2  Meccanica delle Terre

2.1 – Relazioni tra le fasi e proprietà

Un elemento di volume di terreno, essendo un sistema particellare, è sempre multifase.

In Fig. 2.1a è schematizzato un tipico elemento di terreno costituito da 3 fasi distinte: solida (grani), gassosa e liquida (in genere acqua): le fasi sono illustrate come solitamente si presentano in un elemento di terreno reale.

Nella Fig. 2.1b le medesime sono state separate allo scopo di meglio definire le relazioni intercorrenti. Nella parte sinistra della figura sono indicati i volumi, a destra i pesi delle differenti fasi.

Fig. 2.1 – Relazioni tra le fasi in un terreno. a) assetto naturale; b) schema a fasi concentrate.

Le relazioni tra le varie fasi sono riportate di seguito:

Esistono 3 significative relazioni riguardanti i volumi delle diverse fasi:

–       porosità;

–       indice di porosità;

–       grado di saturazione.

La porosità (n) è il rapporto tra il volume dei pori e il volume totale dell’elemento di terreno; l’indice di porosità (e) è il rapporto tra il volume dei pori e il volume della fase solida. I valori della porosità sono, in generale, espressi in %.

L’indice di porositàe, viene espresso in decimali, ad es. 0.45 potendo raggiungere valori maggiori dell’unità. Sia la porosità che l’indice di porosità indicano, in termini adimensionali, il volume dei pori del terreno. I pori sono riempiti di fluido, gassoso o liquido, di solito acqua.

In Meccanica delle Terre vengono impiegati entrambi i termini e ed n; tuttavia l’indice di porosità è quello che torna più utile; quando un elemento di terreno, infatti, viene sottoposto a compressione, diminuiscono sia il volume dei pori che il volume totale mentre il volume dei solidi rimane invariato. Da ciò segue che l’indice di porosità è una grandezza più conveniente della porosità nello studio dei processi di compressione dei terreni.

II grado di saturazione (S) indica, in %, il volume dei pori occupati dall’acqua. Quindi un valore di S = 0 indica un terreno secco; S = 100 indica un terreno saturo; un valore compreso entro 0÷100 indica un terreno parzialmente saturo.

La relazione più utile tra i pesi delle fasi di un elemento di terreno è rappresentata dal contenuto d’acqua, che è il rapporto tra il peso dell’acqua e il peso della fase solida.

Il contenuto d’acqua di un campione di terreno può essere determinato rapidamente utilizzando il seguente modo: inizialmente si pesa il campione integro, che viene quindi essiccato in una stufa e successivamente ripesato ottenendo il peso secco; successivamente si calcola il contenuto d’acqua quale rapporto tra la differenza dei pesi prima e dopo l’essiccamento e il peso secco. tale procedimento presuppone che tutte le sostanze volatili siano costituite da acqua (ipotesi accettabile quando non si tratti di terreni organici o di terreni contenenti additivi come l’asfalto.

In un terreno saturo, tra il contenuto d’acqua e l’indice di porosità esiste una relazione univoca, come si desume dalle espressioni dei due termini. Poiché la determinazione dei pesi è assai più agevole di quella dei volumi, si utilizzano frequentemente le variazioni di contenuto d’acqua nel caso di terreno saturo al fine di valutarne le variazioni di volume. I vari pesi dell’unità di volume hanno le dimensioni forza/volume (kN/m3).

La massa specifica relativa (G) del terreno, della sostanza solida etc., rappresenta il rapporto tra il peso dell’unità di volume corrispondente e quello dell’acqua. Alcuni valori della massa specifica relativa G di alcuni minerali, sono riportati in tabella 2.1.

Tabella 2.1 Massa specifica relativa G di alcuni minerali.

L’espressione G W = S e è utile per controllare i calcoli eseguiti con le varie relazioni.

2.1.1 – Valori caratteristici delle proprietà indici dei terreni granulari

Fig. 2.2 – a) Disposizione cubica semplice di minimo addensamento; b) Disposizione di massimo addensamento.

In Fig. 2.2 sono indicate 2 tra le possibili configurazioni di un insieme di sfere di uguale diametro: in 2.2b è rappresentata la disposizione delle sfere che dà luogo alla minima porosità per questo tipo di sistema. Configurazioni alle quali corrispondono porosità ancora più elevate di quella della disposizione cubica (2.2a) possono ottenersi disponendo opportunamente le sfere in modo da formare degli archi. Nell’ambito delle configurazioni stabili la cubica rimane tuttavia quella cui corrisponde la massima porosità.

L’indice di porosità e la porosità di questo semplice sistema possono essere calcolati in base alla sua geometria, i risultati sono riportati in Tab. 2.2 dove si fornisce anche il valore del peso secco dell’ unità di volume di alcuni tipici terreni granulari negli stati di massimo e minimo addensamento

Tabella 2.2 – Valori caratteristici dell’indice di porosità e di altre proprietà indici di terreni granulari.

Per determinare sperimentalmente la massima densità relativa occorre sottoporre il terreno a vibrazione; per determinare la minima si deve versare il terreno essiccato in stufa in un contenitore. Con particolari modalità sperimentali si possono ottenere valori della densità relativa più alti della densità massima convenzionalmente definita. Allo stesso modo si possono ottenere densità relative minime notevolmente più basse di quelle convenzionali, specialmente nel caso delle sabbie e dei limi. facendo sedimentare il terreno lentamente in acqua oppure impastando lievemente il terreno appena inumidito.

Minore è l’intervallo dei diametri delle particelle (più è quindi uniforme il terreno), e più piccole e spigolose sono le particelle, più risulta basso il valore della densità relativa minima (vale a dire: più alte sono le possibilità di ottenere un insieme di particelle con elevata porosità). Quanto più ampio è l’intervallo dei diametri delle particelle costituenti il terreno tanto più alta risulterà la densità relativa massima (in quanto i pori delimitati dalle particelle più grandi possono essere riempiti da particelle più piccole). Lo stato di addensamento di un terreno granulare naturale può essere descritto dalla densità relativa Dr definita con la relazione:

essendo:

Una classificazione dei terreni in base alla loro densità relativa è indicata in Tab. 2.3.

Tab. 2.3 – Classificazione dei terreni in base alla densità relativa.

Il contenuto naturale d’acqua di terreni granulari varia da meno dello 0.1% delle sabbie essiccate all’aria, fin oltre il 40% delle sabbie scarsamente addensate sature d’acqua.

2.1.2 – Valori caratteristici delle proprietà indici dei terreni coesivi

I valori delle proprietà indici dei terreni coesivi variano entro intervalli assai più ampi di quelli delle corrispondenti proprietà dei terreni granulari. Così l’indice di porosità della Sodio-montmorillonite satura, sotto basse pressioni di confinamento, può risultare > 25 mentre l’indice di porosità di argille sature, sottoposte a pressioni molto alte (ad es. 70 MN/m2), come quelle esistenti a grande profondità nel sottosuolo, può risultare < 0.2.

Poiché G W = S e, i contenuti d’acqua corrispondenti ai valori di porosità prima citati risultano:

–       Sodio – Montmorillonite → 900

–       Argilla sottoposta ad alte pressioni → 7

2.2 – Composizione granulometrica

La distribuzione delle dimensioni delle particelle, che compongono un dato terreno, viene descritta mediante diagrammi come quello di Fig. 2.3, nei quali la % di passante in peso è rappresentata in funzione del diametro. Utilizzando le denominazioni granulometriche riportate in Fig. 2.3, la curva rappresentata nella figura stessa, indica che la composizione granulometrica è la seguente:

ghiaia      2%

sabbia     85%

limo         12%

argilla      1%

II grado di uniformità di un terreno può essere indicato dal coefficiente di uniformità, definito come rapporto tra il D60 e il D10, essendo D60 il diametro corrispondente alla % di passante in peso del 60% e D10 il diametro corrispondente alla % di passante del 10%. I terreni con coefficiente di uniformità < 2 sono considerati uniformi. Il coefficiente di uniformità del terreno la cui curva granulometrica è rappresentata in Fig. 2.3 è pari a 10; il terreno in esame può essere denominato sabbia limosa ben assortita.

Fig. 2.3 – Curva granulometrica e classificazione granulometrica.

La curva granulometrica, per vari motivi pratici e teorici, è approssimata. Infatti, la definizione della dimensione, o del diametro, della singola particella è differente a seconda che si tratti di particelle di grandi o piccole dimensioni.

La composizione granulometrica dei terreni a grana fina può essere determinata in maniera meno univoca di quella dei terreni a grana grossa. I trattamenti chimici e meccanici cui vengono sottoposti i terreni prima di eseguirne l’analisi granulometrica (in particolar modo nell’effettuare l’analisi per sedimentazione) modificano, infatti, le dimensioni delle particelle.

Il comportamento dei terreni incoerenti può, tuttavia, porsi in relazione con la composizione granulometrica mentre quello dei terreni a grana fina coesivi dipende più dalla struttura e dalle vicende geologiche che dalla composizione granulometrica.

Malgrado questi limiti la composizione granulometrica riveste notevole importanza ingegneristica, specialmente nel caso delle sabbie e dei limi. Infatti sia le analisi teoriche che le indagini sperimentali dimostrano, ad es., che la permeabilità e la capillarità dei terreni possono porsi in relazione con un diametro significativo (o efficace) delle particelle. In ogni caso, per la progettazione dei filtri di dighe, argini etc. è necessario considerare la composizione granulometrica dei terreni interessati.

I metodi di progettazione si basano sulla relazione tra permeabilità e composizione granulometrica e sui risultati di indagini sperimentali sulle caratteristiche granulometriche che il materiale costituente i filtri deve presentare affinché non si verifichi la migrazione delle particelle del materiale protetto per effetto del moto di filtrazione dell’acqua in seno al terreno.

La conoscenza della composizione granulometrica, inoltre, è necessaria per valutare la suscettibilità dei terreni nei riguardi del congelamento, secondo uno dei criteri più comunemente impiegati.

2.3 – Limiti di Atterberg

limiti di Atterberg, e le grandezze derivate, sono proprietà caratteristiche di un insieme di particelle, il cui impiego è risultato di grande utilità nel campo della Meccanica dei terreni.

L’introduzione dei limiti è basata sul concetto che un terreno a grana fina può esistere in 4 differenti stati in funzione del valore del contenuto d’acqua. Un terreno è allo stato solido se è secco, e passa successivamente allo stato semisolido, plastico e infine allo stato liquido all’aumentare del contenuto d’acqua (Fig. 2.4).

Fig. 2.4 – Limiti di Atterberg.

I valori del contenuto d’acqua che delimitano i vari stati sono definiti: limite di ritiro, limite di plasticità e limite di liquidità. Gli indici (di liquidità, di plasticità etc.) si determinano in funzione dei limiti di Atterberg.

Tab. 2.4 – Valori dei Limiti di Atterberg per minerali argillosi.

Il limite di liquidità viene determinato mediante un dispositivo sperimentale standardizzato (cucchiaio di Casagrande) misurando il contenuto d’acqua e il numero di colpi necessari affinché un solco, di geometria standardizzata, si richiuda per una lunghezza prefissata.

Il limite di plasticità viene determinato misurando il contenuto d’acqua corrispondente allo stato nel quale un bastoncino di terreno cilindrico e con diametro di 3 mm comincia a sgretolarsi.

Il limite di ritiro è il contenuto d’acqua che il terreno, o meglio una porzione compatta di questo, avrebbe se i pori fossero riempiti completamente d’acqua quando il volume di tale porzione raggiunge per essiccamento il valore minimo.

Il concetto che il terreno esista in stati differenti in dipendenza del valore del contenuto d’acqua è assai fondato. Tanto più grande è la quantità d’acqua contenuta nel terreno, infatti, tanto meno intensa é l’interazione tra particelle adiacenti e tanto più il comportamento del terreno tenderà a quello di un fluido. In via approssimativa è da attendersi che l’acqua attratta dalla superficie delle particelle di terreno non si comporti come un liquido. Cosicché se si confrontano due terreni A e B e se il terreno A manifesta una più spiccata tendenza ad attrarre acqua sulla superficie delle particelle che lo formano, è da attendersi che il contenuto d’acqua per il quale il terreno A tende a comportarsi come liquido sia più alto di quello del terreno B; e dunque il limite di liquidità del terreno A dovrebbe essere più alto di quello del terreno B.

Analoga conclusione può trarsi per il limite di plasticità, e quindi anche per l’indice di plasticità.

I limiti sono stati definiti in modo arbitrario; è quindi improbabile che essi possano, intrinsecamente, interpretarsi come proprietà fondamentali: appare, infatti, improbabile che il limite di liquidità di un dato terreno possa correlarsi quantitativamente con lo spessore dello strato di acqua adsorbita dalle particelle.

Le difficoltà di interpretare i limiti di Atterberg in funzione dei caratteri fondamentali del sistema di particelle non deve, tuttavia, dissuadere dal!’utilizzarli. I limiti debbono essere considerati, di conseguenza, come valori approssimativi degli estremi dell’intervallo di contenuti d’acqua relativo a ciascuno degli stati nei quali il terreno può esistere, senza troppo preoccuparsi di attribuire precisi significati fisici a tali grandezze definite arbitrariamente.

2.3.1 – Relazione tra limiti di Atterberg e composizione granulometrica

Si procede ora a considerare un’altra conseguenza dell’ipotesi che i limiti di Atterberg di un terreno siano correlati alla quantità d’acqua attratta sulla superficie delle particelle. Poiché, infatti, l’area della superficie delle particelle per unità di massa di terreno aumenta in misura notevolissima al diminuire della dimensione delle particelle è da attendersi che la quantità d’acqua adsorbita dipenda in gran parte dalla quantità di argilla (o frazione argillosa) presente nel terreno. Sulla base di questo assunto Skempton ha definito una grandezza, denominata attività, secondo la relazione:

attività(colloidale) = Ip / % in peso (materiale d<2 μm)

In Fig. 2.5 sono diagrammati alcuni risultati ottenuti sperimentando su miscele artificiali di particelle con diametro maggiore o minore di 2 μm. I risultati di Fig. 2.5 (a) si riferiscono a miscele preparate a partire dalle frazioni preliminarmente separate, con diametro minore o maggiore di 2 μm di terreni naturali; i risultati di Fig. 2.5 (b) riguardano miscele di minerali argillosi e sabbia quarzosa.

Fig. 2.5 – Relazione tra Ip e frazione argillosa.

2.3.2 – Utilizzazione dei limiti di Atterberg in campo progettuale

I limiti di Atterberg e le grandezze da essi derivate si sono rivelati assai utili per l’identificazione e la classificazione dei terreni. I limiti, inoltre, sono frequentemente utilizzati direttamente nelle specifiche tecniche riguardanti il controllo di materiali per la costruzione dei rilevati e in alcuni metodi di progetto semiempirici.

Sia l’indice di plasticità, che indica l’ampiezza dell’intervallo dei valori del contenuto d’acqua entro il quale il terreno rimane allo stato plastico, sia l’indice di liquidità, che indica la prossimità del contenuto naturale d’acqua al limite di liquidità, sono particolarmente utili. È da tenere tuttavia presente che i limiti di Atterberg e i vari indici, con l’eccezione del limite di ritiro, vengono definiti e riguardano il terreno profondamente rimaneggiato fino a ottenere una miscela uniforme di particelle solide e acqua. Di conseguenza i limiti non possono fornire indicazioni alcuna sull’assetto strutturale delle particelle o sui legami secondari tra le particelle che possono essersi formati nel terreno naturale e che vengono necessariamente distrutti durante la preparazione del provino per la determinazione dei valori.

2.3.3 – Classificazione dei terreni

L’approccio diretto alla soluzione dei problemi di Meccanica delle Terre comporta, nell’ordine, le seguenti fasi:

–       determinazione dei valori delle proprietà geotecniche inerenti il problema in esame;

–       introduzione di tali valori in espressioni razionali che consentano di ottenere la soluzione del problema.

Per tale tipo di approccio si indicano alcuni esempi:

–       1 – per valutare la portata filtrante attraverso un ammasso di terreni si determina dapprima il coefficiente di permeabilità del terreno: quindi, facendo ricorso alla legge di Darcy e alla rete idrodinamica, si calcola la portata filtrante.

–       2 – per calcolare i cedimenti di un edificio si determinano i parametri di compressibilità del terreno che vengono di seguito introdotti nelle espressioni dei cedimenti.

–       3 – per valutare la stabilità di un pendio si determina sperimentalmente il valore della resistenza a taglio del terreno e s’introduce tale valore in espressioni derivate applicando le leggi della Statica.

La determinazione sperimentale di proprietà del terreno quali la permeabilità, la compressibilità e la resistenza può risultare difficile richiedendo molto tempo e risultando spesso costosa. Inoltre, in differenti casi, non si dispone di espressioni razionali per l’analisi e la soluzione dei problemi.

Per questi motivi può risultare vantaggioso raggruppare i terreni in classi, a ciascuna delle quali appartengono elementi con comportamento analogo. L’operazione con la quale si attribuisce un dato terreno a una classe costituisce la classificazione dei terreni.

Le correlazioni tra ciascun gruppo e il comportamento dei terreni ad esso appartenenti vengono stabilite, di norma, in maniera empirica e richiedono notevole esperienza. La classificazione consente altresì di risolvere molti problemi semplici permettendo d’indirizzare il programma di indagini geotecniche più approfondite quando le difficoltà e l’importanza del problema lo richiedano.

Nella maggior parte delle classificazioni si fa riferimento a prove molto semplici per ottenere i dati necessari per assegnare i terreni alle varie classi. È evidente che le classificazioni perderebbero ogni vantaggio se per ottenere tali dati fossero necessario prove più complicate di quelle occorrenti per la determinazione diretta delle proprietà di interesse del terreno.

Le proprietà sulle quali più frequentemente si basano le classificazioni sono la composizione granulometrica e i limiti di plasticità.

Essendo le classificazioni dei terreni finalizzate alla risoluzione di problemi, non stupisce che siano state proposte molte classificazioni, ciascuna rivolta a un tipo di problema.

Così, per i problemi di filtrazione, i terreni possono essere distinti in classi di permeabilità alta, media, bassa, molto bassa, essenzialmente impermeabile. Il Corps of Engineers degli Stati Uniti ha elaborato una classificazione con la quale, partendo dalla composizione granulometrica, si può valutare la suscettibilità del generico terreno nei riguardi del congelamento; il Bureau of Public Roads ha sviluppato una classificazione dei terreni finalizzata alla costruzione delle strade; infine, il Corps of Engineers e l’US Army hanno elaborato, ciascuno per proprio conto, classificazioni dei terreni specifiche per la costruzione di aeroporti. Dal 1952 il Bureau of Reclamation e il Corps of Engineers hanno sviluppato la Classificazione Unificata o Uniforme, di validità generale, illustrata nelle Tab. 2.5 e 2.6.

Nella Tab. 2.7 vengono fornite indicazioni di massima sulla permeabilità, sulla resistenza e la compressibilità dei vari gruppi di terreni; nella medesima si forniscono giudizi sulla desiderabilità dei vari gruppi di terreni in relazione a varie applicazioni (dighe in terra, canali, fondazioni, piste aeroportuali).

Tab. 2.6 – Componenti e frazioni dei Terreni.

Tab. 2.5 – Classificazione Uniforme dei Terreni.

Tab. 2.8 – Classificazione Ingegneristica.

2.4 – Aspetto esterno dei grani

2.4.1 – Dimensione

La dimensione dei grani, quando essi non siano sferici o cubici, non può essere definita univocamente con una sola dimensione lineare. Il significato di dimensione o diametro dipende quindi dal tipo di grandezza usata e da come quest’ultima viene determinata.

Di norma esistono 2 modi per determinare le dimensioni dei grani: l’analisi per setacciatura, per grani di dimensione > 0.06 mm, e l’analisi per sedimentazione per le particelle più piccole. Nell’analisi per setacciatura, il terreno viene vagliato con uno setaccio a maglie quadrate di lato noto; si assume quindi quale diametro dei grani con Ø > 0,06 la lunghezza del lato delle maglie del setaccio impiegato. Nell’analisi per sedimentazione la dimensione dei grani viene definita come diametro di sfere equivalenti che sedimentino in acqua alla stessa velocità dei grani in esame.

Il diametro dei grani varia entro 1×10-6 mm÷n m nel caso di grandi blocchi lapidei.

Per indicare la dimensione dei grani si può ricorrere sia ad un numero che ad una denominazione arbitrariamente assegnata a un dato intervallo di diametri. Nella Tab. 2.9 è fornita la serie delle denominazioni e i corrispondenti intervalli dimensionali (fra parentesi sono riportati altri valori numerici dei diametri estremi degli, intervalli di definizione di ciascun termine parimenti usati).

Tab. 2.9 – Definizioni granulometriche e diametro dei grani.

Il termine argilla è usato anche per i terreni a grana fina dotati di plasticità, come accennato in precedenza. Si possono evitare confusioni usando l’espressione particelle con granulometria dell’argilla” piuttosto che argilla per indicare le particelle con diametro < 2μm.

Nella Tab. 2.10 sono rappresentate le dimensioni delle particelle e gli intervalli di applicabilità di alcuni metodi per la determinazione della composizione granulometrica.

Tabella 2.10 –  Dimensioni delle particelle, denominazioni granulometriche e metodi d’analisi.

2.4.2 – Forma

Come sottolineato in precedenza, la dimensione del singolo grano può essere descritta con un solo numero allorquando i grani abbiano la stessa dimensione in tutte le direzioni come un cubo o una sfera. Questa situazione non è troppo lontana dalla realtà per i terreni classificabili tra i limi o per i terreni a grana più grossa ma lo è invece per le argille.

In generale, infatti, le particelle a grana più grossa sono approssimativamente equidimensionali o isometriche mentre la maggior parte delle particelle costituenti le argille sono lungi dall’esserlo, laddove la forma più comune è quella lamellare. Nei terreni possono comunque trovarsi anche particelle a forma di bastoncini o listelli, con dimensioni analoghe a quelle delle argille.

I sedimentologi descrivono i grani usando termini quali: dischi, sfere, lamine e bastoncini, in base al rapporto tra i differenti diametri della stessa particella. L’ingegnere civile, viceversa, non trova in genere conveniente caratterizzare quantitativamente la forma dei grani a causa della piccola dimensione di quelli con cui si ha normalmente a che fare.

2.4.3 – Grado di arrotondamento, tessitura superficiale e colore

II grado di arrotondamento si riferisce all’acutezza dei bordi e degli spigoli dei grani: in Fig. 2.7 sono mostrati 5 differenti gradi di arrotondamento degli spigoli.

Fig. 2.7  Gradi di arrotondamento per particelle.

Caratteristica di minor importanza, indipendente dalle dimensioni, dalla forma o dal grado di arrotondamento degli spigoli, è la tessitura superficiale dei grani. Tra i termini usati per descrivere tale caratteristica vi sono: opaca o lucida, liscia o ruvida, striata, levigata, incisa o butterata.

Il colore è una caratteristica molto utile per il geologo che opera in miniera, ma ha importanza non grande per l’ingegnere civile. Quest’ultimo, tuttavia, usa frequentemente il colore per descrivere un aggregato di particelle: ad es. argilla azzurra.

La descrizione cromatica va comunque usata con cautela in quanto il colore di una formazione può cambiare al variare del contenuto d’acqua o della composizione chimica.

2.4.4 – Composizione mineralogica

Avvicinandosi alla Meccanica delle Terre da profani si potrebbe ritenere, del tutto logicamente, che la composizione delle singole particelle risulti una importante caratteristica del terreno. Tale convinzione, tuttavia, finisce per profilarsi erronea in quanto esistono, in generale, poche correlazioni utili tra la composizione e il comportamento del terreno; viceversa tale convinzione è in parte vera per ciò che riguarda la comprensione degli aspetti fondamentali del comportamento del terreno.

La natura e la disposizione degli atomi in una particella di terreno (cioè la sua composizione) influiscono infatti significativamente sulla permeabilità, la compressibilità, la resistenza e la trasmissione degli sforzi nel terreno, specialmente nei terreni a grana fina e finissima.

Esistono alcuni minerali che possono conferire caratteristiche particolari al terreno che li contiene: ad es. la montmorillonite e la alloysite. La montmorillonite, infatti, può rendere un terreno estremamente rigonfiante mentre la alloysite ne può abbassare moltissimo il peso dell’unità di volume. Nel prosieguo della trattazione verranno di conseguenza considerate diverse relazioni tra composizione e comportamento del terreno in quanto l’essenza mineralogica di questo riveste uno degli aspetti fondamentali del comportamento delle argille e, in particolare, la dipendenza del loro comportamento dal tempo, dalla pressione e dalle condizioni dell’ambiente fisico.

Per quanto concerne l’essenza chimica di un particella di terreno, inoltre, la medesima può essere organica oppure inorganica.

Non molto viene solitamente riferito sulla composizione dei terreni organici: infatti, allo stato attuale delle conoscenze, il progettista si preoccupa poco d’identificare le reali componenti organiche del terreno. Esistono terreni composti interamente da particelle organiche, come la torba, e ne esistono altri costituiti sia da particelle organiche che da particelle inorganiche, come i limi organici.

Una particella inorganica di un terreno, infine, può essere sia un minerale che una roccia. Il minerale è un elemento chimico naturale o un composto (cioè ha una composizione chimica esprimibile con una formula) formatosi attraverso processi geologici. La roccia è un aggregato di uno o più minerali o vetri e forma la crosta terrestre.

I minerali sono stati classificati sia in base alla natura degli atomi che alla loro disposizione o struttura. La prima classificazione prevede nomenclature come Carbonati, Fosfati, Ossidi e Silicati. Questa classificazione ha un valore limitato per l’ingegnere civile perché i minerali più abbondanti e importanti sono i silicati che compongono più del 90% in peso di tutti i terreni presenti sulla superficie terrestre. Nella Tab. 2.11 è riportata una classificazione dei silicati basata sulla struttura atomica del minerale. Tale classificazione è esaustiva in quanto le classi sono ben definite poiché solo un silicato (vesuvianite) ricade in più di una classe, e inoltre perché le caratteristiche fisiche, ottiche e chimiche dei minerali sono correlate alla loro struttura.

I terreni, di norma, sono i prodotti dell’alterazione delle rocce e quindi i minerali più abbondanti che essi contengono sono quelli che costituiscono le rocce e quelli più resistenti ai processi di alterazione chimica e fisica. I silicati a strati e quelli con struttura a palchi tridimensionali sono quindi i minerali più abbondanti e comuni nei terreni.

2.4.5 – Unità strutturali fondamentali

Lo studio della struttura dei Silicati è facilitato se si costruisce il minerale con unità strutturali fondamentali; tale approccio, in ogni caso, ha valore prettamente didattico e non rispecchia necessariamente la maniera in cui il minerale si è realmente formato in natura.

Il tipico cristallo di un’argilla possiede una struttura complessa, simile al modello idealizzato, ma presenta, generalmente, sostituzioni irregolari e interstratificazioni.

Tab. 2.11 – Struttura dei Silicati.

In Fig. 2.12 è rappresentato un gruppo di unità fondamentali dei silicati. Il tetraedro costituito di atomi di Ossigeno e di Silicio comprende quattro atomi di Ossigeno disposti intorno a un atomo di Silicio in modo da formare l’unità illustrata in Fig. 2.12a. Gli atomi sono disegnati in scala, in base ai raggi misurati in Ångstroms (0.1 nm). A destra di ogni unità sono riportate le valenze.

Fig. 2.12 – Unità strutturali fondamentali dei Silicati.

In Fig. 2.12c è mostrato l’ottaedro di atomi di Alluminio e di Ossigeno e in Fig. 2.12d l’ottaedro di atomi di Magnesio e di Ossigeno. Combinando i tetraedri di Silicio e Ossigeno si ottiene lo strato di Silice di Fig. 2.12e. Combinando gli ottaedri di Alluminio e Ossigeno si ottiene la gibbsite (Fig. 2.12f) combinando invece gli ottaedri di Magnesio e Ossigeno si ottiene la brucite (Fig. 2.12g).

L’analisi delle valenze riportate (ambiti a-e) mostra che il tetraedro e i due ottaedri non sono elettricamente neutri e quindi queste strutture non esistono come unità isolate. La gibbsite e la brucite, invece, sono elettricamente neutre ed esistono in natura come tali.

2.4.5 – La trasmissione delle forze nei terreni

In Fig. 2.13 sono rappresentate due piastre parallele alle quali viene applicata una forza normale di 63 N. Le piastre sono quadrate (lato pari a 25 mm e area 625 mm2). Lo sforzo normale è quindi uguale al rapporto tra la forza totale e l’area, risultando pari a 0.1 MN/m2.

Fig. 2.13 – Trasmissione delle forze nei terreni: argilla (a-b) e sabbia (c).

Le piastre vengano ricoperte con uno strato di Sodio-montmorillonite umida con particelle orientale parallelamente alle piastre. Per un tale sistema di particelle parallele si è ottenuta la curva sperimentale distanza interparticellare-tensione normale di Fig. 2.13b.

Poiché le particelle di Argilla coprono tutta l’area delle piastre e lo sforzo normale applicato alle particelle è pari a 0.1 MN/m2 la distanza interparticellare risulta uguale a 115 Å ; la pressione applicata alle particelle è pari a quella applicata alle piastre mentre la distanza interparticellare dipende dalla tensione normale applicata: più grande è questa più piccola risulta la distanza interparticellare. Proseguendo nell’esperimento si nota che diviene necessaria una pressione di 550 MN/m2 per portare a contatto le 2 particelle di montmorillonite estrudendo in tal modo l’acqua da queste adsorbita.

Le piastre siano ora invece ricoperte con grani di sabbia (Fig. 2.13c) dove il Ø dei grani è ~0.06 mm.

Per tale disposizione parallela dei grani tra le piastre, la tensione nei punti di mutuo contatto dei grani è pari al rapporto tra la forza totale applicata e l’area di contatto. Le misure indicano che questa è pari a circa il 3% dell’area totale. Quindi gli sforzi nei punti di contatto risultano pari a 335 MN/m2. Questa tensione è sufficientemente alta per estrudere l’acqua adsorbita.

L’esempio in figura dimostra che gli sforzi normali possono essere trasmessi attraverso un sistema di particelle di Argilla disperse mediante azioni elettriche a distanza senza che si abbia il contatto diretto minerale – minerale.

D’altra parte in terreni flocculati le particelle sono realmente in contatto minerale – minerale e gli sforzi normali vengono trasmessi in maniera simile a quanto accade nel sistema di Fig. 2.13c.

Le particelle nei terreni naturali, tuttavia, non hanno le stesse dimensioni e la stessa forma, così come si ipotizza nella teoria dei colloidi; di fatto pressoché tutti i terreni naturali contengono particelle con differenti dimensioni e forme, e quasi tutti i terreni contengono particelle di differente composizione e impurità.

Particelle con le dimensioni del limo, soprattutto, sono presenti in molte Argille naturali; tali particelle non appiattite influiscono sull’ assetto di quelle a forma di lamina. Inoltre, anche le particelle di Argilla non hanno generalmente superfici perfettamente lisce.

Ad es., sulla superficie delle particelle di caolinite si possono notare irregolarità; tali irregolarità possono presentare altezze anche di 100 Å, pari al raggio d’azione significativo delle forze di origine elettrica. Ne segue che il meccanismo di trasmissione degli sforzi tra le particelle di terreno in un Argilla naturale è intermedio tra quelli delle situazioni estreme nelle quali le particelle abbiano dimensioni equivalenti nelle 3 direzioni (isometriche) o siano, al contrario, appiattite e disposte parallelamente. Il comportamento è in genere più vicino a quello del terreno con particelle isometriche. A causa di queste difficoltà, poiché le teorie fisiche trascurano alcune forze che probabilmente sono importanti quando la distanza interparticellare è < 100 Å, i principi della Chimica dei colloidi sono di modesto aiuto nello studio quantitativo del comportamento delle Argille. Questi, tuttavia, permangono molto utili per la comprensione degli aspetti fondamentali del comportamento dei terreni a grana fina.

2.5 – La resistenza al taglio nei contatti tra le particelle

2.5.1 – Introduzione

Nei capitoli precedenti si è potuto constatare come il più significativo meccanismo di deformazione di un ammasso di terreno sia rappresentato dallo scorrimento relativo tra le particelle. Ne segue che la capacità del terreno di non lasciarsi deformare dipende fortemente dalla resistenza al taglio nei punti di contatto tra le particelle.

La resistenza al taglio che si manifesta in corrispondenza delle superfici delle particelle solide, tuttavia, rappresenta soltanto una componente della resistenza che può offrire il terreno a sollecitazioni di taglio o di compressione; un altro fattore di notevole importanza, infatti, è l’interconnessione tra le particelle che dipende essenzialmente dal loro assetto e grado di addensamento.

La resistenza al taglio nel punto (o nei punti) di contatto tra 2 particelle è la forza che deve essere applicata per produrre lo spostamento relativo delle particelle medesime. Tale resistenza ha origine dalle forze d’attrazione che agiscono tra gli atomi presenti sulla superficie dei grani (o particelle). Per effetto delle forze d’attrazione nei punti di contatto, fra le superfici si formano legami chimici; di conseguenza la resistenza per attrito fra 2 particelle è fondamentalmente della medesima natura della resistenza al taglio di un blocco di materiale solido e compatto (ad es. acciaio).

La resistenza e il numero dei legami che si formano all’interfaccia dipende dalla natura chimica e fisica delle superfici delle particelle. Per valutare, quindi, l’entità della resistenza a taglio tra 2 particelle è necessario conoscere i fattori che governano l’interazione tra le superfici delle particelle stesse in corrispondenza dei punti di contatto.

Se lo sforzo normale diminuisce, diminuisce la resistenza del singolo legame oppure il numero dei legami; di conseguenza anche la resistenza al taglio totale diminuisce. La resistenza al taglio tra le particelle è dunque di natura attritiva.

Talvolta, tuttavia, una parte della resistenza al taglio tra le particelle è indipendente dallo sforzo normale e anche se lo sforzo è nullo la resistenza al taglio permane ancora finita e misurabile. In tal caso esiste una coesione vera tra le particelle. La coesione vera, infatti, può esistere tra particelle che sono rimaste a contatto per lungo tempo senza subire spostamenti mutui. In alcuni casi la coesione vera ha grande importanza, come quando la cementazione trasforma le sabbie in arenarie. Generalmente, tuttavia, la coesione vera tra le particelle è piccola e il contributo alla resistenza del terreno è di conseguenza modesto. Si deve, comunque, tenere presente che i terreni resistono, di norma, per attrito, mentre la resistenza dovuta alla coesione vera è l’eccezione.

La resistenza per attrito viene espressa in due maniere differenti. Con la prima si ricorre al coefficiente di attrito f: se N è lo sforzo normale sulla superficie, la resistenza al taglio massima vale:

Tmax = N f

Con la seconda si fa riferimento all’angolo d’attrito φμ definito dall’espressione:

tg φμ = f

In Fig. 2.14, è illustrato, in termini geometrici, il significato di φμ.

Fig. 2.14 – Definizione dell’angolo d’attrito φμ.

2.5.2 – Resistenza per attrito

2.5.2.1 – Leggi fondamentali dell’attrito

Le leggi fondamentali della resistenza a taglio per attrito sono due:

–       1 – La resistenza al taglio fra due corpi è proporzionale allo sforzo normale mutuo;

–       2 – La stessa è indipendente dalle loro dimensioni.

La seconda legge può essere illustrata spostando lungo una superficie piana un mattone; lo sforzo tangenziale necessario per determinare il movimento resta invariato sia che il mattone poggi su una faccia sia che poggi su uno spigolo.

La legge di attrito, come molte altre relazioni, sintetizza i risultati di numerose osservazioni empiriche.

2.5.2.2 – Meccanismi di attrito

I principi basilari del comportamento attritivo possono esprimersi come segue:

1 – a scala sub-microscopica, la maggior parte delle superfici (anche quelle accuratamente levigate) sono in realtà scabre, quindi due corpi solidi vengono a contatto solo in corrispondenza delle asperità (che rappresentano gli alti delle superfici); l’area di contatto effettiva è pari perciò a una frazione molto piccola dell’area di contatto apparente (Fig. 2.15).

2 – poiché il contatto avviene in punti discreti, gli sforzi normali in corrispondenza dei contatti risultano estremamente alti, e anche per sollecitazioni basse nei punti di contatto si raggiungerà la resistenza a rottura del materiale che costituisce i grani. Ne segue che l’area di contatto reale Ac è data da:

Ac = N/qu

dove N è lo sforzo normale e qu lo sforzo di plasticizzazione del materiale. Essendo qu indipendente da N, un incremento di questo causerà un aumento dell’area di contatto reale proporzionale a N: l’incremento dell’area di contatto dipende, quindi, dalla plasticizzazione delle asperità.

3 – per effetto degli elevati sforzi di contatto le due superfici aderiscono in corrispondenza dei punti di contatto, ove i due corpi sono uniti da legami chimici. La resistenza al taglio è fornita dalla resistenza per adesione in tali punti. Lo sforzo di taglio massimo Tmax è dato quindi dalla relazione:

Tmax = s Ac

essendo s la resistenza al taglio delle giunzioni per adesione ed A l’area di contatto effettiva.

Fig. 2.15 – Interpretazione micro-meccanicistica della resistenza per attrito.

Al momento è opportuno tralasciare di precisare se s è uguale alla resistenza al taglio sm del materiale di cui sono costituite le particelle. Combinando i risultati precedenti si ottiene la seguente relazione:

Tmax = Ns/qu

Essendo s e qu proprietà del materiale ne deriva che Tmax è proporzionale a N e che il coefficiente di attrito f deve essere uguale al rapporto s/qu.

L’ipotesi che f risulti pari a s/qu è stata enunciata e utilizzata (indipendentemente) da Bowden e Tabor

2.5.2.3 – Intensità degli sforzi di contatto

Quando due corpi sono posti in contatto le loro superfici interagiscono, inizialmente, attraverso le punte delle asperità più alte. Se si aumenta lo sforzo normale, viene superata la capacità portante delle asperità in contatto che si plasticizzano. Lo sforzo unitario necessario per provocare tale plasticizzazione è indicato col simbolo qu, e può essere determinato mediante prove d’indentazione.

La resistenza all’indentazione si misura pressando un punzone di forma opportuna (indenter) sulla superficie di prova piana. Sulla punta dell’indenteragiscono pressioni di confinamento molto alte che impediscono la frattura fragile anche di materiali come il quarzo. L’analogia tra la prova in esame e l’interazione tra asperità in contatto è evidente: la resistenza all’indentazione viene definita come rapporto tra lo sforzo normale applicato all’indenter e l’area dell’intaccatura da esso lasciata sulla superficie (misurata dopo averlo rimosso).

Per il quarzo, con una durezza di circa 10.800 MN/m2, si verifica la plasticizzazione quando la sollecitazione sulle asperità è maggiore di 10.300 MN/m2. Non è noto se sforzi di tale entità vengano raggiunti in un numero significativo di asperità negli ammassi di terreni granulari ma è possibile che ciò accada. Se gli sforzi non raggiungono la soglia di plasticizzazione qu, le asperità si deformano elasticamente e il comportamento nella zona di contatto si modifica notevolmente. Secondo la teoria di Hertz l’area di contatto Ac cresce con N2/3: il coefficiente di attrito, quindi, diminuisce all’aumentare del carico N. In generale, tuttavia, per le complesse condizioni di contatto tra superfici con un numero molto grande di asperità, il valore di f può mantenersi pressoché costante anche quando le singole asperità si deformano elasticamente.

2.5.2.4 – Resistenza a taglio in corrispondenza dei punti di contatto

Nel capitolo precedente si è posto in evidenza come l’acqua e altre sostanze siano attratte verso la superficie dei minerali, dove vengono adsorbite, agendo da strato contaminante; il numero di contatti solido – solido tra due superfici ricoperte da impurità, infatti, dipende dal tipo e dalla quantità di materiale adsorbito (Fig. 2.16).

Fig. 2.16 – Formazione delle giunzioni. a) stato iniziale: sforzo normale nullo; b) sforzo normale modesto; c) sforzo normale elevato tale da causare la deformazione plastica del materiale nelle vicinanze dell’area di contatto e a pressione costante.

L’effetto più importante della presenza del contaminante è quello di ridurre la resistenza al taglio nelle aree di contatto, rispetto alla resistenza del materiale che forma i colpi a contatto.

Se il contaminante viene rimosso, ad es. riscaldando la superficie in una camera a vuoto, la resistenza al taglio delle giunzioni è prossima a quella del materiale e il coefficiente di attrito aumenta. In tali condizioni i metalli duttili subiscono il processo di accrescimento dei contatti associato a grandi deformazioni plastiche delle asperità. Il fenomeno è noto come saldatura a freddo, e dà luogo a coefficienti di attrito estremamente alti (f >> 1). Nel caso dei minerali e altri materiali fragili gli sforzi di taglio non causano grandi e diffuse deformazioni plastiche e non si verifica, quindi, l’accrescimento dei contatti e la saldatura a freddo dei grani.

2.5.2.5 – Influenza della scabrezza delle superfici

Secondo la Teoria dell’attrito per adesione, l’attrito è indipendente dalla scabrezza delle superfici (ciò accade, ad es. nel caso dei metalli per un ampio intervallo del grado di finitura delle superfici).

Se le superfici sono molto scabre, il valore di f aumenta a causa dell’interconnessione delle asperità. È difficile definire con esattezza il significato di molto scabro.

Gran parte delle particelle di terreni granulari appaiono smerigliate, e dunque scabre. D’altra parte fotografie al microscopio elettronico indicano che molti minerali con struttura a strati, presentano superfici superlisce.

Gli effetti della scabrezza della superficie sul valore di f possono essere valutati in funzione di un angolo medio θ d’inclinazione delle asperità. Essendo, però. il contatto tra le superfici reali molto complesso, non è generalmente possibile determinare un valore di θ per valutare f. Di conseguenza la relazione tra coefficiente di attrito e scabrezza deve essere determinata sperimentalmente.

2.5.2.6 – Attrito statico e attrito radente

La forza di taglio necessario ad innescare il processo di scorrimento relativo tra 2 superfici è spesso più grande della forza richiesta per mantenere il moto relativo (Fig. 2.17a).

Fig. 2.17 – Resistenza d’attrito. a) condizioni normali di primo distacco; b) condizioni di stick-slip.

Il coefficiente di attrito statico (o di primo distacco), infatti, è maggiore del coefficiente di attrito radente.

Tale comportamento viene spiegato ipotizzando che la formazione dei legami nei punti di contatto dipende dalla variabile tempo, sia perché a causa di fenomeni di creep si ha un aumento graduale dell’area di contatto oppure perché le impurità presenti sulle superfici vengono gradatamente estruse. La differenza tra attrito statico e attrito radente, in molti casi, porta a un fenomeno noto come stick-slip (Fig. 2.17b). Quando inizia lo scorrimento, infatti, viene rilasciata una parte dell’energia elastica immagazzinata nel dispositivo d’applicazione della sollecitazione tangenziale determinando un’accelerazione del corpo connesso con tale dispositivo (elemento cursore); la forza di taglio misurata risulta minore di quella strettamente necessaria per mantenere il moto. L’elemento cursore successivamente si arresta; per riattivare il moto relativo è allora necessario incrementare la forza di taglio fino al valore corrispondente all’attrito statico. Quando inizia di nuovo lo spostamento relativo il processo a carattere intermittente si ripete. In tali condizioni il valore del coefficiente di attrito radente non può essere determinato accuratamente.

2.5.2.7 – Attrito volvente

Quando un corpo rotola su un altro si formano nei punti di contatto giunzioni come quando i 2 corpi sono pressati l’uno contro l’altro. Durante il rotolamento, però, le giunzioni si rompono per trazione e non per taglio. A causa del ritorno elastico che fa seguito all’annullamento dello sforzo normale, infatti, la resistenza a trazione delle giunzioni risulta pressoché nulla. Ciò spiega perché generalmente non esiste adesione tra due superfici in presenza di rotolamento in quanto l’adesione si manifesta soltanto quando le superfici sono sottoposte a uno sforzo di compressione.

L’attrito volvente, di conseguenza, è generalmente piuttosto basso (f >>1) rispetto all’attrito statico e all’attrito radente ed è inoltre essenzialmente indipendente dalla presenza sulle superfici di sostanze contaminanti.

2.5.3 – Attrito tra minerali in forma di grani

2.5.3.1 – Introduzione

Il paragrafo affronta lo studio dell’attrito tra minerali e particelle che non presentano struttura a strati, quali il quarzo, i feldspati e la calcite, che formano grani con le dimensioni del limo o più grandi. In quello successivo viene studiato il comportamento dei minerali con reticolo cristallino a strati.

2.5.3.2 – Natura dei contatti

Le particelle di limo grosso hanno Ømin = 0.02 mm (20 μm). Il diametro di queste particelle e di quelle più grosse è chiaramente maggiore dell’altezza delle asperità (circa 1000÷10.000 Å) che possono essere presenti sulle loro superfici. Di conseguenza ciascuna area di contatto tra 2 particelle reali comprende in realtà numerosi contatti di più area piccola.

Fig. 2.18 – Dispositivi per la determinazione del coefficiente d’attrito tra superfici di minerali. a) scorrimento di pastiglie o blocchi di minerali su un blocco del medesimo tipo; b) scorrimento di numerose particelle di minerale su un blocco del medesimo tipo.

La superficie delle particelle di terreno considerate è inoltre ricoperta da acqua, da vari ioni e spesso da altri materiali. Queste impurità vengono in gran parte estruse in corrispondenza dei punti di contatto benché ne rimangano modeste quantità che modificano la resistenza a taglio delle giunzioni. Il diametro più piccolo delle particelle di limo fino è ~2μm; le loro dimensioni, quindi, sono del medesimo ordine di grandezza di quelle delle asperità presenti sulle superfici di particelle di maggior diametro. Per le particelle in esame è più appropriato parlare di spigoli piuttosto che di asperità.

Benché le caratteristiche principali della resistenza per attrito siano le medesime sia per i grani più grandi che per quelli più piccoli, si deve rilevare che nel caso di quelli molto piccoli, un’area di contatto può in realtà essere costituita soltanto da un punto di contatto.

Per determinare la resistenza d’attrito dei minerali si fa ricorso al dispositivo di prova di Fig. 2.18. Se si utilizzano pastiglie di minerale fissati a un supporto o in l’orma di blocco in movimento (Fig. 2.18a) si ottengono il coefficiente d’attrito statico e quello radente. Viceversa, quando si esegue la prova facendo scorrere numerosi grani di sabbia lungo una superficie piatta (Fig. 2.18b) la resistenza d’attrito risente sia del rotolamento che dello scorrimento relativo dei grani. Di conseguenza il secondo tipo di prova fornisce risultati che possono differire rispetto a quelli ottenuti col primo tipo di prova.

2.5.3.3 – Influenza dell’acqua e della scabrezza

In Fig. 2.19 sono riassunti i valori del coefficiente di attrito del quarzo per differenti condizioni di pulizia, umidità e scabrezza delle superfici.

Fig. 2.19 – Coefficiente d’attrito del quarzo.

I risultati dimostrano che il coefficiente d’attrito f del quarzo levigato varia entro 0.2÷1 in relazione alla pulizia della superficie. Per le superfici con maggiori impurità la presenza d’acqua determina un aumento di f, agendo quindi come antilubrificante. Si deve osservare, tuttavia, che per superfici pulite in modo accurato l’acqua non comporta alcuna influenza su f ed è quindi intrinsecamente neutra per il quarzo; se, viceversa, è invece presente uno strato di contaminante (probabilmente una sottile pellicola di sostanza organica), l’acqua allora la dissolve riducendone l’effetto lubrificante con conseguente incremento del coefficiente di attrito. Quando la superficie è più scabra diminuiscono gli effetti delle modalità di pulitura: per una superficie molto scabra con asperità di 1.5 μm si ottengono i medesimi valori di f indipendentemente dalla pulitura della superficie. Tale risultato indica che l’effetto lubrificante delle impurità diminuisce all’aumentare della scabrezza della superficie, com’è da attendersi se lo strato di impurità agisce come lubrificante epilaminico.

Risulta più difficile spiegare perché per le superfici di maggiore scabrezza non si ottengano valori più alti del coefficiente di attrito quando sono accuratamente pulite. In realtà le superfici più scabre non possono essere efficacemente pulite come quelle lisce sebbene le ragioni di quest’ultimo fatto non siano ancora ben chiare. Dal punto di vista applicativo il valore sostanzialmente costante di f pari a 0.5 (φu = 26°) per superfici di quarzo molto scabre è di notevole rilievo poiché in natura tutti i grani di quarzo presentano superfici scabre. Nella tabella 2.13 sono riportati i valori del coefficiente di attrito di altri minerali con esclusione di quelli con reticolo a strati. I bassi valori di f riguardanti i minerali essiccati all’aria non hanno probabilmente molta importanza per le applicazioni poiché si riferiscono a superfici lisce e lucide non ben pulite.

Tab. 2.13 – Coefficiente d’attrito di minerali non fillosilicatici.

2.5.3.4 – Influenza dell’intensità dello sforzo normale

È stato dimostrato che il coefficiente di attrito di minerali non fillosilicatici è indipendente dal carico normale. Rowe, inoltre, ha dimostrato che l’angolo di attrito φu rimane essenzialmente costante con variazioni di ± 1°, mediante prove nelle quali il carico normale per ciascun punto di contatto è stato fatto variare fino a 50 volte. I risultati di Rowe dimostrano, tuttavia, che l’angolo di attrito φu dipende dalle dimensioni delle particelle (Fig. 2.20).  Il dispositivo sperimentale utilizzato da Rowe è quello di Fig. 2.18b. Per un assegnato sforzo normale totale, lo sforzo normale nei punti di contatto aumenta al crescere delle dimensioni delle particelle ma poiché aumenta, in questo caso, anche il diametro delle particelle, lo sforzo normale medio di contatto (N/A) non varia. Ne segue che, per la comprensione di questi risultati non è sufficiente la considerazione delle deformazioni elastiche dei grani. Una possibile spiegazione è che le particelle più grandi rotolano più facilmente di quelle piccole, forse perché il loro baricentro è più distante dal piano di taglio; l’angolo di attrito, su cui influiscono sia processi di rotolamento che di scorrimento, risulta di conseguenza, più basso per le particelle più grandi.

Fig. 2.20 – Variazioni dell’angolo di attrito di sabbie quarzose con le dimensioni dei grani.

2.5.4 – Attrito tra minerali fillosilicatici con reticolo a strati

Viene proposto, a completamento della trattazione, il comportamento di minerali quali la mica, principalmente perché la risposta di questi minerali, per quanto riguarda l’attrito, può essere simile a quella delle particelle aventi le dimensioni dell’argilla.

2.5.4.1 – Generalità sulla natura dei contatti

Le superfici della mica sono irregolari a causa della presenza di orizzontalità strutturali piuttosto che di asperità. La scala di queste irregolarità è comunque piuttosto differente rispetto a quella delle superfici dei grani formanti i terreni granulari: su una superficie di clivaggio fresca, infatti, i gradini hanno appena lo spessore di alcune lamelle sovrapposte (circa 10-100 Å).

Le superfici di clivaggio, secondo alcuni ricercatori, possono considerarsi lisce a scala molecolare nell’ambito di ampie aree. Al confronto con le superfici dei grani di quarzo lisci, le superfici di clivaggio fresche appaiono, di conseguenza, superlisce. Si ha, inoltre, ragione di ritenere che le superfici delle particelle di argilla siano simili a quella della mica.

I principi basilari della resistenza per attrito lungo superfici superlisce sono stati oggetto di pochi studi, purtroppo, e perciò la trattazione che segue offre per buona parte, unicamente carattere speculativo.

Il contatto di due superfici di clivaggio della mica, in ogni caso, è nettamente differente rispetto a quello di superfici con asperità.

Le superfici, nel caso della mica e, presumibilmente, anche di quello dell’argilla, possono porsi in contatto lungo quasi l’intera area sebbene, in realtà, possano anche non venire a contatto diretto.

Le sostanze contaminanti presenti sulle superfici, infatti, inclusa l’acqua adsorbita, non vengono estruse fintanto che lo sforzo normale non supera il valore di 550 MN/m2 circa. Tali sostanze, come visto in precedenza, intervengono nella trasmissione degli sforzi normali.

Nel caso delle particelle di argilla prevalgono probabilmente i contatti del tipo spigolo – faccia. Questo tipo di contatto è simile a quello tra le asperità dei grani, con la differenza che, nell’argilla, ciascun contatto è costituito probabilmente da una sola asperità.

Per stabilire se la resistenza al taglio di superfici molto lisce è maggiore o minore di quella delle superfici scabre, è necessario far ricorso a risultati sperimentali.

Tabella 2.14 – Coefficiente d’attrito di minerali con reticolo multistrato in funzione dell’umidità superficiale.

2.5.4.2 – Influenza dell’acqua presente sulla superficie delle particelle

I risultati della Tab. 2.14 indicano che l’acqua agisce come lubrificante; ciò si può spiegare se si considera che, nel caso delle particelle essiccate in stufa, gli ioni superficiali non sono idratati completamente al punto che le superfici dei minerali possono avvicinarsi e i legami permangono forti. In presenza di acqua, gli ioni si idratano e sono meno strettamente legati alle superfici dei minerali riducendo pertanto la resistenza al taglio.

Risulta significativo evidenziare la differenza del ruolo delle sostanze contaminanti in funzione della scabrezza. Nel caso delle superfici scabre, infatti, le impurità indeboliscono i legami cristallini; l’aumento della mobilità delle impurità con l’introduzione dell’acqua aiuta ad allontanarle rendendo minima la loro influenza negativa sulla resistenza a taglio. Nel caso delle superfici lisce, viceversa, le impurità sono, in realtà, parte del minerale e l’aumento della loro mobilità causa la riduzione della resistenza a taglio.

2.5.4.3 – Attrito statico e radente e variazioni con lo sforzo normale

II coefficiente d’attrito radente dei minerali in esame è compreso entro 90÷100% di quello statico.

Nel caso di questi minerali non si osserva il fenomeno dello stick-slip. Il coefficiente di attrito della mica aumenta del 25% quando la velocità di scorrimento passa da 0.3 a 2.5 mm/s, come era facilmente ipotizzabile considerato che i legami di adesione di questi minerali sono relativamente deboli e gli ioni per mezzo dei quali si formano i legami sono relativamente liberi di muoversi.

L’angolo di attrito di questi minerali risulta costante nel campo degli sforzi normali d’interesse ingegneristico sebbene non si conoscono ancora con chiarezza tutte le possibili variazioni nel campo delle tensioni normali molto alte.

2.5.5 – Resistenza al taglio lungo le superfici dei minerali

Allo stato attuale delle conoscenze non si è sicuri di poter estendere le teorie esposte alla resistenza al taglio di particelle di argilla: come verrà successivamente illustrato a resistenza a taglio di molte argille naturali, in particolare quelle che contengono apprezzabili % di montmorillonite e illite, risultano in accordo con tali teorie.

Più grande è una particella. maggiore è la probabilità che sulla sua superficie siano presenti irregolarità significative. Ad es., i gradini di clivaggio sulla superficie delle particelle di caolinite hanno un’altezza dell’ordine di 100 Å. Quando le particelle di caolinite assumono la configurazione faccia-faccia, il contatto si verifica, in realtà, solo su una parte della superficie di tangenzialità apparente; a meno che le particelle siano perfettamente allineate appare più probabile che il contatto si realizzi su aree relativamente piccole in corrispondenza dei gradini del clivaggio. In tale situazione è altresì probabile che il meccanismo di resistenza a taglio ed anche il valore della resistenza a taglio siano simili a quelli delle particelle granulari. Analoghe considerazioni valgono quando il contatto tra le particelle è del tipo bordo-faccia.

2.5.6 – Coesione vera tra particelle di argilla

Gli studi degli aspetti basilari della resistenza per attrito hanno consentito di comprendere la possibilità che esista una coesione vera tra le particelle. Se le particelle di argilla sono in contatto bordo-faccia si può sviluppare una coesione vera, in particolare se si formano legami pressoché sull’intera area di contatto.

L’analisi sviluppata nel capitolo ha suggerito che le particelle d’argilla in contatto faccia-faccia possono farsi avvicinare quel tanto da rimanere nella medesima configurazione anche quando il carico applicato venga rimosso; è tale comportamento ad indicare l’esistenza di una coesione vera: in effetti costringendo le particelle ad avvicinarsi si è data origine a una nuova particella di maggiore spessore. Sono poi il tempo, i processi di alterazione e l’essiccamento a contribuire a dare origine alla coesione vera tra le particelle.

2.6 – Tensioni nei terreni

Pur essendo state considerate finora forze che agiscono sui singoli grani, nei terreni reali non è possibile tener conto delle forze agenti verso ciascun punto di contatto; risulta allora opportuno passare al concetto di tensione.

2.6.1 – Il concetto di tensione tra particelle

La Fig. 2.21 mostra un dispositivo (ideale) di misura inserito in un ammasso di rocce sciolte e installato in modo tale da non arrecare disturbo al sistema. Gli schemi in figura mostrano le facce orizzontali e verticali dell’elemento A, con le particelle di terreno addossate alle medesime. Tali particelle, in generale, esercitano sulle facce sia uno sforzo normale che uno sforzo di taglio

Fig. 2.21 – Definizione dello stato tensionale in un terreno: a) sezione verticale dell’ammasso; b) e c) forze agenti sull’elemento A.

Le facce dell’elemento siano inoltre quadrate di lato a. Le tensioni sul dispositivo di misura possono definirsi dalle relazioni:

σv = Nv/a2      σh = Nh/a2      τh = Th/a2      τ = Th/a2

dove Nv ed Nh sono le forze normali agenti secondo la direzione verticale e orizzontale mentre Tv. e Th sono le forze di taglio nelle direzioni verticale e orizzontale; σvσhτv e τh sono invece le componenti particolari di tensione corrispondenti. Utilizzando tale procedura sono state definite 4 componenti di tensione che possono, sotto il profilo concettuale. essere visualizzate e misurate agevolmente.

Nel prosieguo della trattazione si ammetterà inoltre, salvo contraria indicazione, che la pressione relativa nel fluido interstiziale sia nulla, ossia pari alla pressione atmosferica. Sotto quest’ultima ipotesi le forze NvNhTv e Th derivano esclusivamente dagli sforzi trasmessi attraverso lo scheletro solido.

In un terreno secco la singola componente di tensione può immaginarsi come la forza, agente sullo scheletro solido del terreno, riferita all’area dell’unità di superficie totale del terreno.

Operativamente, tuttavia, risulta difficile misurare accuratamente le tensioni in un terreno, soprattutto perché la presenza di un dispositivo di misura altera lo stato tensionale preesistente all’inserimento dello strumento di misura.

Per definire lo stato tensionale senza riferimento a strumenti di misura, si immagini di tagliare il terreno secondo un piano (Fig. 2.22). Tale piano passerà in parte attraverso le particelle solide, in parte attraverso gli interstizi. Il piano può inoltre passare per uno o più punti di contatto tra i grani. In ciascun punto in cui il piano passa attraverso le particelle solide, le forze trasmesse attraverso lo scheletro solido possono essere scomposte nelle componenti normale e tangenziale al piano stesso.

La componente tangenziale può essere ulteriormente scomposta secondo le direzioni di due assi cartesiani, contenuti nel piano.

Le diverse componenti sono indicate in figura.

Fig. 2.22 – Definizione delle componenti del tensore degli sforzi in un mezzo particolare.

La somma delle componenti normali di tutte le forze, divisa per l’area dell’elemento di superficie piana considerata, è la tensione o sforzo normale σ che agisce sul piano preso in esame.

Allo stesso modo, la somma delle componenti tangenziali (ad es. secondo direzione x) divisa per l’area dell’elemento di superficie considerato rappresenta la tensione o sforzo tangenziale Tx secondo la direzione x.

Esiste anche un’altra maniera (spesso utilizzata) di definire le tensioni in un mezzo particellare. Si immagini una superficie ondulata che passi per i punti di contatto senza tagliare i grani. La tensione è pari allora alla somma delle forze di contatto divisa per l’area dell’elemento di superficie ondulata.

La somma di tutte le aree di contatto rappresenta una piccola parte dell’area totale della superficie, sicuramente < 1%. La tensione così come è stata definita in questo paragrafo è molto differente rispetto alla tensione nei punti di contatto.

E’opportuno a questo punto ricordare che nella presente trattazione, col termine di tensione, si intende la tensione macroscopica, cioè il rapporto forza/area totale così come appena definita con riferimento alle figure. Qualora fosse necessario riferirsi a tensioni intergranulari si parlerà, allora, di tensioni di contatto o intergranulari.

Il concetto di tensione è strettamente legato al concetto di continuo. Così, quando si parla di tensioni in un punto, in realtà si immaginano le forze che agiscono sulle facce di un piccolo elemento di volume, di forma cubica, costituito di materiale omogeneo. E’ lecito, quindi, chiedersi se abbia senso applicare il concetto di tensione a un sistema particellare come il terreno.

Il concetto di tensione, così come viene applicato ai terreni non è, in ogni caso, più astratto del concetto di tensione applicato ai metalli; un metallo, infatti, è in realtà costituito da un insieme di piccoli cristalli e, a scala sub-microscopica, l’intensità delle forze che i singoli cristalli mutuamente si trasmettono varia casualmente da elemento a elemento. Per tutti i materiali la parte interna dell’elemento di volume infinitamente piccolo è, di conseguenza, omogenea solo statisticamente.

Sotto molti punti di vista tutta la materia è particellare ed è significativo parlare di tensione macroscopica solo se questa varia poco nell’ambito di distanze dell’ordine di grandezza delle dimensioni della particella più grande che costituisca il materiale considerato.

Ritornando alla Fig. 2.21 si può notare che le forze NvTy etc., costituiscono la somma delle componenti normali e tangenziali delle forze agenti nei punti di contatto tra le particelle di terreno e la superficie del dispositivo di misura.

Più piccole sono le dimensioni delle particelle, in conclusione, più grande é il numero di punti di contatto con l’elemento di superficie di lato a. Ne segue che, per un assegnato valore della tensione macroscopica, una riduzione delle dimensioni delle particelle comporta forze più ridotte nei punti di contatto, com’è dimostrato in Tab. 2.15, nella quale sono riportati valori tipici delle forze di contatto in funzione del valore delle tensioni applicate e delle dimensioni delle particelle o grani.

Tab. 2.15 – Valori tipici delle forze di contatto medie nei terreni granulari.

2.6.2 – Tensioni geostatiche

Le tensioni nel terreno vengono indotte dai carichi esterni ad esso applicati e dal peso proprio del terreno. La distribuzione delle tensioni indotte nel terreno da carichi applicati in superficie è, in genere, piuttosto complessa; anche la distribuzione delle tensioni dovute al peso proprio del terreno può risultare tale.

Esiste tuttavia una situazione frequente nella quale il peso del terreno dà luogo a una normale distribuzione di tensioni; e questa si verifica quando il piano limite del terreno è orizzontale e le variazioni delle caratteristiche del terreno nella direzione orizzontale diventano trascurabili.

Tale situazione si riscontra frequentemente e particolarmente nei terreni sedimentari. In questo caso le tensioni vengono definite tensioni geostatiche.

2.6.2.1 – Tensione geostatica verticale

Nella condizione ora descritta sui piani orizzontale e verticale non agiscono sforzi di taglio e quindi le tensioni geostatiche verticali, ad una assegnata profondità dal piano limite, possono essere calcolate considerando il peso del terreno presente tra il piano limite e tale profondità.

Se il peso dell’unità di volume del terreno è costante con la profondità, si ha

σv = 

essendo z la profondità e γ il peso dell’unità di volume del terreno. In tale caso le tensioni verticali variano linearmente con la profondità (Fig. 2.23).

Il peso dell’unità di volume è raramente costante con la profondità; in genere un terreno risulta più addensato al crescere della profondità per la riduzione di porosità dovuta alle tensioni geostatiche.

Se il peso dell’unità di volume del terreno varia con la profondità, le tensioni verticali possono essere calcolate con l’integrale:                                           z

σv = 0 γ dz

Se il terreno è stratificato con valori differenti del peso dell’unità di volume per ogni strato, le tensioni geostatiche possono essere calcolate mediante la relazione:

σv = Σ γΔz

Fig. 2.23 – Tensioni geostatiche in un terreno con piano limite orizzontale.

2.6.2.2 – Tensione geostatica orizzontale

II rapporto tra tensione orizzontale e tensione verticale è espresso da un coefficiente denominato coefficiente o indice di tensione laterale ed è indicato con il simbolo K:

K = σhv

Questa definizione di K è valida anche quando il campo tensionale non è geostatico.

Anche quando le tensioni sono geostatiche, il valore di K può variare in un intervallo piuttosto ampio in funzione delle vicende subite dal terreno, in dipendenza del fatto che esso abbia subito processi di dilatazione o di compressione nella direzione orizzontale in seguito a eventi naturali o antropici.

Spesso occorre conoscere le tensioni geostatiche orizzontali nel caso particolare in cui non si siano verificate o siano impedite le deformazioni laterali nel terreno. In questo particolare caso si parlerà di coefficiente di spinta laterale a riposo (o indice di tensione laterale a riposo) usando il simbolo K0.

Come risaputo, un terreno sedimentario si forma per deposito progressivo di sedimenti. Con l’aumentare dello spessore dello strato il terreno si deforma per compressione, alle varie quote, nella direzione verticale in conseguenza dell’incremento delle tensioni verticali.

Nel corso del processo di sedimentazione, che ha luogo in genere su grandi aree, non c’è ragione perché insorgano apprezzabili deformazioni di compressione in direzione orizzontale. Per tale motivo si può ritenere che in terreni sedimentar! la tensione orizzontale totale deve essere minore di quella verticale. Per un deposito di sabbia formatesi in tal modo K0 assume valori tipicamente compresi tra 0,4 e 0,5.

D’altra parte, esiste ampia evidenza che la tensione orizzontale può assumere valori maggiori di quella verticale se un deposito di terreno è fortemente preconsolidato. In realtà, le tensioni orizzontali sono state come congelate nel terreno quando esso è stato precedentemente sottoposto ad un sovraccarico addizionale e non vengono meno quando questo carico viene rimosso. In tal caso K0 può assumere anche il valore di 3.

Il campo di variazione delle tensioni orizzontali per la condizione a riposo è illustrato in Fig. 2.23.

2.6.3 – Tensioni indotte da carichi

Per calcolare le tensioni indotte nel sottosuolo da carichi applicati in superficie vengono spesso utilizzati i principi della Teoria dell’Elasticità. L’ipotesi su cui si basa tale teoria è che le tensioni siano proporzionali alle deformazioni. In molte soluzioni derivate dalla Teoria dell’Elasticità si assume inoltre che il terreno sia omogeneo (cioè che le sue proprietà non varino da un punto all’altro) oltre che isotropo (le proprietà sono le medesime in tutte le direzioni).

Occorre tuttavia dire che i terreni raramente soddisfano queste ipotesi (come di vedrà nel capitolo conclusivo) anzi, spesso le violano del tutto. Ciononostante l’operatore progettista frequentemente non ha altra scelta se non quella di utilizzare i risultati di tale applicazione teorica unitamente alla propria sensibilità tecnica.

E’ opportuno segnalare, a questo punto, che la presente trattazione (per scelta d’impostazione) non definisce le soluzioni, basate sulla Teoria dell’Elasticità, delle tensioni dovute ad assegnati carichi e condizioni al contorno mentre fornisce, invece, indicazioni su come utilizzare le soluzioni disponibili.

2.6.3.1 – Carico uniformemente distribuito su un’area circolare

Nelle Figg. 2.24 e 2.25 vengono forniti i valori, o meglio gli incrementi, delle tensioni indotte da un carico verticale Δqs uniformemente distribuito su una area circolare di raggio R sulla superficie di un semispazio elastico (in genere le tensioni calcolate mediante la Teoria dell’Elasticità sono funzione del coefficiente di Poisson μ.

Fig. 2.24 – Abaco per incrementi della tensione verticale indotta da un carico uniforme applicato lungo un’area circolare.

In ogni caso la componente verticale del tensore degli sforzi indotti dai carichi normali alla superficie è sempre indipendente da μ così come quelle indotte da un carico applicato su una striscia. Degli abachi di questo capitolo soltanto quelli di Fig. 2.25 dipendono da μ e sono relativi a μ = 0,45)

Tali tensioni devono essere sommate alle tensioni geostatiche iniziali; iI valori delle tensioni verticali possono ricavarsi dalla Fig. 2.24. Il significato delle grandezze Δσ1 e Δσ3, indicate in Fig. 2.25, viene discusso successivamente; per il momento è sufficiente conoscere che lungo la verticale baricentrica:

Δσ1 = Δσv     e     Δσ3 = Δσh

Le tensioni indotte da un carico applicato in superficie devono essere aggiunte alle tensioni geostatiche per ottenere le tensioni nei terreni.

Fig. 2.25 – Abachi per incrementi delle componenti del tensore degli sforzi indotti da un carico uniformemente distribuito lungo un’area circolare.

Abachi dei tipi in esame consentono di comprendere immediatamente come si diffondono gli sforzi nel sottosuolo. La zona al di sotto dell’area di carico ove le tensioni verticali assumono valori significativi è spesso denominata bulbo delle tensioni. Per un’area di carico circolare le tensioni verticali sono < 0.15 Δqs a profondità ~3R e < 0.10 Δqs.a profondità ~4R. In genere, quale bulbo delle tensioni, si considera il volume di terreno delimitato da una curva corrispondente a un incremento di tensione pari a 0,1 Δqs; questa ultima scelta è tuttavia arbitraria.

2.6.3.2 – Carico uniformemente distribuito su un’area rettangolare

L’abaco di Fig. 2.26 può essere utilizzato per determinare l’incremento delle tensioni verticali nei punti della verticale passante per il vertice di un’area rettangolare caricata uniformemente. Quando il carico non è uniformemente distribuito oppure è distribuito su un’area di forma irregolare, il problema può essere risolto suddividendo il carico in modo da ricondursi sempre a carichi uniformemente distribuiti su aree rettangolari.

2.6.3.3 – Carico distribuito su un’area nastriforme

Con i grafici delle Figg.  2.27 e 2.28 si possono calcolare le tensioni indotte da carichi distribuiti su strisce, cioè su aree infinitamente lunghe nella direzione normale al piano del foglio.

Fig. 2.26 – Abaco per determinare l’incremento di tensione verticale Δσv nei punti appartenenti alla verticale A passante per il vertice di un’area rettangolare su cui agisce un carico uniformemente distribuito. Il rettangolo giace sul piano limite di un mezzo elastico ed isotropo. L’abaco fornisce i valori del coefficiente f(m,n)

Vengono illustrati il caso del carico uniformemente distribuito e quello del carico triangolare. Lungo l’asse baricentrico risulta ancora Δσ1 = Δσv e Δσ3 = Δσh.

Fig. 2.27 – Abaco per semispazio sottoposto a un carico uniforme nastriforme applicato sul piano limite.

Isolinee degli incrementi delle tensioni principali Δσ1 e Δσ3 (isobare).

Fig. 2.28 – Abaco per incrementi delle tensioni principali derivanti da un carico nastriforme triangolare.

Sono disponibili ulteriori soluzioni, sotto forma di abachi, per altre condizioni di carico, per terreni stratificati e per terreni con comportamento elastico, indeformabili nella direzione orizzontale, ma che possono deformarsi nella direzione verticale. Con l’ausilio di PC è possibile ottenere facilmente la distribuzione delle tensioni nel semispazio per molte condizioni di carico e al contorno. Abachi come quelli presentati nella presente sezione sono tuttavia utili per un esame preliminare dei problemi o nel caso in cui non si disponga di mezzi di calcolo veloce.

2.6.3.4 – Attendibilità dei valori calcolati

La risposta circa l’attendibilità dei valori ricavati da queste procedure può ottenersi soltanto dal confronto tra i valori delle tensioni calcolati con quelli ottenuti mediante misure in situ sotto differenti situazioni reali. Non sono ancora disponibili, purtroppo, gamme complete di risultati affidabili di misure sperimentali degli incrementi di tensione all’interno di ammassi di terreni. I raffronti possibili tra gli incrementi di tensione calcolati e quelli misurati sono, tuttavia, significativamente in buon accordo tra loro, specialmente per quanto riguarda le tensioni verticali. Una completa attendibilità dei valori calcolati degli incrementi di tensione potrà quindi stabilirsi a seguito di molteplici e precisi confronti di tal tipo.

2.6.4 – Tensioni principali e cerchio di Mohr

Nei terreni, così come in tutti gli altri materiali, lo sforzo normale in un punto dipende dalla giacitura dell’elemento di superficie piana che si considera. Non ha generalmente senso, quindi, parlare dello sforzo normale e dello sforzo di taglio in un punto e si dovrà perciò specificare mediante pedici ai simboli σ e τ la giacitura del piano considerato. Più in generale, nel proseguo, si parlerà allora di tensore degli sforzi, termine che consente una descrizione completa dello stato tensionale in un punto.

2.6.4.1 – Tensioni principali

In ciascun punto esistono 3 piani ortogonali (mutuamente perpendicolari) sui quali le tensioni tangenziali sono nulle. Questi piani sono denominati piani principali di tensione; gli sforzi normali agenti su di essi sono le tensioni principali. La più grande di queste è la tensione principale maggiore σv, la più piccola è la tensione principale minore σ3 mentre la terza è la tensione principale intermedia σ2. Quando le tensioni nel sottosuolo sono geostatiche i piani orizzontali, così come i piani verticali, sono piani principali.

–       quando K<1, σv = σ1, σh = σ3 e σ2 = σ3 = σh;

–       quando K>1 la situazione si inverte: σh = σ1σv = σ3 e σ2 = σ1 = σh;

–       quando K=1σv = σhσ1 = σ2 = σ3 e lo stato tensionale è isotropo o uniforme.

Occorre ricordare che le tensioni tangenziali su 2 piani ortogonali sono uguali (avendo il medesimo valore numerico) e quindi, secondo la definizione di tensione del paragrafo, iniziale risulta τh = τv.

2.6.4.2 – Cerchio di Mohr

All’interno della presente trattazione vengono presi in esame soltanto stati tensionali piani mentre le tensioni sono considerate positive quando sono di compressione. Le altre convenzioni sui segni sono illustrate nella Fig. 2.29. La quantità (σ1σ3) è definita tensione deviatorica oppure differenza delle tensioni principali: noti il valore e la direzione di σ1 e σ3 è possibile calcolare le tensioni normale e tangenziale su un qualsiasi altro piano mediante le seguenti relazioni della Meccanica:

Fig. 2.29 – Rappresentazione dello stato tensionale mediante il circolo di Mohr. a) Schema di riferimento per derivare le relazioni che intercorrono tra le componenti del tensore degli sforzi; b) Circolo di Mohr. τ è positiva se diretta in senso antiorario; θ è misurato in senso antiorario dalla direzione di σ1.

Queste equazioni, che consentono d’individuare in maniera completa lo stato di tensione (piano), rappresentano un cerchio. Un punto generico del cerchio come, ad es., il punto A, rappresenta lo stato tensionale su un piano la cui normale forma un angolo θ con la direzione della tensione principale maggiore. Questa rappresentazione grafica dello stato tensionale è nota come Cerchio di Mohr.

Dati σ1 e σ3 e le loro direzioni, è possibile determinare le tensioni su un qualsiasi altro piano mediante una costruzione grafica sul circolo del Mohr.

Noti i valori di σθ e στ su due piani qualsiasi è così possibile determinare l’intensità e la direzione delle tensioni principali. Per le costruzioni grafiche (ovvero origine delle giaciture) è inoltre di particolare utilità il concetto di polo. Il polo è un punto del cerchio di Mohr. indicato con Op che gode della seguente proprietà: la semiretta che congiunge Op al punto A del circolo del Mohr è parallela al piano sul quale agiscono le tensioni fornite dal punto A.

La tensione tangenziale massima in un punto (τmax) sempre pari a (σ1σ3)/2. che rappresenta, in scala, il raggio del cerchio del Mohr. La tensione tangenziale massima agisce su un piano inclinato di ±45° rispetto alla direzione della tensione principale maggiore.

Se lo stato tensionale è geostatico, la massima tensione tangenziale agirà su un piano inclinato di 45° rispetto all’orizzontale assumendo i seguenti valori:

2.6.4.3 – Diagrammi p-q

Per molti problemi è opportuno rappresentare, in un unico diagramma, diversi stati tensionali relativi a un medesimo provino di terreno. In altri casi in un unico diagramma debbono essere rappresentati stati tensionali relativi a numerosi differenti provini. Non è opportuno, allora, disegnare tutti i cerchi di Mohr, per ragioni di chiarezza: la lettura di un diagramma nel quale siano riportati tutti i cerchi risulterebbe infatti più difficile. In alternativa, lo stato tensionale può rappresentarsi riportando in diagramma un punto di coordinate (p,q):

In molti casi in cui viene usata questa rappresentazione, le tensioni principali agiscono su piani orizzontali e verticali. In tal caso l’equazione diviene :

Ai sensi di tale metodo, lo stato tensionale è rappresentato da un solo punto del circolo del Mohr: il più alto se q > 0, il più basso se q < 0 . Numericamente q è pari alla metà della tensione deviatorica.

2.6.4.4 – Percorsi di tensione (stress-path)

Sovente risulta opportuno rappresentare l’evoluzione dello stato tensionale in un provino quando esso è sottoposto a un processo di carico; una procedura per ottenere tale risultato è quella di tracciare una serie di cerchi di Mohr come in Fig. 2.30a nella quale è illustrata l’evoluzione dello stato tensionale al crescere di σ1 con σ3 costante. Tuttavia un diagramma con molti cerchi può risultare confuso specialmente se sul medesimo vengono riportati risultati relativi a più prove. Una rappresentazione soddisfacente si ottiene riportando alcuni punti rappresentativi dello stato tensionale e collegando tali punti con una curva (Fig. 2.30b). Questa curva si definisce percorso di tensione.

In sostanza, mentre il circolo del Mohr (o un punto nel piano p-q) rappresentano uno stato tensionale, un percorso di tensione fornisce una rappresentazione degli stati successivi.

Fig. 2.30 – Percorsi di tensione.

Nella Fig. 2.31 sono rappresentati differenti percorsi di tensione per i quali appare utile aggiungere un commento.

Tutti i percorsi di tensione della Fig. 2.31a corrispondono alla situazione σv=σh.

Questa è una situazione iniziale frequente in molte prove di laboratorio. A partire da questa condizione iniziale o si incrementano σv e σh della medesima quantità (Δσv = Δσh) oppure si fa variare una delle tensioni principali tenendo costante l’altra (Δσv > 0 mentre Δσh = 0, oppure Δσh < 0 e Δσv = 0.

In ogni caso sono possibili molti altri percorsi di tensione: ad es. si possono incrementare sia Δσ1 che Δσ3 in modo che risulti Δσ1 che Δσ3 = Δσ1/4).

Una situazione iniziale più frequente si ha quando σv e σh sono entrambe > 0 ma σv  σh: in Fig. 2.31b sono illustrati alcuni percorsi di tensione relativi a quest’ultima condizione iniziale.

È interessante esaminare la situazione nella quale σ1 e σ3 sono nulle all’inizio della fase di carico e vengono successivamente incrementate secondo un rapporto costante (Fig. 2.31c). Per tale processo di carico risulta:

q/p = (1-K)/(1+K)

essendo K il coefficiente di tensione laterale definito in precedenza. Il percorso di tensione K = 1 corrisponde alla compressione uniforme (le tensioni tangenziali sono nulle). Il percorso di tensione K0 indica il modo in cui aumentano le tensioni in un terreno normalmente consolidato durante il processo di sedimentazione. L’inclinazione del percorso di tensione K0 è indicata con β:

q/p = tg β

Fig. 2.31 – Percorsi di tensione particolari.

Tenendo conto delle relazioni prima definite si ottiene l’espressione

K0 = (1-tg β)/(1+tg β)

II percorso di tensione può non essere una linea retta. Ad es., le tensioni possono essere applicate in modo che Δσv = (Δσh)2/4.

Un percorso di tensione può essere costituito da una spezzata. Due differenti condizioni di carico possono produrre la medesima curva nello spazio p-q ma una può corrispondere a incrementi di tensione, l’altra a riduzioni. Al fine di evitare confusioni ogni percorso di tensione deve essere contraddistinto da una freccia che indicante la successione degli stati tensionali.

2.7 – Il legame tensioni-deformazioni

2.7.1 – Generalità

L’analisi delle relazioni tra le deformazioni e le tensioni dei terreni si rivela estremamente complessa a causa della natura particellare dello scheletro solido dei terreni.

E’ tuttavia possibile, almeno intuitivamente, estendere anche ai terreni il concetto di deformazione immaginando 2 particelle poste a una distanza L molto grande rispetto alle loro dimensioni. Se le due particelle s’avvicinano l’una all’altra di ΔL si può definire deformazione unitaria di compressione εx il rapporto ΔL/L secondo la relazione:

εx = ΔL/L

La deformazione, così come la tensione, è un tensore. Nel seguito si indicherà con εx la deformazione unitaria di compressione secondo la generica direzione x; con γxy lo scorrimento mutuo riferito a due assegnate direzioni x, y e con ΔV/V l’invariante di dilatazione cubica.

Deformazioni di compressione accompagnate da accorciamenti vengono considerate positive; valori positivi dell’invariante di dilatazione cubica indicano riduzione di volume.

2.7.2 – Meccanismi di deformazione

La deformazione di un elemento di terreno è il risultato delle deformazioni intrinseche delle singole particelle e degli spostamenti relativi delle innumerevoli elementi che costituiscono il sistema stesso. In ciascuno dei punti di contatto tra i grani la deformazione locale può essere tuttavia molto grande e maggiore della deformazione globale sopra definita.

Per comprendere il comportamento meccanico macroscopico del terreno, è indispensabile capire i processi che hanno luogo all’interno dell’elemento di terreno. Nei capitoli iniziali si sono potuti osservare diversi meccanismi che determinano la deformazione dei terreni. Nei terreni granulari possono riconoscersi fondamentalmente 2 meccanismi:

–       le distorsioni e la rottura dei singoli grani;

–       gli spostamenti mutui dei grani derivanti dallo scorrimento e dal rotolamento.

I due meccanismi non sono, in genere, indipendenti. Ad es., l’insieme di grani raffigurato in Fig. 2.32 potrebbe risultare stabile in presenza delle forze esterne applicate se i grani fossero indeformabili e non subissero mutui scorrimenti. Poiché i grani costituenti un terreno reale non sono indeformabili, le deformazioni dei grani possono dar luogo a spostamenti o modifiche delle loro posizioni relative, con conseguente modificazione della configurazione dell’insieme, che nel caso in esame è accompagnata dal collasso.

Fig. 2.32 – Collasso di un sistema di particelle instabile (area dopo collasso a tratteggio).

Le deformazioni dei terreni (talora di notevole entità) sono, tuttavia, essenzialmente dovute agli spostamenti relativi dei grani; è da osservare che questi spostamenti non potrebbero avere luogo se i grani fossero realmente indeformabili. Per spiegare l’interazione tra i grani sono stati proposti alcuni modelli semplificati facendo ricorso all’analisi teorica dell’interazione tra due sfere elastiche in contatto per analizzare e prevedere le deformazioni in funzione delle deformazioni e delle distorsioni elastiche dei grani.

Tali analisi prendono le mosse dallo studio degli spostamenti relativi (scorrimento e rotolamento) di insiemi di sfere indeformabili disposte secondo configurazioni ordinate e regolari e che sono state utilizzate nello studio della resistenza dei terreni granulari. In altre teorie si considerano sistemi ordinati di sfere deformabili delle quali si analizzano anche gli scorrimenti relativi.

Gli spostamenti nel terreno reale sono assai più complessi per poter essere analizzati mediante modelli semplificati. In un generico istante durante il processo di deformazione, nei vari punti di un elemento di terreno possono essere in atto differenti meccanismi di deformazione.

L’importanza relativa dei differenti meccanismi, in un dato punto dell’elemento di volume di terreno, può mutare nel tempo con l’evoluzione del processo di deformazione. Ciononostante, i modelli semplificati sono utili e forniscono le basi per l’interpretazione dei risultati sperimentali ottenuti sui terreni reali. Alcuni dei risultati più significativi ottenuti con l’ausilio di modelli semplificati saranno esposti nei paragrafi seguenti.

2.7.3 – Variazioni di volume nelle prove di compressione isotropa

Nel corso di prove di compressione uniforme o isotropa possono verificarsi notevoli variazioni di volume, a causa del collasso dell’ assetto dei grani, come indicato schematicamente in Fig. 2.32. Collassi di questo tipo causano rotolamenti e scorrimenti mutui dei grani; di conseguenza nei punti di contatto tra i grani si mobilitano resistenze tangenziali. La risultante delle forze tangenziali su una superficie sufficientemente ampia che passi per molti punti di contatto è comunque nulla. Ne segue che gli sforzi tangenziali sono nulli anche se le forze tangenziali in corrispondenza dei singoli punti di contatto sono di intensità notevole.

L’andamento della curva tensione-deformazione del terreno, ottenuta con prove di compressione, è simile a quella che si ricava con prove edometriche. Le prove edometriche si eseguono assai più agevolmente delle prove di compressione isotropa, come già osservato in precedenza. Inoltre la condizione di compressione con deformazione trasversale impedita (o edometrica) si verifica piuttosto frequentemente in natura: ad es., durante la formazione dei depositi di terreni per sedimentazione oppure quando il terreno è sottoposto a carichi verticali uniformi su superfici di grande estensione.

Al contrario, la condizione di compressione isotropa si verifica raramente in natura (per tale motivo la sua trattazione viene ridotta all’essenziale).

Qualitativamente la relazione tensione-deformazione relativa alla condizione edometrica (v. § successivo) può ritenersi valida anche per la condizione di compressione isotropa sebbene dal punto di vista quantitativo le relazioni siano piuttosto differenti; per una assegnata variazione di σ1, infatti, la variazione dell’invariante primo del tensore degli sforzi (pari alla somma delle tensioni principali σ1σ2 e σ3) risulta maggiore nelle prove di compressione isotropa. Ne segue che per assegnato incremento di σ1 le variazioni di volume sono più grandi nel caso di compressione isotropa.

2.7.4 – Relazione tensione–deformazione in prove di compressione edometrica

Nella Fig. 2.33 viene illustrata la relazione tensione-deformazione di una sabbia medio-grossa quarzosa uniforme durante una prova di compressione a deformazione trasversale impedita o prova edometrica. La sabbia si presentava inizialmente ben addensata.

Analizzando il grafico è possibile osservare come la deformazione non nulla sia quella verticale che  coincide con l’invariante di dilatazione cubica, e viene definita rispetto all’altezza iniziale del provino.

La tensione alla quale si fa riferimento è la tensione verticale. I dati rappresentati in figura sono stati ottenuti con differenti prove edometriche eseguite con apparecchi convenzionali nel campo delle tensioni più basse mentre nel campo delle tensioni più elevate sono stati utilizzati edometri speciali. La curva tensione-deformazione è stata tracciata riportando le deformazioni positive (cioè di compressione) verso il basso, come di norma per la Meccanica dei Terreni, poiché le deformazioni di compressione sono associate ai cedimenti (cioè a spostamenti verso il basso).

Fig.2.33 – Relazione tensione-deformazione in condizioni edometriche per una sabbia (porosità iniziale 0.375).

Dall’esame della Fig. 2.33c si deduce che nella curva tensione-deformazione delle sabbie possono distinguersi 3 stadi:

–       1 – per tensioni ≤15 MN/m2, la curva tensione-deformazione presenta concavità verso l’alto. La sabbia diventa, quindi, più rigida all’aumentare della pressione. Questa forma della relazione tensione-deformazione, deriva dalla progressiva interconnessione dei grani ed è caratteristica dei sistemi particellari. Le deformazioni derivano essenzialmente dalle modifiche dell’assetto dei grani del tipo illustrato in Fig. 2.32. All’aumentare della pressione, si verifica dapprima il collasso delle porzioni del sistema nelle quali più basso è il grado di addensamento e, successivamente, il collasso di quelle con più alto grado di addensamento. Ognuno di questi eventi di collasso locale determina modifiche nella disposizione dei grani, un incremento del grado di addensamento, e quindi una più grande rigidezza dell’insieme dei grani per raggiungere, successivamente, uno stadio nel quale il sistema, ormai addensato, si serra ulteriormente in conseguenza di processi di rottura nei punti di contatto ai quali si accompagnano ulteriori mutui scorrimenti.

–       2 – per pressioni >15 MN/m2 la curva tensione-deformazione rivolge la concavità verso l’asse delle deformazioni (in basso). Tale risposta meccanica del sistema (→ plasticizzazione) è dovuta alla rottura dei singoli grani che consente notevoli spostamenti relativi dei grani stessi. L’esame microscopico dei grani e l’analisi granulometrica prima e dopo la prova confermano che si verificano. quindi, realmente apprezzabili modifiche delle dimensioni dei grani e della composizione granulometrica.

–       3 – La rottura dei grani consente un ulteriore addensamento dei grani esistenti e di quelli formatisi dopo la rottura. Infatti, con l’aumento del numero delle particelle, le forze in corrispondenza dei punti di contatto si riducono d’intensità. Di conseguenza la sabbia diventa sempre più rigida all’aumentare delle pressioni applicate.

I processi descritti hanno luogo durante la compressione di tutti i terreni granulari sebbene di rado in fasi cosi distinte. Nella Fig. 2.34 vengono riportati i risultati sperimentali relativi ad alcune tipiche sabbie naturali. Lo scorrimento tra i grani è generalmente presente per tutti i livelli di tensione.

Lo schiacciamento e la rottura dei grani, in realtà, hanno inizio con tensioni molto basse ma diventano progressivamente più importanti quando si raggiunge una sorta di pressione critica. Quest’ultima è più bassa se le dimensioni dei grani sono grandi, se il terreno è scarsamente addensato, se i grani presentano spigoli vivi, se la resistenza del singolo grano è bassa e, infine, se il terreno è granulometricamente uniforme.

In molti problemi d’interesse per l’Ingegneria il livello tensionale è assai modesto e lo schiacciamento dei grani è relativamente poco importante: in tal caso le curve pressione-deformazione per la situazione edometrica, presentano l’andamento tipico riportato in Figg. 2.33a e 2.33b.

Di norma i processi di rottura dei grani diventano importanti per valori della pressione > 3.5 MN/m2. Pressioni più elevate si hanno nelle grandi dighe di terra e anche in reservoirs di di grande potenza, soggetti a fenomeni di subsidenza in seguito all’emungimento dal sottosuolo di gas o acqua. Nel caso di ammassi uniformi costituiti di blocchi di grandi dimensioni (rockfill) lo schiacciamento dei grani può risultare importante anche per valori delle tensioni di 700 kN/m2.

Fig. 2.34 – Risultati di prove di compressione edometrica spinte ad alte pressioni su diversi tipi di sabbia.

2.7.5 – Comportamento meccanico in fase di scarico e di ricarico

Soltanto una parte delle deformazioni che si verificano durante la fase di carico viene restituita durante la successiva fase di scarico (Fig. 2.35). Le deformazioni associate agli spostamenti relativi dei grani o alla loro rottura sono generalmente irreversibili. La restituzione delle deformazioni nella fase di scarico deriva principalmente dall’energia di deformazione elastica accumulata nei singoli grani nella fase di carico. Si possono, inoltre, verificare in qualche misura scorrimenti inversi dei grani durante lo scarico. In Fig. 2.35 viene riportata la relazione deformazione-tensione verticale durante la fase di ricarico di una sabbia prima sottoposta a carico e quindi a scarico.

Per pressioni minori della massima pressione applicata al terreno nella prima fase di carico, la sabbia è molto più rigida (molto meno deformabile) che nel corso della prima fase di carico in quanto la maggior parte degli spostamenti relativi possibili dei grani si sono già verificati durante la prima fase di carico. Quando la sabbia è sottoposta a pressioni maggiori di quella massima applicata nella prima fase di carico la curva tensione-deformazione e pressoché coincidente con quella che si sarebbe ottenuta se non si fosse eseguito lo scarico.

Fig. 2.35 – Prova di compressione edometrica su sabbia calcarea ben assortita.

Gli effetti di variazioni cicliche della pressione applicata tra 2 dati valori della pressione sono riportati in Fig. 2.36.

Fig. 2.36 – Curve di tensione-deformazione per vari cicli di carico e scarico in prove di compressione edometrica.

Nel corso dei primi cicli si rilevano, per ciascun di questi, deformazioni permanenti di modesta entità; successivamente si ottiene un ciclo d’isteresi stabile con deformazioni permanenti aggiuntive molto basse o nulle per ciascun ulteriore ciclo di carico (Fig. 2.37a).

Fig. 2.37 – Comportamento in prove cicliche di compressione edometrica: a) ciclo d’isteresi; b) percorso di tensione; c) incremento di deformazione verticale: le particelle si deformano in corrispondenza dei punti di contatto e spostandosi verso il basso senza variazione laterale dei loro baricentri.

La sequenza di eventi meccanici osservati nel corso di prove di carico cicliche si può spiegare con l’ausilio dei risultati di un’analisi teorica di un insieme ideale ordinato di sfere elastiche; é possibile, infatti, per un siffatto insieme, ottenere uno stato di deformazione monodimensionale come indicato in Fig. 2.37c.

Le componenti normali delle forze agenti nei punti di contatto determinano la compressione delle sfere; nel medesimo tempo si debbono verificare scorrimenti relativi delle sfere affinché gli spostamenti siano esclusivamente verticali, come imposto dalla prova edometrica. Allo scarico le sfere riacquistano la loro forma originaria e lo scorrimento si verifica nel verso opposto. Durante ciascun ciclo di carico vengono dissipate piccole quantità di energia.

I medesimi tipi di fenomeni si verificano nei terreni reali.

Nella maggior parte dei problemi ingegneristici gli effetti della variabile tempo, nel processo di compressione della sabbia, non sono rilevanti peri fini pratici. Infatti le variazioni di volume si verificano rapidamente e pressoché completamente, in pochi minuti, (Fig. 2.38).

Fig. 2.38 – Curva cedimenti-tempo (per un assegnato incremento di carico) caratteristica delle sabbie.

Tuttavia, se gli sforzi di compressione sono tanto elevati da provocare la rottura dei grani, esiste uno sfasamento temporale  o ritardo non trascurabile tra il momento di applicazione del carico e il completamento del processo di deformazione (Fig. 2.39).

Fig. 2.39 – Curva cedimenti-tempo caratteristica per alte pressioni.

Per la maggior parte dei terreni la rottura dei grani si verifica soltanto per valori delle pressioni particolarmente alte. Nel caso dei terreni costituiti di grani teneri o debolmente cementati si possono verificare tuttavia significativi ritardi anche per livelli tensionali bassi.

2.7.6 – Effetti di piccoli incrementi di tensione applicati partendo da stato tensionale iniziale

II legame tensione-deformazione per la condizione in esame è del tipo indicato in Fig. 2.40. Lo scorrimento mutuo dei grani non ha inizio fino a quando l’incremento di tensione non supera una certa soglia critica; per incrementi più piccoli le deformazioni sono dovute quasi esclusivamente alla deformazione elastica dei singoli grani.

Fig. 2.40 – Effetti di piccoli incrementi di sollecitazione applicati a partire da un assegnato stato tensionale.

L’incremento di tensione necessario per innescare lo scorrimento mutuo dei grani cresce all’aumentare del livello tensionale iniziale e al diminuire dell’indice di porosità, è più grande per i terreni che sono stati sottoposti nel passato a carichi molto intensi (fortemente preconsolidati) e risulta più alto se le sollecitazioni vengono applicate al terreno rapidamente anziché gradualmente. L’incremento di tensione in questione è ~10 kN/m2, valore che, nella maggior parte dei problemi ingegneristici, si rivela di modesta rilevanza applicativa eccezione fatta per lo studio delle velocità di propagazione delle onde.

2.7.7 – Le tensioni laterali nel corso di prove di compressione edometrica

Nelle prove di compressione edometrica gli spostamenti dei grani si verificano, mediamente, secondo una sola direzione; di conseguenza, sommando le forze tangenziali intergranulari in corrispondenza delle zone di contatto per le quali si fa passare una generica superficie, si ottiene una risultante non nulla. Pertanto, in generale, la tensione orizzontale in una prova di compressione edometrica è differente rispetto a quella verticale. Il rapporto tra tensione orizzontale e tensione verticale (efficaci) è pari, per definizione, a Ko (coefficiente di spinta a riposo).

In un terreno granulare sottoposto per la prima volta all’azione di carichi, le forze di attrito nei punti di contatto intergranulari sono dirette in modo che σh < σv e quindi K0 < 1. Il valore di K0 dipende dalla resistenza a taglio mobilitata nei punti di contatto tra i grani. In Fig. 2 41 è diagrammato il valore di K0 in funzione dell’angolo di resistenza a taglio θ.

Il valore di K0 di alcuni terreni (es. sabbie del Sangamon in Fig. 2.41) può essere calcolato mediante un’equazione teorica ricavata dall’analisi di un insieme ideale ordinato di sfere elastiche. I valori sperimentali di K0 possono essere correlati con θ mediante l’espressione proposta da Jaky :

K0 = 1-sen θ

Sostituendo la relazione nell’equazione che definisce l’inclinazione β del percorso di tensione K0 si ha:

Fig. 2.41 – Correlazione tra coefficiente di spinta laterale a riposo e angolo di resistenza al taglio per la fase di primo carico.

La direzione delle forze d’attrito intergranulari si inverte durante lo scarico (Fig. 2.37d).

Per una assegnata tensione verticale, la tensione orizzontale in fase di scarico sarà maggiore che nella fase di carico iniziale. Nella fase finale del processo di scarico le tensioni orizzontali possono anche superare quelle verticali, come dimostrato dai risultati sperimentali diagrammati in Fig. 2.42. Nel corso del processo di ricarico il coefficiente di tensione laterale a riposo può assumere valori maggiori di quelli forniti dall’equazione di Jaky per decrescere successivamente con l’aumentare degli sforzi, fino al valore fornito dalla medesima. Il percorso di tensione per il ciclo di carico e scarico è del tipo indicato in Fig. 2.37b; il coefficiente di tensione laterale varia approssimativamente tra K0 e 1/K0.

Fig. 2.42 – Tensioni  laterali in condizioni di deformazione monodimensionale (sabbia: e0 = 0.62; Dr = 0.34).

2.7.8 – Relazione tensione-deformazione da prove di compressione triassiale

Nella Fig. 2.43 vengono riportati alcuni risultati sperimentali di una prova triassiale eseguita su un campione di sabbia. Il percorso delle tensioni è riportato in Fig. 2.44. Il provino è stato dapprima sottoposto a compressione isotropa applicando una pressione di cella pari a 100 kN/m2. Successivamente è stata incrementata la tensione verticale (assiale) mantenendo costante la tensione orizzontale (pressione di cella).

In Fig. 2.43 è riportato l’andamento di q [q = (σvσh)/2] in funzione della deformazione verticale (assiale).

Fig. 2.43 – Risultati di una prova di compressione triassiale su una sabbia calcarea ben assortita.

La curva tensione-deformazione presenta un andamento curvilineo per deformazioni molto piccole e raggiunge il picco per una deformazione ~3%; successivamente la resistenza del terreno diminuisce in maniera graduale. La prova in esame è stata interrotta senza particolari motivi ad una deformazione pari all’11,6%. Se la prova fosse stata proseguita fino a deformazioni più elevate la curva tensione-deformazione avrebbe assunto un andamento pressoché parallelo all’asse delle ascisse. Per un’ulteriore analisi della relazione tensione-deformazione è opportuno definire 3 stadi del processo di deformazione:

–       1 – stadio iniziale durante il quale le deformazioni sono molto piccole. Nel caso della prova i cui risultati sono riportati in Fig. 2.43 questo stadio si estende sino a una deformazione pari ~0,25%.

–       2 – stadio intermedio che prende avvio quando il terreno comincia a plasticizzarsi; comprende il picco della curva e la successiva graduale riduzione della resistenza. Nel caso di Fig. 2.43 questo stadio si estende da valori della deformazione dello 0,25% sino alla fine della prova.

–       3 – stadio finale durante il quale la resistenza rimane costante al crescere della deformazione. Questo stadio è definito condizione ultima.

Fig. 2.44 – Percorso di tensione relativo ad una prova di compressione triassiale standard su sabbia ben assortita.

2.7.8.1 – Comportamento durante la fase iniziale

Durante la fase iniziale si registra una modesta riduzione di volume del provino (Fig. 2.43). Dalla Fig. 2.43c si desume che il provino si dilata in direzione laterale, quindi la deformazione orizzontale è negativa ma di intensità minore di quella verticale. Quanto descritto si verifica se le tensioni di compressione aumentano.

In questa fase il grado di addensamento cresce. L’andamento è generalmente molto simile a quello che si riscontra nelle prove di compressione edometrica e di compressione isotropa.

In Fig. 2.45 si raffrontano le curve tensione-deformazione ottenute in prove di compressione isotropa, edometrica e triassiale su provini identici col medesimo indice di porosità iniziale, sottoposte inizialmente alla medesima pressione verticale.

Fig. 2.45 – Confronto delle curve tensione-deformazione relative a 3 differenti tipi di prova di compressione.

2.7.8.2 – Comportamento in prossimità del picco

In questo stadio il terreno raggiunge la condizione di rottura. La tensione deviatoria nel punto di picco della curva tensione-deformazione è denominata resistenza a compressione del terreno. Il valore di q di picco (pari a metà della resistenza a compressione) è direttamente correlato alla resistenza al taglio del terreno. Il comportamento in questa fase è molto differente rispetto a quello della fase iniziale e può essere interpretato studiando le deformazioni di un insieme piano di sfere rigide. In Fig. 2.46d è rappresentato un elemento di volume di tale mezzo ideale, in una configurazione alla quale corrisponde un elevato grado di addensamento.

Fig. 2.46 – Deformazioni in insiemi di sfere disposte regolarmente: a) stato iniziale con alto grado d’addensamento; b) stato di minimo addensamento e deformazioni uniformi: c) stato di minimo addensamento e deformazioni non uniformi; d) comportamento della cella elementare.

Quando tale elemento è compresso nella direzione verticale, si possono verificare deformazioni verticali soltanto se le sfere C e D si muovono lateralmente. Tale tipo di spostamento delle sfere comporta necessariamente un aumento di volume dell’insieme di sfere considerato; per rendersene conto basta confrontare il volume dei pori nelle configurazioni di Figg. 2.46a-b, rispettivamente.

I dati rappresentati in Fig. 2.43b evidenziano che anche nei terreni reali si verifica un incremento di volume nella fase iniziale di carico. I risultati sperimentali confermano, quindi, che le sabbie addensate, qualora sottoposte a prove di compressione non uniforme, subiscono incrementi di volume. Reynolds ha definito tale fenomeno dilatanza.

L’insieme piano di sfere può essere ancora utilizzato per studiare lo stato del terreno in corrispondenza del picco della curva tensione-deformazione e per spiegare la riduzione di resistenza che si registra dopo il picco. Questi aspetti possono essere discussi in maniera più semplice con riferimento allo schema di Fig. 2.47 che illustra il concetto di interconnessione.

Si considerino (Fig. 2.47a) alcuni grani di quarzo che scorrono su una superficie liscia anch’essa formata da quarzo. In questa situazione, già descritta in precedenza, la resistenza al taglio è descritta da φu, angolo di attrito minerale-minerale. Nei terreni reali si verificano condizioni simili a quelle illustrate nelle Figg. 2.47b-c: i grani che costituiscono il terreno sono in contatto tra loro e i piani tangenti alle superfici dei grani nei punti di contatto sono inclinati rispetto all’orizzontale.

Fig. 2.47 – Esempi schematici d’interconnessione: a) superficie di scorrimento liscia regolare (assenza d’interconnessione); b) superfici di scorrimento con moderato o (c) alto grado d’interconnessione.

Perché si verifichi la rottura per superamento della resistenza a taglio è necessario non solo vincere la resistenza d’attrito in corrispondenza dei punti di contatto tra i grani, ma anche che i grani si muovano gli uni sugli altri. La resistenza a taglio di un terreno reale è data, dunque, da 2 componenti: la prima dipende da φu mentre la seconda dipende dal grado di interconnessione. Maggiore è il grado di interconnessione, più grande è la resistenza a taglio.

Ne segue che, per un assegnato valore dello sforzo normale N, lo sforzo T necessario perché abbia luogo lo scorrimento sarà maggiore nella situazione di Fig. 2.47c e minore nella situazione di Fig. 2.47a. Nelle situazioni di Figg. 2.47b-c le piastre debbono necessariamente subire spostamenti relativi quando viene applicato lo sforzo di taglio. Con il procedere dello scorrimento orizzontale impresso, il grado di interconnessione deve diminuire e, di conseguenza, l’intensità della forza di taglio necessaria perché prosegua lo scorrimento orizzontale deve anch’essa diminuire.

Partendo dallo schema ad alto grado di interconnessione di Fig. 2.47c, in seguito all’applicazione di una forza di taglio, il sistema tenderà a raggiungere la configurazione indicata in Fig. 2.47b.

Se i precedenti concetti sulla dilatanza e sull’interconnessione sono corretti l’indice di porosità iniziale deve influire notevolmente sull’andamento della curva tensione-deformazione ottenuta con prove di compressione triassiale. I risultati sperimentali di Fig. 2.48 confermano quanto asserito.

Fig. 2.48 – Curve tensioni-deformazione in funzione dell’indice di porosità di una sabbia medio-fina: σ3 = 207 kn/m2; e0 = 0.605 corrispondente a Dr~100%; e0 ~0.834 e Dr~20%. La linea a tratto continua indica dati sperimentali effettivi, quella tratteggiata è un’estrapolazione basata su risultati di altre prove.

La curva tensione deviatorica-deformazione assiale, relativa al provino con più elevato grado di addensamento, presenta un picco molto pronunciato; successivamente la tensione deviatorica diminuisce al crescere della deformazione assiale. Al contrario, la curva corrispondente al provino di sabbia scarsamente addensata non presenta un picco e la tensione deviatorica rimane essenzialmente costante all’aumentare delle deformazioni, dopo il raggiungimento della resistenza a compressione del terreno. I provini più addensati subiscono incrementi di volume nel corso del processo di deformazione mentre quelli scarsamente addensati dapprima subiscono una diminuzione di volume quindi un aumento e infine riacquistano approssimativamente il volume che avevano all’inizio della prova. Utilizzando i concetti di dilatanza e interconnessione si possono prevedere i seguenti tipi di comportamento.

–       1 – più la sabbia è addensata, più alto é il grado d’interconnessione, e quindi più alto il valore della tensione deviatorica che è necessario applicare per produrre la rottura del provino;

–       2 – più la sabbia è addensata, maggiore é l’aumento di volume.

–       3 – con l’aumentare del volume diminuisce la resistenza della sabbia a lasciarsi deformare.

–       4 – con la caduta di resistenza post-picco è tanto più accentuata quanto più è alto il grado di addensamento iniziale della sabbia.

2.7.8.3 – Condizione ultima ed effetti scarico-ricarico

Nella condizione ultima, l’interconnessione tra i grani è diminuita e le deformazioni possono continuare senza ulteriori variazioni di volume. L’indice di porosità in questa fase è indipendente dall’indice di porosità iniziale del terreno.

In Fig. 2.49 vengono riportate alcune curve tensione-deformazione caratteristiche, ottenute sottoponendo il provino a successivi cicli di carico e scarico. Queste curve presentano un andamento molto simile a quello ottenuto con le prove di compressione edometrica.

Fig. 2.49 – Effetti dei cicli di carico e scarico sui risultati delle prove di compressione triassiale.

In conclusione sebbene gli incrementi di tensioni ai quali viene assoggettato l’elemento di volume di terreno nel sottosuolo non corrispondano generalmente a quelli della prova triassiale standard né a quelli della prova edometrica, lo studio del legame tensioni-deformazioni mediante prove edometriche e triassiali ha tuttavia evidenziato i caratteri essenziali della relazione tensioni-deformazioni nei terreni granulari asciutti.

2.7.9 – Comportamento del terreno nelle prove di taglio diretto

Le curve tensione-deformazione relative a prove di taglio diretto sono analoghe a quelle ottenute con prove di compressione triassiale. In Fig. 2.50 vengono riportati alcuni risultati di prove di taglio diretto eseguite su sabbie scarsamente addensate. Per le sabbie dense si ottengono curve tensione-deformazione caratterizzate da un picco e dall’aumento di altezza del provino.

Nelle prove di taglio diretto convenzionali la maggior parte delle deformazioni hanno luogo in una sottile fascia o banda di cui non si conosce lo spessore; in tale fascia la deformazione dalla quale dipende la resistenza a taglio è, di conseguenza, molto differente rispetto al rapporto tra lo spostamento verticale tra le 2 parti della scatola di taglio e lo spessore del provino. Ne segue che dalla prova di taglio diretto convenzionale è possibile ottenere soltanto dati qualitativi sulla relazione tensione-deformazione.

Fig. 2.50 – Tipici risultati della prova di taglio diretto su sabbie scarsamente addensate.

2.8 – Tensioni efficaci

La comprensione del comportamento dei terreni richiede, come visto, la conoscenza di diversi concetti generali. Tuttavia, a motivo della loro natura multifase, è indispensabile in particolar modo stabilire una legge di interazione tra le varie fasi per poter esprimere la ripartizione interna degli sforzi applicati a un generico elemento di terreno.

Tale legge d’interazione è costituita dalla relazione nota come principio degli sforzi efficaci.

2.8.1 – Principio degli sforzi efficaci

Molte delle difficoltà che si incontrano nello studio del comportamento dei terreni dipendono dal fatto che essi sono dei materiali multifase. La loro risposta, sia in termini di compressibilità che di resistenza al taglio, alle sollecitazioni esterne dipende dalla interazione che si sviluppa all’interno della massa tra le varie fasi. E non essendo questa di immediata intuizione si spiega perché sia passato tanto tempo dalla data di formulazione del primo criterio di resistenza al taglio (Coulomb, 1773) a quella di introduzione dei concetti che sono alla base della moderna Meccanica dei Terreni (Terzaghi, 1925).

Ad es., benché molti studiosi avessero osservato in passato fenomeni di consolidazione di terreni argillosi (Telford) un inquadramento teorico di tale importante processo non è stato possibile prima della formulazione del principio degli sforzi efficaci (Terzaghi).

Tale principio può essere illustrato tramite il seguente esempio.

Facendo riferimento a un elemento di terreno saturo (Fig. 2.51) con area della sezione trasversale pari a AT e area complessiva dei singoli contatti intergranulari pari ad Ac l’equilibrio alla traslazione verticale può esprimersi nella forma:

σAT = Σ Fi+u (AT–Ac)

dove Fi è la forza agente sull’area i-esima di contatto intergranulare; u la pressione dell’acqua e σ la tensione totale. L’area complessiva Ac è una trascurabile % dell’area della sezione trasversale AT per cui ponendo:

σ’ = Σ Fi/AT

si ha:

σ σ’+u *

Tale equazione esprime il principio degli sforzi efficaci.

Fig. 2.51 – Ripartizione degli sforzi applicati a un elemento del terreno.

Per illustrarne il significato si riporta quanto Terzaghi scriveva in occasione del primo Congresso Internazionale di Meccanica dei Terreni (1936):

Le tensioni in un punto possono essere determinate dalla conoscenza delle tensioni totali principali σ1σ2 e σ3Se lo spazio intergranulare è riempito con acqua avente pressione u, le tensioni totali possono scomporsi in due parti. Una di esse, chiamata pressione neutra, agisce sull’acqua e sui grani in ogni direzione con uguale intensità. Le differenze σ1 = σ1-uσ2 = σ2-uσ3 = σ3-u rappresentano l’aliquota di pressione, in eccedenza alla u, che è sopportata interamente dalla fase solida.

Questa frazione della tensione totale è chiamata tensione efficaceUn cambio delle pressioni neutre non produce cambio di volume, né ha influenza sulle condizioni tensionali che provocano la rottura.

I materiali porosi (quali sabbie e calcestruzzo) reagiscono a un cambio della u come materiali incompressibili e con angolo di attrito interno nullo. Tutti gli effetti prodotti da un cambio di tensione, quali una compressione, una distorsione e una variazione della resistenza al taglio sono esclusivamente dovute a un cambio delle tensioni efficaci. Di conseguenza, ogni indagine di stabilità di un mezzo saturo richiede la conoscenza sia delle tensioni totali che delle pressioni neutre.”

La definizione di pressione neutra, attribuita alla pressione dell’acqua nel brano riportato, è connessa al fatto che la causa principale delle rotture e/o delle deformazioni che subisce un elemento di terreno è costituita dalle azioni di taglio che le singole particelle si scambiano tra loro.

Ad es., nel caso delle sabbie, le deformazioni sono solo in minima parte dovute alla compressione e distorsione della singola particella mentre l’aliquota maggiore è data dallo scorrimento relativo prodotto dagli sforzi di taglio (sebbene tali scorrimenti richiedono quasi sempre, per innescarsi, il verificarsi di deformazioni delle particelle). Poiché l’acqua interstiziale non sopporta sollecitazioni statiche di taglio, ne discende la definizione di pressione neutra.

2.8.2 – Significato fisico delle tensioni efficaci

Per comprendere cosa realmente rappresentino le tensioni efficaci, conviene analizzare un po’ più in dettaglio il fenomeno fisico.

In un elemento di terreno l’equilibrio deve sussistere tra le forze applicate al contorno, la pressione dell’acqua e tutte le forze che le particelle si scambiano tra loro. Nel caso più generale si ha cosi:

σ AT = σc Ac + pa Aa + u Aw + R-A

nella quale Aa e pa sono rispettivamente l’area relativa ai contatti aria-minerale e la pressione dell’aria; Aw e u, rispettivamente, l’area relativa ai contatti acqua-minerale o acqua-acqua e la pressione dell’acqua; R le forze repulsive elettrostatiche di Born e le forze repulsive dipendenti dal doppio strato elettrico; A le forze d’attrazione di natura elettrostatica (particelle con facce o spigoli che hanno carica opposta) e di natura elettromagnetica (forze di Van der Waals).

Dividendo primo e secondo membro dell’equazione per AT si ottiene:

σ = σc ac + pa aa + u aw + R-A1

che nel caso di un materiale saturo si semplifica nella:

σ = σc’ ac + u aw + R1-A1

Tenendo presente che a» è praticamente pari all’unità e confrontando la relazione con la * si ha, in definitiva:

σ‘ = σ-u = σc‘ ac+R1A1

cioè:

(a) la pressione efficace, così come definita dalla *, esprime realmente delle pressioni intergranulari solo quando le forze R1 e A1 (o la loro differenza) sono trascurabili, come succede nel caso delle sabbie, dei limi e delle argille di bassa plasticità;

(b) in ogni caso, essendo:

σ‘ = σc’ Ac/AT

la pressione efficace non rappresenta direttamente la tensione agente nei punti di contatto (che è la σc’) ma è definita come la somma delle forze intergranulari riferita all’area della sezione totale dell’elemento di terreno (in base a tale definizione, ad esempio, nel caso di σc’ = 0.01 e per σ’ = 100 kPa la tensione intergranulare risulta, trascurando fenomeni di plasticizzazione, σc’ = 10 MPa);

(c) nel caso di un struttura fortemente dispersa, quale quella di un’argilla di elevata plasticità del gruppo delle montmorilloniti, può verificarsi invece assenza di contatti intergranulari e l’equazione finale si riduce a:

σ‘ = R1-A1

ossia la pressione efficace rappresenta la risultante delle azioni di repulsione e di attrazione esistenti tra le particelle.

2.8.3 – Terreni non saturi

Nel caso di terreni non saturi i vuoti sono riempiti in parte da acqua e in parte da aria e queste due fasi possono essere in equilibrio tra loro sotto pressioni considerevolmente differenti a causa della tensione superficiale. Riprendendo l’equazione iniziale e trascurando i termini R e A, Bishop ha proposto la relazione:

σ‘ = (σ-pa+ β (pa-u)

in cui β Aw/AT.

La differenza (pa-u) dipende dalla dimensione D delle particelle in gioco e dalla tensione superficiale T, e può essere espressa nella forma:

(pa-u) = 4T/D

L’applicazione della penultima relazione è resa estremamente difficile dalla pronunciata dipendenza del parametro β, dal grado di saturazione S, dalla struttura del materiale e dal modo in cui è stato raggiunto l’attuale valore di S, per cui, sebbene concettualmente non troppo complicata, tale equazione non trova spazio nella pratica corrente.

2.8.4 – Validità del principio degli sforzi efficaci

Un’approfondita analisi della validità fisica dell’equazione degli sforzi efficaci nella forma proposta da Terzaghi è riportata da Skempton. Tale analisi dimostra che più correttamente andrebbero scritte due differenti relazioni, a seconda che si tratti di un problema di resistenza:

σ’ = σ  [1- (ac tgφu/tgφ’)] u

o di un problema di compressibilità:

σ’ = σ  [1- (Cs/C)] u

essendo φu’ e CS, rispettivamente, l’angolo d’attrito e il coefficiente di compressibilità volumica delle particelle solide; φu’ e C, rispettivamente, l’angolo di resistenza al taglio e coefficiente di compressibilità volumica dello scheletro solido.

Nel caso dei terreni, il rapporto tgφu/tgφ’ è compreso entro 0.3÷0.8 e ac è, come già detto, estremamente piccolo; inoltre, nell’ambito delle tensioni che normalmente interessano i problemi di Meccanica dei Terreni, il rapporto CS/C può considerarsi praticamente nullo per cui, in definitiva, si ritrova l’equazione originaria:

σ’ = σ-u

Nel caso delle rocce, invece, tale equazione non trova conferma, in quanto ac non è trascurabile e CS/C è dell’ordine di 0.1÷0.5.

Pertanto l’equazione * può essere considerata corretta solo nel caso dei materiali sciolti saturi. Le due ultime relazioni possono altresì essere interpretate come una generalizzazione dell’equazione di Terzaghi in quanto risultano applicabili sia ai terreni sciolti sia alle rocce e al calcestruzzo nel caso di completa saturazione. In materiali parzialmente saturi, ponendo:

Sβ = 1+(1-β) (pa-u)/u

le medesime equazioni divengono:

σ’ = σ  [1- (ac tgφu/tgφ’)] Sβ u

e:

σ’ = σ  [1- (Cs/C)] Sβ u

2.9 – Comportamento meccanico dei terreni non coesivi

2.9.1 – Introduzione

A causa dell’impossibilità di prelevare campioni indisturbati (a meno di non ricorrere a sofisticate e onerose tecniche) è noto come sia prassi comune, supportata anche dall’esperienza, ricorrere nel caso dei terreni sabbiosi a prove in situ per la determinazione dei parametri meccanici.

Un inquadramento generale e rigoroso del comportamento del materiale può, tuttavia, aversi solo attraverso le prove di laboratorio, perché solo entro tali prove è possibile controllare le condizioni al contorno di tensioni e deformazioni e conoscere la storia tensionale del provino in modo da giungere ad un’individuazione dei fattori che maggiormente ne influenzano il comportamento.

Per tale motivo, nel seguito del capitolo, vengono presentati e discussi i risultati più significativi ottenibili da prove di laboratorio che, pur con le limitazioni inerenti il tipo di struttura del provino preparato a tal fatta, servono per un’efficace interpretazione delle medesime prove in situ e da guida per una corretta scelta dei parametri di progetto.

Al fine d’introdurre alcuni concetti fondamentali largamente utilizzati è opportuno considerare il comportamento di un campione di sabbia sciolta (indice dei vuoti iniziale e0 = 0.85) e quello di un campione di sabbia densa (e0 = 0.60) nel corso di prove di rottura in condizioni drenate.

I risultati, riportati in Fig. 2.52 possono essere ottenuti sia da prove triassiali sia da prove di taglio diretto.

Nel primo caso le variabili di riferimento sono il rapporto delle tensioni principali σ1/σ3’, la variazione di volume ΔV e la deformazione assiale ε1.

Nel secondo caso (taglio diretto), l’obliquità τ/σ1’, la deformazione per taglio γ e la variazione di altezza del provino ΔH.

Fig. 2.52 – Comportamento meccanico di una sabbia densa e di una sabbia sciolta.

Durante la fase di rottura; i singoli grani del campione di sabbia sciolta si spostano dalla loro configurazione iniziale per raggiungere un assetto più denso e più stabile. L’indice dei vuoti iniziale e0 si riduce progressivamente col procedere delle deformazioni fino a un valore critico, definito indice dei vuoti critico e indicato nel seguito con eCRIT, corrispondente a uno stato ultimo raggiunto il quale il materiale può continuare a deformarsi senza variazioni di volume e resistenza.

La curva sforzi-deformazioni che si ottiene da tali prove convenzionali è tipica di un materiale incrudente. Nel caso invece di un campione di sabbia densa, le deformazioni non possono avvenire se non con un aumento di volume. Di conseguenza, questa volta, per portare a rottura il provino occorre spendere energia per compensare:

–       da un lato il lavoro effettuato dalle forze di attrito interno durante gli spostamenti relativi (rotazione e traslazione) delle particelle;

–       dall’altro il lavoro svolto per produrre l’aumento di volume, contrastato dalla componente normale dello sforzo applicato.

La resistenza che ne deriva è sensibilmente maggiore di quella di una sabbia allo stato sciolto, la curva sforzi deformazioni è di tipo rammollente e l’istante di rottura è ben evidenziato. Una volta superato il valore di picco si ha una graduale perdita di resistenza, imputabile a una diminuzione del grado di mutuo incastro delle particelle per effetto della dilatazione verificatasi, fino al raggiungimento di un valore ultimo che si mantiene costante con le deformazioni. Anche in questo caso il materiale raggiunge uno stato critico caratterizzato dall’assenza di variazioni di volume e di resistenza col procedere delle deformazioni. Tale stato critico è unico per i due provini e la struttura finale del materiale presenta il medesimo indice dei vuoti critico eCRIT cui compete lo stesso valore di resistenza finale, indipendentemente dalla densità iniziale.

Le differenze riscontrabili sperimentalmente tra i valori di resistenza e indice dei vuoti che competono a diversi provini sono imputabili principalmente alle difficoltà inerenti la determinazione dei vari parametri a grandi deformazioni. In particolare, a causa delle non più uniformi condizioni prodotte dalla rottura nel provino (rottura che si verifica, in genere, con uno scorrimento lungo un piano ben definito nel caso di sabbie dense e con uno spanciamento nel caso di sabbie sciolte, Fig. 2.53), tali determinazioni risultano poco attendibili nel caso di prove triassiali, mentre l’apparecchio di taglio diretto si presta meglio per lo studio del comportamento a grandi deformazioni.

Fig. 2.53 – Rottura provini: differenze strutturali del fenomeno.

Da questa argomentazione emergono 2 aspetti importanti:

a) II primo riguarda la differenza esistente tra le condizioni di picco e quelle relative alle condizioni a volume costante. Se, come normalmente accade nel caso dei terreni sabbiosi, si parla in termini di angolo di resistenza più che di resistenza al taglio, si ha un massimo valore di φ’ (indicato come φ’ di picco) in corrispondenza della massima obliquità τ/σ1’ (o del massimo rapporto σ1/σ3’) e un valore ultimo φcv’(denominato angolo a volume costante, per specificare meglio le condizioni di deformazione cui si riferisce) in corrispondenza dello stadio finale quando (τ/σ1’)ULT è praticamente costante.

Nel caso di una sabbia pulita non cementata (c’ = 0) tali valori si ottengono dalle relazioni:

tg φ’ = (τ/σ’)MAX     e     tg φcv’ = (τ/σ’)ULT

oppure:

sen φ’ = [(σ13’)MAX-1]/[(σ13’)MAX+1]

e:

senφcv’ = [(σ13’)ULT-1]/[(σ13’)ULT+1]

b) II secondo aspetto riguarda il fatto che, contrariamente alla definizione comunemente usata, l’angolo di attrito non rispecchia soltanto l’attrito interno tra i grani (e per questo motivo nel seguito si preferisce la definizione di angolo di resistenza al taglio). Infatti la resistenza al taglio dipende, a parità di altri fattori, dall’attrito interno tra i grani che si mobilita nel corso di scorrimenti e rotazioni relativi tra le particelle, e dal loro grado di mutuo incastro (crescente all’aumentare della densità relativa).

L’energia richiesta per portare a rottura un campione deve di conseguenza, come già detto, bilanciare il lavoro delle forze di attrito e quello svolto dalle forze normali nel contrastare l’aumento di volume. Il modello riportato in Fig. 2.54 aiuta a spiegare meglio quest’ultimo aspetto.

Fig. 2.54  Interpretazione di una prova di taglio tenendo conto della variazione di volume del provino.

In virtù del mutuo incastro tra le particelle non esiste un piano di scorrimento ben definito, e affinché la parte A del provino possa scorrere rispetto a quella inferiore B è necessaria una variazione di volume prodotta dalla rotazione relativa dei grani che tendono a liberarsi da tale condizione di incastro.

Per semplicità, allora, la sezione C-C può rappresentarsi nel modo illustrato in Fig. 2.54b e, con i simboli indicati, l’equilibrio alla traslazione orizzontale e verticale è esprimibile nella forma:

N = P cos α + Q sen α

T =  P sen α + Q cos α

Se l’angolo di attrito tra i grani è indicato come φμ’si ha:

T/N = tg φμ

e quindi:

Q  P tg α = tg φμ’ P + tg φμ’ Q tg α

Essendo dy/dx = tg α si ottiene, a conclusione:

Q/P = [tg φμ’+(dy/dx)]/[1-tg φμ’(dy/dx)

Quando si determina l’angolo di resistenza al taglio φ’, si opera in termini fenomenologici, ossia si sollecita il provino e se ne osserva la risposta senza entrare nel merito di ciò che accade a livello di singoli grani. Di conseguenza è il rapporto Q/P a rottura il valore usato per ricavare φ’, e pertanto si ha:

tg φ’= [tg φμ’+(dy/dx)]/[1-tg φμ’(dy/dx)

Ossia, se le deformazioni avvengono con aumento di volume (dy/dx>0), tg φ’ è sensibilmente maggiore di tg φμ’ perché mentre φμ’ rappresenta solo il contributo dell’attrito tra i grani, φ’ tiene conto anche delle variazioni di volume.

Analizzando il comportamento illustrato in Fig. 2.52, si è parlato genericamente di sabbie dense e sabbie sciolte senza alcun accenno ad un’altra importante variabile: la tensione di confinamento.

Se si immagina di effettuare delle prove triassiali su campioni con lo stesso indice dei vuoti ma differente tensione di confinamento σ3’, nel caso di sabbie sciolte, al diminuire della σ3’ si verifica un aumento del rapporto σ1/σ3’, e se la σ3’ è sufficientemente bassa è possibile osservare anche un comportamento dilatante. Nel caso di sabbie dense, invece, l’effetto di dilatazione si attenua al crescere di σ3’ e se questa è sufficientemente elevata la sabbia si comprime come se fosse stata inizialmente sciolta. Inoltre, poiché il valore critico dell’indice dei vuoti corrisponde alla condizione ΔV/V0 = 0, da tali considerazioni si deduce anche che eCRIT non é una costante per una determinata sabbia, ma diminuisce all’aumentare di σ3’. Il valore di σ3’ corrispondente a ΔV/V0 = 0 è a volte indicato anch’esso come pressione di confinamento critica.

2.9.2 – Caratteristiche di resistenza al taglio

I fattori che influenzano la resistenza al taglio dei terreni sabbiosi possono essere convenientemente suddivisi in due gruppi:

a) Quelli che influenzano la resistenza a parità di tipo di sabbia: indice dei vuoti, tensione di confinamento, anisotropia, tipo di prova (tensione intermedia), storia tensionale.

b) Quelli che, a parità di e0σ3’ e stress-path (percorso delle tensioni) seguito, fanno si che la resistenza vari, da una sabbia all’altra, dimensione, forma e distribuzione granulometrica delle particelle.

Si è già discusso nell’introduzione sul perché la resistenza al taglio di una sabbia non possa essere spiegata solo in termini di attrito tra i grani. Utilizzando infatti la schematizzazione proposta da Rowe, il valore dell’angolo di resistenza al taglio φ’ può essere interpretato come somma dei 3 contributi:

–       l’attrito tra i grani (angolo φμ’);

–       il lavoro dovuto alle variazioni di volume (dilatanza);

–       il lavoro dovuto al riassestamento dei grani.

A basse porosità (alti valori della densità relativa) il massimo valore di φ’ è raggiunto prima che si abbiano sensibili spostamenti relativi tra i grani, per cui risulta minimo o nullo il contributo dovuto al riassestamento dei grani ed è massimo quello dovuto alla dilatanza.

Il contrario succede invece quando la densità relativa è molto bassa; in particolare, in corrispondenza del valore critico dell’indice dei vuoti è nullo il lavoro dovuto alla dilatanza, e la differenza (φcv’  φμ’) è data dal lavoro svolto sotto forma di riassestamento dei grani.

La teoria, messa a punto da Rowe, è nota in letteratura come stress-dilatancy theory e costituisce un modello di comportamento basato non sulle leggi del continuo ma sull’analisi delle condizioni di equilibrio di un insieme di particelle discrete. Ai fini della trattazione i punti più salienti possono essere così riassunti.

Si consideri un insieme di sfere con il centro coincidente con il vertice di un romboedro e diametro unitario (Fig. 2.55). Se il carico agente su ogni sfera è P1 in direzione orizzontale e P1 in direzione verticale, e φμ’ è l’angolo d’attrito tra 2 sfere in contatto, si ha:

1/3 P1 = 1/2 P3 tg (φμ)

Se N1 e N2 sono il numero di sfere per unità di area rispettivamente orizzontale e verticale, dalla geometria dell’insieme si ha:

N1 = N3 2/3 tg α

e quindi:

φ1’ = φ3 tg α tg (φμ)

Fig. 2.55 – Equilibrio di un insieme di particelle.

Se si assume a questo punto che, in uno stato denso, la deformazione sia prodotta solo da scorrimento senza rotazione dei grani (Fig. 2.56) si ha (con 1<03>0):

Fig. 2.56 – Scorrimento relativo tra particelle

e il rapporto tra il lavoro svolto della tensione principale a[ e quello svolto dalle σ3’ durante la fase di espansione, nel caso di una prova triassiale, diventa:

Ipotizzando a questo punto che il meccanismo di espansione si verifichi in corrispondenza del valore minimo di tale rapporto, si può minimizzare l’equazione precedente rispetto a β ottenendo:

β = π/4  φμ/2

e, in definitiva:

Tale risultato dimostra che, allo stato di massima densità relativa, il valore massimo dell’angolo di resistenza al taglio (legato al rapporto (σ1/σ3’)MAX dipende dall’attrito tra i grani φμ’ e dall’energia spesa durante l’espansione (v).

Quando l’indice dei vuoti raggiunge il valore critico, le particelle si muovono relativamente tra loro (riassestamento dei grani) con variazioni locali di volume che possono pensarsi dello stesso ordine di grandezza delle dimensioni delle particelle. La combinazione di queste variazioni locali di volume può essere tale da mantenere invariato quello dell’elemento di terreno nel suo complesso, ed è possibile provare che tra φcv’ e φμ’ esiste, teoricamente, una relazione del tipo:

tg φcv’ = tg φμ’ π/2

In figura 2.57 sono riportati i valori caratteristici dell’angolo φ’ di picco.

Fig. 2.57 – Valori indicativi dell’angolo φcv’ di picco.

La marcata dipendenza dalla densità relativa dimostra come tale parametro sia quello che maggiormente influenza la scelta del valore dell’angolo di resistenza al taglio; e per progetti di modesta importanza la Dr, insieme a una classificazione anche solo visiva del materiale, può essere considerata l’unica informazione di cui necessita il progettista. Nell’operare la scelta di φ’ vanno comunque tenuti presenti i seguenti aspetti del problema:

–       i valori di picco indicati si riferiscono a bassi livelli di pressione di confinamento;

–       modeste variazioni di φ’ hanno una sensibile influenza sul risultato di un’analisi di stabilità;

–       in problemi che comportano il raggiungimento di grandi deformazioni, e perciò fenomeni di rottura progressiva (spinta passiva, capacità portante delle fondazioni), la resistenza disponibile è prossima a quella che compete all’angolo φcv’.

Per quanto concerne l’angolo φcv’ a volume costante, esperienze effettuate da Negussey provano che φcv’ è un parametro sostanzialmente legato alle caratteristiche mineralogiche del materiale ed è indipendente dalla dimensione delle particelle, dalla pressione di confinamento e dalla densità relativa iniziale. Indicativamente φcv’ risulta compreso entro 30°÷35°.

2.9.3 – Curvatura dell’inviluppo di rottura

Numerose esperienze hanno messo in luce che, quando si esamina il comportamento di una sabbia in un campo di tensioni più elevato di quello (σ‘ = 1÷2 kg/cm2) normalmente investigato, l’inviluppo di rottura presenta una pronunciata curvatura. In Fig. 2.58 è riportato un esempio della riduzione che l’angolo di resistenza al taglio φs’ secante subisce all’aumentare della tensione normale σff‘ agente sul

piano di rottura.

Fig. 2.58 – Dipendenza dell’angolo di resistenza al taglio dalla tensione agente sul piano di rottura.

Con riferimento alla Fig. 2.59, l’inviluppo curvilineo può essere descritto tramite l’equazione:

Fig. 2.59 – Curvatura dell’inviluppo di rottura.

Per definizione, l’angolo φt’ individuato dalla tangente in un punto e l’angolo φs’ individuato dalla secante (per l’origine) nello stesso punto sono ricavabili rispettivamente tramite le relazioni:

dalle quali risulta che φ0’ può essere interpretato come il valore di φt’ per σ’ = σ0’, oppure come il valore assunto da φs’ quando σ’ = 2.72 σ0’.

In Fig. 2.60 sono raccolti alcuni dati sperimentali relativi al parametro a per diversi tipi di sabbie, rappresentate dai diversi numeri: esso aumenta al crescere della densità relativa, per cui risulta che le sabbie più dense hanno una più pronunciata curvatura dell’inviluppo di rottura.

Tale fenomeno della riduzione di φ’ con l’aumentare di σff‘ assume notevole importanza nella spiegazione di alcuni problemi (capacità portante delle fondazioni superficiali e profonde, interpretazione delle prove penetrometriche etc.) trattati successivamente e merita pertanto particolare attenzione.

Le cause possono ricercarsi in 2 processi che si verificano all’aumentare della tensione di confinamento: la frantumazione dei grani e la riduzione del fenomeno di dilatanza.

Per quanto concerne il primo va ricordato che la tensione efficace convenzionale σ’ cui si fa normalmente riferimento non rappresenta la tensione intera granulare (agente cioè al contatto tra i grani) σc’ e che questi valori sono legati tra loro dalla relazione:

σ’ = σc’ ac

in cui ac è il rapporto tra l’area complessiva dei punti di contatto e l’area totale dell’elemento considerato. Essendo ac < 0.01 ne risulta che σc’ è già normalmente elevata, ed è facile immaginare che quando σ’ > 500 kPa (sabbie calcaree) o 1 MPa (sabbie quarzose) si arriva a una rottura locale dei punti di contatto o a una frantumazione della particella stessa.

Fig. 2.60 – Valori sperimentali dell’angolo α.

Il risultato complessivo è una modifica della granulometria del materiale con riduzione del valore di φ’. In generale, tale fenomeno è più pronunciato nei materiali grossolani e quanto più essi sono uniformi . Per quanto attiene al secondo aspetto si è già visto nell’introduzione come un aumento della tensione di confinamento possa inibire il comportamento dilatante di una sabbia densa e come la dilatanza rappresenti un contributo importante nella formazione del valore di φ’ di picco. Riassumendo si può perciò affermare che un incremento della tensione di confinamento comporta una riduzione nella velocità di variazione di volume v/dε1 della sabbia e una progressiva riduzione di quest’ultimo rapporto comporta un abbattimento del valore di φ’.

2.9.4 – Influenza di altri fattori sulla resistenza al taglio

I due fattori fin qui analizzati (densità relativa iniziale e tensione di confinamento) sono quelli che hanno la maggiore influenza nella determinazione di φ’. Per quanto concerne gli altri, si possono dare le seguenti indicazioni:

a) Benché la storia dello stato tensionale abbia un’influenza predominante sulle caratteristiche di deformabilità, i risultati disponibili in letteratura provano che, a parità di densità relativa, una sabbia NC e una OC presentano praticamente lo stesso inviluppo di rottura.

b) La maggioranza dei depositi naturali presenta una anisotropia strutturale, derivante da un orientamento preferenziale sub-orizzontale che le particelle con forma allungata tendono ad assumere in fase di deposizione, e da un maggior numero di punti di contatto che, indipendentemente dalla forma delle particelle, si creano, in presenza di forze gravitazionali, nella direzione di deposizione rispetto a quella perpendicolare ad essa. Ne consegue che il materiale presenta maggiore rigidezza e maggiore resistenza se la direzione della σ1’ coincide con quella di deposizione.

c) La messa a punto di apparecchiature triassiali, che permettono di variare in modo indipendente le 3 tensioni ha permesso d’indagare con sistematicità l’influenza delle condizioni di prova e quindi della tensione intermedia σ2. I dati disponibili mostrano un generale aumento di φ’ passando da una condizione di compressione triassiale a una di taglio piano, con differenze più pronunciate (Δφ’ entro 4°÷9°) nel caso di sabbie dense rispetto a quello di sabbie sciolte (Δφ’= 2°-4°).

Seguendo le indicazioni di Lode & Lee si possono dare le seguenti relazioni tra il valore di φ’ (TX) di una prova triassiale e quello φ’ (PS) ottenibile da una prova di taglio piano:

φ’(PS) = 1.5 φ’(TX 17°           se φ’ (TX) >34°

φ’(PS) = φ’(TX)                           se φ’ (TX)<34°

Variazioni entro 4°÷8° sono riscontrabili, inoltre, confrontando i risultati di una prova di taglio piano con quelli di taglio diretto. In vista di tali differenze, per la scelta del valore di φ’ da usare nella progettazione, possono tornare utili le seguenti indicazioni di Rowe.

– Numerosi problemi di stabilità o di spinta delle terre sono problemi di deformazioni piane e il valore di φ’ appropriato andrebbe ricavato da una prova di taglio piano.

– Il valore mobilitato però lungo la superficie di scorrimento varia da quello di picco, per un elemento in condizioni di spinta attiva, a quello residuo, per un elemento in spinta passiva.

– Un valore medio ottenuto da una prova triassiale può perciò risultare ancora un valore significativo per l’analisi di stabilità.

– Poiché le differenze tra i valori di φ’ che competono a una prova triassiale e a una di taglio diretto sono inferiori alle incertezze derivanti dall’uso di un unico valore di φ’ lungo tutta la superficie di scorrimento, il ricorso a quest’ultima prova trova ancora spazio nella progettazione.

d) Come già illustrato precedentemente, i depositi sabbiosi sono il risultato della disintegrazione di rocce di vario tipo e le particelle più piccole sono in genere costituite da un singolo minerale.

La maggior parte dei grani è costituita da quarzo; altri minerali presenti in piccole quantità (ma che in alcuni casi particolari possono anche rappresentare la frazione predominante) sono Feldspati, Mica, Apatite, Granati, Zirconio, Tormalina e Magnetite.

Poiché solo i minerali più resistenti superano i processi di disintegrazione, decomposizione, trasporto etc., nella maggior parte dei depositi naturali se ne ritrovano pochi tipi. Il quarzo, ad esempio, è il più abbondante per la sua elevata resistenza all’abrasione e ai processi di soluzione; i feldspati invece sono presenti solo in depositi formatisi in tempi relativamente recenti; i minerali di mica (muscovite) resistono anche a lunghi processi di trasporto e decomposizione.

La forma (tondeggiante o a spigoli vivi) delle particelle dipende dall’entità del fenomeno di trasporto cui è stato soggetto il materiale. La loro distribuzione granulometrica dipende dalle condizioni di formazione del deposito. Ad es., i depositi eolici sono molto uniformi mentre sabbie depositate in acqua presentano una maggiore variazione di diametro delle particelle.

La composizione di una sabbia influenza la resistenza al taglio in due modi: perché influenza l’indice dei vuoti e0, e perché, a parità di e0, influenza il grado di mutuo incastro.

A parità di densità relativa una sabbia mista (SW) presenta così un valore di φ’ più elevato di una sabbia uniforme (SP). Inoltre, poiché una sabbia bene assortita granulometricamente presenta un numero di punti di contatto intergranulare maggiore (e quindi un carico minore per area di contatto), il decremento di φ’ all’aumentare di σ’ è meno pronunciato rispetto a quello di una sabbia uniforme. Infine, poiché l’angolosità favorisce l’effetto di mutuo incastro, il valore di φ’ aumenta passando da particelle tondeggianti a particelle a spigoli vivi. Inoltre, sabbie che hanno lo stesso coefficiente di uniformità ma differente dimensione media delle particelle, presentano un diverso valore dell’indice dei vuoti ma un valore sostanzialmente identico di φ’. Probabilmente tale risultato è spiegabile con il fatto che il beneficio di un maggiore incastro ottenibile con particelle più grandi è compensato da una maggiore suscettibilità di queste alla frantumazione, essendo elevato il carico per contatto intergranulare.

La composizione mineralogica, in virtù di quest’ultimo aspetto, ha importanza nel caso delle ghiaie e di materiali di più grossa pezzatura. Nel caso delle sabbie, fatta eccezione per i casi in cui la % di mica può essere sensibile, tale fattore è trascurabile. Il valore di φ’ si riduce solo leggermente (1°÷2°) passando da uno stato secco a uno saturo.

Un limo non plastico e non cementato può essere trattato come una sabbia. Penman, ad es., ritrova, che φ’ può variare entro 28°÷38° passando da un limo sciolto a uno molto addensato.

2.9.5 – Caratteristiche di deformabilità

La determinazione dei parametri di deformabilità risulta ancora oggi un’operazione estremamente complicata:

–       per l’impossibilità, già menzionata, di prelievo di campioni indisturbati e per l’estrema sensibilità del modulo al metodo di preparazione dei provini adottato in laboratorio;

–       per le difficoltà esistenti nell’esecuzione di prove in situ legate all’installazione della strumentazione;

–       per la sensibilità del modulo a un’infinità di fattori.

Così, spesso ci si accontenta, in pratica, di correlazioni empiriche che forniscono un valore di riferimento del modulo in base ai risultati ottenuti nel corso di prove in sito (ad es., prove penetrometriche statiche) e nella determinazione di tali correlazioni spesso il parametro scelto come rappresentativo e semplificativo di tutto uno stato di cose in sito è la densità relativa.

Tale stato di cose è però decisamente complicato e difficilmente può essere rappresentato in modo così semplificato. Ad es., i risultati recentemente pubblicati da molti ricercatori hanno messo in evidenza la grossa influenza sul legame sforzi-deformazioni di fattori quali lo stress-path e la storia tensionale. Tali aspetti vengono discussi nel paragrafo successivo dopo un breve cenno ai seguenti altri fattori:

–       tensione di confinamento;

–       tipo di consolidazione (isotropa o anisotropa);

–       anisotropia e tipo di prova:

–       composizione della sabbia.

In Fig. 2.61 è riportato come esempio l’andamento del modulo E50’ (misurato cioè in corrispondenza di un livello di sollecitazione pari al 50% dello sforzo deviatorio a rottura) al variare della tensione ottaedrica σoct’ di consolidazione e della densità della sabbia. Nell’ambito dei valori massimo e minimo dell’indice dei vuoti, il modulo può variare anche di 5 volte.

Fig. 2.61 – Dipendenza del modulo dalla densità relativa e dalla pressione di confinamento.

L’influenza della tensione di consolidazione può essere convenientemente messa in conto esprimendo il modulo nella forma proposta da Janbu:

Ei‘ = k pa (σc/pa)n

dove Ei’ è il modulo tangente iniziale, pa la pressione di riferimento, σc’ la tensione di consolidazione di riferimento, k il  numero del modulo ed n l’esponente del modulo.

Valori orientativi dei parametri k e n per sabbie e ghiaie NC e per l’espressione precedente sono riportati in Tab. 2.16.

Tab. 2.16 – Valori orientativi di k e n.

La non linearità di comportamento, nel caso di una curva tensione-deformazione di tipo incrudente, è spesso modellata analiticamente tramite una relazione iperbolica, introdotta per la prima volta da Cox e applicata ai terreni da Kondner & Zelasko:

σ13 = ε1/(a+bε1)

I parametri a e b che figurano in tale equazione possono essere determinati plottando i risultati nel piano ε1(σ13), ε1, in modo da ottenere la retta (definita iperbole normalizzata) di equazione:

ε1(σ13) = a + b ε1

Dall’analisi dell’ultima relazione si deduce che a e b hanno il seguente significato fisico:

Duncan & Chang hanno successivamente suggerito che per ottenere una migliore approssimazione dei dati sperimentali, il valore limite dello sforzo deviatorio (σ13)LIM andrebbe moltiplicato per un fattore riduttivo R compreso entro 0.7÷1.0.

Utilizzando la relazione di partenza il modulo tangente Et‘ e il modulo secante Es’ possono essere legati al modulo iniziale Ei‘ tramite le relazioni:

Et‘ = Ei‘ (1-R f)2

Es’ = Ei‘ (1-R f)

nelle quali f è il grado di mobilitazione della resistenza al taglio espresso dal rapporto (σ13)/(σ13)MAX con (σ13)MAX = R (σ13)LIM. Nel caso di prove consolidate in condizioni KO tale rapporto è da intendersi in termini incrementali, ossia:

f = Δ(σ13)(σ13)MAX

I valori di k e n indicati in Tab. 2.16 si riferiscono a provini consolidati in condizioni KO. Una consolidazione di tipo isotropo modifica sostanzialmente la curva sforzi-deformazioni e comporta una sopravalutazione del modulo.

L’anisotropia può avere un ruolo importante nel caso della resistenza al taglio, ma la sua influenza è decisamente più marcata nel caso dei moduli di deformazione.

Analogamente, sempre a quanto visto per la resistenza, anche il modulo è influenzato dalle condizioni di prova. In generale passando da una prova triassiale a una di taglio piano si hanno un più pronunciato comportamento rammollente e più elevati valori del modulo.

Infine, per quanto concerne l’influenza della composizione della sabbia, si possono dare le indicazioni seguenti:

–       a parità di densità relativa, una sabbia granulometricamente ben assortita ha una compressibilità maggiore di una uniforme;

–       all’aumentare della dimensione delle particelle la compressibilità decresce leggermente;

–       particelle a spigoli vivi presentano maggiore compressibilità di particelle arrotondate;

–       la compressibilità decresce all’aumentare della rugosità della superficie;

–       la deformabilità di una sabbia è riconducibile a quella del minerale costituente.

2.9.6 – Influenza della storia tensionale

L’influenza della storia dello stato tensionale è stata posta in chiara evidenza da Lambrechts & Leonards.

I principali risultati possono essere riassunti come segue:

a) II modulo di ricarico che compete, ad esempio, a un provino consolidato in condizioni KO fino a B, scaricato poi a C e sollecitato (compressione a σ3’ = cost) seguendo lo stress-path CD (Fig. 2.62), può risultare di più di un ordine di grandezza superiore al modulo di carico, che compete invece a un provino NCconsolidato fino a C e sollecitato poi anch’esso seguendo CD.

Fig. 2.62 – Influenza della storia tensionale sul modulo di deformazione.

b) II livello tensionale raggiunto il quale il comportamento cessa di essere elastico (ossia, la soglia critica che individua il termine della fase di ricarico e l’inizio di quella di carico) è strettamente legato all’entità della tensione di sovraconsolidazione, e quindi a OCR.

c) Se due provini hanno la stessa σp’, la stessa σ3’ di confinamento ma una diversa storia di carico e scarico, la differenza nei moduli può risultare anche del 100%.

d) Confrontando i risultati evidenziati in questo punto con tutti quelli discussi in precedenza, emerge chiaramente come nessun fattore, al pari della storia tensionale, abbia un’influenza così dominante sulle caratteristiche di deformabilità. Ne consegue che possono essere commessi grossolani errori quando la valutazione del modulo viene basata, come spesso avviene nella pratica, sostanzialmente sulla densità relativa del deposito o su correlazioni empiriche valide per sabbie NC.

2.10 – Comportamento meccanico dei terreni coesivi

Come più volte affermato in precedenza, quando si analizza il comportamento dei terreni coesivi è necessario distinguere le diverse condizioni di drenaggio che possono verificarsi. In laboratorio tali condizioni possono essere riprodotte in modo accurato e, in particolare facendo riferimento alle prove triassiali, le diverse prove eseguibili possono essere classificate come segue:

–       prove non consolidate-non drenate (sinteticamente indicate come prove UU);

–       prove consolidate-non drenate (indicate come prove CU);

–       prove consolidate-drenate (indicate come prove CD).

Le diverse definizioni tendono a evidenziare le differenze di modalità esecutive adottate nella prima fase della prova, nel corso della quale il provino è solitamente riconsolidato sotto un prescelto sistema tensionale, e la seconda fase, nel corso della quale si porta il provino a rottura.

2.10.1 – Prove non consolidate-non drenate

Le prove triassiali non consolidate-non drenate (prove UU) prevedono due fasi:

– una prima, nel corso della quale si applica al provino una pressione isotropa Δσ3 tenendo il drenaggio chiuso;

– una seconda, nel corso della quale si applica uno sforzo deviatorico e si porta a rottura il provino, sempre mantenendo il drenaggio chiuso.

In Fig. 2.63 sono schematizzate le fasi principali di una prova UU effettuata su 3 provini ricavati da un campione di argilla prelevato a 20 m di profondità.

Fig. 2.63 – Fasi di una prova UU.

a) Dopo il campionamento le tensioni totali sono nulle e all’interno dei 3 provini si genera una tensione residua efficace pR’ = 43 kPa. La pressione neutra uR è pari a -43 kPa. Nell’ipotesi che il grado di disturbo dovuto al campionamento e alla preparazione sia uguale per i 3 provini, lo è anche il valore di pR’.

b) L’applicazione della pressione isotropa Δσ3 comporta un aumento della pressione neutra Δu ed essendo i 3 provini completamente saturi si ha Δu = Δσ3. Di conseguenza, pure applicando 3 valori diversi di Δσ3 la tensione efficace continua a rimanere la stessa per i 3 provini, e pari ancora a pR’ = 43 kPa.

c) I provini sono portati a questo punto a rottura incrementando lo sforzo assiale Δσa = (Δσ1-Δσ3) e in base ai valori ottenuti a rottura è possibile osservare che:

– Lo sforzo deviatorico a rottura (Δσ1-Δσ3) = 80 kPa è lo stesso per i 3 provini risultando indipendente dalla tensione Δσ3 applicata in precedenza.

– Il valore della Δuf generatasi all’istante di rottura è anch’esso uguale per i 3 provini.

– Come conseguenza di quanto evidenziato il percorso delle tensioni efficaci risulta unico per tutti i provini, e poiché si ottiene un solo punto rappresentativo della rottura (punto A in Fig. 2.64) non è possibile definire l’inviluppo in termini di tensioni efficaci, e non è possibile quindi determinare i parametri c’ e φ’.

Fig. 2.64 – Risultato di una prova UU.

 – Convenzionalmente, la prova viene allora interpretata in termini di tensioni totali e, con riferimento alla Fig. 2.64, si ottiene:

α = 0

ossia inviluppo di rottura orizzontale:

½ (Δσ1-Δσ3)f = cu

Nel piano τ,σ tali parametri corrispondono a φ = 0 e τcu.

L’intercetta cu (indicata in letteratura anche come su) è definita resistenza al taglio iniziale oppure resistenza al taglio in condizioni non drenate o resistenza in termini di tensioni totali. Essa rappresenta la resistenza che si può porre in conto tutte le volte che si effettua un’analisi di stabilità in condizioni non drenate e in termini di tensioni totali. In generale valgono le condizioni a corollario:

a) Nel caso di argille completamente sature, quando la rottura avviene in assenza di variazioni del contenuto d’acqua, il comportamento del materiale può essere descritto in termini di tensioni totali, e può essere assimilato a quello di un materiale puramente coesivo che ha un inviluppo di rottura con φ = 0. L’espressione della resistenza al taglio diventa:

τf=cu

b) I parametri φ=0 e τf=cu non sono caratteristiche fisiche del materiale ma soltanto dei parametri meccanici atti a descrivere un certo tipo di comportamento.

c) II ricorso a un inviluppo di rottura espresso in termini di tensioni totali è un artificio che permette di superare le difficoltà di descrivere il comportamento del terreno in termini di tensioni efficaci, e che offre la possibilità di costruire un modello che si presta a schematizzare e risolvere in modo più agevole problemi di carattere pratico.

d) II comportamento del materiale continua in realtà a essere controllato dalle tensioni efficaci, e quindi dai parametri φ’ e c’.

Tenendo presenti tali considerazioni (in caso di rottura in condizioni non drenate) per quanto concerne l’inclinazione della superficie di rottura va osservato che, nell’ipotesi d’inviluppo di rottura orizzontale (φ = 0), la superficie di scorrimento teorica è inclinata di π/4 rispetto alla direzione dei piani principali (Fig. 2.65). Tuttavia, poiché in realtà il comportamento del materiale è governato dalle tensioni efficaci e quindi da un inviluppo di rottura in termini di tensioni efficaci, l’inclinazione reale del piano di rottura è pari a π/4+φ/2 rispetto alla direzione di σ3’ (Fig. 2.66).

Fig. 2.65 – Comportamento in termini di tensioni totali.                    Fig. 2.66 – Comportamento in termini di tensioni efficaci.

In un’analisi di stabilità, inoltre, nel caso si assuma l’ipotesi φ=0 e quindi τf=cu, la superficie di scorrimento coerente con tale assunzione è una diretta conseguenza delle precedenti osservazioni. Ipotizzando, infatti, convenzionalmente un comportamento del tipo φ=0 e τf=cu, la superficie di rottura da assumere in un’analisi di stabilità deve essere congruente con tale assunzione (cioè inclinata di π/4 rispetto alla direzione della σ3 sebbene la superficie di rottura reale abbia un’inclinazione diversa). Osservando, ad es., la stabilità dello scavo in Fig. 2.67 immediatamente dopo l’esecuzione (condizioni non drenate) nell’ipotesi φ=0 e τf=cu il coefficiente di sicurezza F può essere espresso, analizzando l’equilibrio lungo la superficie di scorrimento, dalla relazione:

F = (cu l1)/(W senα)

in cui:

W = ½ H (H γ cosα / senα)

La posizione della superficie di scorrimento corrisponde al minimo valore di F (F=1) e può ricercarsi ponendo dF/dα = 0 dove tale condizione porta a un valore di α = π/4 e F = 4cu/γH.

Analizzando il problema in termini di tensioni efficaci (assumendo, cioè, φ ≠ 0 e τff’ = σff’ tgφ) il coefficiente di sicurezza può essere espresso nella forma:

e questa volta la condizione dF/dα = 0 porta a un valore di α = π/4+φ/2.

Fig. 2.67 – Confronto tra analisi in termini di tensioni totali e analisi in termini di tensioni efficaci.

Concludendo, è da sottolineare come il medesimo problema di stabilità possa essere esaminato in termini di tensioni totali o in termini di tensioni efficaci con l’accortezza, tuttavia, di abbinare coerentemente criteri di rottura e superfici di scivolamento.

Nel caso la resistenza al taglio fosse controllata dalle tensioni efficaci pur potendo determinare i parametri c’ e φ’ da altri tipi di prove (CU, CD) è preferibile un’analisi in termini di tensioni totali a motivo del fatto che in condizioni non drenate si genera nel terreno una sovrapressione interstiziale Δu essendo le tensioni efficaci note solo se si è in grado di determinare il valore di Δu.

Tale previsione non è purtroppo possibile nei casi più generali, in quanto la Δu è influenzata:

– dai caratteri strutturali del deposito;

– dalla storia dello stato tensionale;

– dallo stress-path seguito;

– dai fenomeni di plasticizzazione locali.

e non sono disponibili in letteratura metodi che permettano di tener conto di tutti questi fattori.

Non potendo superare tali difficoltà si ricorre all’artificio dell’analisi in termini di tensioni totali che va perciò considerato uno strumento di comodo che, nonostante le limitazioni, rappresenta un efficace mezzo in sede di progettazione.

La validità di tale approccio, a parte le considerazioni svolte nei punti successivi, è confermata dall’analisi della rottura di numerose opere in vera grandezza.

Riferendosi ancora al problema della determinazione sperimentale della resistenza al taglio non drenata cu va osservato che, per ottenere un valore rappresentativo della resistenza disponibile in situ occorrerebbe teoricamente riportare il campione di laboratorio al medesimo contenuto d’acqua wN e al medesimo stato tensionale efficace (σvo’ e σho’) che si trovano in situ.

Purtroppo le evidenze sperimentali dimostrano che ciò non è possibile in quanto la riconsolidazione del provino sotto le tensioni σvo’ e σho’ (prove CU) comporta il raggiungimento di un contenuto d’acqua inferiore a wN e quindi aduna sovrastima della cu mentre la conservazione del valore di wN (come nelle prove UU) implica un valore della tensione di consolidazione pari alla tensione residua, in generale inferiore alla σho’ e, di conseguenza, ad una sottostima della cu.

Operativamente, quindi, ci si trova a dover scegliere tra 2 tipi di approccio facenti riferimento ai seguenti principi:

a) il primo assume l’esistenza di una relazione unica tra contenuto d’acqua a rottura wf e resistenza al taglio cu (Fig. 2.68). Di conseguenza una prova che non alteri il valore del contenuto d’acqua wN del terreno in situ dovrebbe, in linea teorica, fornire il valore della resistenza cu dello stesso terreno in situ. I risultati che si ottengono da prove UU o da prove in situ s’inquadrano alla luce di tale principio.

b) il secondo assume, invece, l’esistenza di una relazione unica tra la tensione efficace di consolidazione e la resistenza al taglio cu (Fig. 2.69). A tale secondo principio fanno riferimento le prove del tipo CU.

Fig. 2.68 – Cu dipendente dal contenuto d’acqua.         Fig. 2.69 – Cu dipendente dalla tensione efficace

                                                                                                                                         di consolidamento.

Per quanto concerne l’affidabilità dei valori di resistenza al taglio ottenuti da una prova UU va notato che essi sono molto spesso sensibilmente influenzati dal disturbo subito dal campione (che dipende, in genere, dal tipo di campionamento, dalla profondità di prelievo, dal grado di sovraconsolidazione OCR e dalla sensitività dell’argilla) e possono a volte presentare una dispersione che supera la reale variabilità spaziale esistente in situ.

Di conseguenza, per quanto concerne l’impiego di tali risultati, è opportuno tenere presente che:

–       la prova UU va considerata una prova empirica, di scarsa validità nel campo della ricerca;

–       il valore della cu può essere sottostimato dell’ordine del 20-50% nel caso di argille NC; può invece essere fortemente sopravvalutata la resistenza disponibile in sito nel caso di argille OC fessurate;

–       in pratica l’uso della prova UU dovrebbe essere evitato per lavori che comportano bassi coefficienti di sicurezza mentre laddove esiste un certo margine il suo impiego può portare in alcuni casi a risultati soddisfacenti,per un effetto di compensazione di errori: ad es., la sottostima della cu compensa gli effetti di anisotropia che andrebbero presi in conto e la riduzione che andrebbe apportata per effetto della velocità di deformazione seguita nella prova (εa1%/60”).

Infine per quanto concerne altri parametri ottenibili da una prova UU va notato che il modulo di deformazione Eu risente fortemente dell’effetto di disturbo del campione e, in generale, decresce al diminuire della tensione residua ps per cui non può essere attendibilmente determinato da tale prova. Il parametro Adelle pressioni interstiziali risulta anch’esso influenzato dalla modifica della storia tensionale subita dal provino in seguito alle operazioni di prelievo e risulta ben diverso dai valori corrispondenti al comportamento del terreno in situ.

2.10.2 – Prove consolidate-non drenate

Le prove consolidate-non drenate sono prove che prevedono ma prima fase, nel corso della quale il provino è riconsolidato in laboratorio sotto un prescelto sistema di tensioni (isotropo o anisotropo), e una seconda fase, nel corso della quale il provino è portato a rottura in condizioni non drenate. Tali prove sono eseguite con lo scopo di determinare:

– i parametri di resistenza al taglio (cuc’ e φ’);

– il modulo di deformazione in condizioni non drenate Eu;

– i parametri delle pressioni interstiziali.

Esse inoltre sono largamente impiegate nel campo della ricerca e permettono di individuare:

–       la dipendenza dei parametri di resistenza al taglio e deformabilità dal tipo di sollecitazione imposta, sia in fase di consolidazione che in fase di rottura;

–       la variazione degli stessi parametri al variare della storia tensionale, e cioè al variare di OCR;

–       l’influenza che il fattore tempo ha sul modulo e sulla resistenza al taglio.

E’ opportuno iniziare con l’analisi di alcuni risultati tipici ottenuti nel corso di una prova triassiale consolidata in condizioni Ko. Il provino in esame è stato ricavato da un campione di argilla.

Nella prima fase sono state applicate le seguenti tensioni di consolidazione:

σr’ = 400 kPa, (σa’ = 680 kPa; nella seconda fase il provino è stato portato a rottura in condizioni di compressione per carico, misurando i valori di Δσa=(σ1–σ3)=Δσ1, della deformazione assiale εa=ΔH/Ho e della sovrapressione dell’acqua interstiziale Δu.

Nelle Figg. 2.70 e 2.71 sono riportati, rispettivamente la curva sforzi-detormazioni e l’andamento della Δu con le deformazioni. In Fig. 2.72 sono riportati invece gli stress-path totale ed efficace.

Si noti che lo stress-path in termini di tensioni totali (TSP) è rappresentato dalla retta a tratto continuo AB mentre lo stress-path in termini di tensioni efficaci (ESP) è dato dalla curva AC.

Per evidenziare graficamente il valore della Δu che nasce nella seconda fase (non drenata) è stato riportato il TSP traslato della quantità u0, ossia (TSPu0).

II punto C è il punto rappresentativo della rottura, e, se sul medesimo diagramma si riportano anche gli ESP di altri 2 provini, è possibile determinare l’inviluppo di rottura in termini di tensioni efficaci (Fig. 2.72).

Si noti che questa volta, essendo stati i 3 provini consolidati sotto 3 diversi valori di σ1C’, si ottengono 3 distinti ESP mentre si è visto che, nel caso delle prove UU, tale ESP è unico in quanto tutti i provini hanno la stessa tensione di consolidazione pR’, lo stesso OCR e lo stesso wN.

Fig. 2.70 – Curva sforzi-deformazioni in un’argilla NC.                       Fig.2.71 – Variazione di Δu col livello di deformazione.

Fig. 2.72 – Stress-path totale ed efficace nel corso di una prova di compressione per carico.

L’inviluppo di rottura trovato è tipico di tutte le argille NC sature (Fig. 2.73) ossia.

– è rettilineo;

– c’ è uguale a 0;

– φ’ ha un valore che dipende dal tipo di terreno ed è correlabile all’indice di plasticità.

Nel caso in esame si ha α = 27.5°, corrispondente a φ’ = 31.37°. In Fig. 2.74 è riportato, oltre al risultato precedentemente descritto, anche il (TSPu0) di una prova eseguita in condizioni di compressione per scarico (retta AD), eseguita cioè mantenendo costante il carico assiale e decrementando la pressione radiale (Δσa = 0Δσr < 0).

Fig. 2.73 – Inviluppo di rottura di un’argilla.

È importante notare che in questo caso si genera nel provino una pressione neutra negativa (Δu < 0), ma l’ESP risulta coincidente con quello relativo alla prova di compressione per carico, per cui l’inviluppo di rottura rimane inalterato.

Fig. 2.74 – Unicità dell’ESP.

Se la prova viene interpretata in termini di tensioni totali, il valore a rottura dello sforzo di taglio [(σ1–σ3)max/2] rappresenta la resistenza al taglio non drenata cu. Poiché, come già detto, i 3 provini sono stati consolidati sotto 3 diversi valori di σ1c’ risultano diverse fra loro anche le corrispondenti cu. Per uno medesimo tipo di terreno NC il rapporto cu1c’ è comunque costante, ossia:

Il modulo di deformazione in condizioni non drenate Eu può essere ricavato osservando che:

in cui σ1 e σ3 sono ovviamente i valori degli sforzi applicati solo nella seconda fase non drenata. Poiché risulta σ30 e σ1 = σa, si ha:

Eu = Δσa1

Essendo il comportamento non-lineare in fase di progettazione è importante tener conto nella scelta del valore del modulo del livello di sforzo o di deformazione pertinente al caso in esame.

2.10.3 – Parametri delle pressioni interstiziali

L’applicazione del principio degli sforzi efficaci a problemi di stabilità in condizioni non drenate ha come prerequisito la possibilità di determinare la variazione della pressione interstiziale Δu prodotta dalla variazione delle tensioni totali. Un significativo contributo concettuale alla soluzione di questo tipo di problema si è avuto con l’introduzione dei parametri delle pressioni interstiziali ed è a partire da tali elementi che è possibile riferirsi ai casi di sollecitazione più ricorrenti.

a) Applicazione di uno stato tensionale idrostatico (definito dalla condizione Δσ1=Δσ2Δσ3=Δσi) a un elemento di terreno saturo.

La variazione di volume subita dallo scheletro solido nel suo insieme (avente volume iniziale V0 coincidente con quello del provino) in un mezzo isotropo è data da:

avendo indicato con Cc la compressibilità della struttura del terreno. In condizioni non drenate, non essendoci cambiamento dell’indice dei vuoti, tale variazione di volume deve per congruenza interna essere uguale a quella subita dal volume Vw occupato dall’acqua, e quest’ultima può scriversi pari a:

ΔVw/Vw = Cw Δu

Uguagliando:

ΔVw = ΔVSC

si ottiene:

n VO Δu Cw = VO Cc Δσi

e notando che Δσi’= Δσi–Δu:

n Δu Cw = Cc (Δσi – Δu)

e, in conclusione:

II parametro B = 1/(1+nCw/Cc) esprime così la variazione di pressione neutra Δu prodotta dall’applicazione di una tensione idrostatica Δσi. Se, come ipotizzato, il materiale è saturo, la compressibilità Cw dell’acqua è trascurabile in confronto a quella dello scheletro solido (1/Cw è dell’ordine di 2000 MPa; 1/Ccvaria entro 103÷104 kPa per cui Cw/Cc  0) e quindi:

Δu = Δσi

B = 1

cioè, in condizioni non drenate, l’incremento di tensione isotropa è interamente sopportato dall’acqua. Nel caso opposto (terreno secco) è ancora valida la relazione ultima, con la differenza che Cw esprime ora la compressibilità dell’aria Cg; essendo quest’ultima elevatissima il rapporto Cg/C  e quindi B = 0. In terreni parzialmente saturi è allora 0<B<1, con dipendenza di B dal grado di saturazione S.

b) Nel caso in cui l’elemento di terreno sia soggetto solo a una tensione assiale Δσ1(ΔσΔσ0) le tensioni efficaci risultano:

e la variazione di volume dello scheletro solido può porsi nella forma:

nella quale CS = ΔVSC/V0Δσ2 esprime la variazione di volume che si verifica decrementando una delle tensioni principali e tenendo costanti le altre. Imponendo nuovamente l’uguaglianza ΔVSC = ΔVW si ha:

dalla quale si ricava:

                                                                                                                                                          _

Potendo trascurare Cw/Cc il parametro delle pressioni interstiziali A, esprimente la variazione di pressione neutra generata dall’incremento di tensione assiale, risulta dato da:

che risulta dipendente dalle caratteristiche di deformabilità in fase di carico e di scarico. Se si ipotizza che il materiale abbia un comportamento elastico (Cs = Cc) e isotropo (Cs2=Cs3) si ha A = 1/3.

c) Nel caso si abbia un provino soggetto a uno stato tensionale assial-simmetrico (prova triassiale), è possibile scomporre tale stato di sollecitazione in una componente sferica Δσ3 e in una componente deviatorica Δσa = (Δσ1-Δσ3). Ne risulta che sovrapponendo gli effetti e utilizzando i parametri appena

definiti si ha:

 **

con:                                                                            _

A  = A/B

La tabella 2.17 riporta i valori indicativi per il parametro A.

Tab. 2.17 – Valori indicativi del parametro A in prove di compressione per carico.

Tali risultati evidenziano i seguenti aspetti significativi del comportamento dei terreni:

–       lo stress-path in termini di tensioni efficaci non è lineare, per cui i valori della Δu (e quindi del parametro A) dipendono dal livello tensionale raggiunto;

–       la posizione relativa dell’ESP e del TSP dipende dalla storia tensionale del deposito, che influenza la risposta in termini di pressione interstiziale e quindi i valori del parametro A;

–       in particolare, nel caso di terreni molto sovraconsolidati la tendenza alla dilatanza del materiale (impedita dal fatto che la prova è in condizioni non drenate e non può perciò esserci variazione di volume) fa insorgere una pressione dell’acqua negativa, per cui il parametro A risulta anch’esso < 0;

–       infine, nel caso di argille di elevata sensitività i valori di A > 1 (corrispondenti a Δu > Δσa) possono spiegarsi con il fatto che con il raggiungimento di un determinato livello tensionale si ha il collasso della struttura particellare e la pressione dei pori oltre a sopportare il carico applicato Δσa deve assorbire anche l’aliquota di carico inizialmente sopportata dallo scheletro, per cui si verifica la condizione Δu > Δσ3 e quindi A > 1.

d) Nel caso in cui la prova triassiale comporti una rotazione dei piani principali risulta opportuno, utilizzare l’equazione ** dissociando il sistema di tensioni imposto da quello originario. L’incremento Δσ1 è allora pari alla componente di tensione algebricamente maggiore mentre Δσ3 è la componente algebricamente minore. Ne risultano le seguenti definizioni del parametro A per i diversi tipi di prove:

e) Nel caso di una prova in condizioni di deformazioni piane, nel corso della quale è Δσ1>Δσ2>Δσalcuni studiosi hanno proposto la relazione seguente:

Δu = B (Δσott+aΔτott)

Se applicata al caso di una prova di compressione triassiale, per la quale Δσ1=Δσ2 e Δσ2=Δσ3=0, tale relazione si riduce alla:

dalla quale si ricava il seguente legame tra i due parametri A e a :

A = 1/3 + a√2/3

In modo analogo, nel caso di prova di estensione per carico, la precedente si riduce alla forma:

Δu = (2/3+a√2/3)Δσ3

e quindi:

A = (2/3+a√2/3)

f) Nel caso, infine, di una prova edometrica la variazione di volume dello scheletro solido può esprimersi nella nota forma:

ΔVSC/V0 = mv Δσv

e uguagliando al solito ΔVSC = ΔVw si ricava:

n V0 Δu Cw = mv V0 (Δσv–Δu)

dalla quale:

Anche in questo caso, essendo cw/mv  0, si ottiene C = 1 e quindi  Δu = Δσv ossia all’istante di applicazione del carico, prima cioè che inizi il processo di consolidazione, il carico verticale applicato è sopportato interamente dalla pressione dell’acqua interstiziale.

2.10.4 – Influenza del sistema tensionale

La necessità di analizzare l’influenza che il sistema di tensioni applicato a un provino di laboratorio ha sulle caratteristiche meccaniche è legata principalmente ai seguenti motivi:

a) Poiché lo stato tensionale iniziale esistente in situ è generalmente anisotropo, è caratterizzato dal coefficiente KO = σho’/σvo’. In laboratorio, invece, troppo spesso i provini sono riconsolidati isotropicamente (assumendo cioè σhc’=σvc’ (Kc = σhc’/σvc’ = 1). Diventa, di conseguenza, determinante investigare quale possa essere l’influenza del tipo di consolidazione.

b) Molti dei problemi incontrati in pratica sono problemi in condizioni di deformazioni piane (Fig. 2.75), non riproducibili con l’apparecchio triassiale che, come visto, permette di portare a rottura il provino solo in condizioni assial-simmetriche. Poiché è tale tipo di apparecchio quello che viene impiegato di solito, è utile evidenziare le differenze esistenti tra i risultati di prove triassiali e quelli ottenuti da prove di taglio piano. Tutto questo equivale ad analizzare l’influenza che la tensione intermedia Δσ2 può avere sul comportamento meccanico del terreno.

c) Per concludere è importante notare come i vari elementi di terreno, lungo una superficie di scorrimento, arrivino a rottura in condizioni di sollecitazioni differenti tra loro. Con riferimento ad es. allo schema illustrato in Fig. 2.76), l’elementino A raggiunge la rottura in condizioni di spinta attiva; l’elementino B in condizioni di taglio semplice; l’elementino C in condizioni di spinta passiva. Tali differenze dipendono dal fatto che la direzione della tensione principale Δσ1, indotta dal carico, è variabile da punto a punto; e poiché il terreno ha un comportamento anisotropo occorre analizzare quale possa essere l’effetto di una rotazione dei piani principali in fase di rottura.

Fig. 2.75 – Esempi di problemi in condizioni di deformazioni piane.

Per quanto concerne lo stato tensionale applicato in fase di consolidazione, le differenze che si riscontrano tra i risultati di prove consolidate isotropicamente (Kc=1) e quelli relativi a prove consolidate in condizioni KO sono le seguenti:

1 – Innanzi tutto l’intera curva sforzi-deformazioni risulta alterata (Fig. 2.77); ossia, il comportamento del materiale appare del tipo incrudente nel caso di consolidazione isotropa, mentre presenta un punto di rottura più evidente, con effetto di rammollimento, nel caso di consolidazione KO. Si noti che nel primo caso la deformazione a rottura è in genere entro il 5÷10% mentre nel secondo essa scende a valori molto più bassi, e indicativamente entro 0.5÷1%. Tale fatto è estremamente importante e deve mettere in guardia nei confronti di un uso che spesso si fa indiscriminato della relazione iperbolica che, evidentemente, poco si presta a modellare un comportamento più aderente alla realtà.

Fig. 2.76 – Rotazioni dei piani principali lungo una superficie di rottura.

2 – In particolare, per quanto concerne il modulo di deformazione Eu, la prova CU comporta in genere una sottostima di tale parametro; l’estrema sensibilità che esso manifesta a effetti di disturbo sia pure lievi impedisce comunque di dare indicazioni generali di tipo quantitativo.

Volendo analizzare soltanto l’influenza della Δσ2 senza coinvolgere effetti legati all’anisotropia del terreno, vanno confrontati i risultati di prove eseguite con l’apparecchio triassiale (TX) e con l’apparecchio di taglio piano (PSD), nelle medesime condizioni di compressione (C) o di estensione (E). Da tale confronto emergono le seguenti indicazioni:

–       La resistenza al taglio non drenata di una prova PSD è maggiore del corrispon-dente valore ottenuto da una prova TX e, in particolare, si possono indicare i rapporti:

–       Cu(TX)/Cu(PSD) = 0.92 ± 0.05

–       in prove di compressione, e:

–       Cu(TX)/Cu(PSD) = 0.82 ± 0.02

–       in prove di estensione.

–       il valore di φ’ può aumentare di 2°±2° passando da prove TX a prove PSD. Il disturbo del campione e i problemi di attrito nel PSD rendono complicato il confronto dei moduli di deformazione, e possono portare a risultati anche discordanti. In generale ci si può aspettare che valori più elevati competano alle prove PSD.

Fig. 2.77 – Influenza del sistema pensionale di consolidazione sui risultati di prove Triassiali.

II comportamento dei terreni è fortemente influenzato dalla rotazione che i piani principali delle sollecitazioni subiscono ogni volta che la direzione della Δσ1applicata non coincide con quella della tensione σ1c’ di consolidazione. Infatti, la struttura preesistente tende a modificarsi per poter meglio assorbire gli sforzi applicati, e tale modifica comporta in generale un aumento delle deformazioni, con incremento della Δu.

Volendo indagare solo l’effetto della rotazione dei piani principali, senza far intervenire l’influenza della tensione intermedia Δσ2, a rigore vanno confrontati i risultati di prove eseguite con:

–       l’apparecchio di taglio piano con β = 0°;

–       l’apparecchio di taglio piano con β = 90°;

–       l’apparecchio di taglio semplice (β = 45° ± 15°).

In pratica, considerata la già menzionata scarsa diffusione dell’apparecchio di taglio piano, si fa riferimento ai risultati di prove triassiali di compressione, di estensione e a prove di taglio semplice.

I risultati riportati in Fig. 2.79, sintesi di ricerche su svariati campioni di argille NC dimostrano che gli effetti di anisotropia sono più marcati nel caso di materiali di bassa plasticità e di materiali sensitivi, e diventano meno importanti man mano che PI aumenta. Operativamente, poiché lungo la potenziale superficie di scorrimento si ha non solo una rotazione dei piani principali ma anche un fenomeno di rottura progressiva, occorrerebbe a rigore mettere in conto anche la compatibilità delle deformazioni. Per quanto concerne quest’ultimo aspetto  alcuni studiosi suggeriscono anche di valutare la resistenza operativa in situ, quando non si dispone delle varie prove, tramite la relazione:

cuvo’ = (0.22 ± 0.03OCR0.8

in modo da mettere in conto sia l’influenza dell’anisotropia che del grado di preconsolidazione, come discusso qui di seguito. Pur se importante nel caso della cu l’anisotropia ha un effetto ancora più marcato sui moduli di deformazione in quanto, passando da β= a β=90°, il valore di Eu può anche dimezzarsi.

Fig. 2.79 – Influenza dell’anisotropia sui valori della resistenza al taglio non drenata.

2.10.5 – Influenza della storia tensionale

Per illustrare l’influenza della storia dello stato tensionale (OCR) sulle caratteristiche meccaniche dei terreni viene ora esaminato il fenomeno di sovraconsolidazione di Fig. 2.80. Durante la fase di deposizione un elemento di terreno che, in origine, abbia tensione efficace σv’ e contenuto d’acqua wN(rappresentati dal punto B) consolida per effetto del peso degli strati che si sovrappongono e segue la curva B-C. La resistenza al taglio che, in questa fase, è quella di un materiale NC, in base a quanto evidenziato nei punti precedenti cresce proporzionalmente all’aumento di σv’ e alla riduzione di wN secondo la retta BC.

Se a questo punto interviene un fenomeno di erosione che riduce la tensione verticale efficace a σvD’ = σvB’, il materiale recupera solo in parte il suo contenuto d’acqua per cui, pur ritrovandosi col medesimo valore di σv’ originario, esso possiede ora una struttura più compatta e un contenuto d’acqua minore. Di conseguenza la sua resistenza al taglio, che adesso si riferisce a un materiale OC (avente cioè un valore di OCR = σv’(C)/σv’(B)) è maggiore; e, in particolare, la relazione cu/σv’ non è più lineare ma dipende dal valore di OCR (o da valore σp’), come illustrato qualitativamente dalla curva C-D.

Fig. 2.80 – Influenza della storia tensionale sulla resistenza non drenata.

Inoltre al crescere di OCR la curva sforzi-deformazioni presenta un andamento di tipo rammollente con rottura tanto più fragile quanto più elevato è il grado di sovraconsolidazione. La struttura più compatta di un’argilla OC tende a dilatarsi sotto l’applicazione di uno sforzo deviatorico, e tale effetto di dilatanza è di nuovo tanto più marcato quanto più alto è OCR ; ma, poiché ci si trova in condizioni non drenate, ogni variazione di volume è impedita e, di conseguenza, tale tendenza si manifesta con l’insorgere di una pressione interstiziale negativa. L’aumento della resistenza al taglio cu che si riscontra al crescere di OCR è imputabile principalmente a tale minore valore di Δu che si ha all’istante di rottura, piuttosto che a più alti parametri dell’inviluppo di rottura.

Il marcato incremento che la resistenza al taglio cu manifesta all’aumentare del grado di sovraconsolidazione è illustrato in Fig. 2.81. Con buona approssimazione, la relazione tra cu e OCR può esprimersi nella seguente forma:

cu(OC)vc’ = cu(NC)vc’(OCR)m

nella quale:

– cu (OC) è la resistenza del materiale OC;

– cu (NC) è il valore corrispondente allo stato NC;

– m é un parametro sperimentale ~0.8.

Fig. 2.81 – Variazione della Cu con OCR.

La relazione Tra il modulo Eu e OCR é, come si può immaginare, più difficile da stabilire, data l’influenza del disturbo del campione che le difficoltà connesse con la valutazione di tale parametro a bassi livelli di deformazione nel caso di  terreni molto OC e, allo stato attuale delle conoscenze, si possono dare solo le seguenti indicazioni:

–       la curva sforzi-deformazioni, quando si effettuano misure con precisione molto spinta, presenta una marcata curvatura anche a bassissimi livelli di deformazione;

–       la parte iniziale di tale curva è più ripida nel caso di prove consolidate anisotropicamente che nel caso di prove CU;

–       il modulo di deformazione risulta di conseguenza molto influenzato dal livello di deformazione al quale esso è riferito, e solo se, come già detto, si dispone di accurati sistemi di misura, è possibile ricavare valori confrontabili con gli ordini di grandezza ottenuti da prove su piastra o da misure in situ di spostamenti di opere in vera grandezza.

Infine è utile ricordare che il rapporto Eu/cu diminuisce all’aumentare del grado di sovraconsolidazione come illustrato in Fig. 2.82 dove Eu50 è riferito a (σ13)/(σ13).

Fig. 2.82 – Variazione del rapporto Eu/Cu al variare di OCR.

Particolare attenzione meritano poi le argille molto sovraconsolidate fessurate. Infatti la presenza di fessure e discontinuità influenza sia il comportamento in sito, sia la risposta in fase di campionamento e nel corso di prove di laboratorio.

Una delle argille più intensamente studiate è quella di Londra che presenta fessure a distanze che possono variare da 40 mm (a 10 m di profondità) a 300÷600 mm (a 40 m di profondità). In questo caso, le prove di laboratorio, eseguite su provini di dimensioni usuali (diametro = 38 mm), mostrano una grande dispersione nei valori della resistenza al taglio cu (il rapporto può essere di 1 a 5), a seconda del numero e della distribuzione delle fessure. E poiché si può immaginare che la resistenza al taglio di un grosso campione di argilla sia governata principalmente dalla resistenza lungo le fessure, ci si può anche attendere che essa diminuisca all’aumentare delle dimensioni del campione stesso. Infatti, la resistenza ottenuta da prove di carico su piastra di grande diametro (865 mm) mostrano chiaramente come all’aumentare del volume di terreno interessato dalla prova sia le dispersioni dei risultati che il valore della resistenza si riducano sensibilmente.

Da tali considerazioni si possono trarre le seguenti indicazioni:

–       quando il terreno presenta una macrostruttura caratterizzata da fessure, i risultati di laboratorio sono scarsamente rappresentativi del comportamento che un volume di terreno superiore può avere in situ;

–       facendo riferimento invece a prove in sito possono ottenersi valori rappresentativi, sempre che si faccia uso di prove che interessino una zona significativa di terreno;

–       quando si facciano confronti tra i risultati di vari tipi di prove va tenuta presente l’influenza di diversi fattori, tra i quali i più importanti sono il volume di terreno sottoposto alla prova e il fenomeno della rottura progressiva;

–       inoltre rimane, allo stato attuale delle conoscenze, ancora incerto se si possa o no parlare propriamente di comportamento non drenato nel caso di un materiale fessurato.

2.10.6 – Argille sensitive

Molte argille perdono in misura considerevole la loro resistenza se sono soggette a rimaneggiamento. Esse sono note in letteratura come argille sensitive; la sensitività St è stata definita da Terzaghi come il rapporto tra la resistenza non drenata che compete al campione indisturbato e il corrispondente valore che si ottiene dopo il rimaneggiamento, a parità di contenuto d’acqua. La tabella 2.18 dà una classificazione delle argille sulla base dei valori di St.

Argille di media sensitività sono abbastanza frequenti in depositi normalconsolidati, e non rari sono anche valori di St pari al 4÷8. Argille extrasensitive e quick-clay sono comuni in Canada e Scandinavia. Invece le argille molto sovraconsolidate possono considerarsi non sensitive, in relazione al fatto che, dati i carichi sopportati nel corso della loro storia geologica, il contenuto d’acqua attuale e le particelle fortemente orientale escludono ogni possibilità di avere una struttura metastabile.

Tab. 2.18 – Valori della Sensitività St.

Lo studio delle argille sensitive si rivela interessante sia per i riflessi legati alla comprensione dei meccanismi che governano la struttura del materiale, sia per i riflessi progettuali (ad es., per i problemi che sorgono con l’esecuzione di pali, con l’installazione di dreni verticali o con il prelievo di campioni indisturbati in tali tipi di terreno). I valori di St sono ottenuti da prove di compressione non confinata. Ovviamente, se la resistenza rimaneggiata dell’argilla è talmente bassa che non è possibile nemmeno formare un campione da sottoporre alla prova, si ricorre al Vane-test.

I meccanismi responsabili di un comportamento sensitivo sono molteplici e non tutti, finora, sufficientemente spiegati; tra i primi si segnalano i seguenti.

a) La struttura di un’argilla sensitiva é, di norma, una struttura flocculata di particelle, o aggregati delle medesime, con elevata porosità. Quando tale struttura è distrutta dal rimaneggiamento, la tendenza a ridurre il volume comporta un aumento della pressione dei pori, con caduta della resistenza al taglio. b) Molti ricercatori hanno potuto notare come la dissoluzione di Carbonati e Ossidi di Ferro comporti una marcata riduzione della pressione di preconsolidazione o l’annullamento della coesione efficace di argille sensitive. La presenza di tali sostanze comporta infatti la formazione di legami di cementazione, che, una volta distrutti chimicamente o tramite rimaneggiamento, portano a una drastica riduzione della resistenza.

c) I processi di alterazione intervengono tramite gli scambi che possono verificarsi degli ioni in soluzione, con conseguente alterazione della tendenza originaria alla flocculazione o alla dispersione. I valori di St che ne derivano sono più modesti, se comparati con quelli prodotti dai precedenti processi.

d) II fenomeno tixotropico è un processo isotermico e reversibile che si sviluppa in condizioni di volume e composizione costanti. In virtù di tale fenomeno un’argilla tende a diventare più rigida nel tempo allo stato indisturbato, mentre perde buona parte della sua resistenza se è sottoposta a rimaneggiamento. Prove sperimentali provano che gli effetti tixotropici possono spiegare valori di bassa e media sensitività ma non giustificano da soli l’esistenza di argille di elevata sensibilità.

e) Elevati valori di sensitività possono invece svilupparsi in argille marine, qualora la concentrazione originaria di sali nell’acqua interstiziale venga ridotta da fenomeni di dissoluzione chimica, che possono aver luogo, ad es., in seguito a un abbassamento del livello del mare accompagnato da fenomeni di percolazione di acqua dolce attraverso lenti di sabbia e limo.

f) L’evidenza sperimentale che le quick-clay sono spesso situate in vicinanza di strati di materiale organico ha infine suggerito l’ipotesi che tale sostanza possa fungere in qualche modo da agente disperdente (aumentando le forze repulsive del doppio strato elettrico), giustificando così elevati valori di sensitività.

2.10.7 – Comportamento dei terreni coesivi in condizioni drenate

Le prove consolidate-drenate sono prove che prevedono una prima fase durante la quale il provino è riconsolidato in laboratorio tramite l’applicazione di un sistema tensionale che può essere isotropo (prova CD) o anisotropo (prova CKoD), e una seconda fase nel corso della quale lo sforzo deviatorico è applicato così lentamente da evitare l’insorgere di sovrappressioni interstiziali Δu. Tali prove vengono eseguite per determinare i parametri di resistenza al taglio e di deformabilità in condizioni drenate.

Poiché durante la fase di rottura è Δu = 0 lo stress-path totale e quello efficace sono coincidenti. Inoltre, poiché i sistemi di drenaggio sono aperti, è anche possibile determinare la variazione di volume subita dal provino nel corso della rottura.

Alcuni autori riportano indicazioni di carattere teorico-sperimentale sul modo di determinare le velocità da usare nel corso della prova. Operativamente, comunque, nel caso di prove triassiali, ci si può regolare come segue:

–       determinazione del tempo t100 necessario all’esaurimento del processo di consolidazione, basandosi sulle letture relative alla variazione di volume fatte per l’ultimo gradino della prima fase della prova (Fig. 2.83);

–       scelta di un valore approssimato della deformazione a rottura basandosi, ad es., sulle indicazioni fornite da Bishop & Henkel (ef = 4-8% in argille sovraconsolidate; ef = 20-24% in argille normalconsolidate):

–       determinazione della velocità di prova assumendo come tempo tf necessario a raggiungere la rottura un valore pari a 10÷15 t100. I tempi richiesti risultano di solito estremamente lunghi (tf può variare da un giorno ad alcune settimane) e tale fatto comporta, chiaramente, tutta una sene di complicazioni.

Fig. 2.83 – Determinazione del t100.

2.10.9 – Determinazione dei parametri di resistenza al taglio

Quando lo scopo della prova è quello di determinare i parametri di resistenza al taglio c‘ e φ’ si può fare ricorso più vantaggiosamente alle prove consolidate-non drenate. È necessario comunque per queste ultime fare a questo punto delle precisazioni.

Finora, per determinare il punto di rottura, si è fatto sempre riferimento all’istante in cui la differenza (σ13) risulta massima. Più coerentemente, con l’adozione del criterio di rottura di Coulomb, tale punto corrisponde all’istante in cui é massimo, invece, il rapporto σ13’.

Con riferimento alla Fig. 2.84 la risultante delle tensioni τσ’ su un generico piano vale (τ2 + σ2)0.5 ed ha un’inclinazione (obliquità) rispetto alla componente normale pari a β = tg (τ/σ’). Indicativamente, valori di cu comprese entro 5÷25 kPa per tensioni σp’< 0.5÷1.0 MPa possono considerarsi ragionevoli in sede di progetto.

Fig. 2.84 – Concetto di obliquità.

Il piano di massima obliquità (massimo rapporto τσ’) è individuato dal punto in cui la semiretta tracciata per l’origine è tangente al cerchio di Mohr. Se la semiretta corrisponde all’inviluppo di rottura, tale punto rappresenta anche la coppia di tensioni τσ’ che soddisfa il criterio di rottura che, espresso in termini di tensioni principali, risulta (per c’ = 0):

σ13’ = (1+senφ’)/ (1-senφ’)

Ossia, la massima obliquità τσ, compatibile con la resistenza del materiale, corrisponde al massimo valore del rapporto σ13’.

A seconda del modo in cui viene individuata la rottura nelle prove CU, i valori di c’ e φ’ possono risultare differenti, soprattutto nel caso di argille sensitive.

Alcuni studiosi mettono in evidenza che il valore di φ‘ corrispondente alla massima obliquità nelle prove consolidate non drenate è praticamente uguale o pochi gradi più elevato del valore φ‘ ottenuto da prove consolidate drenate; il valore di φ‘ valutato a (σ13) è invece inferiore e in alcuni casi può essere anche < 7° in argille molto sensitive.

Nel caso di argille sovraconsolidate i pochi risultati disponibili indicano inoltre che i valori di c‘ e φ‘ individuati in prove CU da un inviluppo di rottura tangente allo stress-path sono in accordo con quelli forniti da prove CD.

Quando si confrontano i risultati di prove CU con quelli di prove CD occorre essere sicuri che le prove non drenate siano state eseguite con velocità sufficientemente bassa da permettere una ridistribuzione della pressione neutra all’interno del campione. Se tale ridistribuzione non avviene, il valore della Δumisurato normalmente a una estremità del campione risulta diverso dal valore esistente nella zona di rottura e, di conseguenza, i valori di c‘ e φ‘ ottenuti basandosi su tali misure sono diversi da quelli che competono realmente al campione in esame.

Il principali fattori responsabili della differenza di pressione tra centro e bordo sono identificabili:

– in una non uniforme distribuzione iniziale;

– in uno stato tensionale influenzato da effetti di bordo (estremità del campione);

– nella rottura concentrata in una zona ristretta.

Per ottenere l’uniformità delle pressioni interstiziali si suggerisce una velocità di deformazione pari a 1 ± 0.5%/h per argille NC e valori inferiori per argille OC.

Presso il Norwegian Geotechnical Institute si adottano valori entro 0.01÷0.04%/60”.  Bishop & Henkel danno invece indicazioni teoriche espresse sotto forma di un fattore di tempo adimensionale:

T = cv t/H2

in cui cv é il coefficiente di consolidazione e 2H l’altezza del campione. Per uniformare le pressioni tale fattore è dell’ordine di 0.071, in presenza di carta da filtro, e pari a 1.67 in assenza.

Come menzionato in precedenza, l’inviluppo di rottura di un’argilla NC è caratterizzato da un’intercetta c’ = 0 e risulta lineare. Il valore di φ‘ è correlabile alla plasticità del materiale (Fig. 2.85).

Fig. 2.85 – Valori di φ‘ relativi ad argille NC.

L’inviluppo di rottura di un’argilla sovraconsolidata é caratterizzato invece da 2 particolarità (Fig. 2.86):

–       una marcata curvatura passando da bassi ad alti livelli tensionali;

–       un’intercetta c‘ (coesione in termini di tensioni efficaci).

Fig. 2.86 – Inviluppo di rottura in un’argilla.

La determinazione del valore di c‘ richiede in particolare molta attenzione, soprattutto quando lo si voglia ottenere estrapolando la curva da livelli tensionali usuali.

Infatti in prossimità dell’origine si ha una zona di curvatura fortemente accentuata e il valore di c‘ da usare in un problema in cui si abbiano bassi livelli tensionali può così essere decisamente inferiore. E tale cautela va raccomandata soprattutto tenendo conto che in analisi di stabilità, che interessino superfici di scivolamento non molto profonde (~10 m), piccole variazioni di c‘ hanno un grosso peso sui risultati.

Tuttavia, da un punto di vista sperimentale, c’è da notare che differenze tra i risultati di laboratorio e comportamento del materiale in situ sono possibili per fenomeni dovuti a creep, rigonfiamento e macrostruttura del deposito.

Per quanto concerne l’influenza che fattori quali rotazione dei piani principali, tensione intermedia σ2’ a rottura e livello tensionale possono avere sull’inviluppo di rottura determinato da prove CD esistono pochi dati disponibili e non sempre in accordo tra loro. Alcune indicazioni possono ricavarsi dai risultati riportati in tabella 2.19.

Tab. 2.19 – Influenza dello stress-path sui valori di φ’.

2.10.10 – Resistenza al taglio residua

I risultati discussi finora si riferiscono al valore di picco Tp della resistenza al taglio. Se, una volta superato tale valore, la prova è protratta fino a raggiungere elevati livelli di deformazione è possibile constatare una caduta della resistenza con una stabilizzazione finale su un valore definito in letteratura come resistenza residua τR (Fig. 2.87).

Fig. 2.87 – Curva τ-γ di un’argilla.

Tale fenomeno, documentato sperimentalmente da Hvorslev et al., è particolarmente pronunciato per le argille sovraconsolidate. La raccolta di dati relativi al comportamento di un elevato numero di argille permette di elaborare le seguenti considerazioni in proposito:

a) La differenza tra la resistenza di picco e quella residua cresce all’aumentare del grado di sovraconsolidazione, del contenuto di argilla (CF) e dell’indice di plasticità.

b) II valore residuo è indipendente dalla storia dello stato tensionale: come documentato da Bishop et al., campioni indisturbati e campioni rimaneggiati portano allo stesso inviluppo di rottura.

c) Se i risultati delle prove di rottura di vari provini sono plottati nel piano τ,σ‘, l’inviluppo di rottura che si ottiene è caratterizzato da un’intercetta cR’ praticamente nulla e da un valore residuo φR’ dell’angolo di resistenza al taglio inferiore a quello che compete allo stato NC (Fig. 2.88).

Fig. 2.88 – Inviluppo di rottura relativo ai parametri residui.

d) I fattori che contribuiscono al passaggio dalla resistenza del picco a quella residua sono identificabili:

–       nel fenomeno di dilatanza;

–       nel ri-orientamento delle particelle nella zona di rottura;

–       nella distruzione dei legami di cementazione.

Il primo fenomeno influenza la resistenza per l’aumento di contenuto d’acqua che comporta fino al raggiungimento di un valore critico che, teoricamente (in quanto è difficile effettuare misure del contenuto d’acqua nelle zone di rottura con spessore di pochi μm), è indipendente dalla storia tensionale (→ analogia col concetto di indice dei vuoti critico nel caso delle sabbie).

L’influenza del secondo fattore può essere analizzata confrontando i valori di τR e τP che competono ad argille rimaneggiate, per le quali evidentemente non sussistono più i contributi dovuti alla cementazione o alla dilatanza.

Studi approfonditi dimostrano che perché il valore della resistenza si stabilizzi su quello residuo è necessario che nella zona di rottura tutte le particelle siano perfettamente orientale parallelamente tra loro, e che la presenza anche di poche particelle disposte trasversalmente alla superficie di rottura può comportare un incremento nel valore di φ’ di diversi gradi.

L’esistenza del terzo fattore (cementazione), quale contributo sostanziale alla τP, è dimostrata dalla resistenza a trazione ottenibile in alcuni campioni di argilla intatta.

L’importanza relativa che ognuno di questi 3 fattori può avere nel contribuire alla resistenza globale dipende dal livello tensionale. La perdita di resistenza, a bassi livelli tensionali (σ‘  0), dovuta alla distruzione dei legami di cementazione può essere molto elevata (70÷80%), mentre la perdita dovuta al ri-orientamento è modesta. Ad alti livelli tensionali le medesime perdite raggiungono invece % tra loro comparabili.

e) II valore di φR’dipende principalmente dalla composizione mineralogica dell’argilla .

In letteratura sono state comunque proposte diverse correlazioni empiriche (abachi in Figg. 2.89-2.90), che possono servire da guida per la determinazione di un valore orientativo.

Fig. 2.89 – Variazione di φk con il contenuto di argilla.

Fig. 2.90 – Variazione di φk con l’Indice di Plasticità.

Un comportamento rammollente del tipo sopra descritto ha come conseguenza pratica la difficoltà di stabilire il valore dei parametri di resistenza che governano l’equilibrio di un pendio naturale o artificiale, soprattutto nel caso di argille sovraconsolidate.

La distribuzione degli sforzi di taglio lungo la potenziale superficie di rottura risulta infatti più o meno marcatamente variabile, per cui ne deriva che inizialmente la resistenza di picco viene raggiunta in alcuni punti prima che in altri. Col procedere delle deformazioni nel tempo, in questi stessi punti si verifica un decadimento della resistenza verso valori residui, con conseguente trasferimento di sforzi a zone adiacenti, che, a loro volta, giungono così a rottura. E quando si verifica il collasso dell’intera massa, la resistenza mobilitata lungo la superficie di scivolamento risulta necessariamente intermedia tra quella di picco e quella residua.

La graduale propagazione nel tempo della rottura nella massa di terreno è definita rottura progressiva, e benché sia un fenomeno molto studiato non esistono ancora procedimenti che permettano di stabilire il valore della resistenza mobilitata all’istante di rottura.

Infine, per quanto concerne la determinazione sperimentale dei valori di resistenza residui, generalmente si ricorre all’apparecchio di taglio diretto o a quello di taglio torsionale. Nel primo caso, prima che si abbia una stabilizzazione sui valori residui può essere necessario effettuare una serie di 15÷20 cicli, in andata e ritorno. L’apparecchio di taglio torsionale offre invece il vantaggio di poter avere uno scorrimento continuo nella stessa direzione.

2.10.11 – Parametri di deformabilità in condizioni drenate

Per quanto concerne i moduli di deformazione in condizioni drenate va innanzi tutto rilevato che, a causa delle difficoltà (già menzionate) inerenti l’esecuzione delle prove, i dati disponibili in letteratura sono decisamente pochi, soprattutto se ci si riferisce alle argille indisturbate. Da tali dati emerge che la legge sforzi-deformazioni dipende dai seguenti fattori (a parità di natura e composizione mineralogica):

–       storia dello stato tensionale;

–       tipo di consolidazione;

–       sistema di tensioni imposto (stress-path seguito);

–       velocità di deformazione.

L’influenza del grado di sovraconsolidazione sui valori del modulo è deducibile dai dati riportati in Fig. 2.91. Esaminando l’influenza del sistema tensionale applicato in fase di consolidazione, i risultati reperibili in letteratura mostrano che una consolidazione di tipo isotropo comporta una sopravvalutazione del modulo.

Fig. 2.91 – Influenza della storia tensionale sui valori del modulo

2.11 – Plasticità, Viscoelasticità e Viscoplasticità

A completamento di quanto descritto nei capitoli relativi alla Meccanica delle Rocce, s’intende ribadire come i terreni sciolti presentino un comportamento elastico non lineare, anisotropo, plastico e viscoso. Da questo discende che l’uso di leggi costitutive relativamente semplici può portare a una descrizione sufficientemente accurata di singoli fenomeni osservati in prove sperimentali ma che la descrizione del comportamento in situazioni più complicate richiede teorie di maggiore generalità.

La teoria dell’elasticità, di cui si è accennato a più riprese, può essere convenientemente utilizzata nel caso di carichi monotonici a mezzo di un’opportuna scelta dei parametri in modo da tener conto della non linearità. Se si introduce l’ipotesi che il mezzo sia isotropo, per descrivere il legame tensioni-deformazioni occorrono solo 2 parametri indipendenti: il modulo di Young E‘ e il rapporto di Poisson ν‘, o, in alternativa, il modulo di deformazione cubica K‘ e il modulo di taglio G.

Più realisticamente, tuttavia, il comportamento di un terreno viene invece descritto tramite il modello di un mezzo trasversalmente isotropo, caratterizzato dai 5 parametri EH’, vHH’, EV‘, vVH‘ e GVH.

Viceversa, i modelli basati sulla teoria della plasticità offrono, rispetto a quelli basati sulla teoria dell’elasticità, una maggiore generalità di applicazione.

Per definire completamente il legame costitutivo in campo plastico è necessario introdurre un criterio di snervamento, una legge di flusso e una legge di incrudimento, in modo da poter individuare rispettivamente l’esistenza, la direzione e il modulo del vettore dell’incremento di deformazione plastica.

L’esperienza dimostra, infine, che per cogliere alcuni aspetti importanti, tipo le deformazioni sotto carico costante, è necessario introdurre ulteriori sofisticazioni, utilizzando modelli visco-elastici o visco-plastici.

In letteratura comunque, come si può intuire, non esiste un modello in grado di simulare tutti gli aspetti del complesso comportamento dei terreni reali. E, d’altra parte, se esistesse, un simile modello comporterebbe difficoltà analitiche tali e richiederebbe un numero così elevato di parametri da essere sicuramente poco applicabile.

Esistono invece diversi e più semplici modelli, ognuno dei quali è particolarmente adatto a descrivere solo alcuni aspetti; la materia trattata nel capitolo a seguire, a completamento di quanto fin qui illustrato, è allora da intendersi quale prospetto introduttivo alle leggi di comportamento, necessaria per cogliere significato e limiti dei modelli descritti sia per quanto concerne la Meccanica dei Terreni che per quella delle Rocce.

2.11.1 – Teoria della plasticità

II comportamento dei terreni è caratterizzato dall’esistenza di deformazioni sia reversibili che irreversibili, in genere definite elastiche e plastiche. Pertanto, come già evidenziato nell’introduzione, non può essere adeguatamente descritto dalla teoria dell’elasticità, soprattutto in presenza di carichi non monotonici. Leggi di comportamento di maggiore generalità sono state invece formulate e applicate ai terreni basandosi sulla teoria della plasticità.

Un’assunzione fondamentale di tale teoria è che l’incremento complessivo di deformazione sia somma di un’aliquota elastica (nel seguito evidenziata dall’indice e) e di un’aliquota plastica (evidenziata dall’indice p), ossia:

ij = ije + ijp

L’incremento di deformazione elastica è calcolato tramite il legame tensioni-deformazioni di un mezzo elastico e isotropo; e poiché, in virtù dell’ipotesi di isotropia, si ha la coincidenza delle direzioni principali del tensore di tensione con le corrispondenti direzioni principali del tensore di deformazione, il suddetto legame è sufficiente per la determinazione non solo del modulo ma anche della direzione del vettore e.

Per definire invece completamente l’incremento di deformazione plastica è necessario formulare un criterio di snervamento, un criterio di flusso e una legge di incrudimento, che permettano di individuarne rispettivamente [‘esistenza, la direzione, e il modulo.

2.11.1.1 – Criterio di snervamento

II criterio di snervamento, definito anche condizione di plasticità, è una relazione che individua in modo quantitativo la soglia tensionale raggiunta la quale non si hanno più solo deformazioni elastiche, ma anche deformazioni plastiche. Per illustrare questo concetto si consideri per il momento un provino soggetto a uno stato tensionale monoassiale (Fig. 2.92). Se la tensione applicata è inferiore a una certa soglia σy1, le deformazioni risultano reversibili e il comportamento è puramente elastico. Superata tale soglia le deformazioni risultano in parte elastiche e in parte plastiche, e la curva tensioni-deformazioni segue l’andamento AB. La tensione corrispondente al punto A, raggiunto il quale iniziano le deformazioni plastiche, è definita tensione di snervamento.

Fig. 2.92 – Tensione di snervamento.

Nel tratto AB la deformazione deve essere sostenuta ancora da un incremento di tensione, ma tale incremento si riduce a mano a mano che ci si avvicina alla rottura.

Se una volta raggiunto il punto B si scarica il provino, la curva tensioni-deformazioni ha una pendenza confrontabile con quella della tangente alla curva nell’origine (comportamento elastico). In virtù del superamento della tensione di snervamento σy1, nel tratto AB sono state accumulate delle deformazioni plastiche che, essendo per loro natura irreversibili, si ritrovano alla fine dello scarico (εap in figura). Durante lo scarico è possibile riscontrare sperimentalmente un certo ritardo nella risposta della deformazione alla riduzione della tensione, per cui con il successivo ricarico si ha un piccolo ciclo di isteresi.

È importante notare ora che nella fase di ricarico il comportamento del materiale risulta elastico finché non viene raggiunta una nuova tensione di snervamento σy2, superiore alla precedente σy1.

Ossia, in virtù delle deformazioni plastiche verificatesi nel tratto AB, il materiale sembra avere acquisito una sorta di memoria condizionata dall’assetto strutturale prodotto dalle deformazioni plastiche, che si manifesta attraverso l’innalzamento della tensione di snervamento da σy2 a σy1.

Questo aumento del limite di plasticità con l’evolversi monotonicamente delle deformazioni plastiche è indicato con il termine incrudimento. Se, effettuando lo scarico a partire dal punto B, il provino viene assoggettato a una tensione di trazione, il limite di snervamento (punto C) risulta inferiore a σy2 anche se inizialmente i limiti di snervamento in trazione e compressione erano uguali. Tale influenza della non monotonicità delle condizioni di carico sulla tensione di snervamento è indicata come effetto Bauschinger.

Nel caso più generale, lo stato tensionale è definito da più di una componente di tensione. Ne consegue che il concetto finora esaminato di tensione di snervamento deve essere sostituito dalla definizione di una superficie di snervamento .

Ad es. se ci si riferisce a un provino cilindrico di terreno soggetto a una tensione assiale σa’ = σ1’ e ad una radiale σr’ = σ3’ (Fig. 2.93), è possibile, eseguendo una serie di prove a σ3’ e σ1’ costanti individuare nel piano (σ1’,σ3’) una curva di plasticizzazione. I punti interni a tale curva rappresentano stati tensionali che producono solo deformazioni elastiche, mentre passando in Fig. 2.93 dal punto A al punto B si hanno anche deformazioni plastiche.

Fig. 2.93 – Curva di snervamento.

L’equazione di tale curva, o più in generale della superficie di snervamento, costituisce il criterio di snervamento o la condizione di plasticità. In generale tale criterio ha una formulazione del tipo:

F(σij’,εijp) = 0

ossia, è una funzione delle sei componenti di tensione e delle componenti di deformazione plastica.

La dipendenza dalla deformazione plastica è normalmente imposta attraverso un solo parametro h, funzione del lavoro di deformazione plastica Wp, per cui la relazione è espressa anche nella forma:

F(σij’,h) = 0

con h = h (Wp).

Se si fa riferimento alla rappresentazione geometrica, l’equazione F(σij’,h) individua nello spazio astratto degli stati di tensione il luogo geometrico degli stati tensionali limiti, ossia la superficie di snervamento; la suddetta dipendenza dalla deformazione plastica si traduce nel fatto che nel corso della deformazione plastica tale superficie può cambiare dimensione e forma.

In particolare se nel corso della deformazione plastica la superficie di snervamento si espande senza cambiamento di forma ne di posizione, si parla di incrudimento isotropo (Fig.2.94); mentre se si ha solo una traslazione rigida della superficie si parla di incrudimento cinematico (Fig. 2.94).

La necessità di avere una qualche forma di incrudimento si giustifica con il fatto che la superficie di snervamento deve seguire l’evoluzione dello stato pensionale in modo che sia sempre verificata la condizione di consistenza :

F(σij’,h< 0

Fig. 2.94 – Incrudimento isotropo e incrudimento cinematico.

Se si ammettesse infatti l’esistenza di uno stato tensionale esterno alla superficie di snervamento, si dovrebbe ammettere anche l’esistenza di deformazioni plastiche durante una fase di scarico tensionale, in contrasto con la definizione stessa di superficie di snervamento. A seguito di tali concetti è possibile definire in modo generale le condizioni di sollecitazione come condizione di carico, scarico o neutrale a seconda che sia, rispettivamente, dF>0, dF<0 o dF=0, oppure sviluppando il differenziale:

∂F/∂σij’ σij’  o  0

Spesso, tuttavia, e soprattutto nelle applicazioni riguardanti i metalli, si introduce l’ipotesi che la condizione di plasticità sia indipendente dalla deformazione plastica, assumendo semplicemente:

F(σij’) = 0

In questi casi la superficie di plasticizzazione rimane, nel corso della deformazione plastica, di forma e dimensioni costanti e ferma nella posizione originaria, e il comportamento del mezzo è definito perfettamente plastico.

Tale ipotesi è largamente usata anche nella Meccanica dei Terreni nei problemi di analisi limite che, alla luce delle considerazioni svolte, non vanno considerati come una classe separata di problemi ma piuttosto come un caso limite di una più generale teoria elasto-plastica. È importante notare a questo punto che, nel caso di un mezzo con comportamento perfettamente plastico, la condizione di plasticità coincide con il criterio di rottura. Nel caso più generale di comportamento plastico incrudente la superficie di plasticizzazione è interna alla superficie di rottura e al massimo può coincidere con essa. Generalmente, nelle applicazioni, la forma della superficie di snervamento è assunta simile a quella della superficie di rottura, ma non è semplice attribuire alla superficie di rottura un unico significato così come è stato fatto per quella di snervamento, a causa delle diverse possibilità che si hanno di definire la rottura. Se il mezzo è isotropo la condizione di snervamento può esprimersi in funzione degli invarianti dello stato di tensione. Nel caso dei metalli, inoltre, essendo possibile provare sperimentalmente che l’applicazione di una pressione uniformerò non comporta deformazioni plastiche di entità rilevabile, si assume usualmente che la condizione di snervamento dipenda solo dagli Invarianti del deviatore di tensione:

F(J2,J3) = 0

Tra i diversi criteri del tipo proposti in letteratura, dal punto di vista applicativo hanno trovato largo impiego quelli di Tresca e di Von Mises.

Il criterio di Tresca stabilisce il raggiungimento della condizione di plasticità quando la massima tensione tangenziale raggiunge un valore critico K. Espresso in termini di tensioni principali tale criterio diventa:

σ1–σ3 = 2K

e il valore della tensione tangenziale di snervamento K è legato alla tensione di snervamento σv ottenibile da una prova di trazione dalla relazione K = σv/2. Tale criterio non dipende dalla tensione intermedia σ2.

II criterio di Von Mises (è basato invece sulla proporzionalità esistente tra il secondo invariante J2 del deviatore di tensione e l’energia di deformazione legata alla variazione di forma del mezzo, ed è espresso nella forma:

1/6 [(σ1–σ3)2+(σ2–σ3)2+(σ2–σ1)2] = K2

in cui K è il valore della tensione tangenziale massima in una prova di taglio puro (σ1=2=Kσ3=0).

Come accennato in riferimento alla Fig. 2.93, ogni condizione di plasticità è rappresentata geometricamente da una superficie che racchiude al proprio interno il dominio elastico. Un criterio del tipo F(J1,J2) = 0 è rappresentato da una superficie con asse parallelo allo spazio diagonale (avente coseni direttori uguali a 1/V3). L’assunzione di isotropia impone inoltre all’intersezione della superficie di snervamento con il piano ottaedrico (di equazione σ123 = 0) di essere simmetrica rispetto alle proiezioni degli assi principali su tale piano. Proiettato sul piano ottaedrico, il criterio di Tresca è rappresentato da un esagono regolare e quello di Von Mises da un cerchio di raggio = (σy√2/√3)

Fig. 2.95 – Criteri di Tresca e Von Mises.

Tale dimensione si giustifica osservando che se un punto P ha coordinate (σ123) nello spazio delle tensioni, la sua proiezione sul piano π ha coordinate (σπ1 = σ1√2/√3; σπ2 = σ2√2/√3; σπ3σ3√2/√3).

Nel caso dei terreni la condizione di plasticità dipende anche dalla pressione media per cui, salvo casi particolari (analisi in condizioni non drenate in termini di tensioni totali), i suddetti criteri non sono applicabili e occorre fare riferimento ad altri modelli.

2.11.1.2 – Criterio di flusso

Quando si raggiunge la condizione di plasticità si verificano deformazioni plastiche se è rispettata la condizione dF > 0.

A questo punto si pone il problema di determinare direzione e entità di tali deformazioni. Mentre, come già detto, nel caso delle deformazioni elastiche la relazione generale è da sola sufficiente a definire completamente il vettore di deformazione, nel caso delle deformazioni plastiche le evidenze sperimentali dimostrano che la direzione del vettore di deformazione è indipendente dall’incremento di tensione e dipende invece dallo stato tensionale complessivo. Cioè, gli incrementi ij’, pur influenzando il valore delle ijp non ne influenzano la direzione.

Inoltre è possibile soddisfare la condizione imposta dalla definizione di carico neutrale di avere deformazioni plastiche nulle quando dF = 0, se il legame costitutivo in campo plastico è del tipo:

ijp = λij dF

Le λij, causa l’indipendenza della direzione delle ijp dagli incrementi ij, sono una funzione della storia delle sollecitazioni e dello stato tensionale totale per cui se si separano questi due aspetti è possibile esprimerle nella forma:

λij = H∂G/∂σij

in cui H è funzione della storia tensionale e G è una funzione delle componenti di tensione.

Avendo espresso nella relazione la parte dipendente dalla storia delle sollecitazioni tramite la funzione H, la funzione G é indipendente dal percorso di sollecitazioni seguito e può perciò essere interpretata come un potenziale plastico. L’esistenza di un potenziale comporta, in analogia a quanto avviene nei moti di filtrazione, la coincidenza della direzione del vettore (p) con quella lungo la quale si ha il massimo gradiente di potenziale. In una rappresentazione geometrica (Fig. 2.96) ciò equivale a supporre che(p) sia ortogonale alla superficie individuata dalla funzione G nello spazio delle tensioni.

Fig. 2.96 – Potenziale plastico e direzione del vettore di deformazione plastica.

Tale legge di normalità costituisce il criterio di flusso, e permette di stabilire il rapporto esistente tra le componenti della deformazione plastica. Nel caso più generale la funzione potenziale G e la funzione di snervamento F sono due funzioni separate e il criterio di flusso è definito non associato. Quasi sempre, tuttavia, G è assunta coincidente con F (flusso associato).

In questo caso si conseguono notevoli semplificazioni nella trattazione analitica del problema (essendo possibile provare l’unicità della soluzione in problemi al contorno) e sono automaticamente verificati i requisiti da soddisfare in base al postulato di Drucker affinché il comportamento del materiale possa essere considerato stabile, e cioè :

–       che la superficie di snervamento debba essere convessa;

–       che l’incremento di deformazione plastica debba essere normale alla superficie di snervamento e diretto verso l’esterno.

In sintesi tutto ciò equivale a imporre che il lavoro di deformazione plastica sia positivo.

Comunque, un criterio di flusso non associato può essere richiesto per modellare il comportamento di materiali, quali ad esempio le sabbie dense o le argille molto sovraconsolidate, caratterizzato da pronunciati effetti di instabilità meccanica (Fig. 2.97).

Fig. 2.97 – Comportamento meccanico di un’argilla.

2.11.1.3 – Legge di incrudimento

II criterio di flusso consente di determinare la direzione del vettore (p) ma non il suo modulo, che è invece individuato attraverso una legge di evoluzione della superficie di snervamento definita legge di incrudimento. Tale evoluzione è necessaria in base alla condizione di consistenza, in modo che sia sempre soddisfatta l’equazione.

Si è già precisato che essa è in genere descritta attraverso un parametro h, funzione del lavoro di deformazione plastica (work-hardening) o della deformazione plastica (strain-hardening). La legge di incrudimento più semplice da trattare è quella di tipo isotropo, in base alla quale la superficie di snervamento si espande uniformemente in tutte le direzioni (Fig. 2.94).

In alternativa si usa spesso una legge di incrudimento cinematico per modellare particolari aspetti, quali l’effetto Bauschinger, o per tener conto dell’anisotropia indotta dalle deformazioni plastiche.

2.11.2 – Viscoelastìcità e Viscoplasticità

II comportamento dei materiali così come descritto nel paragrafo precedenti risulta indipendente dal tempo. In natura, invece, le deformazioni possono essere influenzate anche sensibilmente dal fattore tempo, e in questi casi è la velocità di deformazione, piuttosto che la deformazione in se stessa, che risulta essere una funzione delle tensioni. Il comportamento di un mezzo caratterizzato da una relazione tensione-velocità di deformazione è definito viscoso. Può essere schematizzato tramite il modello illustrato in Fig. 2.95, il cui legame costitutivo è espresso dalla legge di Newton:

τ = η ∂γ/∂t

nella quale η è il coefficiente di viscosità dinamica (il coefficiente di viscosità cinematica è definito dal rapporto v = η/ρ).

Fig. 2.98 – Modello viscoso di Newton.

Tale modello è rappresentativo di un fluido incomprimibile. Nel caso dei terreni esso può rappresentare solo un aspetto del comportamento reale, la cui simulazione richiede l’utilizzo contemporaneo di altri differenti semplici modelli.

2.11.2.1 – Viscoelasticità

Se si immagina che le deformazioni siano in parte il risultato di un comportamento elastico e in parte di un comportamento viscoso, il legame costitutivo può essere descritto tramite un’opportuna combinazione di molle elastiche e di smorzatori viscosi.

Le due combinazioni più semplici sono rappresentate dal modello di Maxwell e dal modello di Kelvin- Voigt (Fig. 2.99). Nel primo caso la molla elastica e lo smorzatore viscoso sono collegati in serie, per cui la relazione tensione-deformazione è del tipo:

.                  .

ε = σ/η+σ/E’    ***

Nel modello di Kelvin-Voigt la molla elastica e lo smorzatore viscoso sono invece collegati in parallelo, e il legame σ’-ε diventa:                                                                        .

σ‘ = Eε + η ε

Se impiegati da soli, però, tali modelli continuano ad essere poco adeguati a descrivere il comportamento reale dei terreni, perché, ad es., il modello di Maxwell non tiene conto del fatto che le deformazioni viscose sotto carico efficace costante hanno una velocità decrescente nel tempo, e il modello di Kelvin-Voigt non da alcuna aliquota di deformazione che sia indipendente dal tempo.

Fig. 2.99 – Modelli visco-elastici.

Maggiore generalità può essere conseguita combinando invece i due suddetti modelli. Nel caso di Fig. 2.100 (modello di Burgers) si ha:

Fig. 2.100 –Modello di Burgers.

ε = ε123

con:

Derivando rispetto al tempo e sostituendo si ricava:

2.11.2.2 – Creep e rilassamento

Le due prove sperimentali correntemente impiegate per lo studio del comportamento viscoso di un mezzo sono quella di creep e quella di rilassamento. Nel primo caso si rileva l’andamento delle deformazioni nel tempo sotto carico costante; nella prova di rilassamento invece si impone una deformazione costante e si rilevano le variazioni di tensione nel tempo. Con riferimento al modello di Maxwell (Fig. 2.101), se si applica una tensione costante nel tempo σ’ = σO’ l’integrazione della *** con la condizione iniziale σ’ = σO’ quando t = tO porta alla relazione:

Fig. 2.101  Risposta del modello di Maxwell nel corso di prove di creep e di rilassamento.

La deformazione cioè è somma di una deformazione istantanea di tipo elastico e di una deformazione variabile linearmente nel tempo di tipo stazionario (Fig. 2.102).

Se al tempo t1 viene rimosso il carico si recupera istantaneamente la deformazione elastica σO/E‘ pur mantenendosi una deformazione permanente pari a σO’ t1 /∙η.

Fig. 2.102 – Risposta del modello di Kelvin-Voigt nel corso di una prova di creep.

Integrando la *** con la condizione iniziale ε = εO per t = t0 è possibile, viceversa, ottenere la risposta del modello di Maxwell nel corso di una prova di rilassamento. La relazione che si ottiene è la seguente:

ed è illustrata in Fig. 2.102.

Nel caso del modello di Kelvin-Voigt l’integrazione porta alla seguente relazione in una prova di creep:

illustrata in Fig. 2.102. La deformazione si incrementa nel tempo con velocità decrescente e tende al valore asintotico σO’/E‘, corrispondente alla deformazione elastica della molla.

A causa del ritardo prodotto dallo smorzatore nel raggiungimento della deformazione elastica spesso si indica tale comportamento con il termine di elasticità ritardata.

Procedendo in modo analogo con il modello di Burgers (Fig. 2.100)) è possibile provare che, in seguito all’applicazione di una tensione σO’ costante al tempo t0, la deformazione è data dalla relazione:

che, in modo più realistico di quanto previsto con i primi due modelli, risulta somma di una deformazione istantanea di tipo elastico, di una deformazione viscosa di tipo transitorio e di una deformazione viscosa di tipo stazionario.

2.11.3 – Viscoplasticità

Molti materiali tipo gomma, polimeri, fibre sintetiche, come pure le sospensioni di particelle di argilla, presentano un comportamento viscoplastico che, in base alla definizione data da Bingham & Green, può essere descritto tramite l’accoppiamento di un blocco con attrito e di uno smorzatore viscoso (Fig. 2.103)

Il legame tensione-deformazione, in questo caso, è espresso dalla relazione:

nella quale τγ è una tensione di snervamento che serve a descrivere il comportamento plastico, e ηp è il coefficiente di viscosità che governa la velocità di deformazione γ per τ>τγ.

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