6 – Le opere d’arte

Si definiscono opere d’arte tutte le strutture aventi lo scopo di assicurare la stabilità e la continuità di una realizzazione infrastrutturale in corrispondenza di qualsivoglia ostacolo morfologico e/o idrogeologico, di preservarne la sede funzionale dall’azione delle acque oltre che di contenere i terreni traversati in trincea e/o costituenti rilevati.

Possono essere distinte in base alla loro importanza in:

Opere d’arte maggiori:

– muri di sostegno;

– ponti e viadotti;

– gallerie;

Opere d’arte minori (in particolare per ambiti stradali)

– cunette;

– fossi di guardia;

– drenaggi profondi;

– tombini;

– ponticelli.

Costituendo ponti, viadotti e gallerie argomenti specifici dal punto di vista geologico-tecnico che vengono affrontati nel prosieguo, nel presente capitolo vengono trattati i muri di sostegno, comuni a tutti i lavori d’ingegneria civile, unitamente alle opere minori impiegate in particolar modo per la raccolta e lo smaltimento delle acque superficiali e/o emergenti in corpore operis.

6.1 – Muri di sostegno

Come si è specificato nel vol. 2°, e accennato in vari punti della presente trattazione, i muri di sostegno si distinguono in 3 tipi:

–       di sostegno propriamente detti;

–       di sottoscarpa;

–       di controripa.

I primi sono quelli che sostengono un rilevato elevandosi fino al piano operativo; quelli di sottoscarpa, viceversa, pur sostenendo un rilevato, non arrivano al piano operativo motivo per cui fra tale piano ed il muro il terreno si dispone secondo la scarpata naturale; infine, i muri di controripa sono quelli destinati a limitare la scarpata di una trincea.

Forma e dimensioni di un muro dipendono, oltre che dal materiale e dagli accorgimenti costruttivi che si intendono adottare, da vari fattori relativi alla natura e condizioni dei terreni da contenere, nonché (per i muri di sostegno e di sottoscarpa) dai sovraccarichi ammissibili sul piano operativo (viabile o ispezionabile o funzionale).

Di grande importanza è, in ogni caso, la scelta del materiale e del tipo costruttivo, elementi che sottendono le differenti soluzioni al fine d’adottare quelle che si ritengono più convenienti dal punto di vista tecnico ed economico.

Ad es., per muri poco alti (≤ 1÷1.5 m) e per strade di secondaria importanza, si può usare una muratura a secco, cioè costituita da elementi di pietrame di opportune dimensioni sistemati senza malta; per muri più alti si suole fare ricorso alla muratura in pietrame con malta, oppure in calcestruzzo di cemento (250÷300 kg di cemento per m3 d’impasto); per muri di una certa altezza, spalle di manufatti etc. si ricorre invece alle strutture in cemento armato.

Per piccole altezze si progettano generalmente muri a spessore costante, mentre per altezze maggiori (> 2 m) il paramento interno e quello esterno si modellano a scarpa, scegliendo opportunamente il valore dello spessore in sommità. Questo spessore, nel caso di muratura in pietrame con malta o in calcestruzzo semplice, non si realizza mai < 50÷60 cm.

Per altezze > 5÷6 m, per ragioni economiche, i muri si sogliono realizzare con parete interna a riseghe (Fig. 6.1).

Fig. 6.1 – Muro di sostegno con riseghe.

Qualche volta, sempre al fine di limitare gli spessori, si preferisce adottare il sistema a contrafforti interni od esterni; dal punto di vista statico sono più convenienti quelli a contrafforti esterni, ma talvolta si ricorre anche a quelli a contrafforti interni, quando non si voglia turbare l’estetica esterna con gli speroni (Fig. 6.2).

Fig. 6.2 – Muro di sostegno con speroni interni (pianta e sezione).

Nei muri di sostegno è frequente il tipo con parete interna verticale e con parete esterna a scarpa, ma in casi speciali, come si è detto, si utilizzano anche muri con entrambe le pareti inclinate nel medesimo senso o in senso opposto (Fig. 6.3).

Fig. 6.3 – Tipi di muro di sottoscarpa (a e b) e di controripa (c).

Ogni muro di sostegno termina con la relativa fondazione, a meno che non si raggiunga un banco roccioso di conveniente resistenza.

È sempre opportuno che, nella parte interna, le terre non siano a contatto con la parete del muro ma che, fra terra e muro, sia sistemato un opportuno drenaggio con canaletta di scolo in basso.

6.1.1 – Considerazioni sul calcolo

I muri di sostegno sono strutture soggette al peso proprio ed alla spinta delle terre e degli eventuali sovraccarichi; sono, perciò, sollecitati a pressoflessione (non escluso il taglio).

Quasi sempre il calcolo consiste in una verifica, fissando le dimensioni in base all’esperienza o per mezzo di apposite tabelle.

Le verifiche di stabilità che , come visto, si richiedono per muri a gravità (in muratura o in calcestruzzo semplice) sono le seguenti:

–       verifica allo schiacciamento;

–       verifica allo scorrimento;

–       verifica al ribaltamento.

Verifica allo schiacciamento

Siano fissate le dimensioni del muro e si consideri un tratto di esso della lunghezza di 1 m ; siano P il peso del muro (applicato al baricentro G della sezione trasversale) ed S la spinta, il cui valore e la cui direzione sono stati trovati in base ad una delle teorie svolte in precedenza (vol. 2°).

Si componga S con P e sia R la risultante, la quale avrà una componente N secondo la normale alla base AB = I del muro, ed una componente T secondo AB. Dal punto d’incontro della retta di azione di S e di P si tracci la parallela ad R; il punto ove questa retta incontra la base AB rappresenta il centro di sollecitazione C (Fig. 6.4).

Fig. 6.4 – Determinazione del centro di sollecitazione alla base di un muro.

Si distinguono a questo punto 3 casi:

a) centro di sollecitazione interno al nocciolo centrale d’inerzia della sezione di base.

Se si chiama con e l’eccentricità (distanza del centro di sollecitazione C dal baricentro della sezione), la sollecitazione massima in kg/cm2, misurando l in cm ed N in kg, risulta:

e la sollecitazione minima

La sezione è completamente sollecitata a compressione, quindi il diagramma delle σ è trapezoidale e la sollecitazione è massima verso il bordo esterno e minima verso l’interno; tale distribuzione delle tensioni deve ottenersi tutte le volte che si calcola un muro in muratura onde evitare che vi siano delle zone della sezione in cui si abbiano sollecitazioni a trazione.

Al limite, il centro di sollecitazione C può coincidere con uno dei due estremi del nocciolo (Fig. 6.5); il diagramma delle sollecitazioni diventa triangolare (σmin = 0) mentre la sollecitazione massima si ricava facilmente in base alla formula:

σmax = 2N/100 l

Fig. 6.5 – Verifica allo schiacciamento: centro di sollecitazione interno al nucleo centrale d’inerzia della sezione di base.

b) centro di sollecitazione esterno al nocciolo ma interno alla sezione (Fig. 6.6).

Qualora si tratti di muri costruiti con materiale che si suppone non possa resistere a sforzi di trazione, per determinare il diagramma delle tensioni occorre considerare la parte di sezione reagente.

Se con a si indica la distanza del centro di sollecitazione C dal bordo esterno, la sezione reagente sarà delimitata dall’asse mm che dista 3a dal bordo predetto; infatti in tal caso il punto C risulta coincidente con l’estremo di nocciolo della sezione predetta delimitata dall’asse mm.

Il diagramma delle tensioni è triangolare con σ = 0 in corrispondenza di mm e con σmax sul bordo

esterno.

Fig. 6.6 – Verifica allo schiacciamento: centro di sollecitazione esterno al nocciolo ma interno alla sezione di base

(muro in muratura)

Risulta, quindi:

σmax = 2N/(3a 100)

Nei muri in muratura di pietrame od in calcestruzzo, il punto C non può mai essere esterno alla sezione poiché vengono a mancare i presupposti dell’equilibrio statico.

Se il muro è a riseghe (Fig. 6.1) è opportuno eseguire la verifica allo schiacciamento ad ogni risega.

In ogni caso il σmax deve risultare minore o, al limite, uguale al carico di sicurezza a compressione relativo al materiale che si dovrà adoperare.

I carichi di sicurezza possono assumersi come segue:

–       muratura a secco                                                            1÷1.5kg/cm2

–       muratura di pietrame e malta comune                        2.5÷3.5 kg/cm2

–       muratura di pietrame e malta idraulica                              4÷5 kg/cm2

–       muratura di pietrame e malta cementizia                          4÷7 kg/cm2

–       muratura in mattoni pieni e malta cementizia                10÷12 kg/cm2

–       calcestruzzo di cemento                                                20÷25 kg/cm2

Verifica allo scorrimento

Per la verifica allo scorrimento si ammette che il muro possa scorrere sul piano di fondazione (in assenza si alcuna deformazione propria) sotto l’azione della componente tangenziale della forza risultante; a tale azione si oppone la resistenza d’attrito fN se con f si chiama il coefficiente di attrito fra muro e fondazione o fra muro e terreno di posa (qualora manchi la fondazione); prudenzialmente si suole porre f = 0.5.

Al limite sarà T = fN e si assume come grado di stabilità allo scorrimento il rapporto fra la resistenza fN e la componente T della risultante R parallela al piano di fondazione; detto grado di stabilità deve risultare ≥ di 1.5.

Verifica al ribaltamento

Infine per la verifica al ribaltamento si considera il muro come monolitico e perciò capace di rotare sotto l’azione della spinta attorno al punto A.

I momenti rispetto a detto punto A (Fig. 6.7), determinati dalle forze agenti, spinta S e peso P, sono uno di rovesciamento e l’altro, invece, favorevole alla stabilità.

Fig. 6.7 – Verifica al ribaltamento.

Naturalmente il momento dovuto alla spinta è di rovesciamento, mentre quello di stabilità è dovuto al peso. Con le notazioni di Fig. 6.7 risulta:

momento di rovesciamento                                          S s

momento dovuto al peso proprio                                 P p

In ogni caso per la stabilità deve risultare P p > S s.

Il rapporto fra il momento resistente dovuto all’azione del peso ed il momento di rovesciamento dovuto alla spinta si definisce grado di stabilità al rovesciamento, e per la stabilità detto rapporto deve risultare uguale almeno a 2:

P p/S s ≥ 2

Di quest’ultima verifica si può anche fare a meno sia perché adottando la spinta inclinata rispetto alla normale al paramento dell’angolo φ‘ (o υ‘) il momento di rovesciamento S s è sempre piccolo, sia perché parte da una ipotesi che non si realizza mai, ossia che il muro sia monolitico e perciò capace di ruotare attorno al suo piede esterno.

In genere i muri di sostegno rovinano per schiacciamento oppure per scorrimento.

Il primo evento, dovuto quasi sempre a difetto di costruzione o dimensionamento o all’effetto di spinte che risultano più elevate di quelle previste (causa errore di calcolo, errata valutazione delle caratteristiche meccaniche delle terre, insufficienza di drenaggi etc.) si manifesta, nelle opere in muratura, gradatamente, mediante delle lesioni sia nella parete esterna del muro che sul piano funzionale, ove si palesano degli stiramenti del manto (molto appariscenti se si tratta di manti bitumati). Queste lesioni man mano si approfondiscono, finché, a motivo delle acque di infiltrazione, il muro rovina.

L’effetto dello scorrimento quasi sempre è improvviso ed è determinato, dopo abbondanti piogge, dalla riduzione del coefficiente di attrito interno e della coesione dell’ammasso. Spesso si determinano dei veri e propri piani di scorrimento che interessano tutta l’opera d’arte (Fig. 6.8).

Fig. 6.8 – Instabilità del muro per scivolamento dell’ammasso.

Qualora il piano di posa del muro sia costituito da roccia (calcare, buon materiale tufaceo o arenaceo) non è necessario prevedere una fondazione. Questa, viceversa, diventa indispensabile se si tratta di terreni argillosi con scarsa capacità portante.

La fondazione di muri in pietrame si esegue in calcestruzzo magro (kg 200÷250 di cemento per m3 d’impasto) e deve verificarsi, come visto, che la pressione massima sul terreno sia inferiore al carico limite sopportabile da questo.

Anche se si tratta di muri in cemento armato la fondazione deve proporzionarsi in modo che la risultante delle forze peso e spinta delle terre cada entro il nocciolo centrale d’inerzia della sezione di base.

Per muri di sostegno, con terreni di sottofondo cattivi, talvolta è necessario prevedere fondazioni in pali del tipo portante o del tipo sospeso (ad attrito laterale), il quale ultimo si adotta in casi eccezionali, quando fino a 20÷25 m di profondità non si trova un buon terreno di posa.

Sul calcolo dei pali e sulle loro descrizioni si rimanda ai trattati specifici.

6.1.2 – Muri di sostegno in cemento armato

I muri di sostegno in cemento armato, in genere, sono costituiti da una parete verticale, che trattiene le terre, collegata con una mensola di base, la quale serve a trasmettere al suolo le pressioni generate dalla spinta delle terre e dal peso della parete (Fig. 6.9).

Nei muri in cemento armato è bene assegnare un ricoprimento minimo per i ferri di 4÷5 cm ed è in ogni caso consigliabile (secondo le norme americane è obbligatorio) alla serie dei tondini verticali, in prossimità del paramento interno, che servono ad assorbire le sollecitazioni di trazione nella lastra, aggiungere dei ferri orizzontali di piccolo diametro, in prossimità del paramento esterno, onde evitare eventuali fessurazioni nel calcestruzzo. Non bisognerà, inoltre, dimenticare di intercalare dei giunti di dilatazione almeno ogni 15÷20 m.

Nei muri in cemento armato con soletta incastrata, quando si opera la verifica di stabilità, secondo alcuni studiosi., il peso del prisma di terra ABCD deve aggiungersi a quello del muro (Fig. 6.10a) e come spinta dovrà assumersi quella relativa al piano AB verticale passante per il punto terminale A della mensola.

Fig. 6.9 – Muro in cemento armato.

Secondo qualche altro autore la spinta dovrà essere quella sul piano AC (Fig. 6.10b) e al peso del muro dovrà questa volta aggiungersi quello delle terre contenute nel prisma triangolare ADC, che nel rovesciamento verrebbero ad essere trascinate col muro.

Fig. 6.10 – Peso del prisma di terra da aggiungere a quello del muro per la ricerca della condizione di stabilità.

Negli esempi finora riportati ci si è riferiti a muri a mensola incastrata, il cui impiego è limitato a 6÷7 m di altezza, e a muri con soletta e contrafforti, per altezze ≤ 12 m. Si ricordano anche i tipi di muro in cemento armato ad elementi predisposti in cantiere, molto diffusi specialmente per opere di grande economia, e i muri a gabbia (crib walls) che, fra gli altri vantaggi, hanno quello di essere recuperabili e di fornire un ottimo drenaggio, consigliabili, quindi, per opere in presenza di acqua. E’ opportuno in tale sede riferire su un particolare muro di sostegno con mensola interna; tale muro consiste di una semplice lastra con un suola di fondazione anteriore; il suo elemento caratteristico e particolare è fornito da una mensola la quale, incastrandosi entro le terre, produce un momento opposto a quello che la spinta determina sulla lastra (Fig. 6.11). Il momento generato dalla mensola fa, di conseguenza, avvicinare la linea delle pressioni verso l’asse del muro.

Nella medesima figura si è indicato l’andamento del diagramma dei momenti; senza la mensola il diagramma dei momenti ha l’andamento ACF (parabola cubica, dato che il diagramma delle spinte è triangolare) mentre la mensola determina in B un momento BD di segno opposto a quello dovuto alla spinta, motivo per cui, alla base, il momento si riduce ad EF.

Tale tipo di muro, assai interessante dal punto di vista teorico, non ha tuttavia ottenuto una grande diffusione per la maggiore complicazione dell’armatura metallica.

Le strutture in cemento armato per muri di sostegno risultano, infatti, sono molto costose per l’andamento prevalentemente verticale dell’armatura, per la difficoltà di mantenere nella loro giusta posizione i tondini, per la necessità dei casseri con relativi supporti etc.

Fig. 6.11 – Muro in cemento armato con mensola interna.

6.2 – Le opere d’arte minori e il loro calcolo idraulico

Le opere d’arte che proteggono il corpo strutturale dall’acqua sono varie e complesse; il rivestimento delle scarpate, i drenaggi, le cunette, i fossi di guardia, i tombini, i ponticelli ed i ponti rappresentano tutta una serie di opere tra le più interessanti della tecnica civile in questo campo. Per il dimensionamento razionale di queste opere, dal punto di vista idraulico, è essenziale stabilire la portata massima che esse devono essere capaci di smaltire, essendo questo il dato che occorre per svolgere ogni successivo calcolo.

La determinazione di detta portata non è certamente facile, poiché gli elementi che vi concorrono sono molteplici e non tutti facilmente individuabili; innanzitutto, comunque, occorre conoscere la natura delle terre che costituiscono il bacino imbrifero, l’estensione di questo, la morfologia della zona afferente e determinare la intensità meteorica massima (normalmente espressa in mm/h).

In un secondo tempo, fissati alcuni dati relativi alle opere in progetto, occorre ricavare gli altri; il calcolo, di conseguenza, normalmente si riduce normalmente ad un’operazione di verifica, per cui spesso è necessario procedere per tentativi.

In tali casi una rapida soluzione abbastanza approssimata, sempre sufficiente per calcoli di questo tipo, è possibile con l’ausilio di nomogrammi; in ogni caso, pur rimandando a testi specifici per il necessario approfondimento, si ritiene opportuno riassumere in breve le principali cognizioni idrauliche in proposito.

Detti t la durata di una precipitazione e h l’altezza di pioggia caduta in una data zona risulta definita relazione j = h/che esprime l’intensità media della precipitazione misura in mm/s, mm/h, o mm/giorno.

Dato che le precipitazioni di tipo temporalesco sono, nella maggioranza dei casi, molto brevi mentre con l’aumentare del tempo diventano sempre meno intense, si rileva che, generalmente, l’altezza di pioggia caduta rispetto al tempo segue una legge ascendente esponenziale, mentre il diagramma j(t) presenta un andamento decrescente al crescere di t (Fig. 6.12).

Fig. 6.12 – Diagrammi dell’altezza di pioggia (h) e dell’intensità media (j) in funzione del tempo (t).

Se l’intensità media j si riferisce alla superficie (ha oppure km2) si ottiene l’intensità media unitaria o apporto meteorico unitario.

Osservando un’area sufficientemente ampia e rappresentativa, la massima precipitazione si rileva in una piccola zona, detta centro di pioggia, mentre nelle altre zone dell’area in esame l’intensità media è più bassa. Pertanto, se si considera la precipitazione osservata nel punto di massimo rovescio e si vuole estendere questa a significare il valore medio di una vasta plaga è necessario moltiplicare il dato sperimentale per un coefficiente di riduzione (< 1) dipendente dalla superficie interessata e dalla durata (Fig. 6.13). Ad es. per una durata di 24 h il coefficiente deve assumersi pari a 0.9, se la superficie che si considera pari a 150 km2, mentre si riduce a 0.84 per una estensione di 250 km2.

Fig. 6.13 – Coefficiente di riduzione della portata di efflusso in funzione della superficie per la determinazione del valore medio; tale coefficiente dipende anche dalla durata che si considera.

Nei problemi che interessano l’argomento in esame è necessario anche considerare il coefficiente di deflusso; questo si definisce come rapporto fra il volume defluito attraverso la sezione terminale del bacino ed il volume d’afflusso, cioè il volume di liquido caduto per precipitazione entro il bacino (detto anche afflusso meteorico) nel medesimo intervallo di tempo.

Evidentemente il suddetto coefficiente è sempre minore dell’unità.

Per rendersi meglio conto di ciò basti considerare che non tutta l’acqua superficiale che cade in una data zona si raccoglie e defluisce: come noto una parte evapora ed un’altra viene assorbita dal terreno penetrando in esso.

Per contro bisogna tener presente che se una precipitazione ha una durata t, la durata del deflusso risulta comunque maggiore dovendosi considerare anche il tempo tc (detto di corrivazione) affinché l’acqua caduta nelle zone più lontane raggiunga il punto di deflusso, ed un successivo tempo di esaurimento (detto coda di piena).

Il coefficiente di deflusso, in molti casi, si può assumere pari a 0.60÷0.55 e, talvolta, può avere anche valori più bassi.

Come dato cautelativo un’opera d’arte idraulica deve essere in grado di smaltire la massima piena verificabile lungo tutta la durata dell’opera medesima.

Evidenti considerazioni di carattere economico consigliano, viceversa, di limitare il calcolo della portata a quella corrispondente alla massima piena in grado di verificarsi entro un determinato numero di anni; infatti, mentre le piene di carattere eccezionale si verificano ad intervalli di tempo molto grandi (50÷100 anni) quelle a carattere normale si realizzano entro intervalli assai minori.

Analizzando gli eventi relativi ad un numero elevato di anni s’è potuto valutare come varino con l’intensità le piogge, aventi la durata di 1 h, che possono capitare ogni 2, 5, 10, 25, 50 o 100 anni. Molto indicative per i calcoli idraulici di cui si tratta sono le curve intensità-durata, in una data zona, al variare dell’intervallo in cui l’evento si determina (5, 10, 25, 50 anni) (Fig. 6.14).

Fig. 6.14 – Curve intensità-durata (in una data zona) al variare dell’intervallo in cui l’evento si determina.

Nel caso di opere di servizio d’importanza limitata (tombini, cunette, fossi di guardia etc.) è sufficiente, per evidenti ragioni d’economia (specialmente se si tratta di realizzazioni di non particolare rilievo) riferirsi, nel calcolo della portata, a frequenze comprese entro 10÷25 anni.

Per la determinazione della portata di deflusso Q sono stati proposti alcuni diagrammi e formule più o meno empiriche; tra queste, una molto usata negli USA è la relazione:

Q = 2.755 m J A

dove m è il coefficiente di deflusso, j l’intensità media (mm/h) della pioggia di durata uguale al tempo di corrivazione tc (ossia al tempo necessario all’acqua per raggiungere, dal punto idraulicamente più lontano, l’imbocco dell’opera d’arte) e di frequenza pari a quella della piena prescelta), A l’area in ettari (ha) del bacino scolante e Q la portata in litri al secondo (l/s).

In questo caso, quindi, occorre stabilire il coefficiente di deflusso, il tempo di corrivazione, la frequenza della piena, l’area del bacino scolante e, per determinare j, essere in possesso dei diagrammi che diano l’intensità in funzione della durata della pioggia alle diverse frequenze.

Operativamente il problema del dimensionamento idraulico di un’opera d’arte, dal punto di vista analitico, si riduce a quello di stabilire le dimensioni del canale (fosso di guardia, cunetta, tombino etc.) in modo che l’area della sezione liquida A e il raggio medio (o raggio idraulico) R soddisfino alla nota relazione di Chézy:

Q = Av = χARi

dove Q è la portata in m3/s, A l’area della sezione liquida in m2R il raggio idraulico in m (= area della sezione liquida divisa per il perimetro bagnato), i = tg α = pendenza del canale, v la velocità in m/s e χ il coefficiente di scabrezza.

In generale, nei casi considerati, è applicabile l’ipotesi di moto uniforme, sebbene a rigore, come visto, nelle opere suddette il moto sia del tipo permanente non uniforme.

Per il calcolo di χ conviene ricorrere alla relazione di GauckIer-Manning-Strickler:

χ = cR1/6

Di conseguenza, per la legge di Chézy, la velocità può anche esprimersi:

v = cR2/3i1/2

dove c è un coefficiente che dipende dalla natura e dallo stato delle pareti del canale.

La relazione ultima presenta il vantaggio, rispetto a quelle di Bazin e di Kutter, di essere monomia.

Esperienze per la determinazione del predetto coefficiente c hanno dimostrato come esso vari non soltanto con la natura del rivestimento delle pareti del canale ma anche con la pendenza longitudinale i, col raggio idraulico R e con la velocità v. In ogni caso, tuttavia, data la natura del problema, nella progettazione pratica non si tiene conto di tali influenze.

Esperienze USA hanno dimostrato come, specialmente per correnti di piccola profondità, sia conveniente scegliere per c valori più bassi di quelli un tempo ammessi.

L’espressione di GauckIer-Manning, in seguito, ha avuto maggiori applicazioni da quando Strickler ha dato, sulla base di esperienze proprie successivamente confermate da altri studiosi, una scala decisamente particolareggiata ed assai attendibile dei valori del coefficiente c (Tab. 6.1)

Tab. 6.1 – Valori del coefficiente c.

La scelta del coefficiente c deve avvenire sulla base delle vicende alle quali presumibilmente va soggetto il canale durante l’esercizio; così, se il canale è in terra, poiché l’alveo si ricopre di vegetazione, aumenta la scabrezza e inoltre il materiale di trasporto si deposita, motivo per cui la sezione viene parzialmente ostruita.

Anche se il fosso è di forma stabile, o perché rivestito in muratura, o perché scavato in roccia, non è in grado di mantenere le medesime caratteristiche costanti, giacché anche in questo caso la scabrezza del fondo e delle sponde è soggetta a variazioni in dipendenza dei depositi, delle azioni meccaniche ed abrasive, esercitate sulle sponde dall’acqua ed, eventualmente, anche dalla degradazione prodotta dagli agenti atmosferici.

6.3 – Cunette e fossi di guardia

Le cunette, come accennato in precedenza, sono poste lateralmente alla carreggiata ed hanno la funzione di raccogliere le acque provenienti dalle scarpate e dalla carreggiata stessa; perciò sono necessarie in tutti i tratti in trincea.

Per le cunette si adottano varie forme: trapezia, triangolare, a profilo curvo (Fig. 6.15 etc.; si realizzano, in genere, in muratura di pietrame o in calcestruzzo di cemento.

Fig. 6.15 – In alto cunette a forma trapezia e triangolare; in basso cunetta a profilo curvi (Soc. Autostrade).

Nel tipo a sezione triangolare si assegna alla base della cunetta una pendenza del 3.5÷5% più elevata di quella che si adotta trasversalmente per la sagoma stradale, allo scopo di avere una sufficiente sezione idraulica per la raccolta delle acque; questo tipo si preferisce laddove la superficie funzionale ( in particolare una strada) ha carreggiata stretta e manca di banchine, perché i veicoli possano utilizzare, in casi eccezionali, anche la parte di cunetta adiacente alla carreggiata stessa.

Di norma, per le cunette, sia di tipo triangolare che trapezio o a profilo curvo, la larghezza si assume costante per tutto il tronco di trincea, mentre la pendenza longitudinale è la medesima della superficie funzionale.

La cunetta, sovente, viene completata con un muretto di controripa al fine impedire il facile smottamento della scarpata (Fig. 6.16).

Fig. 6.16 – Cunetta con muretto di controripa.

fossi di guardia, viceversa, servono a raccogliere le acque provenienti da monte che, altrimenti, verrebbero a fermarsi ai piedi dei rilevati o a invadere le trincee (Fig. 6.17). La loro sezione è generalmente trapezia.

Vengono costruiti eseguendo un semplice scavo nel terreno ma, in tal caso, occorre una manutenzione quasi continua, in special modo durante il periodo invernale per gli smottamenti delle sponde o per le erosioni ed i depositi. Per tale motivo si preferisce proteggere il fondo e le sponde del fosso con muratura di pietrame e malta oppure con piccole pareti in calcestruzzo.

Fig. 6.17 – Fossi di guardia.

Dal punto di vista idraulico è opportuno osservare che in queste opere (cunette e fossi di guardia) la portata è variabile da una sezione all’altra (canali collettori) per cui, essendo il canale a sezione costante, l’acqua si muove con moto permanente gradualmente variato.

Dette opere presentano pendenze longitudinali tali da innescare correnti veloci (che provocano a valle un rigurgito di rigonfiamento) al punto che la maggiore altezza d’acqua si rileva nella sezione terminale. Il profilo di rigurgito tende asintoticamente (nella detta sezione terminale) alla retta che rappresenta l’andamento della piezometrica di moto uniforme.

Per la verifica idraulica si può allora applicare, per la sezione terminale, la teoria del moto uniforme, procedura che consente d’impostare il problema in modo abbastanza semplice.

Per fossi molto lunghi è consigliabile, per evidenti ragioni economiche, la suddivisione in più tronchi, assegnando a ciascuno di questi dimensioni via via crescenti nel verso del moto dell’acqua.

6.4 – I drenaggi

Le acque sotterranee, ossia quelle che si trovano al disotto del piano di campagna, possono distinguersi in filtranti (di falda o di vena), percolanti (attraverso spacchi o fenditure del terreno) ed acque capillari (che risalgono per effetto delle tensioni superficiali fra i vuoti di una terra).

Intendendo considerare l’azione di tali acque sulla stabilità dei terreni in generale, ed in particolare sulla stabilità delle opere direttamente interessate, risulta necessario conoscere le condizioni fisiche e meccaniche dei terreni, la loro stratificazione, il pendio del piano di campagna, l’ubicazione della falda o della vena e la relativa portata, lo stato fisico dell’acqua etc.

Per stabilire, poi, il tipo più idoneo di drenaggio occorre ancora estendere lo studio alla ricerca delle precipitazioni stagionali, alla conoscenza delle falde sotterranee ed ai movimenti di queste, alla durata dei periodi di gelo (T < 0°C), alla profondità di penetrazione del medesimo etc.

Per quanto riguarda le condizioni fisiche e meccaniche dei terreni (→ vol. 1°) ci si limita in questa sede a rammentare i minimi concetti essenziali.

I terreni, allora, possono distinguersi in suscettibili all’acqua, cioè nei quali la presenza di una % più o meno elevata di umidità produce notevoli mutamenti nelle principali caratteristiche meccaniche (attrito e coesione) e in quelli poco o nulla suscettibili all’acqua.

I primi sono costituiti da argille, argille-limose e limi; in tali terreni, come chiarito, sono da temere gli aumenti di volume (rigonfiamenti) o le riduzioni (ritiro).

I secondi sono formati dalle sabbie più o meno ricche di elementi granulari, prive di argille e limi, le rocce compatte, stratificate o fessurate.

In particolari situazioni geomorfologiche i terreni molto suscettibili all’acqua possono dare origine a dissesti interessanti il corpo del manufatto per la riduzione della loro coesione a causa delle infiltrazioni di acque.

Di conseguenza i casi più significativi in cui si richiedono opere di difesa dalle acque possono così raggrupparsi:

–       presenza di acque di falda o di vene interessanti direttamente il corpo del manufatto;

–       presenza di acque di capillarità provenienti da falde sottostanti; va tenuto presente che il livello di tali falde e, quindi, quello delle relative frange capillari, può variare per oscillazioni stagionali;

–       presenza di acque di percolazione, che hanno imbibito il terreno precedentemente alla costruzione del corpo del manufatto, oppure che potrebbero imbibire il corpo medesimo, a costruzione ultimata, attraverso banchine, scarpate, pavimentazioni etc.;

–       movimenti di acqua da strato a strato per cause diverse dalle precedenti: tensione pellicolare, differenza di potenziale elettrico, gradiente termico etc.

Evidentemente, nei terreni argillosi, molto suscettibili, l’elevata pendenza trasversale del terreno deve considerarsi fattore determinante di instabilità; in tali circostanze il risanamento deve essere eseguito tanto più in profondità quanto maggiore è la suddetta acclività dell’ammasso.

Le acque sotterranee possono essere allontanate dai corpi strutturali (rilevati stradali, trincee, dighe in terra) in vari modi:

–       sfruttando un gradiente idraulico naturale (gravità) reso più attivo per mezzo di drenaggi;

–       per essiccazione, esponendo i terreni all’evaporazione o servendosi di opportune vegetazioni;

–       mediante consolidamenti;

–       con l’interposizione di strati anticapillari od impermeabili.

Alcuni di questi provvedimenti sono di facile intuizione e di semplice attuazione (→ Vol. 2° e cap. relativo alle Strade ordinarie).

Ci si limita, di conseguenza, all’esposizione dei particolari costruttivi relativi all’esecuzione dei drenaggi e dei diaframmi anti-capillari.

drenaggi si distinguono in dreni d’acqua e dreni d’umidità.

I primi servono a raccogliere le acque sotterranee, di falda o di vena, allontanandole il più rapidamente possibile dalla sede del manufatto; i dreni di umidità, viceversa, hanno la funzione di eliminare le acque di risalita capillare quando queste non possono essere portate via per evaporazione, nonché le acque di percolazione, che penetrano nel terreno attraverso fessure e spacchi e non possono essere altrimenti assorbite.

Un drenaggio di acqua è, di solito, costituito da un cunicolo, della larghezza di 1÷1.5 m, che raggiunge lo strato inferiore del terreno nel quale scorre l’acqua, riempito con materiale di opportuna granulometria. Per evitare intasamenti é consigliabile, laddove possibile, eseguire sul fondo dello scavo una platea in calcestruzzo (spessore 20÷30 cm) sulla quale si sistema, successivamente, il materiale drenante fino a 30÷40 cm dal piano di campagna. Quest’ultimo tratto del cunicolo viene riempito di terra-vegetale ben costipata; si rivela buona norma, infatti, che le acque superficiali non vengano richiamate dal drenaggio, il quale deve convogliare soltanto quelle sotterranee. Al cunicolo si conferisce una determinata pendenza in modo da favorire lo scolo delle acque raccolte dal dreno (Fig. 6.18).

Fig. 6.18 – Schema di drenaggio tipo.

Per la raccolta delle acque si usano anche tubi in cemento (Ø 30÷50 cm), con fori, oppure in acciaio; questi vengono posti entro lo strato drenante usando i necessari accorgimenti affinché la terra trascinata dall’acqua non ostruisca facilmente le feritoie.

Non tutti i terreni possono essere drenati con facilità ed in modo completo; l’attitudine di un terreno a lasciarsi drenare aumenta con la sua permeabilità; col drenaggio, infatti, si raccoglie soltanto l’acqua libera o gravitazionale.

I drenaggi prosciugano ottimamente i terreni sabbiosi, i limi sabbiosi e meno bene le argille sabbiose; sono difficili da drenare, viceversa, i terreni con elevata % di argilla. Qualora le risalite d’acqua per capillarità o le acque di percolazione portassero il terreno ad un elevato contenuto d’acqua (spesso al limite di saturazione) perciò molto plastico e con scarsa capacità portante, i drenaggi di umidità devono essere costruiti in modo da facilitare l’evaporazione dell’acqua in eccesso.

Tale intervento, in genere, viene realizzato formando diaframmi di ciottoli e ghiaie a tutta altezza con sicuro sbocco a valle. La loro frequenza (10÷15 m) e la loro profondità (1÷3 m) devono essere scelte in relazione alle condizioni dei luoghi ed all’eccesso di umidità che si intende smaltire.

Un caso abbastanza comune di dreni d’umidità può considerarsi la protezione dei rilevati dalla risalita d’acque capillari, provenienti dal disotto del loro piano di posa; in tali situazioni è opportuno sistemare il piano con l’interposizione di diaframmi anticapillari ottenuti scavando un cassonetto

(spessore 30÷60 cm) e sistemando, per una larghezza maggiore della fascia occupata dal rilevato, una coltre costituita da terreno granulare (ciottoli e ghiaie) e da sabbie grosse.

Il diaframma, in tal modo, favorisce l’evaporazione delle acque del piano di posa perché queste sono poste in comunicazione con l’ambiente esterno (Fig. 6.19).

Fig. 6.19 – Diaframma di terreno granulare per drenare il piano di posa del rilevato dalle acque di risalita capillare.

Le caratteristiche granulometriche del materiale drenante devono essere studiate, in relazione alla natura del terreno da drenare, in modo da evitare gli intasamenti e di assicurare, perciò, la continua efficienza del dreno al fine di permettere il deflusso delle acque.

In genere è consigliabile adottare il seguente criterio:

d15 < D15 < 5d85

dove D15 è il Ø (medio equivalente) corrispondente al 15% di passante (materiale drenante) d15 e d85 sono i Ø relativi rispettivamente al 15% ed all’85% di passante della curva granulometrica della terra da drenare.

La prima parte della ineguaglianza esprime la condizione di assicurare al drenaggio una certa permeabilità, mentre la seconda (D15 < 5d85) corrisponde alla necessità che sia evitato l’intasamento. In particolare, intendendo smaltire le acque per mezzo di tubi forati, si rivela consigliabile una certa relazione fra granulometria del materiale drenante che ricopre i tubi e diametro df dei fori o larghezza degli interstizi lasciati fra un tubo ed il successivo:

D85 < 1.5 df

Normalmente per i drenaggi, si usano ciottoli o pietrame piuttosto grossi, per i quali si presenta l’inconveniente di facili intasamenti, specialmente quando i terreni da drenare sono argillosi. Tutte le volte che è possibile, perciò, è preferibile interporre fra ciottoli e terreno da drenare uno strato di materiale granulare minuto (ghiaie sabbiose) che funzioni da filtro.

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