2 – Impianti aeroportuali

Prende il nome di aeroporto qualsiasi area delimitata e piana destinata ad essere utilizzata per la partenza, l’arrivo, il movimento e la sosta a terra degli aeromobili oltre che per contenere il complesso di strutture accessorie all’attività del traffico.

Nel caso più generale, il piano di un aeroporto comprende:

–       area di movimento e traffico, includente il campo di volo, le vie di circolazione, le piazzole di attesa, le piazzole per la prova dei motori e i piazzali di stazionamento.

–       area strutturale, includente le opere destinate ai servizi logistici (commerciali, rifornimento, navigazione, controllo e sicurezza) oltre che a quelli tecnici (aviorimesse, officine, ausiliari, sussidiari, di soccorso etc.).

2.1 – L’ubicazione

La scelta della ubicazione di un area aeroportuale (supposta ad alto traffico) costituisce un problema territorialmente e strutturalmente complesso, in particolar modo quando sono possibili diverse soluzioni. Gli elementi determinanti di scelta sono:

–       richieste ed esigenze del traffico aereo;

–       sviluppo dell’area suburbana;

–       presenza di ulteriori aerostazioni nelle vicinanze;

–       condizioni atmosferiche: venti, fumi, nebbia;

–       accessibilità;

–       utilizzabilità;

–       possibilità d’espansione;

–       ostacoli e/o barriere circostanti;

–       economia del sistema.

Alcuni degli elementi segnalati vanno considerati come fattori di sicurezza, altri come fattori economici; in ogni caso la sicurezza delle operazioni è prevalente nella scelta e non può essere influenzata da alcun compromesso in favore di altre considerazioni. Ricadono nella categoria fattori di sicurezza: la libertà da ostacoli, l’ubicazione in rapporto ad altri aeroscali ed alle linee aeree, la visibilità, le particolari condizioni atmosferiche della zona prescelta; una moderna aerostazione deve comunque essere studiata tenendo presenti gli sviluppi futuri in modo da poter adattare il sistema ad esigenze eventuali e/o successive, comprese quelle militari. In generale, quindi, la scelta della ubicazione deve essere effettuata in modo che sia possibile raggiungere una valida funzionalità dal punto di vista aeronautico, urbanistico e tattico-strategico; una scelta ottimale della posizione dello scalo, infatti, produce una concatenazione di ricadute sulla economia generale della regione servita, soprattutto nel settore del turismo e delle attività produttive.

Generalmente l’aeroporto è destinato all’uso di una città, di un gruppo di centri urbani fra loro vicini o di una zona ad intenso sviluppo; quindi, a seconda dei casi, ogni scalo presenta delle proprie caratteristiche che dipendono anche dai collegamenti di terra; il traffico aereo, infatti, non si configura come variabile indipendente bensì intimamente legata al sistema di comunicazioni che si diparte dall’aerostazione.

La distanza massima fra lo scalo aereo e il centro urbano è in funzione della durata media del viaggio aereo e della velocità commerciale sulla rete stradale di collegamento.

Uno dei fattori principali di scelta è rappresentato dallo sviluppo dell’area suburbana, nel senso che per l’aeroporto dovrà scegliersi un’area che sia fuori della zona d’influenza urbanistica.

Per gli aeroscali ove si preveda un notevole movimento di aeromobili la distanza minima della pista principale dal centro urbano deve risultare > 5 km; tali apparati, infatti, emettono onde acustiche il cui spettro si estende entro 12÷60 103 kHz con intensità fino a 165 dB.

Gli aeroporti, di norma, non vengono ubicati molto vicini alle città, dato il loro elevato costo, e soltanto un notevole traffico può giustificare più di uno scalo nella medesima area; è inoltre necessario tener presente che la tendenza delle moderne realizzazioni aeronautiche è orientata verso apparati a grande autonomia, economicamente utili nelle lunghe tappe.

Una volta fissati i termini territoriali-economici e proseguendo secondo indirizzi tecnico-progettuali, fra i numerosi fattori che regolano la scelta della ubicazione degli aeroporti non poca importanza assumono quelli geografici oltre a quelli geologici.

La prima condizione essenziale si rivela, infatti, la presenza di uno spazio piano (o riducibile a tale forma) di dimensioni sufficienti a consentire l’atterraggio e il decollo degli aeromobili; sia le strisce e le piste di volo, sia le vie di circolazione, sia ancora i piazzali, devono obbedire a limiti severi di pendenza longitudinale e trasversale, rigorosamente stabiliti in ordine alle esigenze dei movimenti d’involo e d’atterraggio oltre che a quelli di rullaggio e di manovra a terra. Come osservato in precedenza gli aeroporti civili devono trovarsi alla minore distanza possibile dai centri abitati che intendono servire, per quanto condizioni morfologiche e urbanistiche sfavorevoli impongano talora distanze > 40-50 km.

In generale si cerca di ubicare l’aeroporto in prossimità di grandi linee di comunicazione, poiché in caso diverso devono essere creati appositi allacciamenti di terra.

L’aeroporto, inoltre, deve trovarsi al sicuro dal pericolo di inondazioni; i fondovalle, i terrazzi fluviali, le conoidi e i delta lacustri costituiscono spesso le uniche aree piane in territori montuosi o collinari ed è solo verso queste, di conseguenza, che risulta possibile orientare (almeno dal punto di vista morfologico) la scelta della località, soprattutto perché non di rado anche le condizioni geologiche sono favorevoli; tuttavia un accurato studio del regime dei corsi d’acqua vicini e delle acque sotterranee deve garantire che l’area prescelta non sia soggetta ad inondazioni.

La prossimità dei corsi d’acqua favorisce, inoltre, la formazione delle nebbie che ostacolano sensibilmente il traffico aereo; per il medesimo motivo devono essere evitate, per quanto possibile, le aree molto ricche di canali d’irrigazione.

Un’ulteriore condizione decisiva nell’ubicazione degli aeroscali è rappresentata dalla loro accessibilità agli aeromobili, in relazione agli ostacoli naturali circostanti, rappresentati soprattutto dai rilievi montuosi o collinari; i fondovalle, ad es., risultano, in genere, scarsamente accessibili, in quanto vengono offerte solo due direzioni d’atterraggio e di decollo, ossia quelle coincidenti con l’asse della valle. L’aeroporto, quindi, si rivela agibile solo quando il vento spira in tali direzioni o solo ad apparati dotati di particolari caratteristiche che consentono l’atterraggio e il decollo in breve spazio.

Per contro, nelle regioni montuose, soltanto i fondovalle presentano aree piane sufficientemente vaste da consentire la creazione di aeroscali, motivo per cui, sotto tale ipotesi, occorre studiare attentamente il regime dei venti in rapporto all’orientazione della valle; qualora, infatti, la risultante delle frequenze dei venti regnanti (da rilievo pluriennale) rivelasse direzioni corrispondenti a tali orientazioni oltre che compatibili con le componenti ad esse normali dell’intensità dei venti dominanti, tali condizioni possono considerarsi favorevoli in quanto solo per pochi giorni dell’anno l’accesso al campo risulterebbe proibito o difficile. A questo si aggiungono i fattori aeraulici locali, quali le brezze di monte e di valle, i venti irregolari, i vortici d’aria provocati dal diverso riscaldamento dei versanti e, per un medesimo versante, alle diverse altezze ed alle varie ore del giorno in relazione a effetti molteplici che rendono sempre difficile una determinazione preventiva delle condizioni locali non solo della zona a livello del suolo ma di tutta la massa d’aria che riempie la cavità valliva e in grado di rendere aleatorie le condizioni d’accessibilità ad uno scalo posto in tale posizione.

2.2 – Caratteristiche geologiche dei terreni per aerostazioni

Come accennato in precedenza i terreni per aerostazioni devono presentare superfici piane, o quasi, o almeno riducibili a tale configurazione senza eccessive difficoltà. A questa esigenza rispondono, di norma, i seguenti tipi di terreni:

–       depositi alluvionali di diverso genere (inclusi coni di deiezione e delta fluviali);

–       depositi lacustri;

–       depositi marini recenti;

–       rocce diverse costituenti tavolati rocciosi, superfici d’abrasione marina etc.

I terreni dei primi 3 gruppi sono per lo più composti da rocce incoerenti e soprattutto da ghiaia, sabbia e limo. I terreni del 4° sono per lo più formati da rocce coerenti e lapidee.

Dal punto di vista geotecnico ai terreni aeroportuali sono richieste soprattutto buone caratteristiche di resistenza alla compressione e al taglio; appare tuttavia evidente che, qualora il terreno naturale non le possegga in misura soddisfacente, sia possibile provvedere alla relativa correzione con vari procedimenti: dalla semplice costipazione alla correzione con miscele, o additivi diversi, sino a giungere alla completa sostituzione con terreni artificiali per le strisce di volo, le vie di circolazione e i piazzali.

Nei casi in cui il terreno per l’aeroporto debba essere ottenuto spianando, almeno parzialmente, aree ondulate o leggermente accidentate, si cerca di utilizzare il materiale di scavo delle porzioni in rilievo per riempire le aree depresse e creare così, per compensi, una superficie pianeggiante. Appare comunque evidente che i coefficienti di compressibilità delle aree scavate e delle aree colmate potrebbero risultare assai diversi se non si provvedesse ad una correzione dei loro coefficienti di compressibilità in modo da uniformarli per lo meno nelle aree su cui devono essere realizzate le piste, le vie di circolazione ed i piazzali.

In questi casi è necessaria la conoscenza preventiva del suolo e del sottosuolo allo scopo di disporre degli elementi necessari per la progettazione dei lavori sia dal punto di vista puramente tecnico, sia da quello economico.

Un’ulteriore condizione d’ordine geologico per un buon terreno aeroportuale è la presenza di un suolo e di un sottosuolo permeabili con un livello freatico sufficientemente profondo (almeno 20). Tale condizione ottimale si verifica, di regola, nei climi aridi; nei climi temperati e umidi la presenza della superficie freatica a piccola profondità (< 1 m in media dal piano di campagna) provoca due ordini d’inconvenienti. Da un lato può avvenire che durante le precipitazioni eccezionali il livello freatico s’innalzi sino ad approssimarsi o raggiungere la superficie del suolo compromettendo la stabilità delle piste e dei piazzali e provocando l’allagamento del campo; dall’altro favorisce la formazione e lo stazionamento delle nebbie. Per contro, il prosciugamento del campo dopo gli acquazzoni si compie più agevolmente quando tale superficie è più profonda in quanto lo strato superficiale del terreno, a parità di permeabilità, permane più secco e quindi assorbe più rapidamente l’acqua.

Nei climi relativamente freddi la presenza d’acqua a piccola profondità favorisce anche il gelo del terreno e la permanenza della neve, effetti che costituiscono elementi sfavorevoli per l’agibilità di un aeroporto.

Qualora il suolo nel quale deve essere costruito l’aeroporto risultasse impermeabile, occorre dotarlo di opportune opere di drenaggio in grado di facilitare l’eliminazione dei fluidi dalla superficie; a tale scopo può servire una lieve inclinazione naturale del campo in grado di consentire il deflusso delle acque senza pregiudicare le condizioni di agibilità dell’impianto, oppure, come si vedrà in seguito, in condizioni meno favorevoli. la realizzazione di una rete scolmatrice atta ad accogliere le acque convogliate e ad allontanarle.

Qualora si trattasse d’impermeabilità prodotta da depositi eluviali argillosi poco potenti, si rivela opportuno studiare la convenienza, o la possibilità, di asportarli o di smaltire le acque nel sottosuolo a condizione che questo risulti permeabile e che la superficie freatica si manifesti sufficientemente profonda.

In conclusione i terreni di natura ghiaiosa e sabbiosa sono quelli che meglio si prestano per la costruzione di aeroporti, soprattutto nei climi temperati nei quali, fra l’altro, la presenza di una certa umidità naturale del terreno ne aumenta la consistenza.

Nei climi aridi possono utilizzarsi anche i suoli limoso-argillosi (sufficientemente sodi quando asciutti) mentre quelli sabbioso-limosi incoerenti danno facilmente origine alla formazione di nugoli di polvere nelle giornate ventose limitando la visibilità e causando diversi inconvenienti. I terreni incoerenti possono essere consolidati in superficie con lo sviluppo della vegetazione erbacea che, nei climi umidi, è molto facile far allignare mentre in quelli aridi richiede notevoli opere d’irrigazione. Qualora il suolo naturale non presentasse le caratteristiche fisico-petrografiche necessario o desiderate, è possibile, come accennato, provvedere alla sua correzione o alla sua sostituzione, Non sempre, tuttavia, è necessario modificare tutto il terreno; più spesso ci si limita a trasformare il suolo delle strisce di volo, delle vie di circolazione e dei piazzali. Talvolta si rivela sufficiente la semplice soprastruttura, talora, viceversa, risulta necessario modificare anche il sottofondo.

2.3 – Manovre di atterraggio e decollo

Prima di impostare il calcolo degli spazi e dei carichi di sicurezza occorrenti alle operazioni di atterraggio o di decollo degli aeromobili è opportuno esaminare, sia pure in sintesi, come vengono effettuate tali manovre.

2.3.1 – Atterraggio

Avviene generalmente in 2 tempi: discesa libera e discesa d’avvicinamento allo scalo.

La discesa libera ha lo scopo di far perdere quota all’apparecchio gradatamente col minimo consumo di carburante e senza disturbo per i passeggeri. La velocità viene mantenuta costante, sicché lo spazio percorso può risultare notevole (anche di centinaia di chilometri) in relazione alla quota raggiunta. Questa fase può, invece, mancare se l’aereo vola a bassa quota. La discesa di avvicinamento allo scalo si svolge in 3 fasi:

–       1a fase: rallentamento, con la riduzione del 30% circa della potenza di propulsione ed inizio della manovra degli ipersostentatori;

–       2a fase: rullaggio, con la riduzione al minimo della potenza di propulsione e l’azionamento al massimo degli ipersostentatori;

–       3a fase: arrotondamento (o avvicinamento al suolo) con graduale riduzione dell’angolo formato tra il piano di volo e quello d’atterraggio. Tale fase viene eseguita interamente sulla pista mantenendo il velivolo leggermente cabrato, ossia con la parte anteriore leggermente rialzata.

Le norme prescrivono per la discesa d’avvicinamento una pendenza entro 2.5÷2%, a seconda che si tratti di volo a vista o di volo strumentale. Chiaramente l’aeromobile non può toccare terra all’inizio della pista, tant’è vero che, come mostrato, la fase d’arrotondamento avviene sulla pista. In genere si presume che esso si trovi ad una quota di circa 15 m sulla testata motivo per cui, tenuto conto delle pendenze previste dalle norme, le lunghezze di pista inutilizzata risulterebbero comprese entro 600÷750 m; in effetti, tuttavia, gli aeromobili di linea rullano con una pendenza ≥ 5 % sicché tale lunghezza inutilizzata si riduce considerevolmente.

Per contro la traiettoria percorsa dall’aereo non può mantenersi rettilinea poiché all’impatto potrebbero manifestarsi delle sollecitazioni considerevoli; di conseguenza l’ultimo tratto dell’arrotondamento viene eseguito lungo una traiettoria curvilinea nel piano verticale, effetto che produce un’ulteriore perdita di lunghezza di pista utile.

2.3.2 – Decollo

Anche in fase di decollo si presume che l’aeromobile all’uscita dalla pista abbia già raggiunto una determinata quota che, come per l’atterraggio, viene di norma fissata in 15 m al fondo della pista. All’involo l’angolo di salita risulta molto piccolo in relazione alla bassa velocità che può realizzarsi al decollo e, tenuto conto di ciò, si suppone una pendenza iniziale ~3%; quindi anche in fase di decollo un tratto di pista permane inutilizzato (~500 m).

Le norme internazionali stabiliscono che la distanza richiesta per raggiungere i 15 m al di sopra dell’area di decollo, con tutti i motori in funzione, non debba risultare > 70% della lunghezza totale della pista.

2.4 – Calcolo degli spazi di decollo e d’atterraggio e della lunghezza delle piste di volo

2.4.1 – Spazio per il decollo

Al decollo le forze in azione sono lo sforzo di trazione Tv, prodotto dal motore, e la resistenza dell’aeromobile, che risulta somma della resistenza aerodinamica CrζSv2 e della resistenza di rotolamento dei pneumatici del carrello sul terreno f(Q – CpζSv2), essendo Q il peso totale, f il coefficiente di attrito, S la superficie alare, ζ la densità dell’aria, Cr e Cp i coefficienti di resistenza e di portanza e v la velocità.

Vari fattori, tuttavia, influiscono sullo spazio di decollo e Io possono fare variare: quota del campo, vento, azione degli ipersostentatori, effetto suolo, etc. In questa sede se ne esaminano alcuni:

2.4.1.1 – Quota base

Dato che nella espressione della velocità di decollo vd = √Q/CpmaxζS interviene la densità dell’aria, si deduce che lo spazio di decollo vari con la densità dell’aria e, quindi, con la quota del campo.

Se con vd0 si denota la velocità d’involo sul campo a quota 0, risulta evidente che quella in un campo a quota h è pari a:

vdh = vd0/δ

dove δ = ζ/ζ0 è la densità relativa dell’aria.

Anche la temperatura dell’aria influisce sulla densità e quindi sulla lunghezza di decollo. Le norme consigliano di aumentare la lunghezza di pista dell’1% per ogni °C in più oltre i 15 °C e del 7% per ogni 300 m di aumento di quota rispetto al livello del mare.

2.4.1.2 – Ventosità

Onde ridurre la velocità minima assoluta di sostentamento, le manovre per il decollo e per l’atterraggio vengono eseguite contro vento e mai con forte vento trasversale; si ritiene che la velocità critica del vento, ossia quella massima a terra in direzione normale a quella dell’aeromobile per cui sia ancora possibile il movimento con sicurezza, non debba risultare > 36 km/h.

Per considerare l’effetto del vento sullo spazio di decollo ci si serve di curve sperimentali dalle quali si deduce lo spazio che bisogna aggiungere (vento in coda) o detrarre (se contrario) a quello precedentemente calcolato.

2.4.1.3 – Effetto-suolo

Consiste in un aumento di Cp sperimentale per il fatto che l’ala si muove in vicinanza del suolo. Approssimativamente si può ritenere che l’effetto-suolo aumenti del 5% il valore di Cp.

2.4.2 – Spazio per l’atterraggio

Come visto, l’aereo durante la discesa diminuisce sempre più di velocità fino a giungere a contatto col suolo tangenzialmente alla minima velocità di sostentamento. Tale metodo, in particolare con l’adozione degli ipersostentatori, dei freni aerodinamici e delle alule di stabilità laterale, è quello più diffuso. Per procedere al calcolo dello spazio d’atterraggio si parte dall’equazione iniziale in cui si pone T = 0:

Dividendo per Q(= m g = CpζSva2 dove va è la minima velocità di sostentamento) e ponendo dt = ds/v si perviene all’equazione  differenziale:

che, integrata fra v = 0 e va (posto Cr/Cp = μ), fornisce l’espressione di Glauert:

Dalla lettura della relazione si nota che lo spazio d’atterraggio diminuisce con l’aumentare di f e di μ. In pratica f viene aumentato dotando gli aerei di freni alle ruote (f = 0.5); viceversa μ viene incrementato introducendo i freni aerodinamici. Il valore dello spazio di decollo o d’atterraggio, calcolato coi metodi descritti, rappresenta il minimo spazio consentito ad un aereo per il decollo o per l’atterraggio. Per stabilire la lunghezza di una pista, dato che questa deve servire sia all’atterraggio che all’involo, occorre tenere presenti alcuni criteri di sicurezza in entrambe le fasi.

2.4.3 – Lunghezza dì una pista di volo

All’atterraggio, talora, può verificarsi che i freni risultino poco efficienti o che gli ipersostentatori non funzionino adeguatamente oppure che, per un motivo qualunque, la velocità risulti maggiore di quella standard. Di conseguenza può accadere che all’involo, il pilota, accortosi di inefficienze nelle apparecchiature, rinunci a partire a corsa già avviata; se l’inefficienza non è tale da compromettere il volo, il pilota può decidere di continuare la manovra d’involo, ma anche in questo caso gli è necessaria una lunghezza di pista maggiore di quella occorrente in condizioni normali.

Di norma la lunghezza da assegnare a una pista di volo di un aeroscalo si determina facendo riferimento al modello d’aeromobile che, tra quelli abilitati, necessita del maggiore spazio di decollo o d’atterraggio (questo, in genere, minore del precedente).

L’aeromobile, tuttavia, deve presumersi in condizioni critiche, ossia a pieno carico, considerato quale somma del peso a vuoto, del massimo carico utile e del peso di carburante sufficiente per la tappa più lunga.

Le norme prescrivono venga presa in considerazione anche l’ipotesi di avaria ai motori, per cui il pilota debba rinunciare alla prosecuzione del decollo e sia costretto ad arrestare sulla pista il velivolo (purché questo non abbia superato una determinata velocità detta di decisione) e per tener conto di tale circostanza si è soliti maggiorando del 15 % lo spazio già calcolato per un decollo regolare (sd). Di conseguenza occorre aggiungere a tale spazio la lunghezza di pista (ls), non utilizzata, affinché l’aeromobile, al termine della medesima, possa aver raggiunto la quota minima di 15 m rispetto a quello della testata.

La lunghezza l della pista di volo risulta allora dall’espressione

L = 1.15 sd + ls

Per progettare aeroscali idonei ai moderni aeromobile, le piste di volo devono raggiungere quindi lunghezze ~4500 m, 60÷65 m di larghezza e pendenze massime comprese entro 1÷1.5%.

2.5 – Orientamento delle piste in rapporto alla ventosità

Per stabilire il migliore orientamento da conferire a una pista in rapporto alle condizioni dei venti è necessario ricavare i dati anemometrici riportati su opportuni grafici polari. Uno di questi, detto diagramma polare delle frequenze, orientato secondo i punti cardinali, mostra la direzione e la % di tempo durante la quale, in quella direzione, spira un vento con velocità > 6 km/h; per tale ragione la somma delle % di tale diagramma, in genere, non arriva al 100%; la differenza da questo valore rappresenta, infatti, la % di tempo durante un intero anno in cui il vento soffia a velocità < 6 km/h. La Fig. 2.1 mostra tale diagramma in base ai seguenti dati:

direzione da N                 11% del tempo

direzione da NE              19% del tempo

direzione da  E                13% del tempo

direzione da SE                7% del tempo

direzione da S                 11% del tempo

direzione da SO                5% del tempo

direzione da O                10% del tempo

direzione da NE              15% del tempo

Non si rivela sufficiente, infatti, orientare la pista in funzione della sola frequenza ma risulta necessario anche conoscere l’intensità poiché le operazioni di decollo e d’atterraggio sono normalmente possibili finché spira un vento avente una componente normale alla direzione longitudinale della pista ≤ 36 km/h; tale valore della componente massima dipende, oltre che dal peso dell’aeromobile, dalla velocità minima di sostentamento e dal tipo di carrello.

Fig. 2.1 – Diagramma delle frequenze dei venti.

Lo studio, quindi, deve essere completato con un diagramma polare che tenga conto contemporaneamente dell’intensità e della frequenza dei venti, così come mostrato in Fig. 2.2.

Fig. 2.2 – Diagramma delle intensità e delle frequenze dei venti per l’orientamento di una pista da volo.

Il campo circolare è diviso in 16 settori (22° 30′), tagliati da circonferenze concentriche, i cui raggi, in data scala, rappresentano le intensità dei venti, e precisamente 6÷22.5÷46.5÷70 km/h; in tal modo, escludendo la parte con intensità < 6 km/h, i 16 settori sono divisi in 48 campi.

Entro ognuno di questi campi si indica con un numero la frequenza (in %) dei venti che, lungo 1 anno di osservazioni, hanno spirato, nella direzione del settore, con intensità compresa fra quelle delle circonferenze che lo delimitano. Il grafico in Fig. 2.2 é stato costruito in base ai dati della Tab. 2.1.

Tab. 2.1 –Dati anemometrici per l’orientamento di una pista da volo.

Una volta tabulati i dati si procede tracciando su lucido 3 rette la cui distanza, nella scala prescelta per le intensità, sia di 22.5 km/h o di 36 km/h; si sovrappone tale lucido al grafico in modo che la retta centrale si faccia passare per il centro ruotando infine il lucido attorno a questo finché le 2 rette estreme non racchiudano dei settori la cui somma delle relative % di frequenza sia massima. Nell’esempio in Fig. 2.2 la direzione prescelta risulta quella orientata secondo 150°÷330°; in tale caso risulta possibile un’utilizzazione della pista per ~96%.

2.6 – Numero e disposizione delle piste di volo

La massima capacità ammissibile per una singola pista si configura al valore di 60 movimenti l’ora (fra decolli e atterraggi in condizioni normali) ossia di 1 aeromobile al minuto; tale valore è, in genere considerato ideale, motivo per cui configura già un limite non facilmente superabile quello rappresentato da 40÷50 movimenti all’ora. A titolo di esempio è utile rammentare che le punte di traffico orario, anche nei maggiori aeroscali USA, difficilmente risultano più elevate di detti limiti, praticamente invalicabili. Anche le condizioni atmosferiche avverse influiscono nel limitare dette capacità; nelle condizioni di volo strumentale, infatti, i movimenti si riducono alla metà o addirittura a un terzo di quelli possibili in buone condizioni di visibilità.

Fig. 2.3 – Disposizione di un aeroporto a 1 pista.

Fig. 2.4 – Disposizione a 2 piste con campi sfasati.

La disposizione più semplice, in ogni caso, è costituita da una sola pista (Fig. 2.3). Sotto tali presupposti è opportuno sistemare il piazzale di sosta e gli edifici nella zona centrale.

Quando il traffico previsto è abbastanza elevato si possono prevedere 2 piste affiancate o sfasate (Fig. 2.4). Negli esempi riportati sono indicate anche le aree di sosta, quelle che saranno occupate dalle costruzioni (hangars e aerostazione), le piste di rullaggio per facilitare le operazioni di partenza e di arrivo degli aerei.

Fig. 2.5 – Impianto con 2 piste a 60°.

Se Io consigliano le condizioni dei venti, le 2 piste possono progettarsi con direzioni diverse; nella Fig. 2.5 è indicata la soluzione con 2 piste a 60°, completata in Fig. 2.6 con le piste di rullaggio e i piazzali mentre la soluzione con 3 piste è illustrata dalla Fig. 2.7.

Fig. 2.6 – Aeroporto con 2 piste a 60° completo di piste di rullaggio, piazzale e servizi.

Fig. 2.7 – Disposizione con 3 piste in funzione della direzione del vento più favorevole.

La disposizione che si adotta in ogni nuovo aeroscalo, benché fruisca dei semplici schemi illustrati, può comunque subire quelle variazioni e modifiche che la topografia dei luoghi, le caratteristiche dei terreni e la situazione della rete viaria consigliano di caso in caso.

Alle piste di volo sono affiancate quelle di rullaggio, aventi la funzione di rendere più facili le manovre agli aerei per raggiungere la zona della pista da cui iniziare il decollo o per consentire di raggiungere, allontanandosi dalla linea di volo, i piazzali di parcheggio.

Le piste dì volo sono completate alle estremità con le testate mediante piccoli spiazzi per la manovra e l’attesa degli aerei al decollo. Nella disposizione delle piste occorre anche tener conto degli spazi circostanti che è necessario siano liberi da ostacoli.

2.7 – Pendenza delle piste aeroportuali

I criteri che guidano l’operatore nella scelta della pendenza delle piste sono simili a quelli utilizzati per le strade ordinarie sebbene la pendenza longitudinale delle piste debba risultare sempre molto modesta (~1.5%); inoltre, qualora le condizioni del terreno lo permettano, è preferibile che la salita si configuri nel verso opposto alla direzione del vento predominante.

Il problema, tuttavia, risulta più complesso di quello visto per le strade a motivo del fatto che deve essere risolto non solo nel piano verticale ma anche nello spazio, per la maggiore larghezza delle piste rispetto alle sedi stradali e, soprattutto, perché ogni aeroscalo interessa delle estese zone in cui le piste s’intersecano, e nelle quali vengono sistemate le strutture accessorie.

Di conseguenza allo studio della sistemazione si può procedere singolarmente per ogni pista, eseguendo i consueti profili longitudinali sull’asse ed avendo l’avvertenza di tenere presenti, per le piste esaminate successivamente, le limitazioni imposte dalle scelte precedenti. Il sistema più rapido e che meglio permette di avere la visione complessiva del problema è quello dei profili isometrici.

Tale metodo consiste nel ricoprire tutta la zona che interessa con un reticolato a maglia quadrata di 20÷30 m di lato rilevando le quote di ciascuno spigolo.Intendendo riferire tale reticolato a un piano posto al disotto di quello dì campagna, si riportano dagli spigoli del reticolato delle rette inclinate a 45° segnandovi a data scala le quote di ciascuno di essi, già rilevate. Si ottiene in tal modo una rappresentazione assonometrica del terreno con la quale è possibile eseguire lo studio tridimensionale di cui si tratta.

Segnando su tale rappresentazione gli assi delle piste, si ottengono facilmente i relativi profili longitudinali. La scelta delle pendenze è facilitata dal fatto che molto semplicemente si può valutare la bontà di ogni soluzione prospettata su tutto il complesso degli impianti.

Nella Fig. 2.8 è mostrato un esempio di studio delle pendenze in un aeroporto nel quale devono essere costruite 3 piste intersecantisi tra di loro con un angolo di 60°, di cui la prima (AB) si dispone secondo la direzione parallela alle linee orizzontali della maglia e le altre simmetricamente rispetto al suo asse geometrico.

E’ altresì da notare come la direzione della pista (CD) formi con la direzione delle proiettanti della assonometria un angolo molto piccolo (in taluni casi, infatti, le due direzioni possono venire a coincidere), al punto che la rappresentazione potrebbe risultare poco chiara; si ovvia all’inconveniente, tuttavia, riportando il profilo di detta pista nella direzione a 90° rispetto a quella precedentemente impiegata.

E’ da notare, inoltre, come la quota del piano di riferimento debba essere opportunamente assunta più bassa della minima quota del terreno, in modo che il complesso delle superfici in cui il terreno viene schematizzato risulti positivo, e non troppo bassa per evitare che la assonometria di una maglia si sovrapponga alle maglie adiacenti.

Le livellette di progetto vengono stabilite a tentativi, cercando di ottenere una compensazione tra gli scavi ed i rinterri, e seguendo l’inclinazione naturale del terreno in modo da favorire l’esecuzione dei drenaggi delle acque superficiali.

Fig. 2.8 – Studio altimetrico per 3 piste incrociate a 60° utilizzando i profili isometrici.

intendendo eseguire le 3 piste in figura con pendenza costante per tutta la loro lunghezza, la livelletta della pista AB determina la quota dei punti P ed Rche essa ha in comune rispettivamente con i tratti CD ed EF; di seguito, una volta fissata anche la livelletta della CDquella della EF risulta determinata univocamente dalla quota del punto Q.

2.8 – Piazzali di stazionamento

L’aeroscalo, oltre alle piste (di volo e rullaggio) ed ai raccordi (bretelle) deve possedere uno o più piazzali di stazionamento (ove effettuare le operazioni di sbarco e imbarco) studiati in funzione delle effettive esigenze operative, ossia dimensioni degli aeromobili, intensità di traffico, periodi di sosta etc.

Fig. 2.9 – Spazio per la manovra a terra di un aereo.

L’elemento di riferimento per tale studio, di conseguenza, si rivela lo spazio d’occupazione per la manovra a terra di un aeromobile ed il raggio minimo di sterzatura (Fig. 2.9); tale raggio, per gli usuali aeromobili di linea, risulta pari a ~ 40 m.

Le aree di stazionamento sono indicate a terra mediante circonferenze in colore bianco o giallo aventi come raggio quello necessario alla manovra.

2.9 – Drenaggi di aree aeroportuali

Il progetto completo delle opere di drenaggio di un aeroscalo viene effettuato, come ribadito, partendo da dati ricavati dopo precisi e mirati accertamenti. I dati pluviometrici, soprattutto, devono essere completati da indicazioni su clima, escursioni termiche, profondità e durata di penetrazione del gelo nel terreno.

Le indagini sulla natura del terreno, altresì, devono consistere in ricerche geotecniche dell’ammasso di sedime e degli strati che lo costituiscono, estese in profondità in rilievi stratigrafici eseguiti per mezzo di sondaggi, in special modo nelle zone pavimentabili e in quelle di compluvio e di displuvio. In particolare detti sondaggi devono avere lo scopo di indicare la maggiore o minore permeabilità dei terreni attraversati, la profondità della falda freatica, la sua estensione e la sua provenienza. Per la determinazione della quantità d’acqua che dovrà essere smaltita occorre eseguire anche un rilevamento topografico in modo da individuare:

–       le aree esterne che, per la loro naturale pendenza, convogliano le proprie acque superficiali verso il terreno di sedime;

–       le zone depresse entro l’area aeroportuale;

–       la posizione dei canali o dei corsi d’acqua che interessano detta area.

Lo studio viene eseguito, nelle sue linee generali, a mezzo di una planimetria a scala 1:25.000 o, meglio, su un ingrandimento a scala 1:10.000 nel quale sia compresa tutta la zona circostante l’aerostazione; le indagini riguardanti direttamente la zona che dovrà essere occupata dalle piste, vengono compiute su rilievi di dettaglio a scala 1:1000 od 1:2000 (mappe) nei quali sono indicati i punti quotati e le curve di livello.

Operativamente lo studio per la raccolta delle acque ricadenti sulle piste deve essere eseguito dopo che sia stato redatto il piano regolatore dell’aeroscalo, stabilita la posizione delle piste e dei piazzali, nonché il relativo andamento dei profili longitudinali e trasversali.

Da un punto di vista generale, le opere di scolo per le aree aeroportuali vengono distinte in due tipi fondamentali a seconda che le piste siano a tappeto erboso, oppure pavimentate.

Nel primo caso (aeroscali di minore importanza) gli interventi si riducono a drenaggi eseguiti analogamente a quelli per i terreni coltivati rendendosi sufficiente una rete di cunicoli sotterranei che raccolgono le acque provenienti da drenaggi profondi qualche metro. Questa rete può essere a spina di pesce, con cunicoli paralleli oppure del tipo misto (Fig. 2.10).

Fig. 2.10 – Rete di drenaggi per aree aeroportuali.

Nel secondo caso (piste pavimentate) le opere di scolmo sono più complesse poiché devono essere costituite da collettori di raccolta delle acque che cadono sulle aree pavimentate ed in quelle adiacenti.

2.10 – Le opere per lo smaltimento delle acque superficiali negli aeroporti

Le opere di smaltimento hanno lo scopo di raccogliere ed allontanare dalla zona delle piste le acque meteoriche affinché queste, penetrando nel terreno, non producano una sensibile e dannosa riduzione della capacità portante dei sottofondi su cui poggiano le piste stesse, con conseguente pericolo per il normale svolgimento del traffico aereo. Le stesse raccolgono sia le acque che cadono sulle piste (che le opportune pendenze trasversali convogliano lateralmente in fognoli o in fossi di raccolta) sia, parzialmente, quelle che cadono nella vicina zona a prato. Queste ultime vengono eliminate direttamente attraverso gli strati permeabili del terreno oppure per mezzo di drenaggi non molto profondi.

Operativamente è necessario adottare anche delle protezioni marginali che evitino lo scolo sulle piste delle acque provenienti dalle zone adiacenti; le opere d’intercettazione marginale risultano ottenute, sovente, sagomando opportunamente il terreno adottando, entro la striscia di sicurezza stabilita dalle norme, le opportune pendenze (sempre < 2.5%) (Fig. 2.11).

Fig. 2.11 – Opere d’intercettazione marginale delle piste aeroportuali.

Per lo smaltimento laterale alle piste o di grandi piazzali si usano spesso fognoli con griglie superiori in ferro, in ghisa o in cemento, continue o intermittenti (Fig. 2.12).

Fig. 2.12 – Fognoli: con griglia (sx) e con fenditura continua (dx).

Si utilizza anche una soluzione più semplice costituita da un’unica fenditura continua longitudinale, lungo una linea d’impluvio, avente larghezza di qualche centimetro, che convoglia direttamente l’acqua nel sottostante fognolo (Fig. 2.12; tali opere sono completate da pozzetti d’ispezione almeno ogni 50÷100 m, che servono sia alla pulizia del fognolo ed alla decantazione del fondo a terriccio, sia all’innesto coi rami di scarico (Fig. 2.13).

I fognoli, se a sezione costante, si collegano, in corrispondenza del pozzetto, tramite un collettore longitudinale anch’esso interrato, a sezione variabile, oppure a un fosso di guardia che si trovi fuori delle strisce di sicurezza. Se manca il collettore, che corre parallelamente, il fognolo medesimo ne assume la funzione.

Fig. 2.13 – Pozzetto d’ispezione.

La prima soluzione si presta assai bene ad usare il collettore anche per il convogliamento delle acque provenienti da fossi di raccolta situati nella striscia di sicurezza.

Se le acque delle zone a prato non possono essere smaltite attraverso il terreno, in quanto questo è poco permeabile, si rivela necessario provvedere mediante una rete di fossi di guardia o, meglio, mediante una rete di drenaggi, per i quali é sufficiente una profondità di 1÷1.5 m. In questo caso il drenaggio svolge la medesima funzione di un vero e proprio fosso di raccolta delle acque. Dai fossi o dai drenaggi  le acque, a mezzo di pozzetti, raggiungono i canali collettori sotterranei per essere completamente allontanate. Qualora la coltre impermeabile superficiale sia di limitato spessore e al disotto di essa si trovi uno spesso strato di terreno sciolto, molto permeabile (ad es. ghiaie sabbiose) il problema dello smaltimento può essere risolto eseguendo delle buche fino allo strato permeabile e sostituendo il terreno asportato con altro sabbioso. Tale strato di materiale sabbioso, in ultima analisi, viene a funzionare da dreno; in tal caso, tuttavia, vie  a mancare alla base del dreno il fognolo di raccolta.

In sede di progetto occorre tener conto della sistemazione altimetrica delle piste, dei piazzali e delle aree a tappeto erboso, in modo da assicurare il rapido deflusso delle acque verso i fossi di guardia e i dreni; si configura inoltre fattore decisivo la scelta opportuna delle quote per lo sviluppo della rete delle fognature in modo che queste, per mantenere la necessaria pendenza, non siano poste a notevole profondità.

2.11 – Caratteristiche delle soprastrutture aeroportuali

In una piattaforma aeroportuale la costruzione delle pavimentazioni delle piste e dei piazzali assume una notevole importanza per via delle grandi superfici interessate e delle particolari caratteristiche di resistenza e durabilità richieste dalle esigenze del traffico aereo.

Relativamente all’estensione delle superfici da pavimentare è sufficiente ricordare che una pista di volo per un aeroporto di classe A (> 4.000 m di lunghezza e 60 m di larghezza) equivale, dal punto di vista dell’area rivestita, a circa 35 km di strada ordinaria con carreggiata della larghezza di 7 m e che un’area di stazionamento (circa 500.000 m2) rappresenterebbe un’analoga strada di 70 km di lunghezza (un esempio viene fornito dall’aeroporto di Roissy (F): una pista di volo occupa una superficie di 200.000 m2, le relative vie di circolazione 400.000 m2, l’area di stazionamento 520.000 m2 e l’area di manutenzione e carico 370.000 m2, per un totale di 1.490.000 mpari circa a 210 km di una carreggiata stradale di 7 m di larghezza).

È da considerare ancora che le caratteristiche del traffico aereo sono diverse da quelle del traffico stradale per entità dei carichi trasmessi e condizioni di esercizio, per cui la resistenza e la qualità di una soprastruttura aeroportuale devono risultare nettamente differenti e certamente superiori a quelle richieste ad una strada ordinaria.

Le citate circostanze fanno sì che il costo delle soprastrutture aeroportuali e della loro manutenzione risulti di entità non trascurabile, rispetto al complessivo, per la realizzazione di una base aerea, e tale motivo ha sollecitato gli operatori ad approfondire le metodologie per il dimensionamento delle relative soprastrutture e le tecnologie per la loro esecuzione.

Dal punto di vista funzionale le pavimentazioni di un aeroporto non differiscono da quelle di una rete stradale; il loro compito infatti è quello di costituire una struttura idonea ad una circolazione rapida e sicura, capace di resistere alle sollecitazioni tangenziali nelle fasi di accelerazione e di frenatura degli aeromobili, assicurando nel contempo il trasferimento dei carichi al piano di posa compatibilmente con la portanza di quest’ultimo.

S’è accennato alla circostanza che le caratteristiche delle sollecitazioni impresse dagli aeromobili alle pavimentazioni aeroportuali sono notevolmente diverse da quelle determinate dai veicoli su strada ordinaria; al fine di meglio precisare quanto espresso è opportuno indicare i principali fattori che contribuiscono a creare tale difformità, tra i quali

aentità del carico: il carico massimo che, per regolamento, può transitare su sovrastrutture stradali corrisponde a quello di un asse da 12 t, motivo per cui ciascuna ruota grava sulla superficie d’impronta con un carico massimo di 6 t. Viceversa, nel caso di pavimentazioni aeroportuali, i carichi su ruota sono di un ordine di grandezza ben maggiore. Ad es., per un DC-10, il carico massimo su ruota è pari a ~24 t, cioè 4 volte superiore a quello massimo imponibile ad strada ordinaria;

bgeometria del carico: riguarda la disposizione ed il numero delle ruote in un carrello: l’insieme delle ruote di una gamba di forza, ai fini delle sollecitazioni indotte nella soprastruttura, si assimila ad una ruota singola sulla cui grava un carico (carico equivalente su ruota singola) maggiore di quello afferente a ciascuna ruota del carrello. (il DC-10, ad es., presenta un carico equivalente a ~38 t su una pavimentazione flessibile dello spessore totale di 80 cm).

Questo vale a dire che tale soprastruttura, per il transito del predetto aereo (con peso massimo), dev’essere in condizioni di resistere ad un carico di 38 t concentrato su una sola ruota mentre, come visto, su ciascuna ruota della gamba di forza si scarica effettivamente un peso di 24 t.

La posizione delle ruote nelle gambe di forza, infatti, risulta tale che le sollecitazioni indotte sulla pista da ciascuna ruota si sommano, in una certa misura, a quelle delle ruote adiacenti.

Per avere comunque un’idea della resistenza che deve essere raggiunta da una pavimentazione, è sufficiente fare riferimento la classificazione per un aeroporto di classe A: il carico massimo previsto per ruota singola isolata è di 45 t, ossia > 7 volte il carico massimo (su ruota) di un autoveicolo pesante.

cpressione di gonfiaggio: dalla pressione di gonfiaggio dei pneumatici dipende il carico specifico agente sull’area di contatto fra ruota e pavimentazione. Per gli autoveicoli pesanti che transitano su strada ordinaria il valore massimo della pressione di gonfiaggio è di 8 kg/cm2 mentre nel caso dei mezzi aerei si giunge a valori fino a 15 kg/cm2.

Facendo riferimento a quanto esposto si ravvisa come ad una soprastruttura aeroportuale si richiedano doti di resistenza assai maggiori di quelle delle normali pavimentazioni stradali. Tali esigenze vengono soddisfatte tramite un dimensionamento più accurato, una scelta attenta ma anche approfondita dei materiali oltre ad una perfetta messa in opera affinché ogni strato della pavimentazione possa collaborare il più efficacemente possibile alla resistenza dell’insieme.

Il dimensionamento delle soprastrutture aeroportuali si rivela così un problema complesso ed a renderlo meno agevole si aggiungono le particolari condizioni con cui si svolge il traffico nell’ambito della piattaforma aeroportuale. Alla variabilità dell’entità delle sollecitazioni cui viene sottoposta una pista, infatti, contribuisce soprattutto l’inomogeneità delle caratteristiche dei vari modelli d’aeromobile (diversità nel peso, nella disposizione delle ruote e nella pressione di gonfiaggio) oltre che, per un medesimo modello, la diversità del carico agente in relazione alle condizioni operative (carico di partenza e arrivo comunque diversi). Occorre rammentare, inoltre, che nella corsa per il decollo l’aeromobile, acquistando velocità, grava sulla pavimentazione con un peso sempreviva via minore a causa dell’aumento della portanza alare; e questo significa che la resistenza di una pista può non risultare uniforme lungo l’intero suo insieme.

Un ulteriore fattore determinante al fine del dimensionamento si rivela la differente canalizzazione del traffico e, per conseguenza, la ripartizione delle sollecitazioni nella sezione trasversale; iI traffico lungo una pista di volo, infatti, è distribuito su una larghezza di 60 m in maniera non uniforme, a differenza di quello sulle piste di rullaggio che si svolge, in pratica, similmente al traffico autoveicolare lungo una carreggiata . Tali problemi, di norma, trovano soluzione in un dimensionamento differenziato per zone critiche e zone non critiche attraverso l’individuazione del modello tipo sia d’aeromobile che di traffico aereo equivalente (col nome di zone critiche vengono chiamate quelle zone nelle quali gli aerei stazionano o si muovono come normali veicoli stradali, ossia piazzali, testate, vie di circolazione); la parte centrale della pista di volo è invece indicata come zona non critica per via del minor peso con cui l’aereo grava sulla pavimentazione.

Infine, dal punto di vista tecnico, le pavimentazioni aeroportuali impongono specifici problemi determinati dalle particolari condizioni in cui si svolge il movimento degli aeromobili sulle piste; (aggressività del kerosene e alta temperatura dei getti motori nel caso di sovrastrutture flessibili). Per le pavimentazioni aeroportuali, così come per quelle stradali, si adottano soprastrutture rigide e soprastrutture flessibili: i due tipi si differenziano in particolare per il loro diverso comportamento sotto l’azione dei carichi dove le pavimentazioni in calcestruzzo manifestano un’elevata rigidezza mentre le soprastrutture flessibili presentano una maggiore deformabilità in relazione ai carichi ed alla portanza del piano di posa. Entrambi i tipi devono poggiare su un idoneo sottofondo entro cui è opportuno raggiungere un indice minimo di portanza ricorrendo eventualmente a idonei provvedimenti come di seguito specificato

Quanto alle tipologie la sovrastruttura rigida è formata essenzialmente da una fondazione (in genere in misto cementato) e dalla soprastante piastra in calcestruzzo; quella flessibile consiste, viceversa, di diversi strati: la fondazione, la base e lo strato superficiale, a sua volta distinto in binder e manto. Lo strato di fondazione è formato da misto granulare stabilizzato oppure da terra stabilizzata con legante (cemento o bitume); lo strato di base, di solito, è realizzato in misto bitumato mentre lo strato superficiale è costituito dal binder, in conglomerato bituminoso a masse semichiuse, e dal manto, in conglomerato bituminoso a masse chiuse.

2.12 – Terreno di sottofondo

La resistenza di una soprastruttura, sia rigida che flessibile, risulta fondamentalmente condizionata dalla possibilità del terreno di sottofondo di esplicare le reazioni necessarie alla funzione di uniforme sostegno senza subire deformazioni o cedimenti che superino determinati limiti; le capacità di resistenza dì un sottofondo, inoltre, variabili da un punto a un altro della medesima zona, dipendono dalla profondità interessata dai carichi risultando mutevoli nel tempo per condizioni ambientali esterne e variazioni della umidità propria.

L’esigenza di utilizzare un piano di posa idoneo per la soprastruttura rappresenta un problema che nel campo delle costruzioni aeroportuali assume notevole rilievo sia per la vastità delle zone interessate dalla piattaforma che per l’ubicazione della medesima.

Poiché la scelta del sito viene condizionata da fattori riguardanti soprattutto la funzionalità della base dal punto di vista dell’inserimento nel territorio difficilmente, in tale fase della progettazione, è possibile tener conto delle caratteristiche geologiche, geomorfologiche e geotecniche della zona interessata motivo per la cui scelta dell’area idonea viene indirizzata, da necessità operative, verso ampie zone pianeggianti; di conseguenza l’ammasso costituente il sottofondo normalmente è formato da depositi recenti di varia natura per cui il più delle volte si rendono necessarie opere di bonifica e di sistemazione di notevole entità al fine di garantire l’inalterabilità nel tempo della portanza del piano di posa.

Il principale ostacolo al mantenimento di un’idonea portanza del sottofondo è individuabile nella presenza dell’acqua nell’ammasso; infatti, nei terreni a matrice limo-argillosa, le variazioni di umidità sono accompagnate da fenomeni di ritiro e rigonfiamento oppure da cedimenti più o meno significativi che, in assenza di provvedimenti limitanti l’entità dei medesimi, risultano la causa principale di dissesti delle soprastrutture.

L’insieme di questi fattori impone l’accertamento della stabilità del piano di posa della soprastruttura con uno studio completo delle condizioni dell’ammasso servendosi di sondaggi e di ricerche geotecniche e in situazioni particolari, nelle quali il sottofondo risulta costituito da strati molto compressibili, occorre scegliere la soluzione ottimale ponendo in atto provvedimenti migliorativi che, come visto, possono talora rivelarsi decisamente onerosi. In talune circostanze, infatti, può rivelarsi sufficiente l’asportazione dello strato non idoneo (ad es. torboso o fortemente cedevole) sostituendolo con materiale di apporto granulare sempre che si tratti di spessori non eccessivi (qualche metro) oppure, laddove possibile, trattando lo strato con calce idrata, specialmente se in presenza di terreni argillosi ad elevato indice di plasticità. In altri casi, viceversa, si deve necessariamente procedere ad interventi migliorativi profondi.

In generale, per qualunque condizione, è da considerare con attenzione il fenomeno del gelo che, regolato da un complesso meccanismo di fattori dipendenti dalle variabili climatiche e dalle caratteristiche intrinseche dell’ammasso, è in grado di determinare sensibili riduzioni della portanza; le acque superficiali, infatti, raggiungendo gli strati sottostanti e il piano di posa attraverso un manto non perfettamente chiuso o per infiltrazioni laterali, a causa del manifestarsi di basse temperature, si trasformano in ghiaccio aumentando di volume e producendo sconnessioni entro tutta la struttura. Il fenomeno del gelo può manifestarsi allo stesso modo anche nel caso di manti perfettamente impermeabili a motivo di risalite capillari delle acque di falda. I provvedimenti da adottare per ridurre tale fenomeno entro proporzioni ammissibili sono analoghi a quelli già indicati per le pavimentazioni di una strada ordinaria e cioè:

–       impermeabilizzazione del rivestimento, con adozione di manti molto chiusi, impiegando bitumi dotati d’indice di penetrazione vicino a 0 (bitumi elastici);

–       protezione con strati anticapillari di sottofondazione, costituiti con materiali granulari inibenti le risalite per capillarità delle acque di falda.

2.13 – Soprastrutture rigide

Le pavimentazioni rigide per piste e piazzali sono costituite essenzialmente da uno strato di fondazione, a diretto contatto con il sottofondo, e da un rivestimento superficiale realizzato con piastre in calcestruzzo (Fig. 2.14).

Fig. 2.14 – Pavimentazione rigida: la piastra in calcestruzzo è stesa su idonea fondazione (terreno stabilizzato granulometricamente o strato in misto cementato).

L’inserimento di uno strato di fondazione fra il sottofondo e la sovrastante struttura rigida risponde alla esigenza di disporre sotto quest’ultima un sostegno di sufficiente capacità portante che assicuri la possibilità di un contatto continuo ed uniforme, insieme facilitando il procedimento di stesa del calcestruzzo con le macchine finitrici. Gli strati di fondazione adatti possono realizzarsi in terra-cemento o terra-calce oppure con un misto granulometrico stabilizzato; in taluni casi si è fatto ricorso ad una fondazione a doppio strato: uno, inferiore, in terreno granulare stabilizzato ed uno superiore, in misto legato a cemento o a calce.

L’esperienza acquisita ha confermato, in ogni caso, che i migliori risultati si ottengono con l’inserimento di uno strato in misto cementato il quale fra l’altro rappresenta, per le proprie caratteristiche meccaniche, un ottimo collegamento fra la soprastante struttura rigida ed il terreno di sottofondo, limitando il fenomeno del pumping in corrispondenza dei giunti; nella Tab. 2.2 sono riportati alcuni fusi granulometrici degli inerti per misti cementati.

Tab. 2.2 – Fusi granulometrici degli inerti per misto cementato.

L’effetto pumping emerge quando, al passaggio dei carichi in corrispondenza del giunto, il bordo della piastra subisce degli spostamenti verticali che causano la degradazione del sottostante piano d’appoggio (ad es. una fondazione semi-rigida quale quella in misto cementato, risulta particolarmente resistente a tale fenomeno)

Il sovrastante rivestimento in calcestruzzo viene realizzato mediante una serie di piastre quadrate (generalmente non armate) con Iato di 5÷7 m, separate fra loro da giunti longitudinali e trasversali che consentono la riduzione delle fessurazioni per effetto del ritiro o delle variazioni di temperatura. Il calcestruzzo, preparato in impianti fissi, presenta un dosaggio dove il cemento varia entro 280÷320 kg/m3 d’impasto e la quantità d’acqua da 150 a 180 l con rapporto acqua/cemento compreso entro 0.48÷0.55.

La compattazione del calcestruzzo, per spessori ≤ 30 cm, viene eseguita per mezzo di una trave vibrante la quale, imprimendo delle vibrazioni sulla superficie, riesce ad addensare il materiale con sufficiente uniformità. L’energia di compattazione trasmessa al di sotto della superficie è funzione della frequenza di vibrazione della trave; la resistenza del calcestruzzo aumenta col numero dei cicli. Generalmente si adoperano frequenze prossime a 70 Hz, soprattutto per non incorrere nell’inconveniente determinato dal passaggio dell’impasto dallo stato di gel a quello di sol; poiché la densità conseguibile diminuisce con la profondità per spessori >30 cm, è consigliabile procedere alla stesa per strati successivi.

Gli spessori comunemente adottati variano fra 30 e 40 cm; la resistenza a rottura per flessione a 28 gg generalmente richiesta al calcestruzzo è di 45÷55 kg/cm2.

2.14 – Caratteristiche e componenti di un calcestruzzo per soprastrutture rigide aeroportuali

Fra le proprietà richieste a un calcestruzzo per garantire la riuscita di una pavimentazione aeroportuale si ritengono di fondamentale importanza la resistenza meccanica, la lavorabilità, la tissotropia, la resistenza all’usura e al gelo.

aResistenza meccanica.

La resistenza meccanica di un calcestruzzo dipende da molti fattori: proprietà e quantità del legante, natura e composizione granulometrica degli inerti, rapporto acqua-cemento presenza di additivi, modalità di confezionamento e di stendimento.

Le proprietà meccaniche di un calcestruzzo per pavimentazioni rigide vengono controllate attraverso prove di rottura a flessione, essendo la resistenza a tale sollecitazione particolarmente indicativa del comportamento della struttura sottoposta ai carichi.

Nelle opere per pavimentazioni stradali il controllo della resistenza viene eseguito in modo saltuario, in quanto comunemente si adottano spessori che risultano sufficientemente cautelativi e che richiedono tensioni di rottura facilmente raggiungibili (σR = 25÷35 kg/cm2); per le piste aeroportuali, viceversa, il dimensionamento in relazione ai carichi che interessano il rivestimento impone la prescrizione di valori di resistenza più elevati (σR = 45÷55 kg/cm2) rendendo necessario uno studio accurato della miscela e della qualità dei suoi componenti nonché continui controlli in corso d’opera.

Per quanto concerne la natura mineralogica e la qualità degli inerti è da sottolineare la notevole importanza da riporre nella scelta delle rocce dalla cui frantumazione tali inerti provengono; non sono da trascurare, inoltre, le modalità d’esecuzione del costipamento sia durante che subito dopo lo stendimento.

La frequenza delle vibrazioni, la loro ampiezza e durata devono essere ricercate, a seconda del caso, in relazione alle caratteristiche dell’impasto ed allo spessore della piastra, in modo da ottenere la migliore consistenza ed evitare il pericolo della separazione degli inerti.

Anche le condizioni climatiche, infine, hanno notevole influenza sulla resistenza durante il periodo della presa; un tempo molto secco e caldo, infatti, accelera l’evaporazione favorendo gli effetti negativi del ritiro. Per evitare tale inconveniente si usa proteggere la superficie mediante prodotti antievaporanti (curing).

bLavorabilità.

Per lavorabilità di un impasto di calcestruzzo (vol. 2°) s’intende l’attitudine del medesimo ad essere trasportato (nel periodo compreso fra la confezione ed il getto) e ad essere posto in opera senza che in esso avvengano variazioni fisiche e tecnologiche, in particolare senza che si manifesti il fenomeno della segregazione degli inerti.

Per una buona lavorabilità, di norma, sono necessarie 2 particolari caratteristiche fisiche e cioè la, fluidità e la plasticità:

–       la fluidità, inverso della viscosità, è la proprietà dell’impasto connessa all’attitudine di questo ad essere spostato, entro condotti o canali, con maggiore o minore facilità; hanno molta influenza su tale proprietà la % di fine e soprattutto la quantità d’acqua, che riduce la viscosità della miscela;

–       la plasticità è invece legata alla capacità dell’impasto di subire deformazioni mantenendo un certo grado di coesione, così da conservare la forma che gli è stata impressa. Sulla plasticità gioca un ruolo molto importante la presenza del filler.

La lavorabilità viene misurata attraverso la consistenza, che rappresenta l’attitudine dell’impasto a conservare una determinata forma sebbene sottoposto a particolari tipi di sollecitazione (slump-test o prova del cono); il termine, tuttavia, nel campo dei calcestruzzi per pavimentazioni viene adoperato con significato diverso ossia come idoneità dell’impasto ad essere steso e compattato dopo un certo tempo dalla confezione. La definizione è in stretta connessione coi procedimenti di messa in opera del calcestruzzo per pavimentazioni che risultano sostanzialmente diversi da quelli di un calcestruzzo per strutture.

La lavorabilità dell’impasto compone così una proprietà tecnologica, legata al tempo di presa, importante in particolare se posta in relazione alla produzione oraria delle macchine finitrici ed alla facilità di esecuzione degli strati.

Gli elementi che contribuiscono a migliorare la lavorabilità sono:

–       quantità di acqua superiore al normale dosaggio;

–       adozione di fluidificanti e plastificanti;

–       adozione di additivi aeranti.

L’aumento della quantità d’acqua, tuttavia, se da un lato migliora la lavorabilità, dall’altro riduce le caratteristiche dì resistenza del calcestruzzo; l’impiego di particolari additivi consente allora di ridurre la quantità d’acqua a vantaggio della resistenza meccanica ed esalta nel contempo la lavorabilità dell’impasto.

cTissotropia.

La tissotropia è la proprietà caratteristica di quelle soluzioni colloidali ad alto peso molecolare, che passano spontaneamente dallo stato di sol in cui si trovano a quello di gel., cioè ad uno stato solido molto plastico. La trasformazione inversa avviene per semplice azione meccanica (ad es. per agitazione del gel). Tali soluzioni colloidali, fra le quali è da annoverare l’impasto di calcestruzzo appena posto in opera, lasciate in quiete, a temperatura e pressione costanti, in breve tempo assumono lo stato di gel presentando caratteristiche elastiche limitatamente a modesti valori di sollecitazione.

Durante lo stendimento delle piastre in calcestruzzo la formazione del gel non permette alle labbra dei giunti di richiudersi e garantisce una notevole tenuta verticale dei bordi evitando gli abbassamenti ai lati della piastra.

Sulle proprietà tissotropiche influisce in larga misura la presenza degli elementi fini e il loro dosaggio; poiché il complesso meccanismo del comportamento di queste soluzioni non è ancora perfettamente controllabile è opportuno, nell’analisi della composizione granulometrica della miscela, tener conto del fenomeno e controllare, confezionando gli impasti-prova, che la soluzione adottata presenti caratteristiche tissotropiche onde evitare problemi in fase esecutiva.

dResistenza all’usura ed al gelo. Gli additivi.

Le piastre, in ogni caso, devono possedere superficialmente una buona resistenza all’usura e questa può essere migliorata usando inerti provenienti da rocce compatte e con elevato coefficiente di qualità (la prova Los Angeles, per i tipi A e Bdeve fornire valori ≤ 25%).

Per l’accettazione dei pietrischi, pietrischetti e graniglie, vengono prescritti i seguenti requisiti:

Pietrischi

coefficiente di qualità Deval     > 10

coefficiente ISS                        > 4

resistenza a compressione      1.200 kg/cm2

resistenza all’usura                  > 0,4

Pietrischetti e graniglie

coefficiente di frantumazione   < 140

perdita per decantazione         1%

resistenza a compressione      > 1.400 kg/cm2

resistenza all’usura                  > 0.8

Per contro l’inconveniente più diffuso che si riscontra nelle sovrastrutture rigide degli aeroporti è rappresentato dalle fessurazioni, più o meno diffuse, più o meno capillari.

Per ottenere un sensibile miglioramento di resistenza alla fessurazione sono state studiate ed applicate diverse tecniche che, in sostanza, consistono nell’impiego di additivi antievaporanti che evitino un’essiccazione troppo rapida dell’impasto e nell’aprire i giunti 12÷16 h dopo il getto, ossia nel momento in cui il calcestruzzo, per quanto sufficientemente indurito, non ha raggiunto una rigidezza tale da essere soggetto a microfessurazioni.

La qualità dell’impasto, comunque, può essere esaltata riducendo la quantità d’acqua nel medesimo in quanto, con tale riduzione, si aumentano le resistenze meccaniche a flessione ed a compressione, diminuisce la porosità capillare della pasta cementizia ed aumenta l’impermeabilità del calcestruzzo; si consegue anche l’ulteriore vantaggio di ridurre le variazioni dimensionali per variazioni igrometriche (ritiro) o per applicazioni di carichi costanti (fluage).

Per contro è opportuno rammentare che il contenuto d’acqua gioca un ruolo determinante al fine della lavorabilità dell’impasto, caratteristica, questa, da non sottovalutare nello stendimento delle piastre in calcestruzzo sia per il buon funzionamento delle macchine operatrici ma soprattutto per l’efficacia del costipamento.

Al disotto di certi valori del rapporto acqua/cemento, di conseguenza, l’impossibilità di eseguire un buono stendimento ed un idoneo costipamento finisce con l’annullare tutti i vantaggi che la riduzione di detto rapporto comporta.

Questa problematica ha stimolato la ricerca di efficaci additivi fluidificanti che consentano la riduzione della quantità d’acqua d’impasto senza per altro influenzarne la lavorabilità. E’ opportuno anche considerare che l’impiego di fluidificanti può, in taluni casi, determinare la segregazione degli inerti, motivo per cui risulta necessario che la scelta dell’additivo da impiegare e della relativa percentuale d’uso avvenga con molta attenzione.

Gli additivi aeranti, che provocano l’inglobamento nel calcestruzzo di una certa quantità d’aria, variabile dal 3 al 6%, migliorano la lavorabilità dell’impasto aumentando la resistenza del calcestruzzo all’azione del gelo.

La formazione di ghiaccio all’interno di un materiale poroso (col conseguente aumento di volume dell’acqua solidificata) genera uno stato di coesione nel materiale che a volte può superare il valore limite di resistenza del medesimo, dando inizio alla degradazione del calcestruzzo. Inoltre cicli ripetuti di gelo e disgelo provocano effetti cumulativi; una riduzione del rapporto a/c riesce, in parte, a contenere tale azione ma non va dimenticato che a questa riduzione si accompagna una minore lavorabilità dell’impasto. L’inglobamento, mediante additivi aeranti, di microbolle omogeneamente distribuite, produce un benefico effetto nel calcestruzzo al fine della resistenza all’azione disgregatrice del gelo ma, affinché l’introduzione di aria risulti efficace, occorre che tali microbolle si rivelino sufficientemente stabili e diffuse onde evitare la formazione di canali continui intercomunicanti in grado di pregiudicare l’impermeabilità del calcestruzzo medesimo.

A tali azioni si affianca, tuttavia, una diminuzione di resistenza flessionale, sebbene la medesima possa contenersi entro limiti accettabili.

Per questi motivi, unitamente all’impiego di additivi aeranti, si adottano additivi riduttori d’acqua in modo che sia possibile raggiungere un maggior effetto globale per la diminuzione della quantità d’acqua potenzialmente congelabile e, nel contempo, compensare la lieve riduzione di resistenza che il solo aerante provocherebbe.

eComposizione granulometrìca degli inerti. Determinazione del carico di rottura a trazione per flessione.

Relativamente alla composizione granulometrica degli inerti del calcestruzzo per pavimentazioni si prescrive che questa risulti interna a determinati fusi che generalmente differiscono poco da quelli adottati per i normali calcestruzzi delle opere edili (Fig. 2.15).

Fig. 2.15 –Fusi granulometrici degli inerti per calcestruzzo (UNI 7163/72).

Per quanto concerne le caratteristiche meccaniche i controlli, di norma, consistono nelle prove di rottura a trazione per flessione di provini prismatici, confezionati con impasto prelevato dalla macchina prima dello stendimento e secondo precise modalità e sottoposti a rottura dopo 7 o 28 gg di stagionatura. A volte le prove vengono effettuate su travetti ricavati dalla pavimentazione al momento dell’entrata in servizio della medesima. I travetti prismatici vengono appoggiati alle estremità e sollecitati da carichi concentrati fino a rottura; si assume come tensione di rottura l’espressione:

σR = M/W

essendo M il momento flettente alla rottura e W il modulo di resistenza a flessione della sezione trasversale.

Le tensioni di rottura a compressione non sono determinanti al fine del dimensionamento e dell’accettabilità del calcestruzzo mentre lo sono quelle di trazione per flessione poiché, nel comportamento sotto carico della piastra, il rapporto fra la tensione di lavoro e quella di rottura a trazione è molto maggiore del rapporto fra le analoghe tensioni di compressione. Poiché i risultati ottenibili sono fortemente influenzati dalle modalità d’esecuzione della prova occorre far riferimento a quanto previsto dalle normative in proposito.

Negli USA le norme ASTM stabiliscono di applicare il carico rapidamente per il 50% del valore di rottura presumibile e di incrementarlo successivamente per modo che la tensione nelle fibre tese abbia un aumento di 10.5 kg/cm2 al secondo.

fSollecitazioni a fatica.

Lo studio sulla resistenza di una soprastruttura in calcestruzzo va affrontato anche in relazione alle proprietà visco-elastiche del materiale ed alla resistenza del medesimo offerta alle sollecitazioni ripetute.

Relativamente alle proprietà visco-elastiche è opportuno distinguere il fenomeno del fluage da quello del rilassamento: tale duplice aspetto della viscosità è messo in evidenza da due diversi tipi di prova: nelle prove di fluage il provino viene sottoposto a un carico costante e si registrano le deformazioni in funzione del tempo, mentre nelle prove di rilassamento, mantenendo invariata la deformazione, si rilevano le cadute di tensione che si verificano nel materiale.

Ai fini del dimensionamento si rivelano oltremodo peculiari gli studi sulla resistenza a fatica; com’è noto, infatti, un carico applicato ripetutamente può provocare la rottura anche se lo stato tensionale indotto non supera quello limite per l’elasticità del materiale.

Le prove a fatica consistono nel sottoporre un provino ad una serie di cicli di carico e scarico definiti da una curva tensione-tempo, generalmente di tipo sinusoidale.

La tensione si fa variare tra un valore massimo (σmax) ed un valore minimo (σmin) mentre la quantità 0.5 (σma σmax) rappresenta l’ampiezza A del ciclo. Lo stato di sollecitazione indotto può essere di compressione oppure di trazione per flessione; l’ultimo caso è quello che maggiormente interessa nello studio del comportamento del calcestruzzo per piastre aeroportuali.

II numero di cicli N che provoca la rottura è funzione principalmente dell’ampiezza A e del valore della < σmax.

Per resistenza alla fatica R si intende l’ampiezza A che, in determinate condizioni, causa l’insorgere di fenomeni di rottura dopo un numero finito di cicli, mentre il limite di fatica L è la massima ampiezza A che può essere applicata per un numero illimitato di cicli senza che nel materiale venga superato il limite elastico.

Le curve di fatica o di Wohler indicano la relazione tra R ed N e da queste può determinarsi il limite L di fatica (Fig. 2.16).

Fig. 2.16 – Curve di Wohler: resistenza alla fatica R in funzione del numero N di cicli che provoca la rottura (a trazione per flessione).

La legge di Wohler è di tipo esponenziale:

R = aN-b

La relazione può, in prima approssimazione, assimilarsi ad una bilatera il cui ramo parallelo all’asse delle N individua il limite di fatica L.

A parità di ampiezza, viceversa, ad ogni valore di σmax corrisponde un numero di ripetizioni che induce la rottura; le esperienze di Bradburyin proposito, consentono di esprimere la legge (σmax,N) sotto forma di una retta in coordinate semilogaritmiche (Fig. 2.17) corrispondente all’equazione:

σmax/σR = 0.9025 – 0.0675 log N

dove σR la resistenza flessionale a rottura del materiale.

Fig. 2.17 – Curve di fatica del calcestruzzo: relazione σmax/σR in funzione del numero ripetizioni fino a rottura secondo le ricerche di Bradbury.

E’ chiaramente rilevabile che, per valori di σmax/σR ≤ 0.5, il numero di sollecitazioni cui può essere assoggettato il provino è praticamente illimitato; il comportamento a fatica del calcestruzzo può essere evidenziato in maniera più generale tramite relazioni in cui σmax/σR è funzione, oltre che del numero N di ripetizioni del carico, anche del rapporto fra la tensione massima e la tensione minima nel ciclo di ripetizioni (ζ = σmax/σR).

A parità di σmax il numero di ripetizioni ammissibili si riduce al diminuire di ζ ossia all’aumentare della ampiezza del ciclo mentre a parità di quest’ultima grandezza il numero N risulta tanto più grande quanto minore è σmax.

Tali risultati rappresentano la base per il dimensionamento delle soprastrutture rigide con diretto riferimento alla resistenza a fatica del calcestruzzo.

g) / controlli.

In molti casi, ai fini di particolari progettazioni, viene richiesta la valutazione di ulteriori caratteristiche meccaniche come il modulo di elasticità e il coefficiente di Poisson μ. Il valore del modulo E può essere determinato tramite i diagrammi (σ,ε) relativi a normali prove a schiacciamento mentre quello del coefficiente μmediante prove a compressione con misura della deformazione longitudinale e trasversale.

Fig. 2.18 – Prova del cono (slump test) per definire la consistenza della pasta di calcestruzzo: a) consistenza asciutta; b) consistenza plastica; c) consistenza fluida.

Ulteriori controlli, per quanto molto particolari, si effettuano sulla resistenza all’alternanza gelo-disgelo, sull’entità del ritiro e sulla permeabilità; tali analisi si rendono necessari soprattutto quando è previsto l’impiego di particolari additivi in modo da definirne gli effetti collaterali.

La lavorabilità dell’impasto viene comunemente valutata, come accennato, per mezzo dello slump-test sebbene, talora, la dispersione dei risultati della prova provochi incertezze circa la sua validità. Il test consiste nel determinare la deformazione che subisce un provino di calcestruzzo fresco posto entro una forma tronco-conica non appena si toglie l’apposito stampo (Fig. 2.18. A pavimentazione ultimata i controlli riguardano essenzialmente Io spessore medio della piastra, la densità media del calcestruzzo e la resistenza a trazione per flessione su travetti preparati durante il getto. Ulteriori controlli utilizzano prove non distruttive quali l’UPM (Ultrasonic Pulse Method) oppure metodologie basate sull’impiego di raggi X γNel primo caso (UPM) il controllo può riguardare lo spessore della piastra, il modulo elastico, il valore della resistenza, la quantità di Fe nel caso di piastre armate e la presenza di fessure. Gli altri metodi, viceversa, analizzano generalmente la qualità del calcestruzzo.

2.15 – Giunti e rifinitura superficiale della piastra in calcestruzzo

Il calcestruzzo, come accennato, subisce variazioni di volume durante la presa e la stagionatura. Con valori ordinari del rapporto a/c la microporosità del calcestruzzo (35÷40% del volume apparente) è tale che l’impasto, esposto all’aria non satura di umidità, durante il periodo della presa e quello successivo della stagionatura, subisce una diminuzione di volume, la cui misura lineare εr = Δl/l in una data direzione rappresenta il ritiro (principalmente determinato dall’evaporazione dell’acqua interessata chimicamente e fisicamente all’idratazione del cemento). Oltre alla variazione di volume di origine igrometrica ne esiste un’altra dovuta a fattori termici; ad un notevole aumento di volume dovuto ad innalzamento di temperatura causato dalle reazioni di presa segue una diminuzione di volume per effetto del successivo raffreddamento; il fenomeno viene esaltato se il getto avviene nei periodi più caldi dell’anno.

Il ritiro si manifesta in termini decisi all’inizio venendo poi a decrementare con legge esponenziale acquisendo importanza in presenza di getti continui di notevoli quantità di calcestruzzo come nel caso dello stendimento di rivestimenti per pavimentazioni. Al fine di evitare la manifestazione delle conseguenti fessurazioni irregolari si ricorre all’esecuzione di tagli nella piastra in senso sia trasversale che longitudinale.

Da controllare è anche il fenomeno termoigrometrico dovuto alle variazioni termiche climatiche che possono distinguersi in:

–       variazioni stagionali, che, verificandosi in periodi lunghi, interessano le proprietà viscose del materiale;

–       variazioni giornaliere, la cui escursione termica si manifesta con una frequenza più elevata.

Nel caso di variazioni stagionali la struttura viene interessata in maniera uniforme per tutto Io spessore manifestando fenomeni di dilatazione o di contrazione, mentre per variazioni giornaliere, data la rapidità con la quale queste si manifestano, le superfici superiore e inferiore della piastra vengono portate a diversi livelli termici trovandosi soggette ad ingobbimento. Durante il giorno, infatti, a motivo dell’irraggiamento solare, la superficie inferiore della soprastruttura viene a trovarsi ad una temperatura minore rispetto quella del piano medio mentre il contrario si verifica per la superficie superiore; la piastra tende quindi ad incurvarsi con convessità verso l’alto; viceversa, durante la notte, poiché il raffreddamento della superficie superiore avviene più rapidamente, l’ingobbimento si manifesta con convessità verso il basso.

A motivo di tali fenomeni nelle pavimentazioni in calcestruzzo viene richiesta l’esecuzione di giunti onde interrompere la continuità dello stendimento limitando, così, le dimensioni della piastra. La loro presenza, tuttavia, rappresenta un punto debole della soprastruttura in quanto da un lato vengono ridotti la scorrevolezza in superficie ed il comfort di marcia mentre dall’altro una non accurata esecuzione può essere causa d’infiltrazioni dell’acqua superficiale sul piano di posa.

In funzione della loro posizione, nel senso dell’avanzamento della macchina stenditrice, i giunti possono distinguersi in trasversali longitudinali; in relazione invece alla loro funzione si hanno giunti di ritiro (o di contrazione), di costruzione e di dilatazione.

giunti di contrazione assumono maggiore importanza, consentendo di ridurre o, almeno, di regolare la fessurazione del calcestruzzo provocata dal ritiro; i giunti di costruzione, viceversa, si rendono necessari tra una ripresa e il precedente stendimento, mentre i giunti di dilatazione hanno la funzione di ridurre gli effetti delle variazioni termiche, per quanto si conferisca ai medesimi un’importanza sempre più limitata.

La tecnica tradizionale prevede in corrispondenza dei giunti l’applicazione di armature metalliche per il trasferimento dei carichi tra una piastra caricata e quelle ad essa adiacenti ma la tendenza è comunque quella di procedere sempre più all’esecuzione di giunti non armati per via della maggiore semplicità costruttiva affidando al piano di posa opportunamente irrigidito (misto cementato) ed all’attrito fra piastre adiacenti la funzione del trasferimento del carico.

2.15.1 – Giunti di ritiro

I giunti di ritiro o di contrazione (Fig. 2.19) possono essere sia trasversali che longitudinali; quelli trasversali presentano un distanziamento, funzione dello spessore della piastra in calcestruzzo, di norma compreso entro 6÷7 m, anche se con opportuni stendimenti e con particolari calcestruzzi si possono adottare distanziamenti fino a 10 m.

Fig. 2.19 – Tipi di giunti di contrazione con lamierino.

La profondità del taglio, allo stesso modo funzione dello spessore, è di norma pari a 6÷8 cm mentre la larghezza è di 0.2÷0.8 cm. I giunti di ritiro longitudinali si fanno coincidere con quelli, sempre longitudinali, di costruzione. Alla realizzazione dei giunti si procede mediante taglio con seghe a disco, scegliendo opportunamente il periodo in cui effettuare l’operazione, compreso fra il tempo di presa e quello in cui inizia la fessurazione. II taglio viene successivamente riempito con mastice bituminoso (o altro materiale) al fine di conferire l’impermeabilizzazione alla superficie.

2.15.2 – Giunti di costruzione

Come il precedente anche tale tipo di giunto può essere trasversale o longitudinale.

Fig. 2.19 – Tipi di giunti di costruzione.

Il giunto dì costruzione trasversale sì fa generalmente coincidere con quello di ritiro; quello longitudinale è del tipo ad incastro onde ottenere un migliore trasferimento del carico.

Anche questi giunti richiedono l’impermeabilizzazione.

2.15.3 – Giunti di dilatazione

I giunti di dilatazione ormai vengono limitati esclusivamente all’intersezione con altre vie di circolazione; l’altezza dei giunti si fa eguale allo spessore della pavimentazione e la larghezza si limita a 15÷25 mm. II corpo del giunto è costituito da materiale compressibile (legno, sughero etc.) che occupa lo spazio fra le due piastre fino a 4÷6 cm dalla superficie; la sezione rimanente viene riempita con mastice bituminoso. A volte i giunti di dilatazione possono essere armati (Fig. 2.20).

Fig. 2.20 – Tipi di giunti di dilatazione.

La sigillatura dei giunti ha la funzione di proteggere la fondazione da infiltrazioni sia d’acqua che di materiale fine che, penetrando ne altererebbero la portanza.

Per ottenere una idonea chiusura s’impiegano mastici colati a caldo oppure speciali guarnizioni.

In Fig. 2.21 è riportata la disposizione dei giunti da adottare in un piazzale aeroportuale.

Fig. 2.21 – Disposizione dei giunti in un piazzale di aeroporto.

Lo stendimento delle piastre in calcestruzzo con macchine a casseforme scorrevoli consente di ridurre i costi di costruzione ma presenta l’inconveniente di possibili deformazioni lungo i bordi.

Tali abbassamenti (max pochi mm) interessano la superficie per una fascia della larghezza di 20÷30 cm lungo i giunti longitudinali per cui si crea, in corrispondenza di questi ultimi, un avvallamento con conseguenze di ristagni d’acqua e possibilità d’infiltrazioni per la non perfetta esecuzione del giunto.

Nella realizzazione di strade ordinarie in calcestruzzo, dove lo stendimento si esegue per tutta la larghezza della carreggiata, l’inconveniente può risultare trascurabile sia perché l’abbassamento ai bordi è di entità minore per via degli spessori più piccoli adottati, che per il fatto che tali cedimenti si rilevano soltanto nelle fasce laterali; nelle realizzazioni aeroportuale, viceversa, dove per la larghezza della pista o dei piazzali la soprastruttura rigida deve eseguirsi mediante stendimenti successive affiancati, l’ondulazione del profilo trasversale diviene inaccettabile ogni qualvolta non risulta nei limiti di tolleranza.

Come accennato trattando delle proprietà del calcestruzzo, al fine di ridurre tali inconvenienti occorre studiare impasti che presentino elevata tissotropia provvedendo altresì alla lisciatura superficiale subito dopo il passaggio della macchina con eventuale aggiunta di calcestruzzo gettato a mano.

Venendo a determinarsi delle fessurazioni sulle piastre durante il periodo della prima maturazione, attribuibili a fattori di varia natura quali difetti d’impasto, condizioni igrotermiche sfavorevoli, deficienze nell’esecuzione dei giunti etc, è necessario adottare particolari provvedimenti, sempre che le lesioni non siano di entità tale da consigliare la demolizione della struttura. Talora, laddove le condizioni lo permettano, si rivela possibile provvedere al ripristino riempiendo le fessure con prodotti a base di resine, oppure ricorrendo ad iniezioni di calcestruzzo fresco additivato.

Decisiva importanza, inoltre, assume il trattamento superficiale atto ad evitare il fenomeno dell’aquaplaning (effetto che si manifesta allorché si forma sulla superficie della pavimentazione un velo liquido di spessore > 1mm con conseguente riduzione dei valori di aderenza e di attrito tra ruota e manto superficiale); atal fine occorre che la pellicola d’acqua formantesi sulla superficie dopo una pioggia venga rapidamente eliminata in modo che le ruote dei carrelli degli aerei siano sempre a contatto col rivestimento e le condizioni previste d’attrito.

Per la rifinitura superficiale si utilizza il metodo della scopatura che utilizza una scopa a fili d’acciaio (Ø1.5 mm) che conferisce alla superficie una rugosità con solchi di 1.2 mm di profondità massima.

Con tale trattamento assume importanza la scelta del momento d’effettuazione: infatti, se la scopatura viene eseguita troppo presto, il calcestruzzo non risulta sufficientemente indurito per mantenere la rugosità mentre, viceversa, se l’intervento viene ritardato i fili della scopa possono agire fino ad asportare superficialmente gli inerti. In ogni caso la scopatura deve eseguirsi prima dello spandimento dei prodotti di curing.

2.16 – Piastre armate e piastre precompresse

La realizzazione di soprastrutture rigide in calcestruzzo semplice, come visto, comporta l’interruzione della continuità dello stendimento mediante giunti al fine di ovviare al fenomeno della fessurazione: un’alternativa a tale procedura è rappresentata dall’impianto di piastre armate; un calcestruzzo armato è infatti in grado di offrire una maggiore resistenza alle tensioni indotte dalle variazioni di lunghezza della struttura consentendo, così,di adottare maggiori spaziature fra i giunti.Le piastre ad armatura continua sono ottenute disponendo una rete metallica entro la massa del calcestruzzo ed un insieme di barre di ripartizione in corrispondenza dei giunti per il trasferimento del carico; grazie a tale applicazione si riescono a ridurre i giunti a quelli di costruzione e a quelli di dilatazione. La quantità d’armatura impiegata (considerata come area dei tondini di ferro) deve risultare ≥ 0.7% dell’area della sezione trasversale essendo disposta ad una profondità compresa fra il piano medio e il piano, a questo parallelo, posto ad una quota pari a 1/3 dello spessore della piastra, con un ricoprimento minimo di 6 cm. Attraverso tale provvedimento lo spessore delle piastre può ridursi a ~80% di quello delle pavimentazioni convenzionali.

La lunghezza delle piastre armate, non più di forma quadrata, può arrivare a 100÷150 m e ciò costituisce un vantaggio economico in quanto viene a ridursi l’onere della manutenzione dei giunti. Per contro con l’armatura continua vengono eliminate solo le lesioni di una certa entità, manifestandosi invece fessurazioni diffuse rappresentate da microincrinature le quali, pur tollerabili nella struttura, ne riducono la scorrevolezza in superficie.

La tecnica della precompressione, più opportunamente, consente un’ulteriore riduzione del numero di giunti consistendo nell’assoggettare la piastra ad uno stato di compressione in modo da contenere le tensioni di trazione indotte dai carichi, dal ritiro e da variazioni termiche.

La precompressione si realizza tramite l’impiego di armature pre-tese che per aderenza trasferiscono al calcestruzzo gli sforzi di compressione; oppure comprimendo la piastra con martinetti contrastanti con le piastre adiacenti o con opportune spalle in calcestruzzo.

Uno stato di precompressione nelle piastre si ottiene anche adottando dei calcestruzzi espansivi in cui particolari additivi solfo-alluminati di calcio anidro, trasformandosi in ettringite con forte aumento di volume, provocano durante il processo d’indurimento una dilatazione della struttura.

Opportunamente contrastata, tale variazione di volume si traduce in uno stato di compressione a tutto vantaggio della riduzione del fenomeno della fessurazione.

2.17 – Soprastrutture flessibili.

Le soprastrutture flessibili aeroportuali, dal punto di vista tipologico, si rivelano simili, in sostanza, a quelle adottate per le costruzioni stradali: anche in questo caso, infatti, la soprastruttura è costituita dalla sovrapposizione di strati di materiali di diversa natura e caratteristiche meccaniche differenti, ossia: strato di fondazionedi base e superficiale (Fig. 2.22).

Fig. 2.22 – Pavimentazione flessibile. Lo strato di base è indicato distinto in un doppio strato: il superiore in misto bitumato e l’inferiore in misto cementato.

aStrato di fondazione.

Per le fondazioni delle soprastrutture flessibili si realizzano strati di 30÷40 cm di spessore di terreno stabilizzato granulometricamente, i cui requisiti di accettazione sono indicati in Tab. 2.3.

La parte fine dell’aggregato deve presentare un limite di liquidità LL < 25, un limite di plasticità LP < 19, un indice di plasticità IP < 6 ed un limite di ritiro LR > % ottimale di costipamento. La posa in opera del materiale richiede una corretta umidificazione unita ad un adeguato costipamento, preceduto, se necessario, da opportuno mescolamento per evitare la segregazione del fine.

Nelle prescrizioni progettuali è necessario fissare il valore minimo del peso secco di volume o massa volumica da raggiungere in sito dopo l’operazione di costipamento come % di quello massimo ottenibile in laboratorio secondo le modalità della prova AASHTO T180-72 o EN 13826-2. È opportuno che tale percentuale sia pari almeno al 95÷100%, in quanto una fondazione poco compattata rappresenta uno strato deformabile, facilmente disgregabile sotto l’azione dei carichi o a causa di possibili cedimenti del piano di posa, motivo per cui può risultare compromessa, in un primo tempo, la regolarità della sagoma in superficie e, in seguito, la resistenza dell’intera soprastruttura.

Tab. 2.3 — Fusi granulometrici consigliati per misto granulare stabilizzato da usare per strati di fondazione di pavimentazioni flessibili.

L’indice CBR del materiale, rilevato su campioni costipati in laboratorio dopo immersione dei medesimi in acqua per 4 giorni, deve comporre un valore minimo ≥50; inoltre per ambiti entro cui gli strati devono sottostare a lungo all’azione del gelo, si rivela necessario accertare che la % di elementi di dimensioni < 0.02 mm non risulti > 6% del peso totale e che l’aggregato grosso non contenga elementi teneri derivanti da rocce gelive in quantità > 7% in peso del totale.

Il terreno da impiegarsi per la costituzione di uno strato di fondazione può essere trattato, per migliorare le proprie caratteristiche, con l’aggiunta di sostanze chimiche o leganti; le differenti tecniche della stabilizzazione dei terreni (stabilizzazione con CaCl, bitume, cemento o calce), permettono l’utilizzo, per la formazione dello strato, di terreni reperibili in situ; le notevoli quantità di materiale da trattare rendono sovente convenienti soluzioni del tipo rispetto a quella che prevede l’approvvigionamento di un terreno idoneo proveniente da cave distanti dal cantiere.

bStrato di base.

La base è costituita, solitamente, da un unico strato in misto bitumato oppure da due strati, di cui quello inferiore in misto cementato e quello superiore in misto bitumato.

Il misto bitumato è un conglomerato bituminoso a masse aperte, ossia nel quale la porosità conserva, dopo l’azione di costipamento, valori più elevati rispetto a quello dello strato superficiale. Gli inerti (sabbia, graniglia e pietrisco) devono risultare quanto possibile privi di materie eterogenee e la loro curva granulometrica deve rientrare in determinati fusi, uno dei quali è riportato in Tab. 2.4; talune prescrizioni prevedono per gli inerti un coefficiente di frantumazione ≤150÷200 oppure, riferendosi alla prova Los Angeles (usando miscele di tipo A o B) un coefficiente di qualità ≤ 30%. Il bitume impiegato nella miscela (4÷4.5%in peso degli inerti) è del tipo 180÷200 (valori della penetrazione in decimi di millimetro a 25 °C).

Tab. 2.4 – Fusi granulometrici degli inerti per conglomerato bituminoso: manto di usura, binder, misto bitumato per strato di base.

Per la preparazione dell’impasto si utilizzano impianti speciali che assicurano l’essiccamento e la depolverizzazione degli inerti, nonché il riscaldamento degli stessi e del bitume e la loro miscelazione nelle prestabilite proporzioni. La % di bitume da impiegare, il cui valore va scelto in relazione alle caratteristiche granulometriche degli inerti, viene determinata preventivamente in laboratorio con la prova Marshall (la stabilità Marshall deve risultare ≥ 500÷700 kg). Per lo stendimento si adoperano spanditrici finitrici; la temperatura del conglomerato durante tale operazione viene mantenuta ≥ 100°C; gli spessori del materiale sciolto per ogni singola passata devono essere di 8÷11 cm corrispondenti a 5÷8 cm di spessore finito. Per il costipamento sono sufficienti alcuni passaggi di rullo compressore statico o dinamico a ruote metalliche lisce sempre che tale operazione segua immediatamente quella dello stendimento, ossia prima che il conglomerato raffreddi. Il controllo del costipamento si esegue determinando in laboratorio, su tasselli estratti dallo strato già steso e compattato, la porosità, che deve risultare ≤ 8÷10%.

cStrati superficiali

Gli strati superficiali sono costituiti dal binder (o strato di collegamento) steso sopra la base e dal manto (o strato di usura) steso sopra il precedente; i due strati superficiali differiscono sostanzialmente per la scelta granulometrica degli inerti (Tab. 2.5) e di conseguenza per il contenuto in bitume.

Nel binder la % del filler è compresa entro 3÷6% mentre nello strato di usura sono preferibili valori ~ 8÷10%, fatto che rende quest’ultimo molto più chiuso, ossia con valori molto bassi di porosità (< 4%).

Tab. 2.5 – Qualità degli inerti, caratteristiche del bitume e di resistenza del conglomerato consigliabili per strati di base e strati superficiali di soprastrutture flessibili aeroportuali.

La % di bitume viene determinata in laboratorio con la prova Marshall. Sono consigliati i seguenti limiti: per il binder stabilità Marshall 900÷1100 kg e porosità 5÷7%; per il manto stabilità Marshall   1.200÷1.400 kg e porosità 4%.

Fig. 2.23 – Studio di un conglomerato bituminoso mediante la prova Marshall per la determinazione della % ottimale di bitume in base alla conoscenza della stabilità massima. Alla curva di stabilità è opportuno associare quella relativa alla variazione del peso di volume del conglomerato in funzione della % di bitume e della porosità. E’ da notare come, in genere, il valore massimo del peso di volume corrisponda praticamente alla % ottimale di bitume; il minimo di porosità, per data curva di stabilità, si ottiene con una % di bitume più elevata di quella ottima.

Assieme alla stabilità Marshall è importante il controllo dello scorrimento: un’elevata deformazione, infatti, indica una % di bitume eccessiva o un’errata scelta granulometrica (Tab. 2.5). Assume inoltre un’importanza fondamentale la natura del filler (calcareo, basaltico, asfaltico oppure calce idrata etc.) ragion per cui è consigliabile studiare preventivamente la composizione del conglomerato attraverso prove sperimentali che pongano in evidenza le variazioni della rigidezza (stabilità in kg/scorrimento in mm) e della massa volumica o del peso di volume in funzione della % di bitume (Fig. 2.19).

Saranno poi le condizioni di utilizzazione della pavimentazione di cui il conglomerato fa parte a suggerire la migliore composizione, in base ai risultati ottenuti dalle prove di laboratorio, purché queste vengano oppor­tunamente e criticamente interpretate.

2.18 – Caratteristiche di un conglomerato bituminoso per soprastrutture flessibili aeroportuali.

Gli sviluppi ultimi della tecnica delle soprastrutture flessibili aeroportuali sono indirizzati verso la ricerca del miglioramento delle caratteristiche meccaniche dei materiali costituenti gli strati superficiali, ossia quelli più sollecitati dal traffico e dall’ambiente; nel caso delle realizzazioni aeroportuali sorgono, in particolare, alcuni problemi riguardanti il rivestimento in conglomerato per via delle particolari condizioni di utilizzazione dello stesso.

Come accennato in precedenza, durante la circolazione e lo stazionamento dei velivoli si verificano sovente perdite di carburante che, venendo a contatto col conglomerato, ne indeboliscono la struttura a causa delle proprietà diluenti del kerosene nei confronti del bitume; nelle zone adibite alla circolazione degli aerei, ad eccezione di grosse perdite occasionali e localizzate, la quantità di carburante che raggiunge la soprastruttura è modesta venendo distribuita su superfici estese, motivo per cui le conseguenze sono limitate a leggeri ammaloramenti senza veri effetti nocivi; viceversa, nelle zone di sosta (testate e zone di stazionamento) le perdite di kerosene possono risultare più rilevanti e ripetute, divenendo causa di degradazione del manto in quanto il legante viene parzialmente disciolto e perde buona parte della sua coesione, divenendo facilmente deteriorabile per azione dei carichi e dell’acqua superficiale.

Di conseguenza, in queste zone, l’adozione di rivestimenti di tipo flessibile comporta l’impiego di prodotti anti-kerosene quali il catrame, che rispetto al bitume presenta una maggiore stabilità all’azione solvente del carburante, eventualmente miscelato con prodotti di sintesi (stirene-butadiene, cloruro di polivinile) che ne esaltano la resistenza all’ossidazione; un rivestimento bituminoso, inoltre, risente dell’influenza della temperatura del getto dei reattori per cui, nelle zone maggiormente interessate, è necessario ricorrere a miscele particolarmente stabili alle variazioni termiche e con buona resistenza alla fatica ed all’usura.

In ogni caso carichi statici o dinamici non uniformemente ripartiti lungo il profilo trasversale della pavimentazione possono indurre deformazioni permanenti per sottodimensionamento della struttura o per via di una non perfetta messa in opera dei materiali; tali deformazioni si traducono in un’alterazione del profilo trasversale del manto con conseguenze sia per il comfort di marcia che, soprattutto, per la possibilità di ristagni d’acqua che causano l’insorgere del fenomeno dell’aquaplaning. Tale inconveniente, congiuntamente a quello della perdita della rugosità superficiale, causata dal traffico canalizzato e da condizioni ambientali che riducono la resistenza all’usura del conglomerato, rende necessari interventi manutentivi che, nel caso di piste e piazzali, costituiscono comunque un grosso problema per l’inagibilità delle zone da ripristinare.

Relativamente all’accettazione della qualità della superficie del manto le prescrizioni per soprastrutture aeroportuali impongono, in genere, che la pavimentazione non debba presentare rialzi o avvallamenti > 4 mm (rispetto a un regolo rettilineo con faccia inferiore piana di 3 m di lunghezza comunque disposto sulla superficie). Essendo generalmente impossibile ottenere l’ottimizzazione contemporanea di tutte le caratteristiche richieste, è consigliabile che la messa in opera di un conglomerato sia preceduta da un studio esaustivo sulla composizione e sui componenti, accompagnato da una serie di controlli prima e dopo il costipamento.

Risulta pertanto necessario ricorrere a numerose prove di laboratorio i cui risultati assumono valore significativo quanto più le condizioni sperimentali riflettono quelle reali cui verrà sottoposto Io strato dopo la messa in opera.

2.19 – Criteri di scelta del tipo di soprastruttura

Le soprastrutture aeroportuali, come visto, possono essere rigide o flessibili e la scelta dell’uno o dell’altro tipo rappresenta uno dei problemi più interessanti nella progettazione specifica; tale scelta, infatti, viene condizionata da diversi fattori di natura tecnica ed economica pur non essendo sempre possibile ottemperare alle diverse esigenze in maniera soddisfacente.

Generalmente, infatti, si accetta la soluzione standard di realizzare le zone critiche con soprastrutture rigide e quelle non critiche con soprastrutture flessibili; tale criterio trova giustificazione nell’opportunità di prevedere, laddove gli aeromobile stazionino o si muovano a velocità ridotta (gravando quindi sulla pavimentazione con tutto il loro peso) ossia piazzali, testate e vie di circolazione un rivestimento che contrasti efficacemente le maggiori sollecitazioni imposte e offra una maggiore resistenza ad un traffico di tipo canalizzato.

Il conglomerato bituminoso delle soprastrutture flessibili, per via del suo comportamento visco-elastico, è soggetto a deformarsi sotto l’azione di carichi statici prolungati o ripetuti e inoltre, come fatto notare, risulta particolarmente sensibile alla temperatura del soffio dei reattori ed all’aggressività del kerosene che, durante i rifornimenti o le soste in generale, per gocciolamento raggiunge la pavimentazione.

Per le zone critiche la soprastruttura più indicata appare quindi quella rigida la quale, fra l’altro, può essere opportunamente rigata in superficie offrendo così la possibilità di ridurre il fenomeno dell’aquaplaning e di garantire una buona aderenza.

La rugosità superficiale del conglomerato bituminoso invece non si conserva nel tempo, soprattutto a causa delle deformazioni determinate dall’aumento di temperatura dovuto al calore che si sviluppa nelle fasi di frenatura sulle superfici di contatto con le ruote del carrello.

Per contro la costruzione di una pavimentazione rigida si presenta sempre meno semplice rispetto a quella di una flessibile, sia per via della particolare tecnica di stendimento del calcestruzzo per piastre sia per le difficoltà spesso create dai giunti la cui non perfetta esecuzione può rivelarsi causa di continui martellamenti al passaggio delle ruote del carrello sui bordi conducendo a lesioni e degradazioni tali da interessare buona parte delle piastre; di conseguenza, laddove è stato possibile, nelle zone meno sollecitate (non critiche) si è preferito ricorrere ai rivestimenti bituminosi. Il progredire della tecnologia della messa in opera di soprastrutture e l’evolversi dì talune situazioni di mercato, tuttavia, hanno rimesso in discussione tale indirizzo al punto che non mancano esempi dì piste di volo interamente in calcestruzzo o di piazzali e piste in conglomerato bituminoso.

Dal punto di vista tecnico la principale opposizione alle pavimentazioni bituminose, ossia la disgregazione del manto a seguito del gocciolamento del kerosene e del calore dei getti dei motori, tende ad essere ridimensionata con l’adozione dei trattamenti di cui si è discusso; così come le principali difficoltà della messa in opera del calcestruzzo per pavimentazioni vengono ormai superate utilizzando i moderni sistemi di lavorazione e la nuova tecnologia.

Per contro, tenendo presente che le soprastrutture di un aeroscalo occupano enormi superfici, non si può prescindere, nella scelta del rivestimento, dal considerare i risvolti economici conseguenti nonché la necessità di garantire nel tempo la massima utilizzabilità della pavimentazione ricorrendo solo eccezionalmente ad opere di manutenzione straordinaria; operazioni del genere, infatti, specialmente sulle piste di volo, obbligano interruzioni di traffico più o meno prolungate per l’inagibilità totale o parziale delle piste stesse, con conseguenze di carattere economico non sottovalutabili.

Attualmente non è possibile eseguire un confronto economico fra i due tipi di soprastrutture se non con riferimento a casi particolari; tuttavia, tenuto conto dell’onerosità della manutenzione e del continuo aumento dei prezzi dei derivati petroliferi, assume ormai maggiore validità la soluzione delle piste in calcestruzzo.

2.20 – Portanza del sottofondo

Le capacità di resistenza di un sottofondo sono variabili da un punto ad un altro della medesima area, dipendono dalla profondità interessata dai carichi e non sono costanti nel tempo in dipendenza delle condizioni ambientali esterne (gelo, pioggia) e delle variazioni di umidità propria. Per il calcolo delle soprastrutture aeroportuali la portanza del sottofondo viene caratterizzata, di norma, con uno dei seguenti indici:

E       modulo di deformazione (in kg/cm2 o N/m2);

CBR (California Bearing Ratio, valore %);

K       modulo di reazione (Westergaard) (in kg/cm3 o N/m3);

FAA   classificazione dei terreni in gruppi e classi.

L’esistenza di diversi parametri, non sempre facilmente correlabili fra loro, idonei a rappresentare una stessa proprietà del terreno, deriva dalla difficoltà di poter definire la portanza in maniera univoca ed ancora dalla necessità di mettere in evidenza, con ciascuno di essi, particolari aspetti del comportamento sotto carico anche in relazione al modello assunto per il terreno nel calcolo della soprastruttura.

La portanza, inoltre, sebbene riferita ad uno solo dei predetti indici, è sempre notevolmente influenzata, oltre che dalle modalità d’esecuzione della prova, anche dalla ripetibilità della misura; di conseguenza non si deve ritenere che la caratterizzazione della capacità di un terreno a sopportare dei carichi possa trovare una soluzione esaustiva; in ogni caso i parametri sopra richiamati, se correttamente interpretati, possono fornirne una rappresentazione sufficientemente aderente alla realtà.

2.20.1 – Modulo di deformazione E

Poiché il terreno di sottofondo non è un materiale ad elasticità lineare, risulta piuttosto difficoltoso sia definire che stabilire sperimentalmente il relativo modulo di deformazione; in più l’opportunità d’individuare tale caratteristica meccanica deriva dalla possibilità d’applicare, per il dimensionamento di pavimentazioni a più strati, metodi selettivi che consentano l’analisi della distribuzione delle tensioni alle varie profondità unitamente alla verifica dell’accettabilità delle deformazioni provocate dai carichi.

La determinazione dei moduli viene eseguita o con procedimenti di laboratorio o con misure in situ: nel primo caso (misura attraverso prove edometriche, prove ad espansione laterale libera, prove di compressione triassiale con prefissata sollecitazione laterale) s’incontrano notevoli difficoltà relativamente alla ricostruzione in laboratorio dei campioni oppure all’uso di campioni indisturbati. E’ inoltre da sottolineare come le particolari modalità d’esecuzione e i criteri d’interpretazione si rivelino non sempre soddisfacenti al fine di poter considerare il risultato di una di tali prove come valido per pervenire alla definizione di un modulo di deformazione elastica mentre, viceversa, appaiono più significative le misure in sito, mediante prove di carico con piastra. La ricercata caratteristica meccanica del terreno, più che da una lettura del diagramma carichi-deformazioni, può essere ricavata dall’applicazione della teoria del Boussinesq secondo la quale il cedimento f al centro di una piastra circolare rigida di raggio a, poggiata sul terreno e caricata con una pressione uniforme p, è dato dall’espressione:

f = πpa(1μ2)/2E *

dove E è il modulo di deformazione dell’ammasso e μ il coefficiente di Poisson.

Da una misura di freccia si può quindi risalire al valore di E dati μ ed a (*).

Tuttavia, perché i valori dei moduli siano validi e confrontabili occorre definire nelle prove:

–       il diametro della piastra

–       la sistemazione della piastra sul terreno (è opportuno situare la piastra su un sottile strato di sabbia eseguendo un carico di assestamento prima dell’inizio della prova vera e propria);

–       il gradiente di carico: incremento del carico e tempo in cui questo incremento deve essere effettuato;

–       le modalità per la misura dei cedimenti (3 sensori alla periferia della piastra disposti a 120°: la misura della deflessione risulta la media delle 3 letture purché lo scarto massimo non superi il 10% del valore medio); la lettura si effettua quando, raggiunto il carico, il valore al display, che normalmente continua ad incrementare, indica una deformazione < 0.02 mm/min;

–       le modalità con cui eseguire le operazioni di scarico nelle prove a cicli ripetuti.

E’opportuno, altresì, tener presente che i valori assunti per i moduli devono render ragione di un comportamento elastico del modello adottato per rappresentare il terreno; la medesima teoria di Boussinesq si fonda su ipotesi di elasticità, omogeneità ed isotropia dell’ammasso, condizioni, queste difficilmente riscontrabili nei terreni anche solo approssimativamente.

Pertanto la misura del modulo E (vol. 1°) può essere determinata tramite prove di carico a cicli ripetuti, utilizzando la piastra da 30 cm di diametro e raggiungendo ad ogni ciclo il valore di pressione che presumibilmente si deve comporre sul piano di posa (nel caso di soprastrutture aeroportuali può assumersi σmax = 2÷3 kg/cm2); così agendo si assume quale valore di freccia da introdurre nella relazione quella totale alla 10a ripetizione del carico, sempre che rispetto a questa la freccia plastica risulti abbastanza limitata.

Taluni autori suggeriscono di considerare come valore della freccia f quella totale al 2° ciclo, soprattutto per terreni granulari ben compattati (ossia ad elevato modulo).

Per ammassi plastici, nei quali si riscontrano frecce residue non trascurabili, specialmente in presenza di elevati contenuti d’acqua, la prova di carico con piastra perde significato e la ricerca della portanza deve essere eseguita con altri metodi (ad es. prove CBR).

In ogni caso, in presenza di terreni fini (limi e argille) è consigliabile adottare per l’ammasso valori di modulo prudenziali (E = 100÷150 kg/cm2 per Indice CBR a saturazione < 5).

La teoria di Boussinesq per la determinazione del modulo di deformazione di un terreno conserva validità nei limiti in cui l’espressione della freccia resta confermata da prove sperimentali poiché per un dato terreno (e a parità di ogni altra condizione) secondo la relazione vista in precedenza (*), il cedimento incrementa al crescere del diametro della piastra mentre s’è potuto constatare che, al di là di determinate dimensioni, tale proporzionalità non risulta più rispettata.

Fig. 2.24 – Ricerca sperimentale dell’influenza del diametro della piastra di carico (circolare) sul valore del rapporto pressione/cedimento.

In un diagramma avente in ascisse il rapporto P/A (perimetro/area che, nel caso di piastra circolare, è pari a 2/a) e in ordinate i valori p/f (Fig. 2.24) l’espressione (*) è rappresentata da una semiretta uscente dall’origine e di equazione:

p/f = 2c/a

Da prove sperimentali si è osservato, viceversa, che l’influenza della dimensione della piastra si traduce in una curva (indicata a tratto continuo in Fig. 2.24) assimilabile ad una bilatera il cui primo ramo è parallelo all’asse delle ascisse e il secondo coincide ~ con la semiretta di Boussinesq.

Da questo è possibile dedurre che l’utilizzazione del modello del semi-spazio elastico, isotropo ed omogeneo per rappresentare il terreno di sottofondo deve essere limitata a valori P/A ≥ 0.06 e, di conseguenza, che per la determinazione delle caratteristiche elastiche è necessario far ricorso a piastre di diametro ≤ 76 cm.

Permane da definire, per la valutazione di E, il valore di μ; per terreni di sottofondo tale coefficiente (difficilmente misurabile) si può ritenere variabile entro 0.35÷0.5 in funzione delle caratteristiche meccaniche e ambientali in cui il terreno si viene a trovare. Di fatto ai 2 valori limiti di μ indicati corrisponde una variazione del modulo E del 15% circa rispetto al valor medio, restando tale variazione entro i limiti delle approssimazioni dovute alle misure, alle modalità di esecuzione della prova ed ai criteri di interpretazione della medesima.

Assieme ai moduli definiti (indicati come moduli statici) viene ad essere ricercato, talora, il cosiddetto modulo dinamico. Questo viene determinato tramite prove in situ, utilizzando un vibratore e sottoponendo il terreno a carichi variabili con legge sinusoidale con determinata frequenza (~10 Hz).

Da uno studio statistico eseguito da Rafiroiu si rileva che i valori dei moduli statici per terreni di sottofondo sono generalmente compresi entro 150÷1000 kg/cm2(15÷100MN/m2) mentre quelli dinamici risultano alquanto più elevati. In ogni caso, per soprastrutture aeroportuali nelle quali la ripetizione dei carichi assume minore importanza che nel campo stradale, risulta più significativa la determinazione del modulo E mediante prove statiche.

2.20.2 – Indice CBR

La prova CBR per la determinazione della portanza di un terreno (vol. 1°) consiste in una prova di penetrazione effettuata, secondo modalità normalizzate (AASHTO T-193 ed EN 13286-47), a mezzo di apposito pistone agente su campioni del terreno medesimo opportunamente predisposti entro fustelle cilindriche e nel confronto delle pressioni ottenute per un prestabilito cedimento con le analoghe rilevate in un terreno campione. La procedura ha assunto notevole importanza sia per la relativa facilità d’esecuzione sia in quanto consente di dimensionare agevolmente la soprastruttura attraverso appositi diagrammi ricavati da numerosi controlli sperimentali.

L’indice CBR, come noto, può essere ottenuto:

–       con prova di laboratorio su campioni del terreno costipati alla densità massima ed alla umidità ottimale della prova AASHTO T-193: questo, infatti, é il metodo generalmente seguito anche se il risultato rispecchia il comportamento di un terreno che si trova in determinate condizioni di peso secco dell’unità di volume (massa volumica apparente);

–       con prova di laboratorio a saturazione, ossia previa permanenza in acqua per 4 giorni del provino già costipato secondo le modalità di cui al punto precedente. In tal modo si intende tenere conto della variazione che subisce la portanza per effetto d’imbibizioni d’acqua; per terreni granulari, che risentono poco di tale effetto, non si ottengono apprezzabili differenze rispetto al primo metodo mentre i risultati sono molto diversi per terreni plastici (in terreni argillosi A7 secondo la classificazione HRB, ad es., si sono rilevati indici CBR all’umidità ottimale pari al 25÷50% che si sono ridotti al 2÷3 % nella prova a saturazione. Variazioni così sensibili dell’indice di portanza fra una prova normale ed una a saturazione consigliano di accertare, prima di stabilire il tipo di prova, le condizioni del sottofondo e di verificare o meno la possibilità di risalita di acqua per capillarità tale che possa interessare il piano di posa della soprastruttura.

–       con prova di laboratorio, costipando il provino alla densità e con l’umidità riscontrate in situ; si ricava in tal modo un Indice che consente un più corretto dimensionamento della soprastruttura, perché basato su condizioni del sottofondo che meglio rispecchiano quelle effettive;

–       su provini indisturbati, prelevati con particolare cura dal terreno, i dovrebbero quindi fornire risultati comparabili con quelli ottenuti operando con il metodo precedente. La prova perde però la semplicità e rapidità che la caratterizza, oltre ad essere notevolmente influenzata dalle modalità di estrazione del campione;

–       in situmediante penetrazione dell’ago normalizzato direttamente nel terreno senza  ricorrere al confezionamento di provini.

A causa della difformità delle modalità d’esecuzione, trattandosi di una prova del tutto convenzionale, i risultati non possono che essere diversi fra loro, motivo per cui è necessario sempre specificare il criterio seguito e, in base a questo, interpretare correttamente l’indice ottenuto.

Diversi autori consigliano di riferirsi alla prova eseguita in laboratorio ricostituendo le medesime condizioni riscontrate in situ, ossia secondo quanto indicato al terzo punto.

In fase di progetto, essendo difficile prevedere quali possono essere tali circostanze, ci si può riferire alla densità (massa volumica apparente) minima prescritta per il sottofondo dopo costipamento. A tal fine è opportuno eseguire delle prove CBR a diversi valori d’umidità (con energia di costipamento costante corrispondente alla prova AASHTO) e correlare la curva CBR-umidità (CBR, w) con quella peso secco dell’unità di volume-umidità (γs, w) (Fig. 2.25).

E’ opportuno chiarire che, per la struttura stessa della prova e per il significato dei risultati ottenuti, l’indice CBR serve a caratterizzare la qualità di un materiale e quindi di 1 strato, non certo quella di un sistema a più strati o di un sottofondo non omogeneo. In questi casi l’unico criterio per valutare correttamente la portanza si rivela quello di ricorrere a prove dirette, ossia a prove con piastra, nelle quali sono interessate profondità dalla superficie libera tanto più estese quanto maggiore è l’area di carico (l’ago CBR, infatti, altro non è che una piastra rigida di piccole dimensioni).

Fig. 2.25 – Variazione dell’indice CBR con la % d’acqua d’impasto e correlazione con la curva di costipamento (γs, w).

2.20.3 – Modulo di reazione

Si definisce modulo di reazione K di un terreno il rapporto fra la pressione p e il relativo cedimento f:

K = p/f

Il modulo è stato introdotto da Westergaard il quale, per il calcolo delle pavimentazioni rigide, partendo dall’equazione di Lagrange per le piastre sottili indefinite, ha avuto necessità di caratterizzare la reazione dell’appoggio con una relazione di proporzionalità fra pressione e cedimento; la reazione p = Kf porta alla definizione di modulo di reazione. Più complesso, invece, si rivela l’attribuzione a tale parametro dei valori e quindi stabilirne il metodo di misura.

Westergaard ha proposto di determinare il modulo K come rapporto fra la pressione che, in una prova a ciclo unico con piastra circolare Ø 76 cm, determina un abbassamento di 0.05″ ed il cedimento stesso:

K = p/0.125 = 8p (kg/cm3, con p in kg/cm2)

Il valore di K può essere anche determinato (sempre con piastra da 76 cm) fissando la pressione da raggiungere in 0.7 kg/cm2 e valutando il relativo cedimento:

K = 0.7/f (kg/cm3 con f in cm)

Poiché il modulo K deve essere rappresentativo di un comportamento ~elastico del terreno, se la pressione di 0.7 kg/cm2 si riscontra entro tale campo di comportamento (Fig. 2.26) risulta accettabile la seconda definizione; viceversa, sempre che la deflessione di 0.125 mm risulti ancora relativa al suddetto campo elastico, diviene più indicata la prima.

Fig. 2. 26 – Interpretazione del modulo K in relazione al comportamento del terreno.

Il valore K cosi determinato, di norma, deve essere corretto per tener conto:

–       della forma della curva carico-deformazione quando questa, nella prima parte, non si presenta rettilinea (Fig. 2.27), il che avviene per terreni granulari ad elevato modulo; la correzione viene eseguita tracciando dall’origine degli assi del diagramma carico-deformazioni una parallela alla corda che, nella curva di carico, passa per i punti corrispondenti ai valori delle pressioni 0.7 e 2.1 kg/cm2 e adottando quale deflessione quella corrispondente, sulla retta tracciata, alla pressione 0.7 kg/cm2;

–       della deformazione della piastra di carico per i moduli più elevati (Fig. 2.28);

–       di eventuali risalite capillari manifestabili i seguito nel terreno, qualora non fosse possibile ripetere la prova nel momento in cui tali condizioni si verificano.

Fig. 2.27 – Correzione da apportare alla determinazione di K per curva carico-deformazione molto discosta da un andamento rettilineo.

Fig. 2.28 – Correzione del valore di K per tener conto della deformazione della piastra di prova.

Se K’ è il valore del modulo ottenuto come indicato in precedenza, eventualmente corretto secondo i 2 punti di cui in precedenza, si pone:

K = K’ d/ds

dove K è il valore del modulo corretto, d la deformazione di un provino del terreno all’umidità corrispondente alle condizioni in cui si effettua la prova in situ e dsla deformazione di un provino previa saturazione. I valori d e ds si determinano con l’impiego di un edometro sottoponendo il provino ad una pressione costante di 0.7 kg/cm2.

Il modello assunto da Westergaard per rappresentare il piano di posa della pavimentazione rigida prevede che il modulo di reazione K = p/f sia una costante e non una funzione del rapporto P/A come mostrato in Fig. 2.24. Pur non avendo l’autore mai negato il carattere empirico della definizione di K, le prove effettuate mostrano come i cedimenti riscontrati in piastre rigide caricate concordino in maniera soddisfacente con quelli calcolati con l’equazione di Westergaard in cui il valore di K risulti da una misura in situ. In effetti al disotto della piastra in calcestruzzo l’area attraverso la quale si distribuisce il carico è certamente tale che il rapporto P/A risulti < 0.06; di conseguenza si può concludere che la piastra di carico Ø 76 cm usata nella misura del modulo K consente di mantenersi nel campo di confermata validità del modello assunto da Westergaard.

2.20.4 – Classificazione FAA

Questa classificazione dei terreni di sottofondo è stata elaborata dalla FAA (Federal Aviation Administration) per il dimensionamento delle soprastrutture aeroportuali rigide e flessibili; in essa i terreni vengono suddivisi in 13 gruppi in funzione della granulometria e della suscettività all’acqua. Per mezzo di un’analisi granulometrica eseguita sul passante al n. 10 ASTM si determinano le 3 frazioni: passante al n. 10 e trattenuto al n. 60, passante al n. 60 e trattenuto al n. 270 e passante al n. 270. I terreni aventi una % di limo e argilla (passante al n. 270) < 45% sono considerati come granulari e classificati con i gruppi da E1E5.

Secondo tale classificazione i terreni considerati devono avere la frazione trattenuta al setaccio 10 ASTM compresa, in ogni caso, fra 0 e 55%; più precisamente fra 0 e 45% i terreni dei gruppi da E1 ad E5, e fra 0 e 55% i terreni dei gruppi da E6 ad E12.

Ai terreni in cui la suddetta frazione supera il 45% o il 55% e in cui il materiale grosso è ben assortito, è possibile attribuire il gruppo di 1 o 2 gradi superiore a quello che loro compete per gli altri limiti della classificazione. E’ opportuno rammentare che il gruppo E13 è costituito da terreni torbosi, assolutamente non idonei per sottofondi di soprastrutture aeroportuali.

Alcuni terreni fini in base alle sole indicazioni della Tab. 2.6 potrebbero essere classificati in gruppi diversi; per ovviare a tale incongruenza la FAA fornisce un nomogramma (Fig. 2.29) per mezzo del quale è possibile eliminare l’indeterminazione.

Fig. 2.29 – Nomogramma per la classificazione dei terreni di sottofondo secondo la FAA.

Ad es., un terreno avente LL = 55% e IP = 35% secondo detta tabella può essere classificato come E8, E10 o E11 mentre in base al nomogramma risulta univocamente classificabile come E8.

Tab. 2.6 – Classificazione dei terreni secondo la FAA e determinazione delle classi per le pavimentazioni flessibili e rigide.

Nella Tab. 2.6, inoltre, i terreni di sottofondo sono divisi in 2 classi in funzione della possibilità o meno di realizzare un buon drenaggio. Tale distinzione è possibile solo dopo un approfondito studio delle condizioni della zona (situazione topografica, caratteristiche e disposizione degli strati costituenti il terreno, presenza di falda etc.).

Si ammette che non vi sia la possibilità di un buon drenaggio quando i! sottofondo può diventare instabile per:

–       insufficiente decorso delle acque dovuto a particolari condizioni geologiche;

–       risalita di acque capillari;

–       caratteristiche topografiche del terreno (ad es. terreno piano al di sotto del livello del mare);

–       altre cause generiche che possono condurre all’instabilità o alla saturazione del terreno.

II drenaggio sarà invece possibile nelle seguenti condizioni:

–       le caratteristiche del sottofondo sono tali che non si prevede accumulo d’acqua;

–       non sono da temere fenomeni di risalita capillare.

Tutti i gruppi, tranne l’E13, possono rispondere a tali condizioni. In ciascuna delle 2 classi, infine, i terreni vengono ulteriormente distinti in due sottoclassi in funzione della presenza o meno di gelo.

Si ammette l’esistenza di una forte gelività se la profondità di penetrazione del gelo è superiore allo spessore previsto per la soprastruttura.

L’influenza sulla capacità portante del sottofondo del fenomeno del gelo è molto importante e a questo proposito occorre tener presente che, mentre la profondità di penetrazione è massima nella stagione invernale, la riduzione della capacità portante si manifesta al momento del disgelo, ossia in primavera; in tale periodo i valori dei moduli di deformazione si possono ridurre di oltre la metà. Con la classificazione FAA a ciascun sottofondo viene attribuito l’indice di portanza (Fa, F1÷F10 per pavimentazioni flessibili e Ra÷Re per pavimentazioni rigide) col quale risulta in seguito possibile effettuare il dimensionamento della soprastruttura.

2.20.5 – Correlazioni tra gli indici di portanza

Nel precedente paragrafo si è potuto osservare come, per caratterizzare la portanza di un terreno di sottofondo, vengano definiti vari parametri, su ciascuno dei quali è basato una diversa metodologia di calcolo della soprastruttura; così il modulo di reazione K è utilizzabile per la determinazione dello spessore delle pavimentazioni in calcestruzzo, il modulo di deformazione E è uno dei dati necessari per l’analisi della distribuzione delle tensioni nei sistemi a più strati, l’indice CBR e la classificazione FAA sono posti a base di metodi semiempirici per il dimensionamento delle soprastrutture. E’ stato anche possibile notare che ciascun fattore di portanza richiede per la propria misura determinate prove, in laboratorio o in situ, con particolari e prefissate modalità di esecuzione; ciò rappresenta un primo elemento di giudizio sia in fase progettuale che operativa circa l’attitudine del terreno di sottofondo a resistere alle sollecitazioni indotte dalla pavimentazione e sulla necessità o meno di provvedere a un risanamento del sottofondo prima della costruzione della soprastruttura vera e propria.

In termini operativi le prove di portanza del sottofondo hanno lo scopo di verificare i risultati ottenuti coi provvedimenti adottati, ossia di controllare che il piano di posa della pavimentazione sia dotato delle prescritte caratteristiche di resistenza sulla base della prova ritenuta più idonea; questo, tuttavia, non esime dal fatto che, a soprastrutture completate, il controllo possa essere esteso a queste usando le prove e le modalità esecutive trattate successivamente.

La scelta di un particolare fattore di portanza al posto di un altro si presenta in modo differente nella fase progettuale, ove occorre ancora definire sia il tipo d’intervento migliorativo da eseguire sul sottofondo sia il tipo e gli spessori da prevedere per i diversi strati della soprastruttura. Poiché non sempre si ha a disposizione il valore dell’Indice di portanza relativo al particolare criterio di calcolo che s’intende impiegare e poiché, in ogni caso, è consigliabile verificare il dimensionamento con diversi metodi, risulta particolarmente utile la conoscenza di determinate correlazioni che consentano di passare da un fattore di portanza ad un altro con relativa facilità. Per quanto siano stati effettuate numerose ricerche nel merito non sempre è risultato possibile correlare in maniera univoca e soddisfacente detti parametri, motivo per cui le correlazioni proposte devono essere considerate solo come orientative.

È opportuno in ogni caso osservare che ogni correlazione fra diversi indici di portanza deve essere correttamente interpretata ed utilizzata nel campo di limitata validità della medesima, anche perché non ci si può attendere un grado di affidabilità maggiore di quello fornibile dalle misure sperimentali dei parametri correlati.

Nella determinazione dei vari indici, in pratica, la dispersione dei risultati delle prove di laboratorio o in situ si riproduce necessariamente nelle correlazioni fra questi e poiché si accettano determinate approssimazioni nelle misurazioni effettuate, risulta illogico pretendere approssimazioni maggiori dai risultati delle correlazioni.

2.20.5.1 – Correlazione fra modulo di deformazione ed indice CBR

Alcune considerazioni importanti a tal riguardo sono state proposte da Rafiroiu il quale, in base ad un’analisi statistica sui numerosi dati raccolti, ha suggerito le seguenti correlazioni:

Est = 30 I per terreni coerenti;

Est = 50 I per terreni incoerenti;

essendo Est il modulo di deformazione statico valutato attraverso prove di carico con piastra circolare (assumendo per f la freccia totale alla 2a ripetizione di carico) ed I l’indice CBR determinato in laboratorio su un provino compattato alla medesima densità riscontrata nel terreno durante la prova di carico con piastra.

Un’ulteriore correlazione fra modulo statico ed indice CBR, riportata da Jeuffroy è la seguente:

Est = 65 I0.65

Tali considerazioni suggeriscono l’opportunità di svolgere le indagini preliminari e quelle di controllo eseguendo, nella medesima zona, determinazioni dell’indice di portanza secondo le modalità esposte e utilizzando prove diverse (modulo E, indice CBR in situ e in laboratorio, modulo K, classificazione FAA) in modo da poter confrontare i risultati ricavabili dai vari metodi di calcolo. Le prove, comunque, devono essere completate da rilevamenti geognostici estesi in profondità ed interessanti tutta l’area aeroportuale, al fine di disporre di una conoscenza globale dell’ammasso costituente il sottofondo.

Per i terreni di sottofondo (ed anche per quelli di fondazione) sui quali sono state determinate tali correlazioni, e quindi per I variabili da 1 a 15, le espressioni di Rafiroiu e Jeuffroy (in particolar modo per i valori più bassi) forniscono risultati approssimativamente concordanti. Sempre nel suddetto campo di variabilità, alla relazione di Jeuffroy corrispondono valori intermedi fra quelli relativi alle relazioni di Rafiroiu motivo per cui la correlazione del Jeuffroy risulta, in genere, più favorevolmente accettata.

Fig. 2.30 – Correlazione fra modulo di deformazione E ed indice CBR.

Nel campo dei moduli dinamici, inoltre, sono state proposte correlazioni fra le caratteristiche elastiche dei terreni di sottofondo o di fondazione e i relativi indici CBR quali:

Edin = 100 I

Edin = a Est

con:

a = 1÷1.14                    per terreni granulari

a = 1.1 + 0.028A                    per terreni fini

essendo A la % di elementi del terreno di dimensioni < 0.063 mm. Per A = 32%, risulta a = 2 e l’espressione (per la relazione ultima) diviene:

Edin = 2Est

e per la 1a relazione di Rafiroiu

Edin = 60 I

Ne diagramma di Fig. 2.30 sono tradotte in grafico anche le espressioni ultime.

Il valore del modulo Edin è relativo a misure ottenute da prove dinamiche alla frequenza di 10 Hz.

2.20.5.2 – Correlazione fra modulo di deformazione E e modulo di reazione K

II modulo di reazione K = p/f è determinato, come visto, attraverso prove di carico con piastra rigida Ø 76 cm; supponendo allora che il terreno sia costituito da un mezzo perfettamente elastico, omogeneo e isotropo, dalla teoria di Boussinesq, per tali condizioni di carico, la freccia al centro della piastra si esprime con la:

f = πpa(1μ2)/2E

da cui:

E = πpa(1μ2)/2f = f = πaK(1μ2)/2

Di conseguenza si ottengono le seguenti correlazioni:

E = 52 K              per μ = 0.35

E = 45 K              per μ = 0.50

con K in kg/cm3 ed E in kg/cm2, dove E rappresenta il valore del modulo statico Est.

Dalla composizione di tutte l’espressioni viste é possibile ricavare le relazioni seguenti fra K ed indice CBR:

Fig. 2.31 – Correlazione fra i vari parametri caratterizzanti la portanza di un terreno di sottofondo.

L’AASHTO ha proposto una curva di correlazione fra l’indice CBR (prove di laboratorio) ed il modulo di reazione K (kg/cm3). Tale curva è costituita da una bilatera (nel diagramma Klog ICBR) il cui primo lato, per valori ICBR compresi fra 2÷30, può individuarsi mediante l’equazione:

K = 5.13 log ICBR

mentre il secondo, per valori ICBR = 30÷100, con l’equazione K = 26.61 log ICBR – 31.47.

E’ possibile notare come, per valori dell’indice CBR  15, la correlazione suggerita dall’AASHTO non si discosti molto dai valori di K ricavabili in base alle espressioni avanti riportate. I maggiori divari, infatti, si riscontrano per valori CBR > 15, in un campo in cui la dispersione dei risultati  per l’indice CBR e K è certamente elevata sebbene poco interessante ai fini applicativi.

In Fig. 2.31 viene riportato un nomogramma mediante il quale è possibile effettuare il passaggio da un fattore di portanza ad un altro sfruttando le correlazioni sopraddette; in esso sono inoltre riportati anche i gruppi della classificazione FAA.

2.20.6 – Portanza minima sul piano di posa della soprastruttura

Nel dimensionamento delle soprastrutture aeroportuali, sia rigide che flessibili, un fattore determinante nel dimensionamento, come visto, è rappresentato dal valore della portanza del terreno di sottofondo. Le differenti metodologie per l’individuazione dello spessore necessario a rendere la struttura idonea a sopportare i carichi tengono conto di tale fattore attraverso uno dei vari indici di cui si è trattato ma per i quali è opportuno avanzare ulteriori considerazioni.

Lo spessore della soprastruttura, infatti, risulta tanto maggiore quanto minore si presenta la capacità portante del terreno di sottofondo; tuttavia è opportuno che la medesima non scenda oltre un prestabilito valore limite. Tale criterio, valido nel caso di pavimentazioni rigide e flessibili, è suggerito da diverse considerazioni, ossia:

–       è consigliabile evitare bruschi salti di qualità fra materiale costituente la fondazione e terreno di sottofondo, così come per qualsiasi altro strato rispetto a quello sovrastante o sottostante: Biroulia afferma che quanto più la riduzione dei moduli di deformazione dei singoli strati (dall’alto verso il basso) è uniforme tanto più è graduale l’indebolimento delle sollecitazioni con la profondità assicurando un’effettiva resistenza di tutti gli elementi della soprastruttura;

–       a scarsa capacità portante corrispondono, di norma, terreni le cui proprietà sono molto variabili con le condizioni ambientali e che rappresentano quindi piani d’appoggio poco sicuri;

–       risulta da molteplici esperienze che, a bassi valori dell’indice di portanza, corrisponde, in genere, una difficile interpretazione oltre che un minor grado di affidabilità dei risultati delle prove effettuate; tutto questo rende meno probante il dimensionamento ricavato dal valore di portanza ottenuto;

–       i diversi criteri di dimensionamento basati sui metodi cosiddetti razionali considerano il terreno di sottofondo come un solido elastico, omogeneo, isotropo e semi-indefinito, ipotesi tanto più lontane dalla realtà quanto minori sono le capacità di resistenza del terreno stesso.

Sulla base di tali considerazioni, da più parti si è avvertita l’esigenza di stabilire un valore limite di portanza per il terreno di sottofondo, ricorrendo, quando tale valore non venga raggiunto, ad interventi migliorativi prima di stendere lo strato di fondazione della pavimentazione.

I provvedimenti da adottare per risolvere una tale impostazione sono diversi e devono essere scelti in relazione alla situazione dei luoghi ed alle caratteristiche dell’ammasso.

Con talune circostanze può essere sufficiente l’asportazione dello strato non idoneo in quanto torboso o fortemente cedevole, e la sostituzione con materiale di apporto granulare, sempre che si tratti di spessori non eccessivi (2÷4 m); oppure, qualora possibile, potrà eseguirsi il trattamento dello strato, specialmente se si tratta di argille a elevato indice di plasticità, con calce idrata; in altri casi si dovranno usare sistemi più impegnativi. L’obbiettivo, in ogni caso, è quello di ottenere sul piano di posa della soprastruttura degli indici di portanza non inferiori ai seguenti valori:

–       – modulo di deformazione E ≥ 300 kg/cm2;

–       – modulo di reazione         K ≥ 5 kg/cm3;

–       – indice CBR                       I ≥ 10.

(in prova di laboratorio al grado di addensamento del terreno in situ).

Per ciò che attiene alla portanza da assumere al fine della utilizzazione dei nomogrammi proposti dalla FAA occorre definire la classe del sottofondo in base al gruppo di appartenenza del terreno. Dal diagramma di correlazione di Fig. 2.31 a un indice CBR = 10 corrispondono due gruppi della classificazione FAA, E6ed E7; supponendo che in ogni caso il terreno di sottofondo appartenga al gruppo E7, dalla Tab. 2.6 si rilevano altresì le classi F3, F4, F5 ed F6 per le pavimentazioni flessibili e le classi Rb ed Rc per quelle rigide, in relazione alle condizioni di gelo e di drenaggio.

Nella progettazione, salvo ulteriori approfondimenti, è consigliabile adottare la classe F5 per le pavimentazioni flessibili e quella Rc per le rigide; qualora, viceversa, il terreno di sottofondo appartenga a gruppi superiori a quello sopraindicato (da E8 ad E12), é necessario prevedere al disotto della soprastruttura vera e propria un opportuno strato di miglioramento. Lo spessore di tale strato deve essere stabilito, oltre che in funzione dell’incremento della capacità portante, anche in base a considerazioni riguardanti eventuali ulteriori finalità che s’intenda raggiungere quali l’intercettazione di acque di risalita capillare e/o l’abbassamento del livello della falda.

Riguardo a le pavimentazioni rigide occorre distinguere fra portanza del piano di posa della piastra e quella del piano di sottofondo, essendo fra questi interposta la fondazione in uno o più strati; il valore indicato (K0 ≥ 5) si riferisce al piano di sottofondo mentre si ritiene opportuno che sul piano di appoggio della piastra si raggiunga un modulo Kf = 10÷12 kg/cm3.

Infatti, può verificarsi facilmente che, per valori di K > 12 kg/cm3, ad un aumento di questo di 4 kg/cm3 corrisponda, a parità di spessore e condizioni di carico, una diminuzione della tensione di lavoro nella sovrastante piastra in calcestruzzo di ~1 kg/cm2 (Δσ/ΔK = 0.25 cm) mentre per valori di K < 12 kg/cm3 un medesimo incremento comporta una riduzione  pari a circa il doppio (Δσ/ΔK = 0.5 cm).

Tutto ciò sta ad indicare che l’influenza del modulo K sul dimensionamento delle piastre in calcestruzzo è meno trascurabile per i valori più bassi, per i quali da un lato la determinazione sperimentale è meno attendibile e dall’altro è più sentita l’influenza delle condizioni ambientali, causa prima delle variazioni in situ del medesimo modulo. E’ inoltre opportuno rammentare che la corrispondenza fra fenomeno reale e ipotesi di Westergaard è tanto maggiore quanto più elevata è la capacità portante del terreno.

Alcuni studiosi ritengono che l’ipotesi di un contatto costante fra piastra sotto carico e fondazione, condizione indispensabile per Io svilupparsi di una reazione di tipo elastico, presupponga un elevato valore del modulo K; se il piano d’appoggio non presenta, viceversa, la necessaria capacità portante, l’insorgere di deformazioni plastiche comporta il distacco della piastra in più punti motivo per cui a tale ipotesi viene a sostituirsi la condizione di una serie di appoggi distribuiti in maniera aleatoria e reagenti con costanti elastiche diverse.

Il problema di passare dal modulo dì sottofondo K0 a quello necessario sotto la piastra Kf può essere risolto dimensionando opportunamente lo strato di fondazione. In Fig. 2.32 è riportato un nomogramma per la determinazione dell’aumento di portanza Kf/K0 in funzione del rapporto fra i moduli del sottofondo e della fondazione e dello spessore di quest’ultima.

Fig. 2.32 – Determinazione dello spessore da assegnare a uno strato di fondazione di modulo E1 su sottofondo di modulo E0 (modulo di reazione K0) perché sul piano di posa della piastra in calcestruzzo si abbia un modulo di reazione Kf.

Ad es., assumendo un modulo di deformazione del sottofondo E0 = 280 kg/cm2 (K0 = 4.7 kg/cm3) ed E1 = 14 103 kg/cm2 (modulo della fondazione in misto cementato) si ha E1/E0 = 50, motivo per cui, desiderando ottenere sul piano di posa della piastra Kf = 9.3 kg/cm3 (Kf/K0 = 2) Io spessore della fondazione dovrà risultare di ~30 cm; incrementando il valore del modulo E1 lo spessore necessario per la fondazione si riduce di conseguenza.

2.21 – Portanza della soprastruttura

La portanza del terreno di sottofondo rappresenta l’elemento essenziale per procedere al dimensionamento della soprastruttura mentre la necessità della misura della capacità portante di questa deriva dall’esigenza di disporre di criteri di controllo idonei a valutare la buona esecuzione dell’opera ed a verificarne l’attitudine a sopportare determinate sollecitazioni. Per tale motivo vengono eseguite prove di carico con piastra adottando modalità diverse a seconda che si tratti di pavimentazioni rigide o flessibili, e ciò perché si possa correlare il risultato delle prove ad una definizione di portanza che risulti aderente alle reali condizioni di resistenza della soprastruttura.

La necessità di conoscere la capacità portante si manifesta inoltre qualora, in fase d’esercizio, si voglia verificare fino a che termine è possibile abilitare piste e piazzali al movimento di aeromobili le cui gambe di forza trasmettano alla pavimentazione sollecitazioni diverse da quelle assunte in fase di dimensionamento.

Con le pavimentazioni flessibili si utilizzano prove di carico a cicli ripetuti, in quanto la resistenza di tali soprastrutture viene influenzate in misura notevole dal numero delle ripetizioni del carico, mentre per quelle rigide si preferisce eseguire prove a ciclo unico.

In ogni caso, a motivo del fatto che il carico limite è funzione dell’area di contatto, si presenta nuovamente il problema della scelta delle dimensioni della piastra; nel merito sono risultati decisivi gli studi sperimentali che hanno condotto all’individuazione di una correlazione fra carico necessario a produrre la rottura di una pavimentazione ed area di contatto attraverso la quale viene applicato il carico; su tale correlazione, infatti, si basa il metodo LCN per la classificazione delle piste e dei piazzali.

Componendo in un diagramma, avente per ascisse l’area A della piastra utilizzata e per ordinate il carico di rottura Q (Fig. 2.33), i risultati di prove eseguite con piastre di diverse dimensioni si ottengono delle curve Q(A) ognuna delle quali rappresenta il modo di reagire della soprastruttura cui si riferisce a carichi trasmessi attraverso differenti aree di contatto; le rette uscenti dall’origine forniscono, per pressioni variabili entro 3÷8 kg/cm2, la relazione fra area d’impronta e carico applicato (Q = Ap = πd2p/4). La concavità verso l’asse delle ascisse di tali curve mostra come la pressione che provoca la rottura diminuisca all’aumentare delle dimensioni della piastra.

Fig. 2.33 – Variazione del carico di rottura in funzione dell’area di contatto della piastra di prova: le curve 1, 2 e 3 sono riferite a diverse pavimentazioni.

Si osserva chiaramente come la soprastruttura cui si riferisce la curva 1 ha una portanza maggiore rispetto alle altre due (curve 2 e 3) in quanto, a parità d’area di contatto, presenta un carico di rottura più elevato; nel diagramma di Fig. 2.34 vengono composte le curve ricavate in base a differenti risultati di prove svolte in vari aeroscali e riferiti a pavimentazioni rigide e flessibili: in ascisse sono indicate le aree di contatto e in ordinate i carichi di rottura espressi quali % di quello utile a produrre la rottura della pavimentazione con un’area di contatto di 3.420 cm2; l’ordinata relativa all’ascissa 3.420 cm2 risulta, infatti, pari al 100%.

Fig. 2.34 – Diagramma carico di rottura-area di contatto della piastra di prova. Le ordinate sono rapportate al carico di rottura relativo alla piastra di area A = 3.420 cm2.

Per mezzo di tale tipo di rappresentazione si è potuto assimilare in 2 sole curve il comportamento di soprastrutture rigide e flessibili; viene inoltre indicata la curva che rappresenta, con buona approssimazione, la capacità portante media di una pavimentazione. A quest’ultima curva corrisponde l’equazione:

Q1/Q2 =(A1/A2)a

nella quale Q1 e Q2 sono i carichi di rottura relativi rispettivamente a 2 aree di contatto A1 e A2 ed a un coefficiente di norma assunto pari a 0.44.

Le esperienze condotte sulla validità dell’equazione confermano che il suo campo d’applicazione debba ritenersi accettabile per valori di aree di contatto comprese entro 1.300÷4.500 cm2.

In ogni caso l’utilità della relazione è significativa se si pensa che essa permette, mediante la determinazione di una sola coppia di valori (A, Q) ottenibile sperimentalmente con una sola prova di carico con piastra di area A, di rilevare il comportamento della pavimentazione anche quando quest’ultima viene sollecitata con carichi trasmessi attraverso aree di contatto differenti da quella usata nella prova.

Per gli aeroporti civili le norme stabiliscono l’uso della piastra Ø 45.7 cm (18”) ossia avente un’area di 1.640 cm2 (254 square inches); la piastra d’acciaio, opportunamente irrigidita (Fig. 2.35a), viene sistemata sulla pavimentazione tramite un sottile strato di sabbia per assicurare un’uniforme distribuzione delle pressioni; su questa viene posto il martinetto fino al contrasto con una sufficiente reazione.

Allo scopo si ricorre ad un carrello i cui assi abbiano passo sufficientemente ampio (Fig. 2.35b), zavorrato in modo che il peso complessivo risulti superiore del 30÷40% al carico massimo prevedibile.

Fig. 2.35 – a) in alto, piastra d’acciaio rinforzata per prove di carico su piste e piazzali; b) sotto, rappresentazione schematica di un carrello adoperato come contrasto nelle prove di carico.

In corrispondenza del contrasto fra martinetto e carrello viene opportunamente interposto uno snodo sferico (Fig. 2.36).

Fig. 2.36 – Schema della disposizione dell’apparato per la trasmissione del carico e per le misure dei cedimenti nelle prove con piastra.

Sulla piastra di carico sono disposti tre sensori (corsa > 2 cm) che permettono misure almeno fino a 0.1 mm con approssimazione a 0.01 mm, sistemati a 120° alla periferia della piastra medesima e sostenuti, mediante bracci di collegamento, da barre di lunghezza ~ 2.00 m, in maniera che gli appoggi ricadano al di fuori della presunta zona d’influenza.

Al fine d’eseguire prove su pavimentazioni rigide, ad es. al vertice della piastra in calcestruzzo, il carrello deve essere collocato in modo da non interessare la piastra sottoposta al carico; possono essere disposti anche dei sensori per controllare le inflessioni nelle zone vicine; risulta interessante, in particolare, rilevare i cedimenti in corrispondenza del vertice e lungo la diagonale. Prima dell’esecuzione della prova si rivela opportuno eseguire un controllo, sulla base dei dati di progetto, del carico massimo che presumibilmente verrà raggiunto; è possibile così stabilire il peso del carrello col suo sovraccarico e la portata del martinetto.

Durante la prova, eseguita con modalità diverse per pavimentazioni flessibili e rigide, si rilevano i carichi raggiunti e le deflessioni ai 3 sensori: queste ultime non dovrebbero differire più del 10% rispetto al valore medio; in caso contrario è opportuno interrompere la prova in quanto potrebbe essersi manifestato qualche difetto tecnico (ad es. non perfetta centralità fra piastra di carico e martinetto o inidonea sistemazione dello snodo).

Tab. 2.7 – Prova di carico su pavimentazione rigida: rilevamento delle misure dei cedimenti in funzione del carico sulla piastra di prova.

Tab. 2.8 – Prova di carico su pavimentazione flessibile: rilevamento delle misure ai sensori in funzione delle pressioni massime raggiunte nei vari cicli.

Risulta conveniente, per le pavimentazioni rigide, la contemporanea esecuzione della misura del modulo di elasticità E del calcestruzzo effettuata con metodo non distruttivo (ad es. mediante l’uso di dispositivi ad ultrasuoni).

Nelle Tab. 2.7 e 2.8 sono riportate le tipologie tabellari che vengono normalmente usate rispettivamente per le prove di carico in pavimentazioni rigide e flessibili; con f1f2 ed f3 sono indicati i valori dei cedimenti, in 0.01 mm, letti ai 3 sensori, con fm quale valor medio.

2.21.1 – Prove di carico su pavimentazioni rigide

Partendo dalla considerazione che in una pavimentazione rigida non armata e liberamente appoggiata su un suolo elastico la posizione più sfavorevole del carico è l’angolo, si rivela opportuno collocare la piastra di prova in tale posizione.

Con giunti armati, quindi in grado di trasmettere carichi da una piastra a quella adiacente, risulta è opportuno, viceversa, ricercare il punto più debole della soprastruttura eseguendo prove anche al centro e al bordo.

Secondo le modalità previste dalle norme s’inizia la prova aumentando il carico fino al valore di 2.300 kg facendo seguire subito dopo una fase di scarico; e questo per un assestamento della piastra d’acciaio sopra il letto di sabbia che si interpone fra la medesima e la pavimentazione.

Si applica, quindi, nuovamente il carico, a mezzo d’incrementi successivi di 2.300 kg misurando ad ogni incremento di carico il relativo abbassamento della piastra. L’andamento della relazione carichi-deformazioni, prima del collasso, risulta pressoché lineare. La prova prosegue finché non viene registrata una deflessione di 5 mm (freccia totale), in corrispondenza della quale, in genere, il calcestruzzo appare già fessurato.

Nel caso la retta carichi-deformazioni manifestasse una brusca variazione (Fig. 2.37), indipendentemente dal valore della freccia misurata, viene assunto come carico di rottura il carico raggiunto nel punto in cui si riscontra tale variazione.

Fig. 2.37 – Prove di carico su pavimentazione rigida: diagramma carichi-cedimenti.

Ai fini dell’attendibilità dei risultati in seguito utilizzati per la determinazione della portanza della soprastruttura, è consigliabile eseguire non meno di 20 prove con la medesima piastra d’acciaio in diversi punti della pista o del piazzale ed assumere quindi come carico di rottura della pavimentazione, relativamente alla determinata area di contatto, la media dei valori ottenuti da ciascuna prova.

2.21.2 – Le prove di carico su pavimentazioni flessibili

Per la valutazione della portanza nel caso di pavimentazioni flessibili, si eseguono, come detto, prove di carico con piastra a cicli ripetuti.

Le modalità d’esecuzione delle prove sono analoghe a quelle dell’HRB (Fig. 2.38); il valore della pressione massima σ1max da raggiungere nella prima serie di 4 cicli è quello che alla prima applicazione determina una freccia di 2.5 mm. Le pressioni massime σ1max da raggiungere in ciascuna delle successive serie di ripetizioni sono quelle che, alla prima applicazione della relativa serie, fanno conseguire frecce totali rispettivamente di 5÷7.5÷10÷12.5 mm.

Fig. 2.38 – Prova di carico a cicli ripetuti su pavimentazione flessibile: diagramma pressioni-cedimenti.

Ammettendo la proporzionalità tra deformazioni e logaritmo del numero delle ripetizioni, per data pressione massima raggiunta, secondo la legge di McLeod, è possibile l’estrapolazione dei risultati a 10, 100, 1.000, 10.000 cicli (Fig. 2.39 e 2.40).

Leggendo le indicazioni in Fig. 2.38, sommando le frecce plastiche al primo ciclo di ciascuna serie (segmenti AB, CD, EF, GH), si ottiene la curva I che rappresenta gli assestamenti plastici iniziali: per p = σ1max si ottiene fp = AB; per p = σ2maxfp = (AB + CD); per p = σ3max fp = (AB + CD + EF) e via di seguito. La curva II, viceversa, compone le deformazioni totali sempre in relazione al primo ciclo di ciascuna serie, nella quale, quindi, non si è tenuto conto delle deformazioni dovute alla ripetizione del carico: per p = σ1max si ottiene ft = MN; per p = σ2maxft = (PQ – NN’); per p = σ3maxft = (RS – NN’ – QQ’).

Fig. 2.39 – Prova di carico a cicli ripetuti su pavimentazione flessibile: diagramma cedimenti-logaritmo del numero di ripetizioni del carico. Estrapolazione delle misure effettuate durante la prova a 10, 100, 1.000, 10.000 ripetizioni.

Sottraendo, in corrispondenza di ciascuna ordinata, alle ascisse della curva II (frecce totali) quelle della curva I (frecce plastiche) si ottengono le frecce elastiche relative alla prima applicazione del carico. Traslando la curva I parallelamente all’asse delle ascisse di una quantità pari a 5 mm, curva I’, l’intersezione fra quest’ultima e la curva II permette di definire una pressione limite p1 come quella che, alla prima applicazione del carico, produce una deformazione totale pari all’assestamento plastico aumentato di 5 mm. E’ da notare come per valori prossimi a tale pressione limite la curva che fornisce i cedimenti totali tenda quasi asintoticamente alla rettap=p1. Spesso si definire quale portanza la pressione critica p2 che dopo 10.000 ripetizioni del carico (ottenute per estrapolazione nel diagramma di Fig. 2.39) provoca una deflessione totale di 5 mm, tolto l’assestamento iniziale (punto W nel diagramma di Fig. 2.40). A tal fine si trasla di 5 mm la curva III rappresentante l’accumulo della freccia plastica all’inizio di ciascuna serie (freccia residua dopo il primo ciclo di ciascuna serie): per p = σ1maxfp = AB; per p = σ2maxfp = AD; per p = σ3maxfp = AF (Fig. 2.38).

La p1 corrisponde generalmente ad una pressione di rottura, mentre la pz viene assunta come pressione di sicurezza, per cui il rapporto rappresenta in tal senso un coefficiente di sicurezza. Da alcune esperienze risulta che tale coefficiente raggiunge valori generalmente compresi fra 2 e 3.

Fig. 2.40 – Prova di carico a cicli ripetuti su pavimentazione flessibile. Diagramma pressioni-cedimenti per dato numero di ripetizioni del carico.

Nel caso di pavimentazioni flessibili la capacità portante viene influenzata da diversi fattori senza definire i quali la misura effettuata resta priva di significato in quanto non correlabile coi risultati di altre prove. Uno dei fattori più importanti è la temperatura alla superficie del manto, poiché questa, come è noto, ha una notevole influenza sulla defor-mabilità degli strati superiori. Le norme generalmente non forniscono particolari indicazioni al proposito, per cui, in via prudenziale, la determinazione della portanza andrebbe effettuata nelle condizioni più sfavorevoli; diversamente è opportuno precisare le condizioni di prova per non indurre in errate valutazioni.

Importanza hanno anche le modalità d’esecuzione della prova, quali il gradiente di carico ed il tempo fra l’istante in cui si raggiunge una determinata σmax e l’istante in cui si effettua la lettura della deflessione, trattandosi, nel caso specifico di pavimentazioni flessibili, di strutture nella cui risposta la componente viscosa non è trascurabile: inoltre anche le particolari condizioni in cui si trova il sottofondo al momento della prova possono influire in una certa misura sulla determinazione della portanza. Analoghe considerazioni possono farsi per le prove su pavimentazioni rigide; è da notare però che in tal caso la temperatura ha una influenza praticamente trascurabile.

Si ricorda infine che, oltre alle prove statiche descritte, per la determinazione della capacità portante di una soprastruttura possono utilizzarsi prove di tipo dinamico sollecitando la pavimentazione con carichi variabili nel tempo con determinata frequenza.

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