasporto e l’accumulo di materiale, e anche il dimensionamento delle strutture erette con il compito specifico di difesa, quali per esempio le briglie per la trattenuta dei detriti galleggianti.

L’immissione di legnami e detriti legnosi nei fiumi prende origine da processi sia sistematici o cronici che episodici; essi possono essere raggruppati secondo 3 scale temporali differenti: lungo termine (dell’ordine di 100÷200 anni); medio termine (dell’ordine di 10÷20 anni); breve termine (dell’ordine di giorni o meno).

La mortalità naturale degli alberi, coadiuvata dall’effetto del vento, provvede alla regolare produzione di materiale che, caratterizzata da una scansione temporale estesa, può essere definita a lungo termine. La frequenza con cui si vendicano immissioni di tipo cronico varia in funzione del tipo degli alberi e della vegetazione che si trova in prossimità del fiume. Fenomeni legati alla dinamica dei corsi d’acqua, sia di tipo naturale che artificiale, aventi quale effetto l’erosione di sponda, lo spostamento dell’alveo o l’una e l’altro, si verificano in scale temporali sicuramente più contenute e tali da essere indicate a medio termine.

L’affluenza ai fiumi e ai torrenti di grandi quantità di legname in breve tempo è invece conseguenza di processi a breve termine quali eventi eccezionali di piena, colate detritiche, frane ed anche incendi. Il materiale galleggiante trascinato dalle correnti riduce l’ampiezza delle luci del ponte, aumenta il rigurgito e la spinta sul manufatto; e contribuisce al processo erosivo localizzato.

In ogni caso è da stimare quale sia la lunghezza massima dei tronchi che possono interessare i manufatti, poiché ad essa sono legate le dimensioni degli accumuli attorno a una singola pila.

Si ricordano le altezze massime di alcune specie indigene: abete 40÷50 m; larice 35÷40 m; pino silvestre 50 m; faggio 30÷40 m; pioppo bianco 30÷40 m. Influenza notevole hanno anche il tirante liquido e la possibilità che le radici s’incastrino nelle pile o in depositi formatisi a monte delle pile stesse.

Le tecniche di valutazione del potenziale accumulo di detriti galleggianti si propongono di dare le indicazioni di massima intorno alle possibili dimensioni degli ammassi; con riferimento, naturalmente, alla particolare esposizione dell’opera e ai caratteri del corso d’acqua e del bacino. Lo studio si articola in 3 fasi principali che mirano a definire:

 

–       la produzione potenziale del materiale trasportato dal corso d’acqua a monte dell’opera di attraversamento;

–       la probabilità di formazione dell’accumulo legata alle dimensioni delle luci, ai tiranti, alla geometria e disposizione delle pile;

–       le dimensioni di massima dell’accumulo, in funzione della massima lunghezza

–       dei tronchi che possono interagire con il manufatto.

 

Negli USA spesso si suggerisce di adottare come riferimento per la massima lunghezza dei tronchi che possono essere trasportati, e quindi interagire con i manufatti, il valore B/(4+L), dove B è la larghezza del corso d’acqua a monte del sito in esame ed L è la lunghezza massima dei tronchi di diametro adeguato alle specie arboree indigene.

Per poter essere trasportato dalla corrente il tronco deve avere comunque lunghezza L < B/2. Nel caso d’interazione fra pile contigue, o quando in vicinanza della pila i tiranti siano localmente ridotti per fenomeni di sovralluvionamento, l’ostruzione può mostrare, in realtà, dimensioni ben più grandi. Quando l’interasse tra le pile sia limitato, il materiale può arrestarsi a ridosso di due pile contigue e l’accumulo estendersi fino a bloccare tutto il corso d’acqua. Il rigurgito che in queste condizioni di deflusso può prodursi è da considerare con attenzione nel rapporto col franco disponibile nel tratto rigurgitato; assieme, come s’è detto, al pericolo rappresentato dalla rimozione improvvisa dell’accumulo.

Per i ponti di nuova realizzazione sono quindi da adottarsi luci ≥ 40 m (limite comunemente adottato nella prefabbricazione delle travi), garantendo comunque fra il fondo alveo e la quota minima di sottotrave < 6÷7 m di distanza, e un franco di almeno 1.5÷2 m sulla quota di piena centenaria.

Si ricorda, infine, che la presenza di accumuli attorno alle pile può incrementare il processo di escavazione prodotto dalla presenza delle pile stesse.

 

7.10.3 – Cenni sulla evoluzione dei ponti

 

II rapporto che un ponte stabilisce col corso d’acqua attraversato presenta, dal punto di vista idraulico, alcuni aspetti da considerare con attenzione. I problemi che possono nascere da questo rapporto si concentrano oggi, per i ponti di nuova costruzione, essenzialmente sul franco da assegnare all’impalcato e sulla solidità delle fondazioni (spalle ed eventuali pile intermedie) da giudicare con riferimento alle possibili escavazioni che possano prodursi per opera delle correnti (non necessariamente di piena).

 

 

Fig. 7.59 – Prescrizioni per i ponti sul fiume Po.

 

Diverso e di maggiore impegno può invece essere il rapporto con le azioni idrauliche quando si tratti di un vecchio ponte: associando alla nozione di vecchio non solo gli antichi ponti, ma anche quelli che furono costruiti, o ricostruiti a partire dal dopoguerra, approssimativamente fino agli anni ’60-’70 del secolo scorso.

La sezione del tempo che si chiude in quegli anni è essenzialmente legata alla notevole evoluzione che s’è avviata da allora nella costruzione dei ponti: principalmente rivolta alla qualità dei materiali; alla definizione di tipi strutturali (impianti e luci); alla tecnica delle fondazioni.

S’è così passati dal normale calcestruzzo armato con acciaio tipo Aq 42, e tassi di lavoro rispettivamente di circa 4÷5 MPa e 140 MPa, a conglomerati da 8÷10 MPa associati ad acciai ad alto limite elastico (~440 MPa): con tensioni ammissibili di 8÷10 MPa e 250 MPa. Per giungere poi, con le strutture precompresse, a tassi di lavoro che s’avvicinano nei calcestruzzi ai 20 MPa (con resistenza ≥ 40 MPa) e tensioni di tiro dei cavi fino a 1100÷1200 MPa.

I tipi strutturali d’impalcato, nella produzione ordinaria, abbandonano gli impianti con travi (parallele) appoggiate o travi Gerber a più campate gettate in opera per le travi precompresse, ancora a semplice appoggio (e soletta gettata in opera): costruite in stabilimento fino a luci dell’ordine di 35 m; oppure prefabbricate in cantiere per luci maggiori (fino a 50÷60 m): strutture ancora isostatiche, per la scarsa popolarità delle travate continue nel timore di cedimenti differenziali degli appoggi.

I tipi strutturali utilizzano oggi, specie in funzione della luce, diversi schemi con varie modalità di associazione delle travate all’impalcato sia in rapporto ai materiali usati – soluzioni acciaio-calcestruzzo, per esempio – che all’adozione di elementi prefabbricati armati (predalle) per formare la casseratura per il getto della soletta, con una apprezzabile riduzione dei costi. La struttura, pur posta in opera per elementi, ritrova poi, con diversi e possibili collegamenti, per un ponte a più campate, lo stato di struttura continua.

La soggezione dei tipi strutturali del passato ai cedimenti dei terreni (specie nei territori di bonifica) può dunque ritenersi superata, la tecnica delle fondazioni offrendo, anche nei terreni peggiori, magisteri di elevato pregio. Attualmente spalle e pile si fondano infatti su pali di grande diametro (da 1200÷1800 mm) o elementi di diaframma, potendo raggiungere la profondità necessaria per ottenere la portanza richiesta con cedimenti contenuti.

Un aspetto notevole nell’evoluzione delle strutture esposte all’azione dell’acqua è segnato dalla richiesta di qualità riferita ai materiali da porre in opera: i conglomerati cementizi (aggregati e cementi), gli acciai, i copri-ferro, per ricordare i principali aspetti, potendo giungere, per le modalità usate nella scelta degli elementi e nella loro composizione, a progettare il calcestruzzo con programmate resistenze sia in senso meccanico che di durabilità.

La prospettiva che i criteri appena definiti nei loro lineamenti essenziali possano applicarsi in qualche modo ai vecchi ponti può porre, quando si debba provvedere al loro restauro o adattamento ai nuovi carichi o funzioni, alcuni non trascurabili problemi.

Il principale problema è, quasi di norma, quello delle fondazioni, potendosi temere per le grosse pile e i relativi plinti posti in alveo (mobile), e le luci contenute, escavazioni anche notevoli: approssimativamente il doppio della larghezza (esposta alla corrente) della pila ed, eventualmente, del plinto. Un ulteriore problema può essere rappresentato dal rigurgito che le pile ancora e le modeste luci possano produrre nelle correnti di piena. Questi problemi trovano soluzione, di regola, con opere di consolidamento delle fondazioni e, per il rigurgito, con il rialzo delle sommità arginali di un certo tratto a cavallo del ponte.

 

7.10. 4 – Rigurgito provocato da restringimenti da pile

 

L’inserimento delle pile e delle spalle di un ponte nell’alveo di un corso d’acqua può determinare, come già visto, qualche variazione più o meno significativa, nel suo assetto idrometrico; i rigurgiti che le parziali ostruzioni provocano sono da calcolare, caso per caso, con le formule esposte in precedenza e nel paragrafo a seguire. Si osserva, tuttavia, come nei ponti moderni, per l’ampiezza delle luci in rapporto alle dimensioni e per la forma delle pile, i rigurgiti, spesso di pochi centimetri, non diano luogo a problemi di sorta, a differenza di quanto può invece accadere per i ponti antichi.

 

7.10.4.1 – Restringimenti

 

La presenza di una singolarità geometrica in un corso d’acqua, quale il restringimento dovuto alle spalle e alle pile (se esistono) d’un ponte, provoca nell’assetto idrometrico della corrente alcune modifiche delle quali dovere tenere conto nella progettazione non solo del ponte, ma anche delle opere eventualmente necessario per re-conferire, ad es. al corso d’acqua, se arginato, il franco che il manufatto abbia in qualche misura ridotto.

I fenomeni che derivano dalle modifiche geometriche sono sinteticamente schematizzati nelle note seguenti, assumendo come moto base preesistente quello uniforme: facendo, anzi, riferimento, per fissare le idee, a un canale a sezione rettangolare largo b0 e con profondità y0.

Indicando con ic la pendenza critica e con H0 = y0+v02/2g l’energia specifica, il moto nello stato uniforme è: lento per i < ic; critico per i = ic;, ipercritico per i > ic, cui corrispondono, come visto, valori del numero di Froude (v0/√gy0) rispettivamente >1, = 1 e < 1)

Le espressioni della pendenza critica ic, nello stato ipotizzato, si definiscono eguagliando la velocità critica (vc = √gy0) a una delle espressioni del moto uniforme. Secondo Chézy e GauckIerStrickIer si ha rispettivamente:

 

 

con evidenti modifiche qualora possa assumersi y0 << b0. Un’ulteriore distinzione riguarda il valore dell’energia specifica H0 da confrontare con l’energia necessaria alla corrente per passare il restringimento. Quando intervenga un restringimento di sezione da una larghezza b0 a b1 i casi che possono presentarsi, per l’aumento della portata specifica q1 > q0, dipendono dalla natura della corrente se lenta o rapida (rispettivamente i < ic e i > ic) in ciascuno di questi casi, se sia H0 < = > Hl,min. I casi che possono presentarsi sono pertanto i seguenti:

 

 

I diversi casi possono trattarsi con relativa facilità utilizzando la relazione H(y) e la sua rappresentazione. Si trascurano le perdite d’imbocco.

Caso 1ai < ic , H0 > Hl,min ; (Fig. 7.60)

 

Lo stato di moto è uniforme sub-critico; l’energia a monte è sufficiente per superare il restringimento. Il punto A rappresenta la corrente indisturbata, mentre il punto C rappresenta la corrente nella sezione ristretta. Se non ci fossero dissipazioni di energia, la corrente nella sezione ristretta sarebbe rappresentata dal punto D, ma poiché la vena in espansione perde energia, la variazione dell’energia specifica ΔH deve prodursi prima del restringimento. Si instaura pertanto un profilo di rigurgito; lo stato idrometrico a monte del restringimento è rappresentato dal punto B. Questo caso (il passaggio avviene nell’ambito delle correnti lente) rappresenta forse quello che più frequentemente si verifica nella realtà.

Fig. 7.60 – Caso 1a.

Caso 1bi < ic , H0 < Hl,min ; (Fig. 7.61)

 

Il moto uniforme (lento) è rappresentato dal punto A. L’energia H0 è insufficiente per superare l’ostacolo: s’impone quindi uno spostamento verso destra lungo la curva a q0 = cost fino a raggiungere il valore di Hl,min con la creazione di un rigurgito (punto B). La corrente transita attraverso il restringimento in condizioni critiche (punto C1), dissipando l’energia δH nell’espansione e presentandosi all’uscita dell’ostacolo in stato di moto rapido (punto D) con un profilo ritardato fino a creare la profondità y1 (punto E) coniugata alla profondità y2 = y0 indisturbata di valle. Il passaggio da y1 y0 avviene con un risalto, nel quale viene dissipata l’energia ΔH che rappresenta la maggior parte dell’incremento d’energia specifica procuratasi a monte del restringimento

Fig. 7.61 – Caso 1b.

Nella Fig. 7.61 è rappresentata anche la spinta totale a meno di γwb0yc dove yc è l’altezza critica nella sezione larga b0:

Caso 2ai > ic , H0 > Hl,min ; (Fig. 7.62)

 

In questo caso il moto uniforme (rapido) è rappresentato dal punto A; l’energia a monte è sufficiente per superare l’ostacolo. Il pelo libero si alza in corrispondenza della sezione ristretta, mantenendo inalterata l’energia specifica (punto B). Si rileva una perdita d’energia nell’espansione (punto D) a valle dell’ostacolo, che viene subito recuperata attraverso un profilo accelerato tendente al moto uniforme (punto A)

Fig. 7.62 – Caso 2a.

Caso 2bi > ic , H0 < Hl,min ; (Fig. 7.63)

 

La corrente è supercritica (punto A) e l’energia a monte è insufficiente per superare l’ostacolo. Per procurarsi l’energia necessaria la corrente deve diventare lenta: il passaggio non può che avvenire a monte dell’ostacolo con la formazione di un risalto AB. Dal punto B al punto D la corrente (lenta) acquista energia, passa il restringimento in critica C1), continua ad abbassarsi perdendo un po’ d’energia δH per l’espansione (C1E) e ritorna infine alle condizioni di moto uniforme con un profilo rapido decelerato.

Fig. 7.63 – Caso 2b.

Risulta opportuno richiamare l’attenzione su alcuni aspetti significativi. Il caso delle correnti rapide, tipico dei torrenti, non presenta in generale, fatta salva la necessità d’assicurare un adeguato tirante tra il fondo dell’alveo e la sottotrave, problemi di sorta: infatti l’eventuale rigurgito si estende a monte per brevi tratti a causa dell’elevata pendenza. Invece il passaggio da una corrente lenta a una rapida dovuto a un forte restringimento è da riguardarsi con qualche cura per gli aspetti cosiddetti secondari legati allo stato ipercritico. I quali possono comportare la necessità di proteggere l’alveo contro possibili erosioni e scalzamenti, specie quando non sia possibile aumentare la luce delle campate per limitarne il restringimento, com’è generalmente oggi consentito potendosi utilizzare travi prefabbricate per luci ≤ 40 m.

 

7.10.4.2 – Calcolo del sovralzo

 

Per il calcolo del sovralzo a monte del restringimento è opportuno classificare i modi di defluire esaminati in precedenza in 3 classi:

 

–       classe A: il moto è lento e rimane lento, caso 1a);

–       classe B: il moto avviene con transizione da lento a rapido o viceversa: in essa sono compresi i casi 1b) e 2b);

–       classe C: il moto è rapido e rimane rapido, caso 2a).

 

La distinzione fra le 3 classi appare chiara nel diagramma di Fig. 7.64, nella quale il valore limite del numero di Froude (F = v0/√gy0) al variare del rapporto di restringimento r = b1/b0, è stato ottenuto imponendo che l’energia specifica H0 della corrente indisturbata attraverso una sezione rettangolare di larghezza bo eguagli l’energia specifica necessaria alla medesima portata per attraversare in condizioni critiche il restringimento stesso di larghezza b1:

Si ottiene in tal modo l’equazione della curva della Fig. 7.64:

 

 

 

Fig. 7.64 – Classificazione dei modi di deflusso attraverso un restringimento in un canale rettangolare.

Nel caso in cui il deflusso sia di tipo A, il problema può essere risolto (Fig. 7.65) imponendo l’eguaglianza dell’energia tra la sezione 0 e la sezione 1; e della spinta totale fra le sezioni 1 e 2

 

H0 = H1          e         S1 = S2

 

dove yb è la profondità del baricentro e la spinta totale.

 

S = γwybA + ρwQv

L’impostazione risulta però inadeguata per rapporti di contrazione r ≤ 0.5, decadendo l’ipotesi di uniforme distribuzione della velocità nella zona fra le pile. Una descrizione più appropriata può ottenersi dall’applicazione del teorema della quantità di moto tra le sezioni 0 e 2.

 

 

dove Rp è la resistenza, offerta dalla pila esposta, una funzione della forma, del numero di Reynolds e dell’area A investita dalla corrente. Valori orientativi di CD nel campo turbolento sono: 0.4÷0.5 per pile cilindriche fino a circa 2 per pile a pianta rettangolare.

Fig. 7.65 – Deflusso attraverso le pile di un ponte senza transizione (classe A).

Numerose formule, d’origine sperimentale, sono state proposte per determinare il sovralzo Δy rispetto all’altezza propria del moto indisturbato. Fra queste si espongono per i moti della classe A (Fig. 7.65) le seguenti formule d’uso più comune.

 

Formula di Yarnell

 

dove (1r) = (b0b1)/b0 il grado di restringimento e Ky un coefficiente di forma con le determinazioni indicate nella Fig. 7.66.

 

 

Fig. 7.66 – Coefficienti di forma delle pile dei ponti.

 

Nell’ipotesi che la corrente investa l’asse della pila con un angolo a diverso da 0, è da assumersi cautelativamente quale ingombro della pila la proiezione della stessa ortogonalmente alla corrente. I valori di Δy calcolati con la relazione devono essere moltiplicati per il coefficiente 1.3 per α = 10° e 2.3 per α = 20°.

 

Formula di Rehbock

 

dove KR è un coefficiente di forma = 1 per pile e rostri arrotondati e = 2 per pile a spigoli vivi.

Formula di Nagler

 

dove θ é un coefficiente legato alla turbolenza, di norma assunto pari a 0.3, Cr un coefficiente funzione del rapporto di r = b1/b0 (Fig. 7.67), KN coefficiente di forma della pila funzione di r, dell’angolo α formato dalla corrente con l’asse della pila e della forma della pila (Tab. 7.2).

 

Fig. 7.67 – Valori del coefficiente Cr da adottare nella formula di Nagler.

 

Formula di d’Aubuisson

 

dove KA è un coefficiente dipendente, principalmente, dal rapporto di contrazione r e dalla forma e orientamento dell’ostacolo. Anche questi valori sono riportati nella Tab. 7.2.

Il calcolo del rigurgito si esegue mediante l’applicazione sistematica delle equazioni di validità generale applicabili alle 3 classi di deflusso considerate (Fig. 7.64). Assunti i simboli:

 

– A0A2 sezione liquida rispettivamente poco a monte e poco a valle della sezione;

– A1 sezione liquida netta nella sezione ristretta;

– FAFB forze totali esercitate dalla pila sul fluido in corrispondenza alle sezioni A e B;

– yb0yb1yb2 profondità del baricentro dell’area nelle sezioni 01 e 2;

– Q portata defluente;

 

le equazioni generali sono:

 

Tab. 7.2 – Valori di KN di Nagler e di KA di d’Aubuisson da usarsi nelle formule e per pile parallele alla corrente.

 

Fig. 7.68 – Schema di deflusso attraverso le pile di un ponte.

 

Nel caso in cui il deflusso attraverso il ponte sia di classe B, il moto avviene con transizione, passando nella sezione ristretta in condizioni critiche. Le condizioni idrometriche di monte sono ricavabili istituendo il bilancio energetico tra la sezione 0 a monte e la sezione ristretta 1, ove si realizza l’altezza critica. La profondità y0 a monte della sezione contratta nel sottocaso 1b) si può calcolare con la relazione:

 

dove b0 è la larghezza dell’alveo a monte del restringimento, Flim il valore del numero di Froude calcolato (eventualmente dedotto dal diagramma di Fig. 7.64 in funzione del rapporto di contrazione r), K un coefficiente dipendente dalla forma dell’ostruzione ossia:

 

– per pile con fronti squadrate                                       1.135

– per pile con fronti triangolari                                       1.085

– per pile con fronti semicircolari                                   1.050

– per contrazione laterale ben accompagnata          1.030÷1.020

 

Se il deflusso attraverso il ponte è di classe C, il massimo dell’elevazione si rileva in corrispondenza della sezione contratta 1 ed è inferiore (o al massimo uguale) all’altezza critica.

 

7.10.4.3 – Considerazioni conclusive

 

Nel concludere le presenti considerazioni inerenti i rapporti tra corsi d’acqua e ponti si rivela opportuno rimarcare un importante aspetto della progettazione, ossia evitare che la collocazione (sezione) del ponte e il suo disegno (dimensioni delle pile) siano tali da imporre alla corrente il passaggio attraverso lo stato di transizione.

Molti ponti sono stati costruiti nel passato nelle strettoie naturali dei corsi d’acqua riducendo la luce libera anche per la presenza di massicce spalle e pile. Il passaggio che talvolta si ha a monte del ponte da corrente veloce a lenta può dare luogo a quote non sempre tollerabili senza danni. Nel tratto di corrente lenta si ottiene inoltre, durante la piena, l’inconveniente di un deposito di materiale solido in grado di produrre sovralzi (temporanei) del fondo.

Nei corsi d’acqua con i > ic (correnti rapide, ossia il caso di torrenti), quando il restringimento creato dalle opere in alveo dà luogo a monte ad una corrente lenta, il rigurgito che ne deriva s’esaurisce, di norma, entro un breve tratto a motivo dell’elevata pendenza, sebbene possa creare nell’intorno del ponte problemi analoghi ai precedenti: da un lato, per contenere entro l’alveo le maggiori quote idrometriche e da un altro per il possibile deposito (temporaneo) di materiale solido prodotto dalla riduzione della velocità: il regime lento in luogo di quello (naturale) rapido.

 

7.10.5 – Erosioni localizzate nell’intorno delle pile dei ponti

 

7.10.5.1 – Calcolo dello scavo

 

Nell’intorno di un ostacolo posto in alveo (una o più pile), rapide variazioni d’intensità e di distribuzione delle velocità di una corrente possono provocare erosioni localizzate, specie quando l’alveo é composto da materiale incoerente.

Tra gli effetti indotti dai vari tipi di ostacolo (restringimenti, salti di fondo, occupazioni d’alveo etc.), sono stati accuratamente studiati quelli dovuti alle pile da ponte, per l’evidente importanza del rapporto coi problemi della loro stabilità. La normativa, infatti, raccomanda, una particolare attenzione nella determinazione delle effettive condizioni di vincolo delle pile del ponte, in particolare per quel che riguarda le fondamenta.

La presenza di una pila in alveo causa un aumento della velocità nel suo intorno, resa manifesta nella rappresentazione del campo di moto dall’addensamento delle linee di corrente; contestualmente, si ha la formazione di un grosso vortice, detto a ferro di cavallo, che interessa planimetricamente tutta l’area circostante la pila fino alla linea di separazione del vortice: il quale è il principale responsabile dell’erosione (Fig. 7.69). Assunta come riferimento una pila di forma generica, la profondità dello scavo ds può essere descritta come funzione delle seguenti variabili:

 

 

dove ds è la profondità dello scavo misurata a partire dal fondo del terreno indisturbato, s la larghezza della pila di lunghezza lv0 la velocità media della corrente indisturbata, vcr velocità critica di trascinamento, intesa quale velocità media della corrente alla quale inizia il movimento del materiale del fondo d’assegnato diametro dd la dimensione del materiale, α l’angolo che la corrente indisturbata forma con la pila e y0 la profondità della corrente indisturbata.

Per il calcolo dello scavo viene di norma utilizzata la seguente relazione:

 

 

nella quale le funzioni f1f2 e f3 hanno le seguenti determinazioni:

 

 

II campo della velocità in prossimità della pila, con i suoi valori superiori a quello v0 proprio della corrente indisturbata, condiziona l’eventuale processo di scavo. La condizione che debba essere la velocità media v0 ≤ 0.5 vcr perché sia, con f1 = 0ds = 0, introduce una giusta e prudente cautela: cioè un grado di sicurezza (minimo) = 2 rispetto alla velocità critica vcr.

Per i miscugli si adotta normalmente, come riferimento granulometrico, d = d50. La velocità critica vcr è:

dove γs è il peso specifico del materiale di fondo, γw quello dell’acqua e [d]= m. Assunti i normali valori 26.000 N/m3 e γw = 9.81 N/m3, la relazione generale  assume la più semplice e nota forma:

 

 

La trattazione precedente ha esaminato il caso di una pila (o plinto) singola posta nell’alveo di un corso d’acqua. La medesima può estendersi anche alle altre eventuali pile dello stesso manufatto, a patto, però, che esse siano distanti da quella considerata a sufficienza perché non vi sia interazione fra loro.

 

Fig. 7.69 – Erosione provocata da una pila da ponte.

 

L’interferenza, invece, può verificarsi con maggiore frequenza di quanto si pensi. Due semplici esempi: il caso di un’autostrada realizzata con due ponti, uno per ogni corsia; il caso di un ponte stradale e di uno ferroviario assai prossimi se non accostati; e ancora il caso del rifacimento di un ponte in prossimità di quello esistente.

Alcune esperienze sono state eseguite per indagare sui fenomeni di scavo nel caso di due pile allineate: (angolo d’attacco α = ) facendo variare l’interasse a o, meglio, il rapporto di α col diametro s e l’angolo d’attacco.

Le prime esperienze riguardano lo scavo intorno a due pile allineate con angolo d’attacco α =  al variare di a/s. I risultati sono esposti nella Fig. 7.70a: essi mostrano quale sia lo scavo in rapporto a quello che si avrebbe per la singola pila. Appare evidente come esso s’incrementi per la pila anteriore fino a 1.35volte, in corrispondenza del rapporto a/s ≈ 2.5÷3 ; con minori problemi per la pila di valle. La Fig. 7.70b mostra i risultati ottenuti ancora con due pile, per differenti rapporti a/s, ma con angoli d’attacco delle correnti α = 45° e α = 90°, con un notevole incremento dello scavo nel campo a/s =1÷1.5, che si riduce invece apprezzabilmente per a/s > 2 .

La Fig. 7.70c mostra, infine, l’effetto dell’angolo d’attacco sulla profondità dello scavo per due pile con interasse a = 5s: per α = 45° si rilevano i valori massimi del rapporto tra gli scavi reali e quello di riferimento.

I risultati esposti, che illustrano casi relativamente semplici, portano a dover considerare con attenzione i casi a maggiore complessità che possono presentarsi nella pratica progettuale: alcuni dei quali tali da richiedere, appunto per la loro complessità, un esame su modello fisico in scala ridotta.

Fig. 7.70 – Scavo attorno a 2 pile cilindriche allineate.

Un ulteriore importante aspetto da considerare riguarda lo scavo ds che può derivare da un ammasso di detriti (generalmente tronchi d’albero e ramaglie), bloccato da una pila. Schematizzato l’accumulo con una sezione rettangolare di lati T e B, lo scavo ds può determinarsi facendo riferimento a una pila fittizia o equivalente di diametro De, in funzione del rapporto d’ingombro T/B. La Fig. 7.71 riproduce i risultati d’una serie d’esperienze: ds/De dato in funzione di y/De. Una curva (di progetto) inviluppa i rilievi sperimentali; essa riproduce approssimativamente l’andamento definito dal rapporto T/B = 0.17. E’ possibile osservare come, per y/De ≥ 2.7y/De assuma un valore circa costante: y/De ≈ 2.4. In questa condizione, noto y, è De = y/2.7 e ds = 2.4/2.7 ≈ 0.9y.

Fig. 7.71 – Effetto dell’accumulo di detriti sullo scavo al piede di una pila.

7.10.5.2 – Criteri di progettazione. Consolidamenti

 

In fase di progettazione, quando si voglia contenere lo scavo nel limite imposto dalle dimensioni della pila, è necessario porre il bordo superiore del plinto di fondazione a una profondità maggiore di ds rispetto al fondo alveo: per evitare che esso venga raggiunto dallo scavo. Infatti nel caso che esso venisse scoperto per una eventuale erosione, le sue maggiori dimensioni e le forme più tozze approfondirebbero ulteriormente lo scavo: il calcolo di ds dovrebbe quindi essere ripetuto considerando nella relazione ultima le dimensioni del plinto, invece di quelle della pila.

Le fondamenta della struttura vanno pertanto progettate per poter sopportare e trasmettere i carichi a partire dal fondo del massimo scavo previsto: così, nel caso di fondazioni su pali, il tratto compreso tra la loro testa e la quota prevedibile di scavo va considerato scoperto, non concorrendo alla stabilità.

Molti vecchi ponti hanno l’imposta delle fondamenta non abbastanza profonde per evitare lo scalzamento; la circostanza è dovuta alle difficoltà del passato di realizzare fondamenta profonde. Per questi ponti la migliore soluzione è quella di prevedere la loro sottofondazione fino alla profondità necessaria per assicurarne la stabilità. Le moderne tecniche di realizzazione di diaframmi, micropali e jet-injection offrono ampie possibilità di soluzione per i vari casi. La Fig. 7.72 mostra un esempio di sottofondazione di un ponte esistente.

Fig. 7.72 – Esempio di sottofondazione di ponte esistente.

In alternativa alla sottofondazione si può ricorrere alla realizzazione di una platea di fondo estesa a tutta la sezione; essa è in genere disposta alla quota di estradosso dei plinti. La platea è limitata a monte e a valle da taglioni adeguatamente approfonditi; a valle del secondo è opportuno disporre per una certa estensione massi di pezzatura appropriata per limitare lo scavo nel primo tratto.

Quando il pericolo di scalzamento delle fondamenta possa derivare da un temuto fenomeno di abbassamento dell’alveo, un provvedimento alternativo alla sottofondazione è quello di realizzare poco a valle del ponte una soglia che riporti a monte la quota di talweg alle condizioni pre-abbassamento. Essa deve presentare a valle, se necessario, un dispositivo per la dissipazione dell’energia. Le sue fondamenta devono comunque essere profonde a sufficienza per tener conto della eventuale progressione dell’abbassamento dell’alveo e dello scavo che possa prodursi al piede della traversa.

La realizzazione della soglia e in molti casi più economica della sottofondazione. Si osserva, tuttavia, come il provvedimento di sottofondazione sia preferibile: per le garanzie che offre, per la durata e per la mancanza di manutenzione. Quale provvedimento provvisionale per prevenire e ridurre l’erosione al piede della pila si può eseguire intorno a essa una gettata di massi disposti su un filtro rovescio, oppure, più efficacemente e in sostituzione del filtro, ponendo in opera un idoneo geotessuto sul quale disporre massi di idonea pezzatura per non essere rimossi dalla corrente.

Il provvedimento descritto, detto protezione flessibile, dà buoni risultati, purché i massi esterni siano in qualche modo collegati tra loro (per esempio, con una fune d’acciaio (Fig. 7.73) per non essere rimossi dalla corrente.

La protezione della pila può farsi disponendo attorno a essa materiale di pezzatura tale da non dare luogo allo scavo. Se ciò si verifica, la funzione f1 assume valore nullo, ossia per v0/vcr < 0.5; la condizione comporta che sia:

 

dove v0 è la velocità media nella condizione di portata massima.

Fig. 7.73 – Protezione di una pila esistente con gettate di massi.

La collocazione in opera del materiale (comunque sotto il piano delle ghiaie) è da farsi con 3 strati sovrapposti a un geotessuto disposto sul materiale di base, circondando la pila per una larghezza di circa due volte la sua dimensione planimetrica 5 (Fig. 7.73), se il lato s è normale alla corrente; diversamente la dimensione di riferimento è quella della proiezione della pila in senso normale al moto.

Operando in presenza d’acqua, in luogo del telo in geotessuto, possono dispersi sul fondo sacchi di geotessuto riempiti di sabbia con massa ~ 50 kg con bordi sovrapposti per assicurare la copertura continua. Il geotessuto deve essere di massa ≥ 500 g/m2.

La pratica suggerita da alcuni studiosi di infiggere una serie di piccoli pali a monte della pila per localizzare parte dell’erosione in corrispondenza di questi può essere usata solo in canali senza trasporto di materiali galleggianti (siepi, alberi); infatti se un albero venisse a impigliarsi nei pali, l’erosione potrebbe essere rilevante e superare anche quella causata dalla presenza della pila: mostrando, dunque, come i casi reali possano creare condizioni ben diverse da quelle attese.

Di norma, in passato, il fondo dell’alveo intorno alle pile era protetto da una gettata di massi lapidei posti a difesa della loro fondazione. Con la manutenzione si provvedeva poi a ricaricare ancora con massi la zona appena fosse stata osservata, specie dopo un significativo evento di piena, qualche modifica nella disposizione protettiva. Poteva infatti accadere, come può naturalmente ancora verificarsi, che una parte dei massi potesse essere rimossa per asportazione e che una parte dei massi rimasti in posto potesse invece essere inghiottita finendo nello scavo che si produceva sul fondo non più protetto. Ma poteva accadere anche che, in aggiunta ai massi finiti nello scavo, altri massi rimossi e trascinati dalla corrente provenissero da monte e s’assestassero nello scavo, provvedendo in qualche modo a colmarlo almeno parzialmente. La ricarica ripristinava, dunque, in un modo o nell’altro, lo stato iniziale protetto.

A tale modo di provvedere alla manutenzione si deve la conservazione di molti ponti del passato, le fondamenta dei quali sarebbero (e sono) da ritenere per lo più insufficienti, come si può dimostrare col calcolo dello scalzamento atteso in base alle caratteristiche geometriche delle pile e dell’ingombro fluviale cui esse, con le loro fondazioni, danno luogo.

In passato si usava anche rivestire la pila con bolognini di pietra da taglio annegati nel getto: pratica (purtroppo) abbandonata per l’eccessivo costo; il rivestimento veniva predisposto al momento del getto, in modo da immorsare il pietrame nel conglomerato. Ai bolognini sono da preferire sassi, eventualmente con faccia lavorata e possibilmente con spigoli vivi; i bolognini, infatti, si staccano più facilmente per il loro minor legame col conglomerato. I sassi o i bolognini vanno accuratamente lavati con getto d’acqua ad alta pressione per togliere la patina superficiale che potrebbe dare luogo a superficie di discontinuità col conglomerato di posa.

I rivestimenti applicati ai calcestruzzi già induriti hanno, se sollecitati, vita breve: è sufficiente che un urto o la pressione esercitata dall’acqua o l’azione del gelo stacchi un blocco per porre in precarie condizioni i blocchi vicini.

I pali di fondazione per il tratto scoperto dello scavo vanno protetti con un tubo d’acciaio con spessore 10÷12 mm o inferiore se, come raccomandabile, si usi acciaio inox. Il plinto va protetto almeno sui bordi con profilati d’acciaio: viene talvolta impiegato (in aggiunta) calcestruzzo fibrorinforzato.

 

7.10.5.3 – Scavo in corrispondenza delle spalle

 

Il tema degli scavi cui le opere in alveo possono dare luogo è da completare trattando anche degli scavi che le spalle di un ponte possono produrre. Infatti, qualora queste creino una riduzione della sezione di deflusso, ciascuna spalla, protesa in alveo, induce la formazione di vortici che danno luogo al suo piede a un nuovo scavo: in stretta analogia con quanto avviene al piede di una pila da ponte (Fig. 7.74). La spalla di un ponte che interessi l’alveo si comporta, a tutti gli effetti, come un pennello, ossia un’opera sporgente, di varia forma o misura, investita dalla corrente:

 

 

Fig. 7.74 – Scavo prodotto da una spalla in alveo.

 

7.10.5.4 – Spinta esercitata dalla corrente sulla pila

 

II valore del sovralzo che una pila produce può determinare una non trascurabile spinta. Essa va quindi calcolata e concorre, assieme agli altri carichi agenti, al suo dimensionamento, a quello del plinto e degli eventuali pali di fondazione.

Detta R la spinta esercitata dalla corrente sulla pila (eguale in modulo alla sua reazione) e note le condizioni idrodinamiche subito a monte e a valle della sezione d’attraversamento, al suo calcolo si provvede con l’applicazione del teorema della quantità di moto al volume delimitato dalle predette sezioni:

R = Sm – Sv

essendo la spinta totale

S = γwAyb + γwQ2/(gA)

 

da calcolarsi per la sezione di monte e quella di valle. La spinta S può ritenersi il risultante di un’azione distribuita in modo uniforme lungo la pila. La spinta sulla pila trasmette alla fondazione un momento il cui valore dipende dalle sue condizioni di vincolo nel rapporto, oltre che con le fondazioni, con l’impalcato.

 

7.10.6 – Protezione della zona dei ponti

 

Un ponte esistente o una strada che si svolga, per un tratto più o meno esteso. in prossimità di un corso d’acqua, possono essere esposti, per modifiche della morfologia fluviale o per interventi che siano stati realizzati a monte (con scarsa cura per la valle), ad azioni delle correnti di piena o di morbida che, se intense o di certa natura, possono comprometterne la stabilità. Ma anche un nuovo manufatto. ponte o strada, costretto per rigide ragioni di tracciato a trattenere un rapporto non ideale con un corso d’acqua, può essere esposto ad azioni d’eguale natura.

In queste condizioni, la difesa dei manufatti può essere assicurata, in qualche caso, conferendo a essi appropriate caratteristiche strutturali, quali dimensioni, protezioni e fondazioni adeguate; in qualche altro caso, intervenendo sul corso d’acqua con una sistemazione che riproponga un corretto rapporto tra le opere e il corso stesso.

Gli interventi di sistemazione in questo secondo caso consistono essenzialmente nel conferire al deflusso delle correnti di piena e di morbida andamenti regolari nel rapporto col ponte o con il corpo stradale: con interventi relativamente limitati se asserviti solo a un ponte e al suo contenuto intorno; più estesi se applicati a un tratto stradale.

I manufatti che assicurano, specie nel secondo caso, la difesa d’una zona o di un tratto fluviale sono le opere longitudinali (rivestimenti, muri etc.) oppure quelle trasversali o pennelli; o una loro combinazione, dettata dal rapporto che nasce tra l’opera stradale da proteggere e la struttura morfologica del corso d’acqua nel tratto.

 

7.10.6.1 Rivestimenti e pennelli

 

II rapporto tra un ponte, con le sue eventuali strutture in alveo, e il corso d’acqua può comportare che, in aggiunta ai già trattati problemi di scavo e di rigurgito, sia anche da indagare circa il comportamento delle strutture di contenimento interessate dai deflussi normali, di morbida e di piena. Gli interventi d’impegno relativamente contenuto sono per lo più limitati alle opere di protezione delle sponde o delle arginature quando l’inserimento del ponte non introduce irregolarità nel deflusso. Alla difesa si provvede, in questo caso, rivestendo sponde o l’argine a fiume con appropriate disposizioni per forme e materiali.

Interventi fluviali di maggiore impegno possono invece rendersi necessari quando il ponte, per la sua collocazione nel rapporto con il campo di moto, sia esposto all’azione della corrente in modo non appropriato; oppure, al contrario, sia il ponte stesso, con le sue strutture in alveo, a determinare una variazione dell’assetto idraulico in grado di risultare pericoloso per il tratto a valle. Il problema, in questi casi, diventa quello di allontanare il filone attivo della corrente dalle zone esposte alla sua azione: proteggendo, principalmente, le opere in alveo e le sponde.

Un’accorta distribuzione di pennelli può rappresentare la soluzione corretta: con ben maggiore impegno costruttivo rispetto alle opere longitudinali di difesa, da un lato; e maggiore cura nei problemi idraulici, da un altro.

Il primo intervento da considerare, comune alle 2 situazioni appena indicate, è la protezione delle spalle del ponte: con particolare cura nel caso che esse siano inserite in argini di froldo, ma ancora con attenzione se la spalla interessi una golena. Infatti la costruzione di un ponte comporta la scomparsa della vegetazione al di sotto dell’impalcato. Il terreno nudo e indifeso è così esposto all’azione della corrente: con qualche problema quindi per le spalle e la loro fondazione; problema tanto più fondato in quanto la costruzione del ponte, e delle sue spalle in particolare, comporta una significativa alterazione nell’assetto resistente del terreno, esponendolo a sicura erosione già a velocità dell’ordine di 0.50 m/s.

La protezione delle spalle è di norma realizzata col rivestimento della sponda e di parte dell’alveo: spesso costituito da una gettata di massi di adeguata pezzatura. Il rivestimento deve essere posto in opera con alcune precauzioni, creando, ad es., un filtro rovescio o impiegando i geotessuti per evitare lo sprofondamento dei massi, specie quando siano pesanti.

 

7.10.7 – Modalità costruttive

 

La costruzione di pile in alveo comporta che i lavori siano organizzati con grande cura per la definizione dei tempi richiesti dalle operazioni. Non è sempre possibile, infatti, operare come nel caso di Fig. 7.75 che mostra 2 esempi di fondamenta di pile di ponte ferroviario eseguiti in un alveo fluviale con la tecnica dei pozzi, in questo caso realizzati con jet-injection all’asciutto.

Fig. 7.75 – Fondamenta per pile di ponte ferroviario realizzate con la tecnica dei pozzi.

La costruzione di pile in alveo (così come delle spalle se interessano la sezione bagnata) richiede una attenta scelta della stagione dell’anno in cui la pila viene realizzata. La scelta è da effettuarsi esaminando le curve cronologiche delle portate del corso d’acqua per almeno 10÷20 anni per definire, per ogni mese dell’anno la frequenza probabile del superamento di eventi di entità prefissata. Il riferimento è da rivolgere a portate con relativamente limitato periodo di ritorno, per esempio 5÷10 anni, valutando la probabilità di accadimento di un evento superiore a quello prescelto durante il tempo di costruzione dell’opera. L’analisi svolta sulle portate deve essere poi tradotta in termini di altezze idrometriche nelle sezioni interessate dall’opera.

L’indagine consente di stabilire l’ordine decrescente dei mesi più favorevoli per operare in alveo e di riservare ai mesi con minore portate la costruzione delle opere che vengono collocate nelle zone d’alveo maggiormente interessate dai deflussi che non possano essere contenuti nel canale di magra del corso d’acqua, proprio o artificialmente creato. Il rilevato ed, eventualmente, anche la sponda ad esso opposta vanno adeguatamente protetti dai fenomeni erosivi che possono essere innescati dal restringimento planimetrico d’alveo e dal manufatto provvisionale che si protende in alveo.

 

Fig. 7.76 – Fasi d’esecuzione di una pila in alveo in presenza d’acqua.

Trattando delle fondamenta, si deve distinguere il caso in cui il plinto sia realizzato sul fondo dell’alveo o al di sotto di esso da quello nel quale esso sia posto all’incirca alla quota del pelo d’acqua di magra. La prima soluzione è quella da preferire, tuttavia diventa tecnicamente difficile da realizzare quando la portata di magra dia luogo a tiranti dell’ordine dei 10 m, come si verifica nei fiumi in prossimità della foce, ma ricordando come nei fiumi importanti tali tiranti possano aversi anche a distanza di decine di km dalla foce.

La Fig. 7.76 illustra le modalità di realizzazione di una pila in alveo in presenza d’acqua.

Un esempio di ponte realizzato con i plinti sopra il livello di magra è il ponte sul Po costruito alla fine degli anni ’90 sul ramo del delta Po di Venezia, tra Cà Tiepolo e Cà Venier: con pile costruite da pontone, in presenza d’acqua, con soggezione, oltre che alle piene per quote superiori a quella di lavoro per il getto del plinto, alla velocità della corrente che può impedire il movimento dei mezzi in acqua per il trasporto dei materiali.

Fig. 7.77 – Ponte stradale e ferroviario sul T.Impero ad Imperia.

La costruzione di un plinto sul fondo alveo richiede la creazione di una tura (cofferdam) che delimiti la zona di operazioni e che consenta la messa all’asciutto al suo interno. La tura è in genere costruita con palancole tipo Larssen, come mostra l’esempio illustrato nella Fig. 7.76; oppure con jet-injection.

Fig. 7.78 – Fasi di realizzazione di una pila (A).

Oltre alla costruzione della tura si può provvedere, per alvei larghi e occupati, in magra, solo parzialmente dalla corrente, allo spostamento del filone della corrente in una zona lontano dalla tura. L’accesso alla tura può avvenire o da un rilevato o da pontone.

Un esempio di tale tecnica è quello utilizzato per la realizzazione del ponte stradale e ferroviario sul torrente Impero a Imperia, il cui prospetto è riportato in Fig. 7.77. L’attraversamento è realizzato con due pile in alveo e prevede un impalcato stradale, cui è sovrapposto l’impalcato per la linea ferroviaria.

Fig. 7.79 – Fasi di realizzazione di una pila (B).

Nelle Fig. 7.78 e 7.79 sono illustrate le fasi di realizzazione del rilevato di una pila mentre le Fig. 7.80 e Fig. 7.81 rappresentano rispettivamente le fasi di realizzazione della spalla e dei due impalcati del ponte.

La tura, e l’eventuale rilevato, viene a costituire una strozzatura dell’alveo i cui effetti sono da valutarsi dal punto di vista idraulico. A monte della strozzatura si ha un incremento della quota per rigurgito. In corrispondenza della strozzatura si ha un aumento della velocità che richiede una protezione della testa del rilevato.

Fig. 7.80 – Fasi di realizzazione di una spalla.

La presenza della tura va considerata per diversi valori della portata per valutare gli effetti di rigurgito, gli incrementi localizzati di velocità, ma anche l’eventualità che possano modificarsi le condizioni di moto: passaggio da corrente lenta a veloce o da veloce a lenta.

Il passaggio della corrente attraverso condizioni di moto diverse è una circostanza da esaminare con molta attenzione per gli effetti che può produrre: il passaggio da corrente veloce a lenta comporta infatti un apprezzabile rigurgito a monte, con livelli superiori a quelli che si avrebbero in assenza delle opere provvisionali (caso 1b); il contrario (caso 2b) comporta a valle la formazione di un risalto; gli incrementi di velocità e di tensione tangenziale possono dar luogo ad erosioni e scavi di qualche rilievo.

Fig. 7.81 – Fasi di realizzazione degli impalcati.

 

7.11 – Un progetto complesso

 

 

Il progetto di realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina, date la complessità, le inedite dimensioni e le implicazioni dell’opera, trova l’espressione di capacità tecniche e gestionali del più alto livello al punto da risultare, oltre che altamente interessanti in termini di sicurezza tecnologica anche accettabili dal punto di vista programmatico, d’impatto sul territorio e sull’ambiente oltre che di redditività complessiva per tutti i soggetti coinvolti.

L’ingegneria della costruzione e del montaggio prevede infatti un programma sviluppato nel minimo dettaglio inteso ad indicare e progettare tutte le attrezzature e le predisposizioni necessarie ottimizzando i processi produttivi e verificando ogni fase dal punto di vista della sicurezza, dell’integrità strutturale, della compatibilità e delle interfacce verso tutte le attività simultanee e correlate. Nel contempo è previsto un allestimento dei cantieri con criteri che, nel rispetto dei requisiti e delle necessità della costruzione (in termini di superfici, di accessi dal mare e dalla rete stradale, di configurazione e versatilità), considerino e minimizzino l’impatto di tale presenza sul sistema urbano, territoriale e ambientale.

Dal punto di vista tecnologico la realizzazione coinvolge settori vari e differenziati: in particolare, per l’opera d’attraversamento, si distinguono le 2 categorie fondamentali di opere: le sottostrutture e le sovrastrutture.

S’includono nelle prime tutte le opere di fondazione e di consolidamento del terreno e i blocchi d’ancoraggio e, pertanto, attività di tipo eminentemente civile, sviluppate massimamente in situ.

S’includono nelle seconde le torri, le strutture terminali, il sistema di sospensione, gli impalcati e i componenti principali, legate principalmente al settore delle costruzioni metalliche e meccaniche e con un fortissimo livello di prefabbricazione.

Questa distinzione offre un’elevata possibilità di sinergia e di sovrapposizione di attività simultanee, riducendo i tempi complessivi e allontanando dal sito gran parte delle attività produttive che possono essere svolte in cantieri remoti, con evidenti vantaggi d’impatto e d’impegno.

La costruzione delle opere in c.a. costituenti le sottostrutture non presenta concettualmente particolari caratteristiche o problemi realizzativi, se non per quanto connesso alla massività dei manufatti ed al ragguardevole quantitativo dei materiali richiesti in quanto è prevista la posa in opera complessiva di ~ 830 103 m3di calcestruzzo e ~70 103 t di barre d’acciaio d’armatura.

Allo scopo é stata elaborata una programmazione degli interventi comprendente un piano di previsione di mezzi da impiegare al fine di ottimizzare i quantitativi di materiale da trasportare, stoccare e porre in opera, tenendo presente che le fondazioni delle torri ed i blocchi d’ancoraggio sono le prime strutture del ponte ad essere realizzate risultando vincolanti per il raggiungimento degli obiettivi programmati.

É stato pertanto necessario individuare un’ipotesi di cantierizzazione con soluzioni innovative mirate a consentire una minimizzazione delle ricadute sul territorio con particolare riferimento all’occupazione di aree e al traffico gommato.

 

7.11.1 – Fasi realizzative

 

Fasi 12

 

–       Trattamento dei terreni, realizzazione dei blocchi di  ancoraggio e delle fondazioni delle torri.

–       Montaggio delle torri. Predisposizione delle strutture e delle attrezzature per la realizzazione dei cavi (spinning).

 

Fase 3

 

–       Spostamento della sommità delle torri mediante tiro da terra (tie-back), necessario per garantire la verticalità delle torri a ponte ultimato. Posa della fune pilota.

 

Fasi 45

 

–       Realizzazione delle passerelle di lavoro per la formazione dei cavi (spinning).

–       Posa dei singoli fili paralleli fino a completamento del cavo. Compattazione dello stesso. Inizio della posa degli elementi di sospensione dell’impalcato (collari e pendini). Completamento dei blocchi d’ancoraggio e realizzazione delle strutture terminali lato Sicilia e lato Calabria.

 

Fase 6

 

–       Montaggio delle campate laterali dell’impalcato lato Calabria e lato Sicilia con trasporto via mare e sollevamento / movimentazione dai cavi.

 

Fasi 789

 

–       Montaggio della campata centrale dell’impalcato.

–       Gli elementi modulari prefabbricati vengono trasportati via mare e sollevati da apposite attrezzature poste sui cavi portanti. Dopo aver montato il modulo centrale e quelli presso le torri si procede su quattro fronti di avanzamento.

–       Con la progressione del montaggio il sistema raggiunge il suo assetto definitivo, si annulla la deformazione iniziale delle torri (tie-back) e si effettuano le saldature di collegamento definitivo tra i vari moduli dell’impalcato.

 

Fasi 1011

 

–       Completamento della campata centrale con il montaggio degli ultimi due moduli. Completamento della zona a cavallo delle torri. Installazione degli arredi di piattaforma stradale e ferroviaria (frangivento, grigliati, armamento, pavimentazione e finiture).

–       Finitura dei cavi principali (avvolgimento, trattamenti  protettivi e rivestimenti), smontaggio passerella di servizio. Completamento degli impianti di segnalamento e controllo e messa in esercizio.

 

7.11.2 – Particolari significativi dal punto di vista costruttivo

 

a) Le due torri del ponte sospeso, completamente in acciaio, presentano una configurazione lamellare, costituita da due gambe di sezione ottagonale, ciascuna inscritta in un rettangolo di 16×12 m., la cui conformazione è stata ottimizzata in galleria del vento.

La loro struttura è dimensionata principalmente per sopportare il carico trasmesso in sommità dalle due coppie di cavi (103.103 t sulla torre Sicilia e 99 103 t sulla torre Calabria). Le due gambe sono collegate da 4 trasversi che intelaiano la struttura, alti 17 m e larghi 4 m. Le torri raggiungono la quota di 382,60 m. s.l.m. e ciascuna gamba è formata da 21 conci di 17 m. d’altezza ciascuno oltre ad uno terminale di sommità che accoglie le selle dei cavi portanti.

Il primo elemento è inserito nelle fondazioni per 12 m. ed è collegato al calcestruzzo dei plinti di fondazione tramite adeguati connettori. L’ultimo elemento, di supporto agli elementi di appoggio (selle) dei cavi portanti, ha i lati lunghi inclinati e termina in sommità con un carter di protezione delle selle. La distanza tra gli assi delle gambe è di circa 78 m alla base e di 52 m in sommità, determinando, in tal modo, un’inclinazione di ~2°. Il peso complessivo di ciascuna torre è di ~ 56 103 t.

 

b) I blocchi d’ancoraggio dei cavi in Sicilia ed in Calabria sono opere in cemento armato massive, caratterizzate da forma prismatica modellata per consentire un ottimale inserimento nella locale morfologia e per ottenere il massimo sviluppo di superfici di contatto con il terreno orientate in modo perpendicolare alla risultante delle forze applicate dai cavi. Essi sono infatti dimensionati per assorbire il tiro di ciascuna coppia di cavi, pari a circa 133 103 t.

I due blocchi sono diversi, sia per la differente morfologia, sia per la differente natura del deposito sul quale insistono, in Sicilia costituito da ghiaie leggermente cementate (Ghiaie di Messina) ed in Calabria da una roccia più consistente (conglomerato di Pezzo). L’ancoraggio in Sicilia è formato da un blocco di circa 328 103 m3 mentre quello in Calabria è di circa 237 103 m3.

All’interno dei blocchi sono ricavate le camere di ancoraggio delle funi dei cavi principali, ciascuna delle quali è ancorata al calcestruzzo tramite un sistema di barre di precompressione. Particolarmente curato è l’inserimento di queste grandi opere nell’ambiente, con un minimo volume edificato fuori terra (~17%).

 

c) Gli elementi fondamentali del sistema di sospensione sono i cavi principali, che, per il ruolo primario assunto, costituiscono l’ossatura del ponte: essi infatti contribuiscono in modo fondamentale alla rigidezza globale dell’opera opponendosi alle variazioni di configurazione grazie al tiro cui sono soggetti (circa 67 103 t ciascuno). I cavi principali sono 4, disposti in coppie sulla verticale delle estremità dei trasversi dell’impalcato, e quindi ad una distanza di 52 m.

L’interasse tra i due cavi di ciascuna coppia è di 1.75 m. e ciascun cavo, dopo la compattazione, assume un diametro di circa 1.24 m. Lo sviluppo effettivo dei cavi è di circa 3370 m per la campata centrale, di 1020 m dalla torre all’ancoraggio Sicilia e di 850 m dalla torre all’ancoraggio Calabria per un totale di circa 5240 m da ancoraggio ad ancoraggio a fronte di un totale, in proiezione orizzontale, di 5070 m.

Nella campata centrale, ciascun cavo è composto da 88 funi del diametro di 13.5 cm., per un totale di 44.352 fili elementari del diametro di 5.38 mm., realizzati in acciaio armonico trafilato e zincato a caldo per immersione. Nelle campate laterali si aggiungono due funi per ciascun cavo per un totale di 45.280 fili per la campata Sicilia e 44.840 per la campata Calabria.

L’insieme dei fili costituenti i cavi principali, il cui peso complessivo è di ~167 103 t, dopo la posa viene compattato fino a raggiungere una forma circolare regolare e viene sottoposto ad un trattamento superficiale che ne garantisce la protezione nei confronti di corrosione chimica, agenti atmosferici ed altre azioni aggressive. Il rivestimento previsto segue metodologie consolidate nella costruzione dei ponti sospesi ed è costituito da tre componenti: una pasta viscosa anticorrosiva che riempie gli spazi tra i fili più esterni dei cavi, un avvolgimento di filo di acciaio zincato di diametro 4 mm. E infine una verniciatura.

I due cavi di ogni coppia sono poi collegati tra di loro ogni 30 m da elementi in acciaio (collari) dai quali ha origine l’altro sistema di cavi (pendini) con funzione di collegamento tra i cavi principali e la piattaforma dell’impalcato.

 

d) L’impalcato sospeso si estende per una lunghezza complessiva di 3.666 m tra i giunti di dilatazione, essendo di 3.300 m. la sua lunghezza tra le torri e di 183 m, in Sicilia e in Calabria, la sua estensione oltre le torri fino alle strutture terminali. Ha una larghezza di 60.4 m tra gli estradossi delle barriere frangivento (escluso l’aggetto dei profili stabilizzatori) ed è composto da un graticcio strutturale portante formato da cassoni scatolari longitudinali e trasversali.

Alle estremità dei cassoni trasversali, gruppi di pendini realizzano la sospensione dell’impalcato ai cavi principali. Il sistema prevede un interasse dei trasversi modulare di 30 m, con luci nette di 26 m per i cassoni longitudinali.

Alle strutture principali sono collegate strutture secondarie costituite da barriere frangivento, grigliati e relative mensole e travi di supporto. Tutto l’impalcato è realizzato in acciaio, con un peso strutturale complessivo di circa 66.5 103.

Il profilo altimetrico ha un andamento rettilineo nei tratti laterali con un raccordo parabolico nella zona centrale. La quota dell’estradosso raggiunge + 76.8 m sul livello del mare (s.l.m.) in mezzeria, + 62.9 m s.l.m. in corrispondenza della struttura terminale Calabria e + 51.6 m s.l.m. in corrispondenza della struttura terminale Sicilia.

Questo profilo soddisfa le prescrizioni geometriche per la navigazione marittima, anche in presenza degli abbassamenti dovuti ai carichi previsti in condizioni di esercizio, nonché i limiti ammessi per la pendenza longitudinale della ferrovia.

 

e) La struttura costituisce una piattaforma a 4 vie stradali ed un binario ferroviario per ciascun senso di percorrenza. Dall’esterno verso l’interno esse sono costituite, per ogni verso di percorrenza, da:

 

–       una via di servizio stradale per manutenzione e soccorso con superficie grigliata, di larghezza 3.50 m (2.82 m al netto di guardavia), posta a sbalzo in corrispondenza del margine esterno dell’impalcato;

–       una corsia stradale di sorpasso, pavimentata, larga 3.75 m al netto del franco psicotecnico verso il guardavia, larga 70 cm;

–       una corsia stradale di marcia normale, pavimentata, larga 3.75 m;

–       una corsia stradale di sosta di emergenza, pavimentata, larga 3.75 m, al margine della quale ogni 900 m sono previste ulteriori piazzole, anch’esse pavimentate, larghe 3.00 m ed estese per 3 campate, cioè per 94 m (2 delle quali, di larghezza variabile, costituiscono i raccordi);

–       un binario ferroviario (i 2 binari sono posti ad interasse di 4.00 m) con adiacente marciapiede pedonabile largo 1.52 m.

 

L’area pavimentata delle piazzole poste ogni 900 m, larga 3 m, si estende con superficie grigliata fino al cassone ferroviario. Due di esse, collocate nella zona centrale della campata consentono, previa rimozione delle barriere guardavia, l’attraversamento carrabile della sede ferroviaria. In tal modo è possibile realizzare sia by-pass d’emergenza per l’interconnessione tra le due semicarreggiate autostradali, sia l’accesso di mezzi gommati alla sede ferroviaria.

Le superfici pavimentate presentano una pendenza trasversale del 2% con compluvio verso il margine interno, ove è ubicato un sistema di raccolta dei liquidi inquinanti accidentalmente versati sul ponte. La piattaforma è delimitata esternamente da barriere frangivento con profili aerodinamici stabilizzatori integrati.

 

 

 

Scheda Impianto

 

Luce della campata centrale: 3.300 m.
Luce delle campate laterali: 183 m.
Rapporto freccia/luce dei cavi: 1/11
Sezioni varie: 2 x (marcia veloce + marcia + emergenza)
Sezione ferroviaria: 2 binari
Sezioni di servizio: 2 corsie indipendenti (personale e veicoli di servizio)
Altezza dell’impalcato s.l.m.: 55,40 – 76,76 m.
Franco navigabile: 65 m. zona centrale (600 m). 50 m. restanti zone
Portata massima teorica di traffico: 3.000 veicoli/h per senso di marcia; > 200 treni/giorno
Criterio di verifica strutturale: semiprobabilistico agli stati limite, su 3 livelli
– Livello 1 “normale”: periodo di ritorno = 50 anni
– Livello 2 “eccezionale”: periodo di ritorno = 400 anni
– Livello 3 “estremo”: periodo di ritorno = 2000 anni
Carico massimo ferroviario: 2 treni da 4.930 t, lunghi 600 m. (8,2 t/m)
Carico massimo Autovetture e autocarri per un totale di 18.000 t
Pendenza longitudinale massima di livello 1: 2%
Pendenza trasversale massima di livello 1: 6% (eventi frequenti); 10% (eventi rari)
Sisma di livello 3: accelerazione al suolo = 0.58 g
Vento di livello 3: 215 Km/h (a quota 70 m s.l.m.)
Lunghezza dell’impalcato sospeso: 3.666 m.
Larghezza totale: 60 m.
Peso strutturale per metro: 17,5 t
Peso totale della carpenteria: 66.500 t (acciaio Fe 510 D; in zone limit. acciaio S 420
Altezza totale torri: 382 m. s.l.m.
Forma della sezione: a losanga 16 x 12 m.
Peso totale della carpenteria: 56.000 t ciascuna
Tipo di fondazioni (Sicilia): due plinti circolari di diametro 55
Tipo di fondazioni (Calabria) due plinti circolari di diametro 48 m. con trasverso
Volume delle fondazioni (Calabria): 72.400 m3 di cui 11.200 m3 fuori terra
Lunghezza totale tra gli ancoraggi: 5.300 m.
Numero e dimensione dei cavi: 2 coppie con diametro 1,24 m (sup. = 1 m2 ciascuno)
Formazione di un cavo (in campata): 88 funi da 504 fili elementari di diametro 5,38 mm.
Totale fili elementari per cavo (in campata): 44.352 fili
Tipo di acciaio: armonico zincato (1.770 MPa)
Quantità totale di acciaio in fili: 166.750 t
Tiro permanente in ciascuna coppia di cavi: 129.000 t (agli ancoraggi)
Volume dell’ancoraggio in Sicilia 328.000 m3 di cui 94.000 m3 fuori
Volume dell’ancoraggio in Calabria 237.000 m3 di cui 4.000 m3 fuori

 

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