1 – I materiali da costruzione

I materiali da costruzione sono gli elementi base per la realizzazione di manufatti; vengono generalmente suddivisi in elementi naturaliderivati (o misti) ed artificiali. Ai primi appartengono le rocce s.s., gli aggregati lapidei s.l. e i legnami; ai secondi i leganti (sia idraulici che organici), i calcestruzzi, i laterizi e i componenti base vetro-ceramici; agli ultimi gli elementi succedanei da semilavorati ovvero strutture metalliche, fibro-tessuti, componenti di sintesi, compositi etc.

Per quanto concerne la realizzazione delle Grandi Opere d’Ingegneria, in attinenza con l’attività geologico-tecnica, nel presente capitolo vengono trattati unicamente gli aggregati lapidei, i leganti e i calcestruzzi rinviando a pubblicazioni specialistiche quanto compete ai rimanenti elementi.

Nel terzo volume della presente trattazione, per quanto attiene alle particolari specifiche competenze di settore, vengono approfonditi alcuni concetti relativi ad asfalti, bitumi, strutture metalliche e in cemento armato.

1.1 – Aggregati lapidei

Gli aggregati lapidei sono componenti naturali della crosta terrestre; miscelati e legati in dosi opportune, a seconda delle necessità operative, costituiscono la base fondamentale delle strutture dei manufatti edili in generale.

Per la particolare importanza in sede di trattazione costituita dalle infrastrutture (strade, in primis, quindi ferrovie, aeroporti, dighe, gallerie etc.) ne verranno sottolineate soprattutto la funzionalità, l’operatività e la qualità sotto l’aspetto dell’utilizzo relativo alle vie di comunicazione.

1.1.1 – Classificazione degli aggregati lapidei

In tutte le miscele che s’impiegano nell’ambito dell’edilizia l’aggregato lapideo rappresenta, in volume, la parte più importante (dal 50 al 100%). Per la loro origine e per la grande variabilità di provenienza gli aggregati lapidei hanno una eterogeneità che non ha confronto con la sostanziale omogeneità del legante. Occorre dunque prestare la massima attenzione agli aspetti e ai problemi che nascono da questa variabilità. La funzione di tali materiali, infatti, risulta completamente diversa se s’impiegano negli strati inferiori delle sovrastrutture stradali, in una diga in terra, alla base di un molo o nell’impasto per strutture armate. E’ quindi, difficile generalizzare le caratteristiche che si richiedono, le quali possono essere raggruppate in 3 categorie:

–       le caratteristiche geometriche;

–       le caratteristiche fisico-chimiche;

–       le caratteristiche meccaniche.

Nella grande famiglia degli aggregati lapidei (talvolta indicati come inerti) possono essere convenzionalmente isolate 3 classi in ordine di dimensione dei grani:

a)         granulati o frantumati (ghiaie, pietrischi, scorie);

b}        sabbie;

c)         fillers;

Talvolta queste frazioni si presentano isolate, talvolta sono considerate nel loro insieme. Un modo efficace per caratterizzare queste due situazioni è quello di parlare volta a volta di aggregati d/D (in cui, cioè, è presente solo la frazione compresa fra le dimensioni d e D, generalmente molto vicine tra loro) e di aggregati 0/D (in cui cioè sono presenti tutte le frazioni con dimensioni da 0 fino a D).

Un’ulteriore classificazione può essere effettuata distinguendo i materiali naturali provenienti da frantumazioni di rocce in massa o da frantumazione di materiali granulari alluvionali o non e i materiali artificiali, o seminaturali, cui si è fatto ricorso in tempi più o meno recenti, sia per la loro maggiore durevolezza e la maggiore resistenza all’abradibilità, sia per la crescente difficoltà di reperire in natura (almeno a buon livello di rendimento) le quantità di cui il fabbisogno è tuttora elevato. Esempi di tali materiali sono la bauxite calcinata ed il Sinopal.

1.1.1.1 – Aggregati naturali

Sulle centinaia di milioni di tonnellate prodotte annualmente dalle cave (rocce in massa o granulari alluvionali) circa il 30% sono impiegati nelle sovrastrutture stradali, il 40% nelle infrastrutture e il 20% nell’edilizia civile. I materiali direttamente a contatto col traffico (in strati di usura o in trattamenti superficiali) costituiscono circa il 5% del totale.

Considerando la ripartizione dei differenti tipi di rocce d’origine, indicata nella tab. 1.1 ci si rende conto di alcuni fatti sintomatici sulle proprietà richieste al tipo di roccia. Si può notare, ad es., la scarsa utilizzazione dei calcari troppo usurabili negli strati superficiali e, al contrario, il loro largo impiego negli strati inferiori. Materiali granulari alluvionali sono anche preferiti negli strati profondi, evidentemente per la scarsa possibilità di ricavarne elementi a spigoli vivi. Negli strati di usura trovano il loro dominio di elezione le rocce eruttive e metamorfiche.

In generale le rocce più utilizzate e più resistenti hanno una struttura fina e una porosità quasi nulla, in compenso la micro-rugosità è durevole e comunque si può contare su una buona permanenza degli spigoli vivi.

Tab. 1.1 – Percentuali dei diversi tipi di roccia presenti come aggregati nei vari strati delle pavimentazioni stradali.

Nella tab. 1.2.sono riportate alcune proprietà fondamentali di rocce utilizzate come aggregati.

Tab. 1.2 – Proprietà fondamentali di rocce utilizzate come aggregati.

1.1.1.2 – Aggregati artificiali o seminaturali

Una rugosità non eccessiva, ma una buona resistenza al mantenimento degli spigoli vivi, si incontrano anche nei granulati artificiali spesso impiegati soprattutto nei trattamenti di superficie. Esiste una tendenza a sviluppare questa produzione che ovviamente dipende molto dall’evoluzione dei costi.

1.1.2 – Caratteristiche richieste agli aggregati

Per una tecnica ben precisa si debbono definire certe caratteristiche da richiedere e da misurare con prove convenziona li. A parte il solito sforzo di mettere a punto prove semplici e rapide per misurare una caratteristica ben definita, è molto importante che si sia ben convinti che si tratti di prove con intervallo di ripetibilità non molto ampio e che rimanga fuori di dubbio la significatività del campione sottoposto a prova.

Nel presente paragrafo sono indicate le principali caratteristiche richieste agli aggregati mentre nel paragrafo successivo vengono illustrate alcune prove per la loro misura.

Le caratteristiche che possono essere ricordate sono le seguenti:

a) La granulometria. Si è già detto che si chiama aggregato 0/D il materiale a curva granulometrica continua, mentre si parla di aggregato d/D quando si vuole considerare una frazione compresa tra dimensioni assegnate, generalmente molto vicine tra loro.

b) La forma. Essa è definibile quando ha significato considerare i singoli grani; le tre dimensioni di partenza sono la lunghezza L (definibile in genere per misura diretta), la larghezza G (definibile dalla maglia del setaccio), lo spessore E (definibile da una setacciatura su vagli a barre).

Come si dirà in seguito, è questa una delle caratteristiche più importanti che ha dato luogo a tutta una serie di tecniche di controllo di notevole interesse; da un punto di vista generale, la definizione più importante è quella del coefficiente G/E misurato per un’intera classe di materiale.

c) L’angolarità o spigolosità. Può essere definita attraverso la misura della percentuale di elementi frantumati in contrapposizione alla percentuale degli elementi che hanno una o più facce tondeggianti; c’è differenza tra la spigolosità richiesta per la stabilità interna di una miscela (non molto restrittiva) e la spigolosità richiesta per uno strato superficiale (nel quale caso le prescrizioni sono molto più severe).

d) La resistenza alla frantumazione (o frammentazione). Non è molto sensibile alla presenza d’acqua e può essere quindi misurata attraverso una prova tipo Los Angeles o tipo frantumazione dinamica (con qualche dubbio sulla prova italiana di frantumazione che appare distaccata dalle esigenze attuali e, in effetti, viene impiegata come controllo indiretto di resistenza all’usura e all’abradibilità).

e) La resistenza al consumo per attrito (sulle facce e sugli spigoli). Questa caratteristica è sensibile alla presenza d’acqua per cui i controlli debbono essere eseguiti tenendo presente l’azione lubrificante da parte di una miscela di liquido e polvere; il controllo è essenzialmente effettuato con una prova tipo Deval, eventualmente in presenza d’acqua (Deval umida), o anche, ormai raramente, con la vecchia prova d’usura al tribometro.

f) La resistenza all’abradibilità. Interessa esclusivamente i materiali che debbono venire a contatto direttamente col traffico. Il controllo attualmente più accreditato è quello del tipo polishing adottato in Francia con la sigla CPA.

gGelività e alterabilità. Alcune rocce sono sensibili all’azione del gelo in presenza d’acqua; è evidente che anche altri processi di alterazione possono intervenire ma debbono essere considerati caso per caso; a parte i controlli classici di gelività, da condurre eventualmente anche sui singoli grani e non soltanto su provini regolarizzati (cubetti) é opportuno attuare controlli su un prodotto nel suo insieme eseguendo, ad es., una misura Los Angeles prima e dopo i cicli d’alterazione.

h) La pulizia. Viene controllata sempre ma particolarmente quando è previsto l’impiego con leganti di qualsiasi specie; mentre per gli aggregati di più grosse dimensioni è evidente che il controllo si traduce in una prova di lavaggio (o decantazione in acqua) per le sabbie è utilizzato l’equivalente in sabbia che controlla contemporaneamente l’aspetto qualitativo e quantitativo della polluzione.

1.1.3 – Principali prove sugli aggregati

1.1.3.1 – Analisi granulometrica (UNI EN 933-1/8; ASTM C136)

Si effettua in modo del tutto analogo all’analisi granulometrica delle terre utilizzando crivelli con fori tondi (usati dalle dimensioni massime fino a 2 mm) e setacci a maglie quadre per le frazioni più fini. E’ stata tuttavia accettata l’opportunità di sostituire i crivelli a fori tondi per le grosse dimensioni con setacci a maglie quadre. Nella determinazione del coefficiente di forma si cita spesso il vaglio a barre, che è un vaglio di notevoli dimensioni, con barre metalliche trasversali ad interasse rigorosamente determinato; gli elementi passano attraverso il vaglio dopo prolungata vibrazione, disponendosi secondo la minore delle tre dimensioni.

Fig. 1.1 – Vagli a barre (Controls).

1.1.3.2 – Prova Deval

Si esegue su 5 kg di pietrisco (45÷50 elementi) che vengono introdotti in un cilindro calettato con inclinazione di 30° sull’asse di rotazione; col movimento che ne risulta gli elementi rotolano su se stessi e contro le pareti di ghisa del cilindro. La polvere che si produce tende a arrestare il processo di consumo per attrito (e per questo si era introdotta in Italia una prova denominata ISS eseguita su pezzi singoli introdotti da soli in un identico cilindro).

Dopo 104 giri viene allontanata la polvere prodotta per lavaggio su setaccio da 2 mm. II coefficiente Deval è pari a Q = 40/c dove c è la % della polvere rispetto al peso iniziale dell’aggregato.

Fig. 1.2 – Dispositivo Deval per prove d’abrasione (Controls).

1.1.3.3 – Prova Deval umida

Constatata la notevole influenza dell’acqua sul consumo per attrito Deval per il formarsi di una pasta abrasiva, è stata introdotta la pratica d’immettere una determinata quantità d’acqua nel cilindro Deval; si procede poi come nel caso precedente.

1.1.3.4 – Prova micro-Deval (UNI EN 1097-1)

Per ottenere risultati correlabili con quelli della prova Los Angeles è stata introdotta in Francia, e poi accettata in termini comunitari, la prova chiamata micro-Deval che consente di misurare l’usura per attrito non più sul pietrisco ma sulle pezzature minori effettivamente usate nelle più interessanti miscele. La prova consiste nel far rotolare entro un cilindro in rotazione intorno al proprio asse 500 g di materiale monogranulare inserendo nel cilindro stesso una quantità di sferette d’acciaio di 10 mm di diametro in quantità correlata alla pezzatura in esame.

Il coefficiente micro-Deval è pari alla % di fino prodottasi durante la prova, allontanata per setacciatura su setaccio da 2 mm.

Fig. 1.3 – Dispositivo per Prova micro-Deval (Controls).

1.1.3.5 – Prova Los Angeles (UNI EN 1097-2)

Per misurare simultaneamente il consumo per attrito e una certa tendenza alla frantumazione si u sa l’apparecchio Los Angeles che è un cilindro ad asse orizzontale entro il quale si introducono quantità prefissate di miscele granulometriche di inerte (la prova è, quindi, fatta su un insieme di pezzature). Si introduce anche un certo numero di sfere d’acciaio che non solo rotolano insieme al materiale ma, per la presenza di un risalto d’arresto nella superficie interna del cilindro, sono trascinate in alto e cadono (quindi con effetto d’urto) sul materiale che è in basso.

Il coefficiente Los Angeles è misurato dalla % di frazione fina (<1,7 mm) prodottasi, allontanata per setacciatura; la quantità di sfere è commisurata alle pezzature in esame in modo che, teoricamente, per un inerte della stessa natura si dovrebbe ottenere una Los Angeles identica per tutte le combinazioni di pezzature.

Fig. 1.4 – Dispositivo per Prova Los Angeles e sfere per carica abrasiva (Controls).

1.1.3.6 – Prova di frantumazione dinamica

Può essere eseguita in vari modi. La prova italiana del coefficiente di frantumazione è eseguita su una certa quantità di graniglia sulla quale viene fatta passare una pesante ruota con cerchione di ferro, essendo il materiale stesso contenuto in una cavità ricavata in una piastra d’acciaio.

Sottoponendo a setacciatura il materiale che risulta dalla frantumazione e sommando le percentuali di passante ad una serie prestabilita di setacci, si ottiene il coefficiente di frantumazione, che, quindi, diminuisce se aumenta la durezza del materiale.

Poiché molte riserve si fanno soprattutto sulla ripetibilità di questa prova, sembra interessante eseguire quanto si fa in Francia e in Gran Bretagna, ad esempio con la prova Stewart.

In essa una quantità di materiale di diverse pezzature vie­ne inserita in un cilindro d’acciaio e su di essa, dall’alto, viene fatto cadere una specie di maglio standardizzato.

L’effetto di frantumazione viene misurato, al solito, dal fino prodotto o dalla variazione di granulometria.

Fig. 1.5 – Attrezzatura per la determinazione della resistenza alla frantumazione (UNI EN 13055-1) (Controls)

1.1.3.7 – Prova CPA (Coefficient de polissage accéléré) (UNI EN 1097-8)

E’ una misura della abradibilità degli aggregati lapidei, cioè dell’attitudine di alcuni materiali a consumarsi superficialmente e a diventare scivolosi. La prova ha avuto origine in Gran Bretagna (polishing test) ma è forse più conosciuta con la sigla francese.

Una serie di elementi del materiale in esame (pezzature pietrischetto-graniglia) viene incollata in unico strato su le ricurve che vengono poi applicate sulla superficie di rotolamento di una ruota; questa viene fatta girare mentre è premuta energicamente contro una ruota munita di pneumatico con interposizione d’acqua e di una sostanza abrasiva (sabbia e polvere di smeriglio). Dopo 6 ore di rotazione le lamine vengono smontate e sottoposte a misura di attrito radente con un apposito apparecchio detto skid-tester.

Il rapporto tra il valore dello skid così ottenuto e quello ottenuto su una lamina che porta un materiale campione di riferimento è assunto come valore del CPA.

La flessibilità di questa prova e il suo corretto procedimento hanno fatto praticamente abbandonare la vecchia prova di usura al tribometro nella quale cubetti del materiale in esame venivano premuti dall’alto sulla faccia superiore di un disco orizzontale in rotazione in presenza di una miscela di olio e carborundum.

                

Fig. 1.6 – Apparato per la determinazione del Coefficiente di Levigabilità accelerata e Skid-Tester (Controls).

1.1.3.8 – Prova della perdita per decantazione

E’ la determinazione più elementare della cosiddetta pulizia degli inerti (granulati e sabbie), caratteristica molto importante quando gli inerti stessi debbono essere avvolti con leganti (idrocarburati, idraulici etc.) per pulizia si intende l’assenza di elementi molto fini, inquinanti, che spesso sono aderenti alla superficie dei grani di dimensioni maggiori.

In quasi tutti gli impieghi è prevista e desiderabile una frazione di fino ma, naturalmente, si esige la pulizia assoluta degli elementi maggiori, sia per controllare esattamente la percentuale di fino da impiegare, sia per evitare che il fino stesso si trovi aderente ai grani di sabbia o granulato, cioè in posizione non utile ma dannosa.

La perdita per decantazione è conseguente a un sommario lavaggio in acqua di una determinata quantità d’inerte; la misura è rappresentata dalla perdita in peso dopo decantazione del fino ed essiccazione dell’inerte pulito.

1.1.3.9 – Prova dell’equivalente in sabbia (UNI EN 933-8)

Per misurare non solo la quantità di fino ma anche la sua qualità, è stata messa a punto in California, e si è poi diffusa anche in Europa, la prova dell’equivalente in sabbia. In essa una quantità prefissata d’inerte di dimensioni < 5 mm, prelevato dalla miscela in esame, viene energicamente lavata dentro un cilindro trasparente graduato a fondo piano di dimensioni standard.

Il lavaggio è eseguito con una soluzione flocculante per cui, esaurita l’operazione di lavaggio e messo a riposo il cilindro in posizione verticale, gli elementi puliti si depositano sul fondo e il fino si dispone superiormente in una colonna flocculata; misurando con diversi accorgimenti l’altezza h1 del materiale pulito sedimentato sul fondo e l’altezza totale h2 della colonna formata dal materiale pulito e da quello sospeso, si può ricavare il rapporto h1/h2 che, moltiplicato per 100, fornisce la misura di E.S.

Fig. 1.7 – Apparato per la Determinazione dell’Equivalente in sabbia (Controls).

Come si vede si tratta di una prova che potrebbe essere interpretata come una sedimentazione accelerata in presenza di un liquido flocculante. Naturalmente a valori più alti corrispondono inerti più puliti e scarsità o mancanza assoluta di fini plastici. In tal senso l’equivalente in sabbia viene utilizzato anche come misura della plasticità delle terre da impiegare nelle stabilizzazioni. Si rilevano le seguenti corrispondenze:

E.S.> 35          terra non plastica

25 ≤ E.S.< 35      terra debolmente plastica

E.S.< 25        terra molto plastica

II valore dell’E.S. può essere correlato alla % in peso di elementi di dimensioni < 75 μm (filler) e alla loro attività caratterizzata dal rapporto K fra i volumi specifici (volumi dell’unità di peso) delle frazioni fini e di quelle sabbiose, mediante la seguente relazione, tradotta graficamente nell’abaco della Fig. 1.8:

E.S. = 100 (1-α)/[1+(k-1)α]

Nella zona dell’abaco sottostante la retta di equazione E.S. = 27(1-α); la relazione fornisce valori non sicuri, a causa della saturazione nel cilindro di prova.

Fig. 1.8 – Relazione fra equivalente in sabbia e percentuale di filler di un aggregato.

1.1.4 – Utilizzazione dei risultati delle prove per la identificazione delle caratteristiche granulometriche e meccaniche dell’aggregato

Come si è visto gli aggregati che devono essere impiegati nella confezione delle miscele vengono sottoposti ad alcune determinazioni atte a precisare la loro composizione granulometrica, le caratteristiche di forma e alcune qualità fisiche e meccaniche che interessano l’impiego specifico.

1.1.4.1 – Composizione granulometrica

L’aggregato è normalmente diviso, dal punto di vista granulometrico, in classi i cui limiti, definiti dal CNR per i materiali risultanti da frantumazione, sono indicati nella Tab. 1.3: per i materiali tondeggianti vale la classificazione riportata a proposito della granulometria delle terre.

Tab. 1.3 – Classi di pezzatura degli aggregati per miscele stradali.

La miscela granulometrica risulta composta da un’opportuna combinazione delle varie classi; è quindi, molto importante che le classi stesse siano rigorosamente definite, tenuto conto delle tolleranze che le stesse norme prevedono, a garantire una costanza di composizione che non può essere assicurata dalla riclassificazione operata negli impianti di confezione dei conglomerati. In altre parole è opportuno che l’impianto di produzione (frantumazione e vagliatura) delle classi di inerti sia tenuto costantemente sotto controllo.

Per quanto riguarda la sabbia è da notare come sia di uso corrente un’ulteriore suddivisione in sabbia grossa e sabbia fina. La separazione è situata in corrispondenza del valore 0,5 mm.

1.1.4.2 – Caratteristiche di forma (UNI EN 933-3/4)

Per quanto riguarda le caratteristiche di forma le definizioni usuali implicano l’accettazione della forma poliedrica che, come è noto, risponde a criteri di regolarità e buona resistenza. Il controllo di tale caratteristica si effettua, secondo le norme italiane, attraverso la misura dell’indice dei vuoti di un campione delle singole classi granulometriche.

E’ anche in uso la definizione di un coefficiente di forma dato dal rapporto tra il volume del singolo elemento (valutato direttamente con un volumometro o ricavato attraverso il peso specifico) e il volume della sfera che ha per diametro la dimensione maggiore dell’elemento .stesso.

Per una valutazione più precisa e più severa si può ricorrere alla definizione del coefficiente di forma secondo le prescrizioni francesi ed altre, che tiene conto delle tre dimensioni principali di ogni singolo elemento.

1.1.4.3 – Resistenze meccaniche

Le prove tradizionali di caratterizzazione a questo riguardo erano (poiché attualmente la materia è in rapida evoluzione

–       resistenza alla compressione;

–       resistenza all’usura per attrito radente; da eseguire su provini cubici di spigolo 71 mm ricavati dalla roccia di provenienza del frantumato;

–       coefficiente di frantumazione.

Talvolta era consuetudine ricorrere alla determinazione del coefficiente di qualità Deval sul pietrisco ricavato dal medesimo materiale di provenienza delle altre classi di aggregato, come rilievo indiretto della bontà del materiale stesso. Va però osservato che, a parte il fatto che si deve operare su una pezzatura non sempre corrispondente a quella di effettiva utilizzazione, il coefficiente Deval fornisce un’indicazione che, ai fini dell’impiego del materiale, non può essere considerata significativa.

Per le sabbie non è prevista alcuna determinazione diretta di caratteristiche meccaniche. Si suole ripetere quanto è contenuto nelle specificazioni correnti; queste si riferiscono ad apprezzamenti generici e soggettivi senza sussidio di prove. E’ molto più corretto, invece, l’impiego del coefficiente Los Angeles.

1.1.4.4 – Caratteristiche fisiche

D’importanza minore e collegata a particolari condizioni di impiego, sono le caratteristiche di:

–       imbibizione;

–       porosità;

–       gelività (UNI EN 1367-1; ASTM C682)

La misura del coefficiente d’imbibizione e quella della porosità sono tuttavia indispensabili ogni volta che l’aggregato non si presenti indiscutibilmente compatto. In tal caso i controlli suddetti possono riuscire determinanti per il calcolo delle percentuali di legante e per il controllo della percentuale dei vuoti. In analogia a quanto si è detto nel paragrafo precedente, per le sabbie non è prevista alcuna determinazione specifica.

1.1.4.5 – Pulizia dei materiali

Carattere diverso dai controlli precedenti ha il controllo della pulizia dei materiali, quello cioè che mira ad escludere la presenza di polvere o addirittura di altre sostanze minerali od organiche.

Esso si esegue mediante la misura della perdita per decantazione in acqua secondo quanto definito dal CNR. Questo controllo è tipicamente un controllo di accettazione e ha significato soltanto se eseguito sul materiale approvvigionato per la messa in opera. D’altra parte la semplicità di esecuzione di tale prova ne consente il frequente uso in cantiere.

Particolare interesse assume il controllo della pulizia per le sabbie, siano esse di frantumazione che di cava, per le quali può essere utilizzata la misura dell’equivalente in sabbia.

1.1.5 – Caratteristiche dell’additivo (filler)

Si è preferito trattare a parte le determinazioni che è possibile eseguire su un filler per sottolineare la funzione speciale che ad esso compete in una miscela nei riguardi e dell’addensamento e della stabilità.

Come è noto, tale funzione è particolarmente delicata in quanto da un lato si tratta di influire sulla zona più sensibile della granulometria e dall’altro si tratta di modificare l’azione del legante.

Le norme CNR impongono che tutto il filler sia passante al setaccio 0,18, che almeno l’85% sia passante al setaccio 0,075, che almeno il 50% abbia dimensioni inferiori a 0,05 mm. Anche nelle altre specificazioni più note ci si limita a controlli di granulometria (UNI EN 933-10).

E’ tuttavia da notare che proprio per la delicatezza di comportamento sopra ricordata, può essere interessante conoscere in un filler ciò che è relativo alla forma dei grani, alla natura petrografica etc. Tutto ciò può essere messo in evidenza attraverso determinazioni che investono il comportamento d’insieme delfiller. Particolarmente in fase di studio della miscela, è opportuno valutare tutte le caratteristiche di un filler per poter operare più sicuramente una scelta.

Queste determinazioni sono:

– Coefficiente di attività: al paragrafo 1.1.3.9 l’attività del filler di una miscela (cioè l’attitudine del filler a influire sul comportamento del sistema filler-legante) è stata caratterizzata dal rapporto fra i volumi specifici delle frazioni fini e di quelle sabbiose. Più frequentemente si definisce un coefficiente di attività misurato dal rapporto tra la quantità di un filler calcareo di riferimento e la quantità del filler in esame, necessaria a produrre un determinato abbassamento dell’equivalente di sabbia di una miscela.

Nella Fig. 1.9 è indicato un metodo per il calcolo di questo coefficiente di attività attraverso la misura dell’equivalente in sabbia posseduto da una miscela nella quale è presente una determinata quantità di filler.

Ciascuna retta dell’abaco è caratterizzata da un valore del coefficiente di attività; le due linee punteggiate limitano la zona entro cui il procedimento da buoni risultati.

– Costipabilità: si misura la densità raggiungibile con una prova di costipamento standard.

– Coefficiente di idrofilia: si misura il volume di sedimentazione di un peso noto del filler in esame una volta in acqua e una volta in kerosene. Il rapporto tra i due volumi indica la sensibilità del filler rispetto all’acqua.

– Superficie specifica: può essere misurata direttamente mediante l’uso di un permeametro.

– Esame della struttura del filler al microscopio.

Infine una valutazione di carattere più generale si ottiene attraverso prove comparative su miscele che contengono filler diversi.

Fig. 1.9 – Calcolo del coefficiente di attività di un filler.

1.1.6 – Considerazioni sui metodi di misura della resistenza meccanica degli inerti

Alcune caratteristiche degli aggregati sono legate a quelle della roccia di provenienza, altre alla tecnica di produzione, per cui in sede di controllo è bene poter distinguere le prime dalle seconde. Le proprietà delle rocce dipendono essenzialmente dalla natura e dal grado di alterazione dei minerali costituenti, dalla tessitura e così pure dallo stato di porosità e fessurazione. E’ sembrato perciò utile definire un indice di qualità riferendosi a una roccia ideale della stessa composizione mineralogica di quella in esame, priva di alterazioni e di discontinuità.

Il parametro di confronto è la velocità di propagazione delle onde sismiche longitudinali, molto sensibile alle alterazioni e fessurazioni del materiale e facile a determinarsi. L’indice di qualità della roccia è il valore % di tale grandezza riferito alla velocità limite stabilita per le differenti famiglie di rocce.

A titolo di esempio si indicano valori limite di propagazione espressi in km/s: 6,0 per quarziti, graniti, gneiss; 6,2 per le dioriti ed andesiti; 6,6 per i calcari; 7,0 per i basalti.

Sulla base del rapporto % sopra citato è possibile eseguire una classificazione dei materiali, che tuttavia deve ritenersi valida per una stessa famiglia, intesa sia come composizione mineralogica sia come tessitura. Infatti materiali ottenuti da rocce della stessa composizione mineralogica, ma di differente tessitura, possono presentare un indice di qualità non in accordo con le loro caratteristiche meccaniche e d’impiegabilità.

La maggior parte dei depositi, sia che si tratti di rocce in massa sia che si tratti di sedimenti alluvionali, pone dei problemi di eterogeneità a causa della presenza di materiali più o meno teneri e più o meno alterati. L’individuazione di indici di eterogeneità può comunque essere effettuata con uno studio petrografico accurato corredato da alcune semplici determinazioni.

Per esempio, per depositi alluvionali silico-calcarei è stata applicata con successo un’indagine con prova di impronta, tipo Vickers, per la determinazione degli elementi teneri calcarei nelle singole classi granulometriche. L’eterogeneità di una partita di aggregati può essere misurata con la prova Protodiakonov, che consiste nel rilevare il carico di rottura per schiacciamento di ciascun elemento tra i due piatti di una pressa. La curva di distribuzione di questi carichi permette di apprezzare l’eterogeneità del campione.

Ripetute operazioni di frantumazione dovrebbero concentrare gli elementi teneri nelle classi a granulometria più fina. Esperienze di laboratorio hanno però dimostrato lo scarso vantaggio che ci si può attendere con tali operazioni nei riguardi della durezza degli inerti.

Infine, la causa più comune e più nociva di inquinamento delle rocce è l’argilla, che può essere localizzata nelle fessure o semplicemente nella coltre di copertura del banco, e per la cui eliminazione è necessario ricorrere a metodi di trattamento più o meno onerosi quali il lavaggio, la ventilazione etc. La richiesta di materiali per le costruzioni stradali e le norme in vigore per la loro accettazione, hanno spinto i ricercatori verso un progressivo miglioramento dei metodi di riconoscimento dei depositi, delle tecniche di produzione e del tipo di prova meglio rispondente alle esigenze attuali.

La determinazione di laboratorio su un materiale permette di valutare uno o più parametri caratteristici del suo comportamento in condizioni ben precise; tuttavia, in alcuni casi, queste grandezze non sono chiaramente definite; oppure, con l’evoluzione delle tecniche di costruzione, si è dimenticata la portata reale della prova.

Volendo rappresentare le condizioni che si verificano in uno strato di pavimentazione, bisognerebbe ricorrere a prove difficili a definirsi e che mal rappresenterebbero il fenomeno reale, dovendo in un tempo ragionevole riprodurre i fenomeni di modificazione dell’intera vita della pavimentazione.

Comunque, per avere qualche significato reale, le prove sugli aggregati debbono porre in evidenza alcune caratteristiche fondamentali del materiale quali la resistenza all’urto o all’usura.

Si tratta, quindi, di studiare l’influenza di queste grandezze sulle proprietà delle miscele prodotte con quegli inerti. E’ necessario che la prova sia effettuata su materiale rappresentativo e possibilmente sulle stesse pezzature che sa ranno impiegate.

Poiché gli inerti vengono prodotti a partire da materiali più o meno eterogenei, è inevitabile una certa dispersione nei risultati di prova. Tuttavia, il coefficiente di variazione non dovrebbe superare il 10% se si opera su dieci campioni di una medesima partita di materiale considerato omogeneo. Infine l’orientamento di effettuare controlli sul luogo di produzione, anche in considerazione degli attuali ritmi della produzione, porta a preferire determinazioni semplici e rapide in maniera da poter disporre dei risultati nel più breve tempo possibile. E’ opportuno ricordare come le prove considerate siano atte a definire alcune caratteristiche meccaniche degli aggregati quali il mantenimento della presenza di spigoli vivi, la resistenza all’usura, all’urto, allo schiacciamento e alla frammentazione.

La presenza di elementi a spigoli vivi conferisce ai materiali un alto angolo di attrito interno quindi elevata stabilità, e per gli strati superficiali sufficienti doti di rugosità. Ciò implica una differenziazione nel grado di frantumazione necessario in relazione all’impiego dei materiali nei diversi strati della sovrastruttura. Per gli aggregati da pavimentazione provenienti dalla frantumazione di depositi alluvionali si richiede un rapporto di 4 tra la dimensione minima degli elementi prima della frantumazione e quella massima degli elementi risultanti dalla frantumazione stessa.

Per studiare la resistenza alla frantumazione per effetto di carichi statici e dinamici o la resistenza all’abrasione sono state proposte diverse prove. Si è anche tentato di riprodurre le condizioni di sollecitazione che si verificano in una pavimentazione, le quali non sono tuttavia sufficientemente note ed è da ritenere che varino a seconda dello strato considerato e della sua rigidità. Per tale ragione ricerche di questo tipo sono state abbandonate.

Le misure di resistenza eseguite con prove classiche, quali la compressione semplice e la trazione brasiliana, hanno il difetto di operare su carote o provini convenientemente preparati e che, se possono fornire dati attendibili per giacimenti di roccia sana, non riescono a dare indicazioni sulla qualità del prodotto nel caso di rocce eterogenee. Inoltre non possono essere applicate ai materiali alluvionali. Sembra, pertanto, più conveniente rivolgere l’attenzione a prove eseguite sugli stessi aggregati. Una prova utilizzata in Inghilterra è quella già citata Protodiakonov che consiste nello schiacciare tra i due piatti di una pressa i singoli grani di un certo campione di aggregati. Essa fornisce ottime indicazioni sulla eterogeneità del materiale sebbene si riveli estremamente lunga.

Nella prova Los Angeles si misura la modificazione della granulometria dovuta alla frantumazione degli elementi per effetto del mutuo attrito e dell’urto con sfere metalliche. Si opera su classi granulometriche molto ristrette (4/6, 3/10, 10/14). Mentre per la stessa classe granulometrrca la dispersione dei risultati è molto bassa, operando invece su pezzature diverse dello stesso materiale si possono avere scarti anche sensibili. Ciò è dovuto al fatto che la variazione del carico abrasivo (numero di sfere) per le differenti classi granulometriche stabilita in modo da ottenere lo stesso valore di Los Angeles, non può essere valida per tutti i tipi di materiale.

Questa prova dovrebbe essere eseguita principalmente su gli inerti frantumati, poiché per gli elementi arrotondati,che tendono a scivolar via sotto l’urto delle sfere, si ricavano valori più bassi, non corrispondenti al comportamento reale. I risultati ottenuti sugli elementi frantumati sembrano non essere influenzati né dal tenore di umidità dell’aggregato ne dalla sua forma, almeno fino a quando la percentuale di elementi piatti non supera il 20%.

Una prova di frantumazione dinamica derivata da quella Stewart inglese consiste nel far cadere una massa metallica su un campione di 350 g di inerte; il numero dei colpi è variabile con la pezzatura di quest’ultimo. Si tratta di una prova molto rapida (durata 4÷5 minuti) che fornisce un’ottima correlazione con la Los Angeles.

Un’altra misura della resistenza alla frantumazione è costituita dalla prova micro-Deval (o Deval per pietrischetto). Scarsamente utilizzabile a tal fine è invece la prova Deval che non fornisce alcune correlazioni con la micro-Deval né con la Los Angeles, perché il processo di formazione della granulometria del provino è completamente diverso. Un difetto della Deval è di operare su 50 elementi di peso totale determinato, nella cui scelta influisce il criterio soggettivo dell’esecutore: per questa ragione si riscontrano notevoli dispersioni nei risultati ottenuti da laboratori diversi (la prova ha un ampio intervallo di riproducibilità) .

La rugosità di una pavimentazione dipende, come è noto, dalla presenza di spigoli vivi negli elementi di aggregato. La spigolosità dell’inerte può però essere ridotta per frantumazione o per usura, per cui ai materiali destinati a tali strati si richiede un basso coefficiente Los Angeles e un alto coefficiente Deval umido. A questa rugosità macroscopica conviene, tuttavia, accoppiare una rugosità microscopica legata alla composizione mineralogica e alla tessitura del materiale.

La tendenza alla perdita della rugosità microscopica,cioè la tendenza alla abradibilità, è oggi misurata, come si è visto, con il coefficiente CPA: questa valutazione è influenzata dalla durezza media della roccia ma soprattutto dalla differenza di durezza dei singoli minerali presenti.

La valutazione delle caratteristiche meccaniche delle sabbie è piuttosto ardua. E’ praticamente impossibile misurare l’usura per attrito, essendo questo genere di fenomeni molto lento per tali materiali, per cui si avrebbero tempi di prova troppo lunghi. Si può invece determinare la resistenza alla frantumazione per sollecitazioni dinamiche nell’apparecchio usato per la Los Angeles. Le caratteristiche granulometriche, e le variazioni mineralogiche nell’ambito delle singole frazioni, sono però causa di notevoli dispersioni di risultati.

Durante la vita di una pavimentazione i processi di alterazione degli aggregati lapidei sono numerosi e spesso complessi. Alcuni di essi riguardano la diminuzione della resistenza meccanica nelle diverse caratterizzazioni di cui si è parlato, conseguente alla dissoluzione dei minerali silicati acidi, o al rigonfiamento dei minerali filladici che fissano abbondanti quantità di acqua.

Per quanto riguarda gli inerti impiegati nella confezione di conglomerati bituminosi a caldo, intervengono fenomeni di alterazione durante la fase di preparazione delle miscele quali, ad es., l’eccessivo riscaldamento negli essiccatoi (colpo di fiamma) o la vaporizzazione dell’acqua intergranulare. Lo studio di questi fenomeni si basa su prove semplici e rapide i cui risultati tuttavia debbono essere interpretati caso per caso.

L’azione ripetuta del gelo è causa di disgregazione di alcune rocce, in particolare quelle sedimentarie, come il calcare. La sperimentazione ha mostrato che l’azione del gelo dipende essenzialmente dalla struttura del materiale, dalla presenza di fessure e dal suo contenuto d’acqua all’atto della formazione del ghiaccio; l’apertura delle fessure è un fenomeno poco importante nel caso degli aggregati, mentre lo è molto di più per le pietre da costruzione.

La constatazione che in opera i materiali sono spesso saturi ha indotto a eseguire la determinazione della sensibilità al gelo (gelività) del materiale in queste condizioni di umidità.

La prova consiste nel valutare il coefficiente Los Angeles sull’inerte prima e dopo averlo sottoposto a 25 cicli di gelo-disgelo. La differenza fra i due valori Los Angeles dà la misura della gelività dell’aggregato.

1.1.7 – Esame petrografico degli aggregati lapidei

Poiché molte delle misure che si eseguono ancora oggi sugli aggregati lapidei sono indirizzate a stabilire regole empiriche di accettazione, è opportuno ricordare quali sono invece le possibilità dì ricorrere a un esame critico diretto della qualità degli aggregati.

L’esame petrografico ha oggi 3 scopi principali:

–       eliminare i rischi connessi con un possibile impiego di aggregati scadenti;

–       consentire l’impiego di materiali locali disponibili facilmente, suggerendo i modi di compensarne la scarsa qualità con l’uso di leganti o con altri accorgimenti costruttivi;

–       trovare una scala di riferimento per paragonare i materiali di diverse provenienze e rendere possibile una scelta.

Poiché uno dei parametri di giudizio sugli aggreganti è costituito dalla resistenza alla compressione, è importante notare che non sempre si possono avere a disposizione elementi della roccia di origine da cui ricavare provini da sottoporre alla prova di resistenza; se si ha a che fare con graniglia o con sabbie diventa quindi interessante un giudizio indiretto basato su informazioni petrografiche.

Intrusioni micacee, scisti talcosi e argillosi, cristalli di calcite e feldspati sono tutti elementi la cui presenza conduce a sospettare una bassa resistenza a compressione.

Le rocce dure, che hanno un’elevata resistenza alla com­pressione, contengono almeno il 25% di minerali duri (durezza > 5 nella scala di Mohs).

Nei graniti e negli gneiss è da tener presente che la resistenza diminuisce sensibilmente al diminuire delle dimensioni degli elementi; una graniglia di granito è scarsamente utilizzabile, anche se la roccia d’origine ha una buona resistenza convenzionale a compressione. La presenza di grani altera­ti può fare temere una diminuzione di resistenza in tutte le pezzature dell’aggregato.

Per la resistenza all’urto si deve, invece, tener presente che aggregati ricchi di elementi quarzitici resistono bene a compressione, ma pochissimo all’urto: il loro impiego negli strati superficiali comporta particolari cautele durante il costipamento (per esempio, uso di rulli gommati in luogo di rulli a superficie metallica).

Per la resistenza all’abradibilità si suggerisce ancora un riferimento alla scala di durezza; si esegue anche una prova d’impronta Vickers sulle facce degli elementi di pietrischetto o graniglia: esiste una relazione tra la % di punti in cui la prova d’impronta da buoni risultati e la resistenza all’usura per attrito radente misurata con uno dei metodi convenzionali. Qualche punto con resistenza più bassa non costituisce una qualità negativa, tanto è vero che, ad es., per gli aggregati dei manti di usura si è studiata a lungo la possibilità di impiegare miscele col 70% di rocce dure e il 30% di rocce meno dure. Un’ulteriore qualità degli aggregati che può essere posta in evidenza dalle caratteristiche petrografiche è l’idrofilia, cioè la tendenza ad avvolgersi d’acqua piuttosto che di legante.

Elementi ricchi di quarzo e di feldspato non possono essere avvolti bene da bitume se non si ricorre a qualche accorgimento; caratteristiche opposte hanno, invece, le rocce carbonatiche (calcare e dolomia) o le rocce silicatiche scure (anfiboliti, basalto, leucititi).

Infine, anche la forma degli elementi può dipendere dalla natura petrografica: le rocce scistose stratificate o fragili danno difficilmente luogo a forme poliedriche.

1.1.8 – Le caratteristiche di forma degli inerti

1.1.8.1 Prescrizioni riguardanti la forma degli aggregati. Sia la forma dell’inerte, sia la sua spigolosità sono parametri non trascurabili per l’ottenimento di miscele di sempre più alta stabilità e rugosità. Evidente è l’interesse a migliorare in tal senso la produzione e quindi lo sfruttamento dei depositi naturali (rocce o misti naturali).

La forma di un elemento è definita da 3 dimensioni:la lunghezza L, la larghezza G, e lo spessore E. Mentre la larghezza è fornita dall’apertura della maglia del setaccio attraverso cui passa l’elemento , la lunghezza e lo spessore so no definiti dalla distanza minima e massima di due piani paralleli tangenti all’elemento.

Nella Fig. 1.10, ad es., sono riportate le curve delle frequenze cumulate delle tre dimensioni per l’insieme degli elementi di un campione di graniglia di pezzatura 6÷10 mm; come si vede, tale pezzatura nominale è definita sulla base della distribuzione della larghezza G.

Si è cercato di esprimere le caratteristiche di forma con un solo numero detto, a seconda dei casi,  coefficiente di forma, indice di forma, coefficiente volumetrico, o con una coppia di valori: il coefficiente di spessore e il coefficiente di allungamento (spesso vengono utilizzati gli inversi di questi valori, chiamati indici di spessore e di allungamento).

La determinazione della forma degli inerti è normalizzata in maniera diversa nei singoli Paesi.

In Germania, ad es., utilizzando un calibro speciale (possiede due punte supplementari la cui apertura è sempre 1/3 di quella delle punte principali), si valuta per un determinato campione la percentuale in peso di elementi il cui spessore è inferiore a 1/3 della lunghezza.

In Belgio, invece, si eseguono due misure: l’indice di forma, pari al rapporto tra la somma degli spessori e quella delle lunghezze degli elementi esaminati (la prova si esegue su 100 elementi) e l’indice percentuale degli elementi allungati, determinato vagliando il campione in setacci a maglia rettangolare.

Fig. 1.10 – Frequenze cumulate delle tre dimensioni LGE, in un campione di graniglia.

In Gran Bretagna si esegue, con metodi analoghi a quelli adottati in Belgio, una determinazione degli elementi piatti (E/G1/2).

In URSS si valuta la forma separando in due gruppi gli elementi che rispondono, o non, alle due condizioni: in particolare, per l’impiego in conglomerati bituminosi, si prescrive che risulti:

G/L > ½       ;       E/G > ½

In Svizzera, invece, si considera sufficientemente regolare la forma dell’elemento se il rapporto è > 0.4 (L/G < 2.5).

In Francia, infine, la misura classica della buona forma è fornita dalla % in peso di elementi per i quali (L+G). Mentre per la determinazione di G si esegue una vagliatura su setacci a maglia quadra, assumendo come valore la media dell’apertura di 2 setacci contigui, L ed E vengono misurati a mano dall’operatore.

Inoltre, nella normalizzazione in vigore per gli inerti da calcestruzzo, si fa riferimento al coefficiente volumetrico, definito come il rapporto tra il volume di ciascun grano e quello della sfera di diametro pari alla massima dimensione del grano stesso. E’ da rilevare, tuttavia, che questo tipo di misura è poco efficace e dà risultati variabili, a parità di % di elementi piatti, a seconda che si operi su materiale tondeggiante o frantumato; è stato allora proposto di valutare il coefficiente di spessore calcolando la % di elementi per i quali G/E < 1,56.

Questa misura può essere facilmente e velocemente effettuata con una vagliatura su setacci a maglia quadra (determinazione di G) e su vagli a barre (determinazione di E), consentendo quindi un controllo rapido sul luogo di produzione degli inerti. La presenza di elementi di cattiva forma, in particolare quelli piatti, in uno strato di sovrastruttura riduce le caratteristiche meccaniche dello strato stesso perché emerge la tendenza di questi elementi sotto costipamento a disporsi orizzontalmente, con più facile rottura sotto carico. Inoltre si verifica una riduzione della lavorabilità della miscela e quindi dell’addensamento ottenibile.

In particolare, nelle miscele con legante idraulico, secondo ricerche effettuate in URSS, la riduzione di lavorabilità sembra evidente quando la % di elementi piatti > 50%, essendo invece trascurabile per minori %. Al contrario la resistenza a trazione (e quindi a flessione) ne sarebbe favorevolmente influenzata.

Per i conglomerati bituminosi, all’aumentare della % di elementi piatti, si nota una diminuzione dell’addensamento Marshall (vedi vol. 3°); meno evidente è la diminuzione nella prova Duriez (vedi vol. 3°) con ovvio aumento dell’assorbimento d’acqua da parte dei provini e, assieme, un leggero calo nei livelli di resistenza nelle prove a compressione e a trazione (di tipo brasiliano).

Come requisiti di accettazione, in Francia si richiede, per gli inerti destinati alla confezione di calcestruzzi, un coefficiente volumetrico minimo di 0,15, mentre per quelli impiegati nei conglomerati bituminosi, una % massima del 15% di elementi piatti .

Tab. 1.4 – Caratteristiche di miscele cementizie ottenute con aggregati aventi diversi coefficienti di forma.

Per quanto riguarda gli strati di pavimentazione in conglomerato bituminoso la presenza di elementi piatti è ancora più nociva per la facilita con cui questi possono frantumarsi sotto traffico e per la minore rugosità che si ottiene sulla superficie finita. Le norme usate in questo caso sono basate sulla % massima di elementi piatti (G/E > 1,56) fissata in funzione della velocità di base della strada e dell’intensità del traffico. Tale % varia dal 15 al 20%.

1.1.8.2 – L’influenza del processo di frantumazione sulla forma degli aggregati

Due sono essenzialmente i fattori che condizionano la forma degli elementi ottenuti dalla frantumazione della roccia. Il primo è la tessitura/ cioè la distribuzione spaziale dei differenti cristalli costituenti la roccia stessa: infatti, la resistenza è strettamente legata ad essa.

Più le rocce hanno tessitura fina, e quindi resistente, tanto maggiore è la tendenza a frantumarsi generando elementi appiattiti. Anche l’anisotropia presente in alcune rocce di tipo metamorfico (gneiss, scisti etc.) è causa di prodotti di forma molto scadente, per la direzione preferenziale di rottura, secondo piani paralleli, spesso molto ravvicinati.

Il secondo fattore che influenza la forma dell’aggregato prodotto è costituito dal tipo degli impianti dì frantumazione la cui scelta dipende anche dalla natura petrografica della roccia. Gli impianti sono di due tipi: ad urto e a schiacciamento. Tra i primi si distinguono quelli a martelli articolati da quelli a martelli fissi; tra i secondi quelli a mascelle, rotativi e, infine, quelli a cilindri e mascelle.

I più usati sono quelli rotativi in cui la frantumazione del materiale avviene per schiacciamento tra la parete esterna cilindrica e un perno centrale eccentrico ruotante. Il volume della camera di frantumazione può essere costante o crescente verso il basso.

Dal confronto delle proprietà di forma dei prodotti di frantumazione di uno stesso materiale ottenuti in impianti di tipo diverso, si è constatato che in ogni caso le più scadenti qualità si verificano nelle pezzature minori e in quelle maggiori, mentre nelle pezzature intermedie è più bassa la presenza di elementi piatti.

La classe granulometrica di migliori caratteristiche di forma dipende dal tipo e dall’apertura del frantoio (per apertura del frantoio s’intende la distanza tra le pareti di quest’ultimo e i cilindri o le mascelle): è generalmente quella più abbondante nel prodotto di frantumazione.

Nel caso di frantoi rotativi la pezzatura di migliori caratteristiche ha un valore del coefficiente di forma che diminuisce (cioè peggiora) all’aumentare dell’apertura del frantoio, mentre la sua dimensione aumenta. Nel caso di frantoi a mascelle e cilindri la pezzatura ha dimensioni che corrispondono alla distanza tra le mascelle. In prima approssimazione la dimensione della classe di inerti di buona forma (G/E < 1,56) sta alla dimensione dell’apertura del frantoio nel rapporto di 2 per quelli a volume crescente, di 1,5 nel caso di impianti a volume costante e di 1 per frantoi a cilindri e mascelle (Fig. 1.11).

Sulla qualità del prodotto influiscono anche la regolarità di alimentazione del materiale e il tipo di mascelle. Infatti, un’alimentazione discontinua aumenta la % di elementi piatti, cosi come l’impiego di mascelle lisce rispetto a quelle dentate. I materiali di migliore forma sono ottenuti con impianti di frantumazione ad urto (frantoi a martelli).

Fig. 1.11 – Relazione tra apertura del frantoio e % degli elementi di buona forma.

Per l’eliminazione degli elementi di forma scadente, in particolare quelli piatti, si sono tentati vari sistemi, come la vagliatura con maglie rettangolari (Fig. 1.12a) o la separazione a mezzo di un nastro trasportatore inclinato (Fig. 1.12b), animato da un movimento tale da trascinare in alto solo gli elementi piatti. Altri separatori sfruttano invece la differente velocità di sedimentazione o di caduta (separatori a corrente fluida, Fig. 1.11c) degli elementi piatti rispetto a quelli poliedrici. E’ ovvio che questi sistemi possono essere applicati solo per inerti prodotti da rocce omogenee e quindi di densità costante.

Per quanto riguarda, invece, la spigolosità, una definizione qualitativa precisa di questa caratteristica è piuttosto difficile. Il concetto di spigoli vivi nell’elemento è comunque intuitivo. Si è anche tentato di definire un indice (di smussamento), espresso come rapporto tra la media dei raggi di curvatura degli spigoli e il raggio della massima sfera iscritta.

Questo indice che varia da 0 a 1, crescendo al tendere dell’elemento alla forma sferica, è tuttavia poco utile al tecnico stradale, per il quale la spigolosità è meglio definita come presenza di spigoli vivi, ottenuti con frantumazione artificiale, nell’aggregato.

E’ stato allora introdotto l’indice di frantumazione che esprime il rapporto % di elementi frantumati (cioè con almeno due facce a spigoli vivi) rispetto al totale.

La necessità di ottenere miscele sempre più stabili per le sovrastrutture stradali conduce all’impiego di aggregati ad alto indice di frantumazione. Per conciliare questa necessità con l’esigenza di sfruttare al meglio le risorse naturali di materiali alluvionali, si è giunti oggi a dividere in classi tali misti, inviando le singole pezzature in frantoi con .diversa apertura, in modo da ricavare un prodotto completamente frantumato.

Per impieghi in strati superficiali si cerca ormai di eliminare la presenza di qualsiasi faccia arrotondata negli inerti. Questo requisito può essere ottenuto quando il rapporto tra dimensione del materiale di partenza e dimensione massima dell’inerte prodotto (rapporto di frantumazione) è 4 o meglio 6, anche se così operando si riduce la produzione.

La stabilità meccanica di uno strato di sovrastruttura dipende da numerosi fattori: la forma, la spigolosità, la composizione granulometrica, lo stato di addensamento, la tessitura superficiale degli aggregati. Quale sia la reale influenza di ciascuno di essi non è stato ancora ben definito.

In particolare, per gli strati non legati in materiali granulari incoerenti, la stabilità dipende essenzialmente dallo angolo di attrito interno; per poter ottenere valori elevati di questo, è essenziale una corretta composizione granulometrica, cui consegue una buona compattezza. Sul valore dell’angolo di attrito interno influiscono però anche la spigolosità degli inerti, nonché la rugosità delle facce dei singoli elementi. E’ evidente l’importanza della tessitura della roccia e il grado di frantumazione raggiunto, essendo una faccia ottenuta con una recente frantumazione più rugosa dì quella sottoposta agli agenti atmosferici.

Nei riguardi del costipamento la spigolosità però aumenta notevolmente l’energia necessaria per ottenere un prefissato indice dei vuoti, rispetto a un materiale a elementi completamente arrotondati. Nel caso di strati trattati con leganti idraulici la spigolosità dell’inerte riveste ancora una certa importanza nella fase di presa e indurimento, comportandosi allora il materiale come un misto granulare incoerente. E’ per questo motivo che si richiedono ai materiali gli stessi requisiti, che potrebbero sembrare eccessivi, soprattutto quando si debbono eseguire i lavori in presenza di traffico. In ogni caso la spigolosità migliora la resistenza a trazione della miscela, ma specialmente il rapporto resistenza/modulo di deformazione.

E’ noto che la lavorabilità dei calcestruzzi è migliore quando si impiegano inerti tondeggianti. Sulla lavorabilità più che la spigolosità influisce la forma dell’elemento; infatti è assai più nocivo un elemento lamellare, anche se arrotondato, che uno cubico a spigoli vivi.

Impiegati nella confezione di conglomerati bituminosi, gli elementi a spigoli vivi riducono le deformazioni del materiale sotto traffico e quindi la tendenza a formare ormaie. Da questo punto di vista recenti ricerche hanno indicato l’im­portanza che riveste, nelle miscele, la presenza di sabbie di frantumazione.

La scivolosità di una pavimentazione è in relazione alla sua rugosità, sia quella macroscopica, dovuta alla presenza di elementi spigolosi sporgenti dalla superficie stessa,sia quella microscopica legata alla tessitura cristallina del materiale. E’ quindi logico impiegare per questi strati inerti completamente frantumati a tessitura fina, che abbiano scarsa tendenza a smussarsi per frantumazione o a levigarsi per usura.

Fig. 1.11 – Schemi di apparecchiature per l’eliminazione degli elementi piatti da un aggregato.

Si è constatato che negli inerti parzialmente frantumati, sotto costipamento, le facce ancora arrotondate si dispongono in superficie, riducendo perciò la rugosità del manto.

Proprio allo scopo di ottenere inerti completamente frantumati e con granulometria molto estesa partendo da materiali totalmente arrotondati, è stata condotta una ricerca sulle qualità dei prodotti di frantumazione primaria di impianti diversi. Quando la dimensione minima del materiale di alimentazione è coincidente con quella massima del materiale prodotto, la percentuale di elementi ancora completamente arrotondati risulta < 5, mentre quella di elementi con più di due facce a spigoli vivi è compresa entro 80÷95.

Non rispettando questa regola gli elementi arrotondati rappresentano il 15÷20% del totale, mentre quelli con più di due facce a spigoli vivi sono il 50÷80%.

Si è constatata anche la grande influenza che ha la frantumazione secondaria, attraverso la quale si può migliorare notevolmente il prodotto, riciclando soprattutto le classi granulometriche superiori che risultano generalmente con minor grado di frantumazione. Per ottenere quindi inerti appropriati si tende a ridurre progressivamente le dimensioni massime di impiego e questo pone dei grossi problemi di approvvigionamento e di sfruttamento dei depositi naturali.

In realtà mentre per una miscela con legante idraulico si può ancora ammettere una dimensione massima piuttosto piccola, non altrettanto può essere accettato per le miscele bituminose di base.

E’ necessario quindi che il problema venga affrontato da una parte dai costruttori di impianti di frantumazione per migliorare le caratteristiche di forma e spigolosità del prodotto e dall’altra dai tecnici stradali per ricercare nuove lavorazioni o miscele, in modo da sfruttare convenientemente l’eccedenza di materiali arrotondati, in particolare le sabbie.

1.1.9 – Caratteristiche degli aggregati riferite ai diversi tipi d’impiego

1.1.9.1 – Aggregati per strati di fondazione e di base non legati

Si tratta normalmente di frantumati 0/D per i quali il problema principale è quello di ottenere una buona granulometria. Si possono ottenere risultati interessanti anche con granulometrie discontinue, ma allora sorgono altri problemi in relazione alla possibilità di segregazione durante la preparazione, il trasporto, la stesa.

Passando dagli strati di fondazione a quelli di base bisogna richiedere qualità sempre più numerose e restrittive, in particolare negli strati di base bisogna evitare la presenza di fini plastici e richiedere una buona resistenza all’attrito.

1.1.9.2 – Per strati di fondazione con leganti

Si tratta ancora di aggregati 0/D, per i quali si può fare distinzione fra inerti per leganti idraulici e inerti per leganti bituminosi. Se si tratta di misti destinati a essere legati con scorie d’altoforno bisognerà ricordare che, nei primi momenti dopo la stesa, queste miscele funzionano come se il legante non fosse presente; occorre quindi una buona resistenza al consumo per attrito oltre a una buona granulometria. Nel caso di misti legati a cemento l’attenzione si sposta, piuttosto, sulla pulizia dell’inerte e sulla buona possibilità di costipamento. Nel caso di misti legati a bitume nasce la preoccupazione della stabilità interna delle miscele per cui occorre controllare anche la spigolosità e si preferiscono, allora, materiali provenienti interamente da frantumazione; poiché interviene anche la resistenza a fatica si deve controllare la bontà della granulometria per ottenere una compattezza elevata. Anche la resistenza allo attrito deve essere buona.

1.1.9.3 – Per strati di collegamento e di usura

Per evidenti necessità di precisione granulometrica si tratta di inerti di cui si deve controllare la resistenza alla frantumazione oltre a tutte le altre già ricordate, insieme col controllo di forma e di non alterabilità; l’esclusione praticamente totale di facce tondeggianti esclude i materiali misti alluvionali a meno di un controllo delle dimensioni minime di partenza prima della frantumazione e del rapporto di frantumazione.

1.1.9.4 – Per trattamenti superficiali

Si può ripetere quanto è stato detto per gli strati di usura, aggiungendo che i frantumati debbono avere particolari qualità di angolarità, forma, pulizia e soprattutto resistenza all’abradibilità.

1.1.9.5 – Per calcestruzzo per pavimentazioni

In questo caso si sommano tutte le esigenze e quindi tutte le caratteristiche elencate sono da mantenersi a livello più restrittivo; si può fare eccezione (nel senso di minor esigenza) per quel che riguarda la resistenza alla frantumazione, all’attrito e all’usura.

1.1.10 – Caratteristiche delle sabbie e dei filler

1.1.10.1 – Per strati di fondazione con legante

Le sabbie naturali possono essere distinte in 2 grandi categorie:

–       le sabbie fini di duna;

–       le sabbie di fiume più grosse, talvolta provenienti anche dal le cave che danno misti troppo sabbiosi.

Poiché la tecnica per gli strati di fondazione prevede due procedimenti essenziali:

–       la sabbia bitumata a caldo;

–       la sabbia legata con scorie d’alto forno.

si può riconoscere che in ambedue i casi le caratteristiche da richiedere sono: buona forma e rugosità superficiale; si può essere meno esigenti per quanto riguarda la granulometria. I filler presenti in quantità inferiore al 2-3% possono essere filler di apporto con esclusione di frazioni argillose.

1.1.10.2 – Per i misti bitumati e i conglomerati bituminosi

Si tratta in questo caso di sabbia prevalentemente di frantumazione, poiché l’angolarità ha un ruolo essenziale nella stabilità interna della miscela. Sia nello strato di collegamento sia in quello di usura è opportuna la presenza di una % di filler che vari dal 4 al 8% in peso sul totale della miscela; con le miscele attualmente utilizzate, abbastanza povere di sabbia, risulta praticamente indispensabile ricorrere al filler d’apporto; d’altronde fare affidamento sul fillercontenuto naturalmente nella sabbia è molto pericoloso poiché la stabilità di insieme è estremamente critica alla costanza delle percentuali dei filler. Questo è un ulteriore argomento in favore dello sganciamento della % di filler dall’effettiva quantità di sabbia impiegata.

filler non debbono essere argillosi poiché altrimenti si può dubitare della resistenza delle miscele all’attacco dell’acqua; le speranze riposte nella validità della misura del coefficiente d’attività non sembrano aver avuto una consacrazione definitiva, per cui tutto quanto riguarda i filler è rimandato a uno studio caso per caso sulla rispondenza delle miscele agli scopi prefissi.

1.1.10.3 – Per i calcestruzzi di pavimentazione

La granulometria di una sabbia per calcestruzzo è una caratteristica essenziale poiché essa condiziona la compattezza e quindi la percentuale e la dimensione dei vuoti (collegata alla resistenza al gelo). D’altra parte la ricerca di una buona lavorabilità conduce all’impiego di sabbie rotonde.

Poiché non vi è alcun bisogno di presenza di filler, ci si può tranquillamente affidare a una prescrizione di pulizia assoluta che è garanzia di buona resistenza a trazione. Ciò spiega la richiesta di equivalenti in sabbia molto elevati senza alcuna preoccupazione di compromessi che conducano a considerare contemporaneamente l’ottenimento di caratteristiche diverse.

1.1.11 – Individuazione e gestione delle cave e degli impianti di produzione degli aggregati

La grande importanza della produzione degli aggregati per le miscele stradali porta a riconoscere che la ricerca delle cave, i metodi e le tecniche di studio della loro consistenza e utilizzabilità sono altrettanto importanti quanto la perfetta organizzazione degli impianti di frantumazione e di selezione degli aggregati.

Va comunque sottolineato che, come per tutte le materie prime, la nozione di giacimento deriva da un concetto geologico ed economico insieme. Nulla può dirsi a priori sulle condizioni che rendono possibile l’apertura di una cava e l’organizzazione di un impianto di produzione.

Ci si può limitare a elencare una serie di problemi che è opportuno considerare simultaneamente:

–       studio geologico del terreno, rilievo geofisico di superficie, perforazioni parziali con impiego della tecnica delle diagrafie, prelievo ed esami dei campioni;

–       studio della funzione di riduzione, cioè della sequenza più opportuna delle operazioni di frantumazione per arrivare a una produzione ottimale delle diverse frazioni con un buon rendimento nei riguardi delle caratteristiche di forma e di angolarità;

–       studio della funzione di eliminazione, cioè della maniera di allontanamento degli elementi inquinanti secondo uno schema che prevede impianti di lavaggio, di ventilazione e di depolverizzazione;

–       studio della funzione di classificazione, che esamina tutte le possibilità di impiego di vagli vibranti o non. E’, in effetti, possibile far variare la frequenza di vibrazione, la pendenza dei vagli, l’ampiezza di vibrazione e il senso di rotazione del meccanismo. Non è infine da trascurare la modalità di alimentazione della colonna di vagli;

–       studio della funzione di omogeneizzazione tenendo presente che l’omogeneità dei prodotti di frantumazione è il fattore primordiale della qualità del prodotto.

Le sorgenti di variabilità che debbono essere equilibrate sono  fondamentalmente due:

–       la variabilità del giacimento;

–       la disomogeneità del macchinario impiegato.

L’installazione di un certo numero di dispositivi (rilevatori del funzionamento delle macchine e delle variazioni nel materiale di alimentazione) e la centralizzazione dei comandi può permettere un efficace intervento sulla correttezza delle caratteristiche del prodotto.

1.2. – I Leganti

1.2.1 – Leganti organici

I leganti che entrano nelle miscele, soprattutto in quelle stradali ma anche per altre lavorazioni (impermeabilizzazioni, fissaggi etc.) appartengono sia alla famiglia dei leganti organici (più tradizionalmente impiegati nella tecnica stradale) sia a quella dei leganti idraulici (anche questi per lunga tradizione presenti nelle miscele stradali ma con minor frequenza e caratterizzazione). Appartengono alla 1a categoria:

a) I leganti organici classici che comprendono per definizione leganti a base di bitume e di catrame senza addizione di polimeri, cioè:

– bitumi e catrami puri;

– bitumi fluidificati;

– bitumi flussati;

– emulsioni di bitume;

– miscele bitume-catrame.

b) I leganti organici additivati di polimeri nei quali il polimero, di tipo elastomerico o termoplastico o termoindurente, è presente in quantità variabile dal 4 al 50% della miscela.

c) I polimeri che non contengono né bitume né catrame, i quali possono essere utilizzati puri o in associazione con cariche inerti.

1.2.2 – Leganti organici classici

1.2.2.1 – Bitumi puri

Il bitume utilizzato nelle infrastrutture è ottenuto industrialmente mediante distillazione frazionata del petrolio. I greggi provenienti dal Medio Oriente erano i soli impiegati nel passato mentre oggi sono ormai scomparsi dal mercato (esistono a livello giacimentologico anche fenomeni di distillazione frazionata prodottasi naturalmente nel corso delle ere geologiche che ha dato luogo ai cosiddetti bitumi naturali.

Attualmente vengono considerati qualitativamente superiori i bitumi provenienti da greggi venezuelani o indonesiani e lavorati con metodi classici di distillazione ma nulla autorizza a una tale posizione aprioristica, in quanto i procedimenti di fabbricazione sono continuamente in evoluzione e non è ancora dimostrato che anche da altri greggi non si possano ricavare bitumi di migliore qualità. Non è del resto facile dimostrare quali siano esattamente i parametri non contraddittori che concorrono alla definizione della qualità in ordine alla tipologia d’impiego.

I modi di fabbricazione più correntemente usati (Fig. 1.12) sono:

–       la distillazione diretta (distillazione atmosferica e succes­sivamente sotto vuoto);

–       la soffiatura con aria di un residuo di distillazione sotto vuoto fino all’ottenimento di un prodotto di notevole durezza, seguita o non da un taglio di questa frazione pesante con medesimo prodotto di partenza o con altri prodotti disponibili in raffineria.

Le frazioni che si ottengono per distillazione di un greggio di petrolio sono: gas, benzine leggere e pesanti, gasolio leggero e pesante, oli combustibili, bitume.

Fig. 1.12 – Schema del processo di distillazione frazionata del petroli.

La % di bitume può variare molto nei diversi casi: può essere praticamente nulla o talmente bassa da rendere l’estrazione del bitume industrialmente non redditizia (greggi sahariani); può essere, al contrario, del 70÷80% in certi greggi del Venezuela. In generale si distinguono :

– i greggi aromatico-asfaltici particolarmente adatti all’ottenimento dei bitumi (greggi venezuelani, messicani, indonesiani);

– i greggi paraffinici, naftenici e paraffino-naftenici che possono ugualmente essere utilizzati per la fabbricazione dei bitumi tenendo presente qualche accorgimento. I greggi provenienti dal Medio Oriente hanno un basso contenuto di paraffina, sono molto paraffinici invece i greggi dei paesi dell’Est Europeo. Attualmente sembra corretto prevedere ancora l’intensa utilizzazione dei greggi medio-orientali e di quelli dei paesi dell’Est mentre non si hanno, ad oggi, dati sufficientemente significativi nel merito sui greggi provenienti dagli ultimi giacimenti scoperti (Alaska, Aree circumpacifiche, Kurdistan etc.).

Come già detto, le operazioni di raffinazione cominciano col procedimento atmosferico, cioè con la distillazione a pressione normale e a temperatura di 350°C. In ordine di densità crescente si ottengono:

–       un distillato di testa;

–       benzine leggere e pesanti;

–       kerosene;

–       gasolio leggero e pesante;

–       un residuo, detto residuo atmosferico.

Tale residuo è ripreso in un’unità sotto vuoto, nella quale la distillazione avviene a pressione ridotta per evitare il surriscaldamento e quindi il cracking dei prodotti; si ottengono:

–       oli lubrificanti leggeri e pesanti non raffinati;

–       un residuo, detto residuo-vuoto.

I residui della distillazione sotto vuoto sono già, in certi casi bitumi utilizzabili direttamente (pI della Fig. 1.12).

Gli oli lubrificanti distillati sotto vuoto vengono in seguito raffinati per eliminare i componenti nocivi a una buona lubrificazione, cioè gli idrocarburi aromatici e le paraffine solide; i primi vengono separati mediante trattamento con solventi estrattori.

Gli estratti aromatici possono essere utilizzati direttamente (vedi oltre) come flussanti per i bitumi duri. In altre circostanze, ossia quando risulti conveniente ottenere una forte quantità di oli lubrificanti ad elevata viscosità, i residui vengono sottoposti a trattamento con propano: in queste condizioni si ha una precipitazione dei componenti più complessi e a peso molecolare più elevato, quali gli asfalteni e le resine. Tale prodotto viene di solito denominato bitume precipitato al propano.

Fluidificando tale prodotto con estratti aromatici, con residuo-vuoto o con miscele di entrambi, si potrà ottenere una altra serie di bitumi (pII della Fig. 1.12), la cui caratteristica é quella di essere poco viscosi a temperature elevate e fragili a quelle basse. Per ottenere prodotti finali con caratteristiche sufficienti si usa spesso sottoporre i residui al processo di soffiatura, insufflandovi una corrente d’aria a temperatura elevata. Con tale operazione si provoca una modifica nella costituzione dei residui: si ottiene un aumento nel tenore di asfalteni a spese degli altri componenti reattivi, composti aromatici e resine, mentre i componenti saturi rimangono quasi invariati. Nelle operazioni di soffiatura si può agire in due modi: procedere alla soffiatura dei residui fino a raggiungere prodotti appartenenti a tutte le classi di penetrazione previste (pIII nella Fig. 1.12) oppure giungere fino a un prodotto con penetrazione bassa (10/30) , che andrà successivamente rifluidificato con residui, estratti aromatici o altri prodotti similari per ottenere tutti i bitumi desiderati (pIV nella Fig. 1.12). I bitumi puri in Italia sono classificati (Tab. 1.5) in base alla penetrazione.

1.2.2.2 – Bitumi liquidi

I bitumi liquidi sono bitumi stradali normalmente di media durezza, ai quali si aggiungono altri prodotti che provengono dalla distillazione del petrolio o del carbone fossile. Il prodotto risultante nel primo caso prende il nome di bitume fluidificato; nel secondo caso di bitume flussato.

In Italia sono classificati (Tab. 1.6) sulla base della viscosità misurata col viscosimetro STV (viscosità STV o Redwood). Secondo le norme ASTM i bitumi liquidi sono classificati invece secondo il tipo di solvente, e quindi secondo la sua rapidità di evaporazione; in tal senso si distinguono i bitumi a rapido indurimento (RC) , a medio indurimento (MC) e a lento indurimento (SC).

Tab. 1.5 – Caratteristiche e proprietà dei bitumi puri per usi stradali.

Tab. 1.6 – Caratteristiche e proprietà dei bitumi liquidi per usi stradali.

1.2.2.3 – Emulsioni bituminose

Una emulsione è una dispersione di un liquido in un altro non miscibile, ottenuta in presenza di un prodotto emulsionante. Si chiama emulsione acida (o cationica)  quella in cui l’elettroforesi conduce le particelle verso il catodo e, viceversa, emulsione basica (o anionica) quella che presenta un opposto spostamento delle particelle. Le emulsioni stradali sono costituite in modo che la fase dispersa sia data dal legante idrocarburato mentre la fase di sperdente sia l’acqua.

E’ possibile classificare le emulsioni in base al tenore di bitume, alla viscosità, alla velocità di rottura. S’intende per rottura di un’emulsione la separazione fra il bitume e il liquido emulsionante: essa normalmente si verifica quando l’emulsione bagna l’aggregato, il quale resta rivestito di bitume mentre l’acqua evapora. Nelle Tabb. 1.7 e 1.8 sono riportate le classificazioni delle emulsioni usate in Italia, sulla base della velocità di rottura e del contenuto di bitume.

Tab. 1.7 – Classificazione e proprietà delle emulsioni acide per usi stradali.

1.2.2.4 – Catrame

Questo legante può essere ottenuto per distillazione distruttiva o pirogenazione di una qualsiasi sostanza organica, ma commercialmente con tale nome si intende il prodotto della distillazione del carbone fossile.

I catrami stradali o impermeabilizzanti sono ottenuti tuttavia per ricostruzione, a partire dalla pece (residuo della distillazione a 400°C) e da frazioni di oli di catrame selezionati e trattati in modo opportuno. Accanto agli idrocarburi di tipo saturo e aromatico sono presenti composti ossigenati (fenoli), azotati e solforati.

La classificazione può avvenire sulla base della viscosità STV ma, al fine di permettere confronti a viscosità uguale, si è sviluppata una classificazione in base all’EVT, o temperatura di equiviscosità, cioè la temperatura cui corrisponde, per il prodotto esaminato, una viscosità cinematica di 2 104 centistokes (ovvero 0,02 m2/s). Ad una EVT elevata corrisponde, quindi, un catrame molto viscoso.

Tab. 1.8 – Classificazione e proprietà delle emulsioni basiche per usi stradali.

1.2.2.5 – Bitume-Catrame

Per combinare le qualità e compensare i difetti sia dell’uno sia dell’altro legante sono state preparate miscele di bitume e catrame con predominanza del primo (per % inverse si parla piuttosto di catrame-bitume). In sostanza si tratta di migliorare l’adesività agli aggregati sfruttando la presenza, nel catrame, di gruppi polari mentre si rallenta l’invecchiamento e si modera la suscettibilità alla temperatura propria del catrame puro. Chiaramente esiste una differenza tra queste miscele e i flussati prima definiti poiché, in questo caso, è prevalentemente la pece che viene addizionata al bitume e non gli oli di catrame. E’ opportuno anche ricordare che non è possibile ottenere tutte le combinazioni in percentuale di bitume e catrame poiché le rispettive miscibilità risultano critiche.

1.2.3 – Leganti organici additivati di polimeri

1.2.3.1 – Bitumi additivati di polimeri

Poiché le buone proprietà dei polimeri (elasticità, coesione, bassa suscettibilità termica) hanno reso sempre più conveniente il loro impiego come legante mentre il loro costo si opponeva a ciò, è venuta l’idea di associare i polimeri ai leganti tradizionali nella speranza di ottenere prodotti a costo modesto e nettamente migliori del bitume o del catrame di partenza. Notevoli difficoltà sono state incontrate nella ricerca di un tale compromesso anche perché le % rispettive presentano .numerosi punti critici di concentrazione.

Risulta piuttosto semplice aggiungere i polimeri al catrame (salvo l’esistenza di una concentrazione minima di polimeri al di sotto della quale la miscela ottenuta non ha interesse) ma è tuttavia più arduo e più restrittivo compiere la medesima operazione coi bitumi. In pratica le miscele di qualche interesse realizzate sinora sono quelle tra bitumi e:

– polimeri ad alto peso molecolare (omopolimeri, copolimeri, tra i quali un buon numero di elastomeri come il latice di gomma); l’idea di introdurre nella struttura del bitume masse viscoelastiche più organizzate e di peso molecolare più elevato di quello degli asfalteni è collegata al principio che un aumento della struttura gel debba portare a un miglioramento del comportamento dei bitumi e, in particolare, della possibilità di avere minore rigidità a bassa temperatura. E’ tuttora in fase di risoluzione migliorativa il problema dell’adesione agli aggregati.

– resine epossidiche; si tratta di una tecnica ormai consolidata che prevede l’utilizzazione di resine particolari compatibili con la maggioranza dei bitumi di distillazione, ad esclusione quindi delle usuali resine epossidiche commerciali. Il problema è reso più delicato da una quantità di limiti di miscibilità e dalla fragilità del prodotto finale.

1.2.3.2 – I catrami additivati di polimeri

Come già ribadito il catrame accetta meglio del bitume l’incorporazione di materie ad alto peso molecolare. Per l’interesse pratico finora dimostrato si citano di seguito le miscele tra catrame e:

– i polimeri ad alto peso molecolare e, in particolare, il cloruro di polivinile che conduce alla miscela catrame-PVC largamente utilizzata per ottenere un considerevole allargamento della zona plastica del legante iniziale. Se il tenore in PVC è inferiore al 5% si ottengono leganti di viscosità non troppo alta, adatti all’impiego nei trattamenti superficiali e negli strati di ancoraggio. Con percentuali più alte si ottengono miscele molto viscose il cui interesse è finalizzato all’ambito della tecnica dei conglomerati.

– le resine epossidiche: in questo caso si tende piuttosto ad ottenere un legante complessivo a bassa suscettibilità termica; il catrame sopporta bene l’incorporazione anche delle resine epossidiche commerciali.

L’addizione dei polimeri al catrame permette di ottenere un legante adatto alla confezione di conglomerati anti-kerosene particolarmente indicati per pavimentazioni soggette alla caduta e allo spargimento dei solventi; la resistenza ai solventi del legante iniziale (che è già notevole) viene nettamente migliorata dalla presenza di queste materie plastiche che concorrono nello stesso tempo a migliorare la stabilità delle miscele conglomerate che sopportano tra l’altro una maggior % di filler.

1.2.4 – Leganti polimerici

Per completezza si ricorda la possibilità d’impiego di polimeri puri senza combinazione con bitume o catrame. Attualmente l’interesse è concentrato, prevalentemente, sullo sviluppo di prodotti di policondensazione (polimeri termoindurenti), cioè a resine poliesteri, poliuretaniche ed epossidiche.

Interessanti esperienze riguardano le miscela sabbia-resina, nella quale è ,cioè, presente una carica minerale che permette di ridurre il costo della miscela senza alterare notevolmente le proprietà essenziali della resina di partenza; il legante sabbia-resina offre anche un’ottima adesività ai grani di aggregato e un’apprezzabile insensibilità all’acqua.

1.2.5 – Le caratteristiche del bitume

Negli impieghi più frequenti il bitume appare come un liquido viscoso o un solido, essenzialmente costituito da idrocarburi la cui struttura è molto complessa. Si considera che esso sia formato da 3 famiglie di costituenti non corrispondenti ad entità chimiche ben definite ma risultanti da differenti processi di separazione:

– carboidi e carbeni (insolubili nel tetracloruro di carbonio);

– asfalteni (insolubili nel normale-eptano, composti molto complessi a struttura condensata);

– resine ed oli (solubili nei solventi citati); i due costituenti possono essere raggruppati sotto il nome di malteni.

Poiché i carboidi e i carbeni (la cui presenza è normalmente collegabile ad un surriscaldamento del legante) sono presenti in quantità molto ridotta, facendo astrazione dalla loro presenza si può rappresentare il bitume come una dispersione di asfalteni negli oli, laddove le resine costituiscono il fattore di peptizzazione; gli oli, infatti, si differenziano dalle resine per la possibile presenza di catene paraffiniche e anelli naftenici, mentre nelle resine permane prevalente il carattere aromatico ed eterociclico.

Allo stato attuale delle conoscenze risulta complesso ricondurre i normali comportamenti reologici alla struttura dei bitumi come definita in precedenza; ne consegue che tutte le classificazioni sinora tentate, ad es. sulla base di diagrammi triangolari (Fig. 1.13), sui cui lati si rappresentano le % di asfalteni, di oli e di resine, non si sono potute porre in relazione evidente con l’andamento dei parametri a mezzo dei quali si tenta normalmente di classificare i bitumi stradali.

Fig. 1.13 – Relazione tra penetrazione e costituzione chimica dei bitumi.

Maggiori significati comporta invece la classificazione secondo il grado di dispersione, rappresentato dal rapporto (aromatici+resine)/(asfalteni+saturi), dove la definizione di saturi spetta a una frazione che contiene la maggior parte degli idrocarburi paraffinici. La definizione di tale indice è nata a seguito di numerosi lavori sperimentali effettuati soprattutto dai ricercatori dell’Europa orientale. L’impiego di questo rapporto costitutivo permette in generale:

–       di risolvere il problema della classificazione dei bitumi, poiché al diminuire del rapporto così definito corrisponde un miglioramento di tutte le caratteristiche dei bitumi che interessano la geotecnica delle grandi opere;

–       di risolvere la questione dell’impiego dei bitumi a differente contenuto di paraffina poiché le frazioni di idrocarburi paraffinici entrano in maniera complessa nel rapporto sopra definito.

Il bitume è utilizzato come legante per trattenere insieme grani minerali di diversa forma e grandezza. Il mantenimento di questo legame richiede che non vi sia distacco tra la pellicola di bitume e il singolo grano (adesione) e che non vi sia ottura all’interno della pellicola di bitume (coesione) .

Poiché questo legame deve sussistere sia a basse temperature sia a temperature elevate, come pure per sollecitazioni istantanee e per sollecitazioni lente, bisogna esaminare la consistenza del bitume e la variabilità di questa caratteristica.

A temperatura ambiente la consistenza del bitume è quella di un solido o di uno pseudosolido; a temperature elevate si rileva un progressivo rammollimento, a temperature basse una fragilizzazione.

Gli intervalli di temperatura che sono particolarmente interessanti possono essere così definiti:

–       l’intervallo di temperatura di esercizio su strada (~ -15°C ÷ +60°C);

–       le temperature di confezione e posa in opera delle miscele bituminose.

La viscosità nell’ambito dell’intervallo d’esercizio deve mantenersi sensibilmente costante e molto elevata; nel secondo campo di temperatura la viscosità dovrebbe essere molto bassa e praticamente vicina a quella dell’acqua allo scopo di consentire le varie fasi di confezione e posa in opera della miscela (polverizzazione, spruzzo, miscelazione, stesa, costipamento) .

E’ certo che questo andamento ideale della viscosità in funzione della temperatura non può essere praticamente ottenuto che con molta approssimazione. Si può osservare in seguito come questo fenomeno possa essere studiato su un diagramma viscosità-temperatura.

La temperatura non è tuttavia il solo parametro da cui dipendono le caratteristiche meccaniche del bitume: trattandosi di un materiale viscoelastico il suo comportamento meccanico è molto sensibile alla velocità di applicazione dei carichi.

Williams, Landel e Ferry hanno studiato un’equazione (equazione WLF) che esprime l’equivalenza fra un aumento di temperatura e un aumento del tempo d’applicazione dei carichi a temperatura costante e viceversa (principio di equivalenza o di sovrapposizione tempo-temperatura). Ciò spiega perché tutte le prove standardizzate che riguardano i bitumi o le miscele bituminose precisano convenzionalmente una particolare standardizzazione della temperatura e della velocità di applicazione del carico; mentre tutti i tentativi di razionalizzazione di queste prove prevedono il tracciamento della cosiddetta curva maestra che rappresenta l’andamento di una qualunque caratteristica meccanica in un piano in cui:

– le ordinate rappresentano la misura della caratteristica meccanica in esame;

– le ascisse rappresentano una frequenza ridotta in cui è considerato contemporaneamente l’effetto della temperatura e della frequenza di sollecitazione (a mezzo di un fattore di scala).

L’impiego della curva maestra permette di ricavare le caratteristiche meccaniche in una qualsiasi condizione di temperatura e di velocità di carico. Quest’immagine teorica del comportamento dei bitumi trova perfetta corrispondenza nel comportamento reale di una qualsiasi miscela bitumata per la quale le condizioni di più probabile degradazione sono:

–       temperature basse + velocità elevate di applicazione del carico (fragilità agli urti, fessurazione progressiva);

–       temperature elevate + velocità basse (trasudamento di bitume, deformazioni plastiche, ormaie).

1.2.6 – Classificazione dei bitumi

1.2.6.1 – Metodi tradizionali d’identificazione dei bitumi

Tradizionalmente l’identificazione delle proprietà dei bitumi avviene attraverso la misura della consistenza a una data temperatura o della temperatura a cui essi raggiungono una data consistenza; questa misura viene ottenuta mediante prove standardizzate in cui, per le ragioni illustrate nel precedente paragrafo, è praticamente fissato il tempo di applicazione dei carichi. I principali parametri che vengono determinati con queste prove sono:

–       Penetrazione (UNI EN 1426; ASTM D5; AASHTO T49); con tale termine s’intende l’entità dell’affondamento, espresso in decimi di mm, che un ago d’acciaio normalizzato subisce nel tempo di 5” sotto il carico di 100 g entro un provino di bitume mantenuto alla temperatura di 25°C. Le norme italiane CNR suddividono i bitumi in base alla penetrazione in 8 classi: da quello più duro (penetrazione 20/30) al più molle (penetrazione 180/220) (Fig. 1.14).

Fig. 1.14 – Dispositivo per Prova di penetrazione bitumi (Controls).

–       Punto di rammollimento; si assume come punto di rammollimento col metodo Palla e Anello (UNI EN 1427; ASTM D36; AASHTO T53) la temperatura alla quale un campione del bitume in esame, colato entro uno speciale anello di ottone, collocato in un bagno d’acqua e gravato del peso di una pallina metallica, si deforma fino a raggiungere un piano posto alla distanza di un pollice da quello d’appoggio dell’anello. La temperatura dell’acqua è di 5°C all’inizio della prova e viene progressivamente aumentata con un gradiente di 5°C per minuto (Fig. 1.15).

Fig. 1.15 – Dispositivo per Prova Palla e Anello (Controls).

–       Punto di rottura Fraass (UNI EN 12593): su una laminetta d’acciaio viene steso un velo di bitume dello spessore di 0,5 mm. La lamina viene poi introdotta in un vaso Dewar e inflessa a intervalli regolari di tempo mentre la temperatura si abbassa di 1°C al minuto, partendo da 10°C. Si definisce punto dì rottura la temperatura alla quale la pellicola di bitume presenta la prima fessurazione.(Fig. 1.16)

Fig. 1.16 – Dispositivo per Prova Fraass (Controls).

Queste prove, normalizzate a livello europeo, forniscono un’indicazione sintetica delle proprietà del bitume in corrispondenza di alcuni valori della temperatura, mentre per un corretto impiego nelle miscele sarebbe necessario conoscere il comportamento del mezzo al variare della temperatura entro un intervallo molto ampio, che comprende le temperature di confezione delle miscele, quelle della loro posa in opera e quelle che si verificano durante la vita delle pavimentazioni.

Per questi motivi, in tempi ancora recenti, vi sono stati numerosi tentativi di classificazione dei bitumi in funzione della viscosità, sistema che consente di costruire un modello teorico del comportamento del bitume, e quindi di ricavare da tale modello le proprietà che entrano in gioco nelle diverse situazioni.

In effetti, a temperature superiori a 60°C, quali sono quelle che si verificano durante la confezione e la posa in opera delle miscele, il bitume si comporta come un fluido newtoniano, il cui comportamento meccanico è univocamente definito dalla conoscenza del coefficiente di viscosità. A temperature più basse invece il coefficiente di viscosità dipende dalla velocità di deformazione: pertanto per la misura di questo coefficiente o di altro equivalente deve essere prefissata la durata del tempo di applicazione del carico.

Seguendo questo indirizzo, in un primo tempo sono stati normalizzati diversi metodi di misura della viscosità a temperature prefissate, coincidenti con quelle di maggiore interesse ai fini delle applicazioni dei bitumi nelle miscele stradali.

Per le misure a 135°C sono stati impiegati viscosimetri capillari a gravità, secondo le norme ASTM D2170 e AASHO T201; per le misure a 60°C si sono utilizzati viscosimetri capillari sotto vuoto secondo le norme ASTM D2171 e AASHO T202. Per le temperature più basse si è fatto ricorso:

–       al microviscosimetro a piatto scorrevole (sliding-plate) della Shell Oil Company;

–       al viscosimetro a piatto e cono (cone plate) dell’American Oil Company;

–       al viscosimetro a pistone cadente della Chevron Research Corporation;

–       allo sliding-plate modificato dal Bureau Public Roads.

Fig. 1.17 – Viscosimetro Standard TAR (Controls).

Per Italia ed Europa vale la normativa UNI EN 12846.

1.2.6.2 – Abachi di Heukelom

In tempi già più recenti un’interessante classificazione dei bitumi, che permette di individuarne rapidamente alcune fondamentali proprietà, è stata proposta da Heukelom, Questo ricercatore ha proposto di identificare ciascun bitume attraverso la sua suscettibilità termica, cioè attraverso la legge di variazione di un certo parametro in funzione della temperatura.

Come parametro è stata scelta la viscosità per temperature superiori a 60°C e la penetrazione per temperature inferiori. Poiché al disopra di 60°C, come s’è già detto, il bitume si comporta come un fluido newtoniano, e d’altra parte la misura della penetrazione avviene con tempo di carico costante, nella legge così ricavata l’unica variabile risulta la temperatura.

Heukelom ha constatato che per un’amplissima classe di bitumi, sui quali ha sperimentato, sussiste la seguente proprietà: detti abcd 4 valori qualsiasi di consistenza (individuati attraverso la viscosità o la penetrazione) e TaTbTcTd i valori della temperatura ai quali tali consistenze vengono raggiunte, il rapporto (Ta–Tb)/(Tc-Td) è un invariante rispetto al tipo di bitume. Questa proprietà ha consentito la costruzione di una scala di rappresentazione delle consistenze ai cui estremi sono stati collocate rispettivamente la penetrazione di 0,1 mm e la viscosità di 1 poise, e la cui ampiezza è stata posta uguale a 1000 unità: ossia, detta C la misura della consistenza, C risulta uguale a 0 in corrispondenza della viscosità di 1 poise e uguale a 1000 in corrispondenza della penetrazione di 0,1 millimetri.

Dette T1p e T1pen le temperature a cui, per un bitume in esame, corrispondono rispettivamente i valori 0 e 1000 del parametro C, e detta Tx la temperatura a cui corrisponde il valore x della consistenza (misurata come penetrazione) o viscosità secondo che risulti T > o < 60, il valore di C che misura tale consistenza nella  scala prescelta risulta:

C = 103 (T1p-Tx)/(T1p-T1pen)

E’ stato così possibile, attraverso la misura sperimentale delle temperature corrispondenti a diverse consistenze, costruire la corrispondenza fra i valori di C e quelli della penetrazione o della viscosità, e quindi rappresentare questi ultimi nella scala prescelta che, per la proprietà prima illustrata, è unica per tutti i bitumi.

Nella Fig. 1.18 è rappresentata la legge di variazione della consistenza in funzione della temperatura per diversi bitumi derivanti direttamente dalla distillazione, con debole contenuto di paraffina.

Per questi bitumi, denominati da Heukelom di categoria D, la legge è lineare. Nella figura sono anche rappresentati i valori della penetrazione in corrispondenza dei punti di rottura e di rammollimento; come si vede, questi valori sono degli invarianti per tutti i tipi di bitume e sono rispettivamente uguali, mediamente, a 0,15 e 800 decimi di mm.

Nella Fig. 1.19 è rappresentata la stessa legge per alcuni bitumi soffiati, raggruppati da Heukelom nella categoria S. Per questi la relazione consistenza-temperatura è rappresentata da una linea spezzata: la temperatura corrispondente alla cuspide della linea è sempre compresa fra il punto di rammollimento palla e anello e la temperatura corrispondente alla viscosità di 300 poise.

Mentre per i bitumi della categoria D è sufficiente conoscere i valori della consistenza corrispondenti a due valori della temperatura per identificare il bitume, per i bitumi della categoria S sono necessari 4 valori della consistenza, in genere 2 nel campo della viscosità e 2 nel campo della penetrazione.

La relazione consistenza-temperatura per i bitumi ad alto contenuto di paraffina, raggruppati nella categoria P è rappresentata da 2 rette, ~ parallele, ma che non si sovrappongono.

Nella Fig. 1.20, ad es., è rappresentata la retta relativa a un bitume deparaffinato insieme con la curva relativa allo stesso bitume al quale è stato aggiunto il 12% di paraffina.

Si nota come alle basse temperature non esista quasi differenza fra le due curve, mentre al disopra del punto di congelamento della paraffina si è prodotta una traslazione della curva verso il basso.

Tra le due parti della curva esiste una zona di transizione che è più estesa della zona di fusione della paraffina pura, perché nel bitume la cristallizzazione della paraffina è ritardata.

I valori sperimentali sono dispersi in questa zona di transizione, in quanto essi dipendono dal passato termico del bitume.

Fig. 1.18 – Diagrammi Consistenza-Temperatura per alcuni bitumi derivati da distillazione diretta (bitumi D).

Fig. 1.19 – Diagrammi Consistenza-Temperatura per alcuni bitumi soffiati (bitumi S).

Come per i bitumi S, anche per quelli P occorrono 4 valori della consistenza per disegnare le due parti della curva.

Questi valori non consentono però di ricavare l’estensione della zona di transizione, la quale deve essere perciò esaminata separatamente.

La rappresentazione di Heukelom consente d’individuare immediatamente alcune fondamentali proprietà dei bitumi che interessano le applicazioni costruttive. Krom & Dormon hanno raggruppato in 3 punti le proprietà richieste ai bitumi:

Fig. 1.20 – Diagramma Consistenza-Temperatura per un bitume ad alto contenuto da paraffina (bitumi P).

Fig. 1.21 – Comportamento delle miscele di 3 tipi di bitume definiti tramite i diagrammi di Consistenza-Temperatura.

–       a) Per ottenere una buona miscelazione con l’aggregato è necessario che il bitume abbia una conveniente viscosità ad una temperatura non troppo elevata dal punto di vista economico: da questo punto di vista occorrerebbe avere una viscosità di 2 poise per una temperatura compresa fra 140 e 160°C.

–       b) Per evitare la formazione di ormaie e il rifluimento del bitume alla superficie della pavimentazione, è necessario che la viscosità sia superiore di un minimo alla massima temperatura raggiungibile sulla strada. Questo minimo potrebbe essere fissato in 300, 700, 2000 e 6000 poise a 60°C secondo l’intensità della circolazione e le condizioni climatiche.

–       c) Per evitare la fessurazione della pavimentazione è necessario che il bitume non diventi fragile alle più basse temperature raggiungibili sulla strada. Ciò può ottenersi stabilendo dei minimi per il punto di rottura Fraass: 0, -10, -20, -30°C, secondo il clima.

A titolo di esempio nella Fig. 1.21 sono indicati con le frecce l’intervallo della temperatura di miscelazione, i valori della viscosità a 60°C necessari per la stabilità delle miscele e i valori del punto di rottura necessari per la conservazione della pavimentazione nei diversi climi. Nella medesima figura è anche rappresentato il comportamento di 2 bitumi D (curve 1 e 2) e di 1 bitume ossidato (curva 3). Si nota come il bitume 1 sia eccellente a basse temperature ma il suo comportamento sia scadente alle alte temperature della strada che sotto traffico pesante. Il bitume 2 può essere impiegato solo in regioni dove la temperatura non scende mai sotto 0°C e con un traffico leggero; inoltre esso deve essere miscelato a temperatura piuttosto bassa, il che potrebbe dar luogo a difficoltà durante il costipamento. Di gran lunga migliore appare il bitume ossidato (3) il quale dà luogo a miscele stabili a elevate temperature sulla strada e contemporaneamente non è fragile anche a temperature molto basse.

1.2.6.3 – Indice di penetrazione e nomogramma di Van der Poel

Con la scala adottata da Heukelom per la rappresentazione delle consistenze si verifica, nel campo della viscosità, una stretta corrispondenza fra tale scala e la equazione WLF di cui si è già parlato in precedenza. Nella zona della penetrazione, C risulta proporzionale, come si vede facilmente dalle figure, al logaritmo della penetrazione. Poiché d’altra parte la relazione fra C e la temperatura è lineare, tale anche deve essere la relazione fra il logaritmo della penetrazione e la temperatura:

d lg pen/dT = cost

Questo risultato era già noto da tempo e di esso si servirono Pfeiffer & Van Doormaal per definire il loro Indice di penetrazione IP mediante l’equazione:

d lg pen/dT = (lg penT1 – lg penT2/ (T1-T2) = 0.2 (20-IP)/(10+IP)

dove T1 e T2 sono due qualsiasi valori della temperatura, e penT1 e penT2 i corrispondenti valori della penetrazione.

Ponendo T uguale al punto di rammollimento TPA e ricordando che la corrispondente penetrazione è uguale a 800 decimi di millimetro, la relazione precedente assume la forma :

(20-IP)/(10+IP) = 50 (lg 800-lg penT)/(TPA-T)

normalmente utilizzata nel calcolo dell’Indice di penetrazione. La relazione è tradotta graficamente nella Fig. 1.22, nella quale è riportato un esempio di utilizzazione del diagramma stesso.

L’indice di penetrazione è, evidentemente, una misura della suscettibilità termica dei bitumi alle basse temperature e, quindi, fornisce solo una parte delle informazioni con tenute nell’abaco di Heukelom. Questo indice è stato utilizzato da Van der Poel per il calcolo del modulo di rigidità dei bitumi.

Analogamente a quanto avviene nella teoria dell’elasticità, dove si definisce il modulo di elasticità quale rapporto fra sollecitazione e deformazione, Van der Poel ha definito il modulo di rigidità di un bitume in cui la deformazione, come s’è visto, dipende non solo dalla sollecitazione ma anche dalla temperatura e dal tempo di applicazione del carico mediante il rapporto:

S = σ/ε(t,T)

dove σ è una sollecitazione costante applicata per un tempo t durante una prova che si svolge alla  temperatura T ed ε la corrispondente deformazione.

Fig. 1.22 – Abaco per il calcolo dell’indice di penetrazione (congiungendo i punti rappresentativi della differenza (TPA-T) e della penetrazione alla temperatura T, si ottiene, all’intersezione con la scala dell’Indice di penetrazione, il corrispondente valore di quest’ultimo).

Il modulo di rigidità dipende quindi dal  tempo e dalla temperatura e fornisce un’indicazione sintetica del comportamento elasto-viscoso del bitume al variare della temperatura. Van der Poel ha costruito un nomogramma che consente di calcolare il modulo di rigidità per un bitume identificato mediante il punto di rammollimento e l’indice di penetrazione. A titolo di esempio nella Tab. 1.9 sono riportate le temperature e le frequenze alle quali vari tipi di bitume, identificati mediante la penetrazione, raggiungono assegnati valori del modulo di rigidità.

1.2.7 – Controlli dei leganti bituminosi

Nell’ambito delle numerose prove previste per ciascun legante si può intravedere la possibilità di una suddivisione in gruppi di prove, ciascuno dei quali è diretto alla definizione di un particolare problema:

aControllo della viscosità e della suscettibilità termica: a ciò mirano tutte le prove di tipo reologico di cui si è già parlato (penetrazione, viscosità, punto di rammollimento, punto di rottura) che, normalmente, si eseguono per riconoscere l’appartenenza di un legante a una delle classi previste.

bControllo della composizione: a ciò sono dirette le prove di distillazione frazionata e, per i bitumi, la prova di volatilità. Da questo gruppo di prove si può trarre qualche indicazione sul comportamento nel tempo del legante (problema dell’invecchiamento).

cProve tecnologiche e controllo delle impurità: fanno parte di tale gruppo quelle determinazioni che aiutano a porre in luce, in modo convenzionale, eventuali anomalie nella composizione e nel comportamento del legante non altrimenti definibili attraverso le prove precedentemente discusse. Rientrano in questo gruppo, ad es., la duttilità, il punto di infiammabilità, il peso specifico e in genere le determinazioni di impurità (paraffina, naftalina, zolfo, fenoli etc.).

dProve di adesione (trattate a parte nel paragrafo seguente)

Tab. 1.9 – Moduli di rigidità di vari bitumi a diverse temperature e frequenze.

1.2.8 – Problemi d’adesione

Un problema di notevole importanza teorica e che per il passato è stato spesso considerato d’importanza fondamentale nel comportamento delle miscele bituminose è quello dell’adesione fra legante e aggregato.

L’adesione di un legante organico a un elemento lapideo presenta due aspetti diversi:

a) un’adesione meccanica che dipende dall’effettiva capacità del legante ad avvolgere l’elemento lapideo; essa è funzione della viscosità del legante, della tessitura superficiale della pietra etc.

b) un’adesione specifica, cioè particolare di un certo legante e di una certa roccia, che dipende dalla bagnabilità dell’aggregato e dalla situazione chimica ed elettrochimica che si viene a determinare al contatto tra pietra e legante.

Il secondo aspetto è certamente quello che più preoccupa per la stabilità di una miscela. Infatti, una generica adesione meccanica tra legante e pietra è sempre garantita, se la temperatura all’atto della miscelazione è sufficientemente alta (affinché il legante abbia una bassa viscosità) e se l’aggregato è secco. Se, invece, l’aggregato è umido, perché l’adesione avvenga occorre abbassare notevolmente la tensione interfacciale fra aggregato e legante (a tal fine s’impiegano composti tensioattivi anionici o cationici in relazione alla natura mineralogica degli aggregati).

Invece l’adesione specifica può, in certi casi, (per colpa del legante o della pietra) venir meno, soprattutto in presenza d’acqua.

Sarebbe, perciò, certamente interessante poter effettuare controlli separati di adesione meccanica e di adesione specifica. Tuttavia, come facilmente si comprende, l’unica misura possibile riguarda l’adesione nel suo complesso, perciò non si è in grado di valutare direttamente il contributo dell’uno o dell’altro tipo di adesione.

In ogni caso sono state messe a punto alcune prove nelle quali (poiché, come detto in precedenza, l’adesione meccanica in condizioni normali è sempre assicurata) le deficienze messe in evidenza possono essere considerate senz’altro imputabili a difetto di adesione specifica.

Si usa distinguere tra controlli sul legante, che vengono eseguiti assumendo un aggregato fisso di riferimento, e prove sull’aggregato che vengono invece eseguite tenendo fisso il tipo di legante.

In pratica si ha una tendenza a impiegare le prove di adesione in modo promiscuo, vale a dire che si preferisce controllare direttamente il legante e la pietra che s’intende impiegare in associazione tra di loro piuttosto che controllarli separatamente come pietra e come legante.

Comunque, i controlli di adesione attualmente in uso si possono raggruppare in 3 categorie:

1) Alcuni elementi dell’aggregato in esame (in pratica graniglia e sabbia) vengono rivestiti di legante in modo standard, quindi immersi in acqua per un determinato periodo di tempo. L’eventuale distacco delle pellicole di legante e il conseguente spogliarsi degli elementi è valutato qualitativamente in modo soggettivo, al più dando una valutazione in relazione alla % di elementi che sono rimasti privi di legante. Appartengono a questa categoria la prova conosciuta come TWIT (Total Water Immersion Test) e altre analoghe tra cui, in parte, la prova italiana di Idrofilia.

2) Alcuni elementi dell’aggregato in esame rivestiti di legante, sempre in modo standard, vengono posti in acqua e l’eventuale distacco delle pellicole di legante viene sollecitato da un’azione combinata di scuotimento e riscaldamento portando l’acqua all’ebollizione. La valutazione del distacco viene fatta in modo più accurato e addirittura per differenza di peso. Appartengono a questa categoria la prova di adesione che è ancora attualmente la più diffusa, la nota Riedel-Weber o altre analoghe e, in parte, la prova italiana di Idrofilia.

3) Prove sintetiche, eseguite cioè sulle miscele con legante nel loro complesso.

Eventuali difetti di adesione possono allora essere controllati:

–       misurando l’eventuale rigonfiamento dì provini costipati e successivamente immersi in acqua;

–       misurando l’eventuale caduta di resistenza meccanica, cioè la diminuzione di stabilità controllabile sottoponendo a prova una serie di provini stagionati in modo normale e una serie di provini immersi in acqua per un congruo periodo di tempo.

La caduta di resistenza su provini immersi in acqua denuncia evidentemente una tendenza della funzione legante a ridursi per effetto di sopravvenute difficoltà di adesione.

Le prove meccaniche idonee a controllare la caduta di resistenza sono in pratica tutte quelle prove di stabilità che sono descritte nel 3° vol. al paragrafo relativo alle Miscele per sovrastrutture stradali.

In particolare è molto usato a questo scopo (se l’aggregato è piuttosto fino) il penetrometro a cono nella sua versione francese.

A caratterizzare l’adesione si assume, in tal caso, il rapporto tra la stabilità ottenuta prima e dopo l’imbibizione.

A conclusione del paragrafo si ricorda che il corpus delle Normative Europee nel merito (UNI EN 12697-1/44) recentemente emanato e di cui si tratta diffusamente nel 3° vol. copre l’intero ambito delle possibili analisi relative alle caratteristiche significative dei bitumi e dei conglomerati misti utilizzati sia per la pavimentazione stradale che per impermeabilizzazioni, rivestimenti, fissaggi etc. applicazioni caratteristiche di differenti settori dell’ingegneria delle costruzioni.

1.2.9 – Leganti idraulici

Appartengono a questa categoria di leganti:

a) i cementi: nella gamma dei cementi esistenti sul mercato la scelta del tipo da utilizzare nelle diverse fasi di costruzione e nelle diversi parti di un manufatto strutturale dà luogo a interessanti considerazioni. Si fa riferimento a:

–       cementi per il trattamento e la stabilizzazione delle terre;

–       cementi per calcestruzzi magri e i misti cementati;

–       cementi per calcestruzzi da pavimentazioni.

b) le scorie granulate d’alto forno: a partire dal 1960, nella tecnica dei misti granulari legati per strati di base e di fondazione, è stato largamente impiegato come legante la scoria granulata d’alto forno, prevalentemente in presenza di deboli % di calce con funzione di attivatore;

cmateriali pozzolanici: sempre nella tecnica delle miscele granulari per strati di fondazione e di base ha acquistato particolare importanza l’impiego di materiali a comportamento pozzolanico, in associazione a piccole quantità di calce. Si ricordano:

– le ceneri volanti;

– le pozzolane s.s.

d) la calce: in tempi recenti si è andato diffondendo l’impiego della calce nella costituzione di strati di vario genere del corpo strutturale per il miglioramento della stabilità di terre argillose.

1.2.10 – Cemento

Impiegato da oltre un secolo, il cemento è tuttora il legante più utilizzato nell’industria delle costruzioni. Nel processo di fabbricazione del cemento una miscela dal 75 al 78% di calcare e dal 22 al 25% di argilla, il cui costituente principale è il silicato d’alluminio idrato, è portata progressivamente a una temperatura di 1400°C in un forno rotativo. A questa temperatura si formano silicati bicalcico e tri-calcico, alluminato tricalcico e alluminoferritotetracalcico, che sono i principali costituenti del cemento Portland.

All’uscita dal forno rotativo il prodotto (clinker) si presenta sotto forma di grumi molto duri che sono successivamente frantumati in molini a cilindri fino a una dimensione inferiore a 75 μm. E’ in questa fase che si possono aggiungere gesso, scorie d’alto forno, ceneri volanti, pozzolana per ottenere automaticamente diversi tipi di cemento. Le Cementerie moderne, dotate di controlli automatici e di pianificazione computerizzata, dosano le materie prime, generalmente premacinate (a costituire la cosiddetta miscela cruda), in modo da rendere efficace qualunque correzione, anche piccola, durante il processo di fabbricazione.

Nei diversi impieghi il cemento cosi prodotto viene miscelato con gli aggregati e con l’acqua. I costituenti anidri del clinker reagiscono con quest’ultima per dare vari prodotti di idratazione alla cui formazione s’accompagna una liberazione di idrossido di calcio; fra i prodotti d’idratazione il principale è un silicato idrato, non ben cristallizzato, detto gel silicico. In una prima fase della trasformazione (presa) le particelle del gel si collegano fra loro; nella fase successiva (indurimento) continua la formazione del gel e il collegamento delle sue particelle in modo da formare delle strutture meccanicamente resistenti.

Ad es., nella miscela detta misto cementato i collegamenti meccanici cominciano ad apparire subito e divengono sensibili dopo qualche ora; a 40 ore si ottiene pressoché la metà delle resistenze finali.

Non vi è alcuna controindicazione per l’impiego dei diversi tipi di cemento, con o senza aggiunte, nei differenti tipi di miscele impiegate nel campo dell’ingegneria delle costruzioni; occorre tuttavia far presenti i 4 problemi principali che debbono essere affrontati nell’uso generalizzato dei cementi.

a) La velocità di presa deve essere in tutti i modi ritardata nei momenti iniziali quando conviene prolungare la lavorabilità dell’impasto (stesa e costipamento); parallelamente é bene evitare, oltre a fenomeni di falsa presa prematura, i forti sviluppi di calore di reazione, poiché è sempre opportuno rallentare il procedere del ritiro (in questo senso è opportuno l’impiego di cementi con poco alluminato tricalcico e non finemente macinati);

b) L’elevata rigidità che s’accompagna normalmente alle elevate classi di resistenza è da evitare almeno nelle prime settimane, in modo da consentire dosaggi non troppo bassi per scongiurare pericoli di disomogeneità (anche per questo motivo è bene che i cementi siano a grossolana macinazione);

c) La fragilità elevata deve ridursi fino a ottenere in alcuni casi una deformazione alla rottura per trazione 2÷3 volte superiore a quella che è relativa ai cementi classici (questa è una caratteristica dei cementi fillerizzati);

d) La sensibilità alla presenza di frazioni argillose nell’inerte deve essere neutralizzata per ottenere comunque buone resistenze terminali; in questi casi si debbono usare cementi che nell’indurimento liberino elevate % di idrossido di calcio (calce libera), cioè Portland ordinari, a meno che non si provveda a una modesta aggiunta di calce idrata.

Tenendo presenti le caratteristiche delle diverse miscele e l’importanza che in ciascuna di esse assumono i 4 problemi elencati, è possibile operare una suddivisione tra i diversi cementi nel loro impiego nelle costruzioni.

1.2.10.1 – Cementi per il trattamento e la stabilizzazione delle terre

Ordinariamente viene impiegato cemento normale (cemento Portland, cemento pozzolanico, cemento d’alto forno). Con temperatura dell’aria bassa o quando si debba intervenire con celerità possono essere impiegati cementi  ad alta resistenza che portano a un indurimento più rapido.

I diversi cementi mostrano nella miscela cementata comportamenti simili a quelli che hanno nel calcestruzzo. La resistenza alla compressione e la stabilità al gelo crescono linearmente col contenuto di cemento.

I componenti organici si possono comportare in modo diverso con i singoli cementi. Per terreni con impurità organiche e per terreni coesivi il cemento Portland può essere più adatto del cemento di altoforno, a causa del suo più alto contenuto di calce libera.

1.2.10.2 – Cementi per calcestruzzi magri e misti cementati

In questo caso tutti i problemi si riconducono alla eventuale presenza di frazioni argillose nell’inerte, per cui, come già indicato, occorre impiegare un cemento che sviluppi notevole quantità di calce libera: viceversa sono utilizzabili tutti i tipi di cemento, compresi quelli diversi dal Portland. Il problema più interessante risiede nella possibilità di ottenere cementi a presa lenta (o ritardata), a resistenza iniziale debole e che non conducano a miscele fragili. Si tratta del problema già accennato dei cementi fillerizzati o a grossa granulometria.

1.2.10.3 – Cementi per calcestruzzi di pavimentazione

In questo caso si tratta di calcestruzzi a normale % di cemento; il problema principale è quello di una presa molto lenta, anche a temperature di 30÷40°C. Comunque, è necessario controllare che si tratti di cemento a basso ritiro.

Alcuni effetti possono ancora ottenersi manovrando sulla composizione della miscela, sul rapporto acqua-cemento, sulla presenza di aeranti e ritardanti; ma tutto ciò è collegato all’evoluzione continua della tecnologia e certe soluzioni hanno soltanto un interesse contingente.

1.2.11 – Scorie granulate d’altroforno

Le scorie granulate sono ottenute facendo entrare in contatto la scoria fusa con grandi masse d’acqua eventualmente in forma di getti. La granulometria del prodotto è normalmente quella di una sabbia con grosse % di grani di 1÷5 mm (Fig. 1.23); anche dopo lungo tempo le scorie in mucchio trattengono una forte % di umidità e di ciò occorre tener conto nel trasporto e nella preparazione delle miscele.

La produzione delle scorie granulate d’altoforno è una fase ineliminabile del funzionamento dell’altoforno moderno. L’aspetto granulato della scoria ottenuto con i procedimenti di raffreddamento in acqua è quello che consente, in difetto di spazio, il più facile allontanamento dall’area operativa siderurgica. Se, invece, fosse possibile raffreddare la scoria lentamente in aria si potrebbe successivamente frantumarla e utilizzarla sotto forma di materiale frantumato; questo procedimento, che potrebbe avere un alto interesse per l’impiego della scoria anche come inerte da conglomerato, è poco seguito per la necessità o di un impianto di frantumazione di notevole usura e costo o di grosse aree per il deposito del prodotto, in attesa di una successiva rimozione previa frantumazione sommaria.

La possibilità di ottenere, almeno in vicinanza dei centri siderurgici, grossi depositi di scorie granulate (o eventualmente frantumate) ha posto il problema oltre che dell’utilizzazione economica anche della conservazione dell’ambiente per l’eventuale necessità di accumulare e condurre a discarica forti quantità di scorie inutilizzate. Queste esigenze hanno condotto via via a studiare una possibile utilizzazione delle scorie come materiale stradale, tra l’altro come legante in miscele per strati di fondazione e di base.

Fig. 1.23 – Fuso entro cui è contenuta la granulometria di una scoria d’altoforno.

1.2.12 – Leganti a comportamento pozzolanico

I materiali dotati di proprietà pozzolaniche reagiscono chimicamente in presenza d’acqua e a temperatura ambiente con l’idrossido di calcio, formando composti che hanno capacità cementanti; nei cementi pozzolanici si ha la formazione preliminare di un gel per reazione della pozzolana con la calce libera. Mentre l’origine e la provenienza delle pozzolane è familiare a tutti, almeno in Italia, è opportuno ricordare qualcosa sui residui di combustibile che, provenienti dai filtri meccanici o elettrostatici degli scarichi delle centrali termiche, prendono il nome di ceneri volanti. Si tratta di ceneri che provengono dalle centrali che impiegano come combustibile il polverino di carbone e che presentano reazione debolmente alcalina.

L’elevata finezza delle ceneri volanti (grani di dimensioni comprese entro 3÷100 μm), lo scarso peso specifico apparente prima o dopo costipamento, la idrofilia, la friabilità sono le principali caratteristiche di questo materiale, che ha un comportamento simile a quello della pozzolana naturale.

Le ceneri volanti, analogamente alle scorie granulate, possono essere utilizzate, oltre che come legante nelle miscele, anche da sole per costituire strati di fondazione di pavimentazioni.

1.2.13 – Calce

Come già visto al capitolo relativo agli aggregati, la calce è spesso usata nei procedimenti di stabilizzazione delle terre. A tal fine si usano i seguenti tipi di calce:

acalce idrata (calce fina, bianca e spenta) nelle forme: calce idrata calcitica, calce dolomitica monoidrata, calce dolomitica bi-idrata;

bcalce viva (calce fina, bianca, non spenta), nella forma di calce viva calcitica;

ccalce idraulica. E’ prodotta in pratica da marne calcaree o calcari silicei, anche se sono possibili un certo numero di combinazioni tra i vari componenti;

d) calci ottenute dalla miscelazione di due o più diversi tipi fin qui elencati.

Per la stabilizzazione vengono usate calci finemente macinate che non presentino trattenuto allo staccio di 0,2 mm maggiore del 5%.

1.2.14 – Calcestruzzi

I calcestruzzi sono preparati misti a 3 componenti utilizzati per la realizzazione di strutture, muri, sostegni, fondazioni, basamenti e manufatti edili in genere a partire da una miscela semi-liquida avviata a casseformi per la sagomatura e il successivo indurimento.

I tre componenti, inerte (o aggregato), cemento ed acqua debbono rispondere ai requisiti qualitativi di cui ai precedenti paragrafi. Della sabbia deve essere accertata la provenienza, la granulometria, l’assenza di argilla e sostanze organiche, la possibilità di contaminazione nei silos ed il contenuto di umidità all’atto della miscelazione.

Di solito se ne controlla sommariamente la pulizia strofinandola tra le dita che debbono restare pulite. Un più accurato controllo richiede l’uso di una provetta graduata nella quale s’introduce sabbia, acqua, eventualmente poi grammi di sale e si lascia depositare per almeno 3 ore; lo strato di impurità che si deposita sulla sabbia non deve superare del 4÷8 quello della sabbia stessa.

La sabbia umida ha un volume maggiore di quella asciutta (+15÷25%); tuttavia sabbia asciutta e satura hanno ugual volume che è anche il minimo.

Anche dell’aggregato grosso vanno accertate provenienza, natura, granulometria, pulizia e contenuto di umidità. Sono, in generale, da preferirsi i depositi naturali nei letti dei fiumi perché gli elementi tondeggianti migliorano la lavorabilità del cls. ed inoltre la corrente del fiume esercita una selezione che generalmente migliora la granulometria.

Per le pavimentazioni stradali, soggette ad usura si preferiscono invece i pietrischi provenienti dalla frantumazione di rocce.

La pezzatura massima dipende dalla natura del lavoro: per fondazioni, elementi fino a 70÷80 mm; per lavori stradali in genere, 30÷40 mm mentre per le strutture in c.a.l’aggregato deve passare per il setaccio avente la maglia di almeno 5 mm inferiore alla minima distanza tra le barre di armamento.

Di norma più grosso è l’aggregato, maggiore è la resistenza del calcestruzzo e minore la quantità richiesta.

Del cemento, data la sua importanza, si richiedono controlli preliminari quali:

–       provenienza e tipo (normale, rapido etc.);

–       data di manifattura e arrivo in sito;

–       stato di conservazione nel magazzino; premesso che va sempre usato il più vecchio, l’umidità atmosferica è sufficiente a volte a far iniziare la presa e in tal caso, quando non sia possibile polverizzarlo tra le dita, è da ritenersi non idoneo;

–          qualità del cemento (con riferimento anche alla sua permanenza per lungo tempo in locali non idonei, se esso ad es. non indurisce entro un tempo ragionevole quando impastato con acqua) può essere accertata con la prova seguente: si riempie con la pasta un recipiente per una superficie di circa 50 cm2 ed uno spessore di 2÷3 cm; dopo 24 ore la piastrina formatasi non dovrebbe essere scalfita da un’unghia e dopo 48 ore dovrebbe essere rotta con fatica tra le dita ed inoltre, bollita in acqua per qualche ora, non dovrebbe screpolarsi od ammollire.

1.2.14.1 – La miscela

Assumendo che inerti, acqua e processo di lavorazione siano gli stessi, la resistenza dei calcestruzzi dipende dalla quantità di cemento che contengono.

Proporzionare i materiali costituenti un cls significa selezionare la quantità di sabbia, aggregato grosso, acqua e cemento atte a fornire le caratteristiche richieste da quella particolare struttura con la massima economia.

L’acqua soprattutto deve essere nella quantità necessaria e sufficiente a rendere attivo il cemento così da inviluppare tutti i granuli dell’aggregato e rendere lavorabile la miscela; un suo eccesso conduce alla formazione di vuoti quando il cls è asciutto e quindi ad una diminuita resistenza.

Fig. 1.24 – Rapporto acqua/cemento e relativa resistenza alla compressione del calcestruzzo.

In fase di preparazione di un calcestruzzo si richiede:

–       il controllo preliminare delle condizioni degli strumenti di misura;

–       la scelta del tipo e capacità della betoniera miscelatrice ed il controllo delle sue condizioni meccaniche;

–       lo studio della proporzione degli ingredienti e la possibilità di varianti;

–       lo studio della sequenza nell’addizione degli ingredienti e dei tempi di mescolamento con riferimento anche all’inconveniente della segregazione;

–       l’effettuazione delle prove di consistenza ed allo schiacciamento.

Il rapporto acqua/cemento è stabilito in base alla resistenza a compressione richiesta (Fig. 1.24) intendendo per contenuto d’acqua quello libero (in peso) aggiunto nella betoniera ed uguale a quello di calcolo meno l’acqua contenuta nell’aggregato se umido o più quella assorbita dallo stesso se troppo secco.

1.2.14.2 – La confezione

Gli ingredienti solidi (sabbia, aggregato grosso e cemento) dovrebbero essere immessi nel miscelatore simultaneamente ed in modo che il tempo d’immissione di ognuno sia praticamente lo stesso.

Con l’eccezione dell’impiego di auto-betoniere l’acqua va aggiunta col medesimo principio, salvo un primo spandimento (5÷10%) a betoniera vuota ed altrettanto dopo l’introduzione degli altri ingredienti. Tali norme valgono soprattutto per le centrali di betonaggio. Il tempo di mescolamento varia da 1.5 minuti per betoniere fino a 1.5 m3. a 3 minuti per betoniere da 5 m3. Un eccesso di mescolamento (oltre tre volte i tempi suddetti) è negativo sia per la formazione di altro fine che altera il rapporto acqua/cemento che per l’eliminazione delle bollicine d’aria nella miscela, particolarmente utili in clima freddo in quanto proteggono i cls dal gelo.

1.2.14.3 – II trasporto e la posa

Possono aver luogo mediante benne che scaricano direttamente sull’area di getto, nastri trasportatori, autobetoniere, pompe e attrezzi pneumatici. Qualunque sia il metodo usato l’inconveniente principale da evitare è la segregazione dei vari componenti che, per le diverse granulometrie e pesi specifici, tendono appunto a separarsi con le sollecitazioni dinamiche prodotte dal movimento.

Quando si fa uso di benne la loro capacità (usualmente da 0.75 a 8 m3.) deve adeguarsi a quella della betoniera nel senso che deve essere pari o un multiplo della capacità di questa ad evitare che una parte della miscela finisca in una benna ed il restante in un’altra. Oggi è molto comune l’impiego delle auto-betoniere per il trasporto a distanza del calcestruzzo e che prelevano i componenti solidi già dosati alla centrale, provvedono al loro mescolamento durante il trasporto e poco prima dell’arrivo a destinazione aggiungono acqua d’impasto nella quantità prevista. Il getto deve risultare comunque continuato, possibilmente senza interruzioni fino a completamento e, quando le stesse fossero inevitabili, devono essere effettuate dove il giunto è nella posizione più favorevole (ad es. dove la struttura è in compressione e non in tensione).

Fig. 1.25 – Prova col Cono di Abrams per l’accertamento della lavorabilità del calcestruzzo o Slump Test. Lo stampo va riempito in 4 strati successivi compattando ciascun strato con 25 colpi di pestello; sollevato poi lo stampo si misura l’abbassamento subito dal cls: se è compreso entro 0-25 mm significa che la miscela è idonea per fondazioni, muri e strati di basamento stradale; uno slump entro 25-50 mm indica idoneità ai medesimi scopi ma senza vibrazioni mentre un valore definito medio (50-100 mm) significa idoneità al getto di solette anche mediamente armate. Slumpsdell’ordine di 100-170 mm sono riservati a strutture armate con elevata quantità di ferro sebbene oggi si preferiscano miscele più asciutte addizionate a plastificanti.

1.2.14.4 – La vibrazione del calcestruzzo

La vibrazione e molto opportuna per le miscele asciutte mentre per quelle plastiche può risultare dannosa.

Il vibratore va usato quando la superficie di getto è livellata; spostare cls col vibratore conduce alla segregazione della miscela; prima di usarlo occorre assicurarsi della robustezza della casseratura. I vibratori più efficaci sono quelli ad immersione ed al riguardo valgono le seguenti norme:

–       quando s’immerge il vibratore lo si mantiene in posizione verticale per inclinarlo lentamente;

–       prima di togliere il vibratore assicurarsi che lo stesso non abbia lasciato una cavità nel getto togliendolo rapidamente e re-immergendolo vicino alla precedente posizione;

–       la distanza delle successive immersioni dipende dal tipo di getto ma non deve comunque superare i 40÷50 cm;

–       per chiudere la possibile cavità dell’ultima immersione è opportuno estrarre il vibratore lentamente;

–       è opportuno altresì che i casseri non vengano toccati col vibratore in azione;

–       è bene introdurre completamente il corpo vibrante nei calcestruzzo per mantenere i cuscinetti a bassa temperatura;

–       per quanto riguarda i vibratori esterni gli stessi vanno usati solo quando non è possibile l’impiego di quelli ad immersione a motivo del particolare tipo della struttura, l’eccessivo numero dei ferri etc.;

–       i vibratori vanno spaziati a non più di 1 m a seconda della loro potenza muovendoli successivamente col progredire del getto;

–          gli ultimi due strati di una colonna richiedono l’impiego del vibratore ad immersione perché quelli esterni tendono a formare un vuoto tra cassero e calcestruzzo che viene riempito solo nella parte bassa per effetto del peso del cls sovrastante deformando le linee della struttura.

Inoltre, per tutti i tipi di vibratori:

–       è opportuno fermare l’azione quando le bolle d’aria cessano di uscire dalla superficie dell’area vibrata;

–       il cambiamento del rumore dell’attrezzo in moto è un’altra indicazione utile: se il tono diventa costante significa che  il calcestruzzo è compattato; la norma vale sopratutto per i vibratori esterni.

1.2.14.5 – Finitura del getto e correzione dei difetti esteriori

I difetti che si verificano dipendono soprattutto dall’accuratezza delle casserature, dalla compattazione della miscela e dalle cure durante la presa. Per quanto riguarda queste ultime, siccome una rapida evaporazione dell’eccesso di acqua contenuta può dar luogo alla formazione di fessure che, fra l’altro, possono estendersi anche all’interno della struttura incidendo sulla sua resistenza, è necessario che a fine presa, quando ha inizio l’indurimento, il calcestruzzo sia protetto dal calore e dal vento con teli e stuoie bagnate mantenendo in certi casi un velo d’acqua sulla superficie oppure ricorrendo a pellicole protettive (resine) da spruzzare dopo il disarmo. Un buon getto dovrebbe essere esente da difetti; nel caso tuttavia si debba migliorare l’aspetto di una superficie di getto:

–       è consigliabile operare appena rimossi i casseri (le sponde dei casseri delle travi e dei pilastri possono essere rimosse dopo 3÷5 giorni);

–       per la rimozione delle sbavature e irregolarità è opportuno usare una pietra al carborundum che, se il calcestruzzo è ancora fresco, riempirà anche le piccole cavità procurate dall’aria;

–          per le cavità di maggiori dimensioni conviene usare malta composta da 1 parte dì cemento e 1.5 parti di sabbia;

–          le riprese di nidi di vespa (che a rigore non sono consentiti) sono sempre un rappezzo; s’impiega comunque malta avente le medesime proporzioni cemento/sabbia del calcestruzzo di getto; a volte è consigliabile togliere il calcestruzzo difettoso fino al ferro di armamento od oltre; pulire, bagnare, spandere cemento con un pennello e riempire subito con malta.

–          la malta va tenuta molto asciutta ad evitare un eccessivo ritiro; è consigliabile l’aggiunta di cemento bianco in quanto essa tende comunque a scurire rispetto al cls di getto.

1.2.14.6 – Metodi per influenzare i fenomeni di presa ed indurimento dei cementi e la lavorabilità dei calcestruzzi

aScegliendo il cemento in rapporto alla sua finezza di macinazione: la superficie specifica presentata da un grammo di polvere di cemento è tanto maggiore quanto più finemente quest’ultima è macinata. Essa ha una grande importanza in quanto la reazione di idratazione è più rapida se la superficie è maggiore. Su tale fatto è basata la produzione dei supercementi che presentano buone resistenze dopo 1÷3 giorni; al contrario, quando si vuole rallentare l’idratazione del cemento, e quindi la presa, si utilizzano cementi a bassa superficie specifica ossia macinati meno finemente come, ad es., il tipo 325.

b) Regolando il rapporto acqua/cemento: la resistenza meccanica di un impasto cementizio diminuisce con l’aumentare del rapporto acqua/cemento. L’acqua strettamente necessaria all’idratazione può considerarsi intorno al 30% in peso del cemento secco e quella in più serve solo a conferire lavorabilità all’impasto dipendendo pertanto dal tipo di struttura cui il calcestruzzo è destinato. Secondo Abrams vale il rapporto Re = A/BX dove Re è la resistenza a compressione, A e B due costanti dipendenti dal materiale e dalle condizioni di lavoro ed x il rapporto acqua/cemento il cui valore ottimale è ~0.4.

c) Mescolando alla miscela inerti-cemento-acqua degli additivi scelti in rapporto allo scopo che si vuole perseguire. Nella Tab. 1.10 sono riportati alcuni di questi additivi ricordando tuttavia che l’industria fornisce in continuazione prodotti sempre più sofisticati.

Tab. 1.10 – Composti chimici utilizzati nei calcestruzzi di cemento.

Tab. 1.11 – Miscele comuni per calcestruzzi: 1 per archi e colonne molto cariche; 2 per ponti, serbatoi etc.; 3 per c.a. in genere e colonne a basso carico; 4 per pilastri e muri di sostegno; 5 e 6per fondazioni e sottofondi.

1.2.15 – La ricerca dei giacimenti

Come per tutte le sostanze minerali la nozione di giacimento ha un valore geologico ed economico.

Affinché una data formazione sia sfruttabile è necessario non solo che contenga materiale idoneo, in quantità sufficiente e che non richieda un lavoro eccessivo per la rimozione del cappellaccio ma che anche le condizioni di mercato siano favorevoli tenendo conto che sul costo unitario del prodotto incidono i costi di estrazione ed elaborazione (normalmente bassi) e quello dei trasporti che può essere determinante. D’altra parte è da tener presente che quando si ricercano materiali litici i giacimenti ideali sono difficili da trovare; nei depositi alluvionali soprattutto, deficienze ed eccessi nella granulometria sono comuni ed altrettanto la presenza di elementi piatti in quantità notevoli rientra nella normalità.

Ancora, argilla, limo e sostanze organiche spesso contaminano il deposito e l’acqua di superficie può rendere difficoltosi gli scavi.

Per quanto concerne gli ammassi rocciosi non sempre le condizioni dell’interno della massa possono essere dedotte dall’esame superficiale sebbene un attento esame delle condizioni geologiche e dei processi che presumibilmente ha subito il materiale possa escludere spiacevoli sorprese.

E’ pertanto in base a queste considerazioni che si evidenzia la necessità di una ricognizione approfondita dell’area del giacimento per poterlo sfruttare, se è il caso, nelle migliori condizioni con riferimento anche alle possibili eterogeneità e discontinuità del prodotto che si risolverebbero in una fornitura irregolare nelle quantità ed incostante nella qualità.

La ricognizione geologica e geotecnica comprende normalmente due fasi:

–       scelta del giacimento in una zona determinata;

–          studio del giacimento in vista del suo sfruttamento.

Si sviluppa e completa con una esauriente risposta ai seguenti interrogativi:

–       proprietario dell’area ed eventuali vincoli di carattere legale;

–       localizzazione del deposito possibilmente sulla carta al 2000 e dati catastali;

–       tipo del deposito, caratteristiche della topografia e della vegetazione;

–       accessi dalle strade;

–       definizione geometrica del giacimento: volume dei materiali utilizzabili, spessore del cappellaccio;

–       possibili discontinuità della massa sfruttabile;

–       qualità geotecniche: natura petrografica e struttura, granulometria (nei giacimenti alluvionali), fessurazione naturale delle rocce, caratteristiche meccaniche del materiale, variazioni;

–       possibili vincoli ed ostacoli allo sfruttamento, di carattere naturale (ad es. le piene nel caso di depositi fluviali) o ecologico (alterazione delle falde acquifere o del regime del corso d’acqua, inquinamento dell’aria con le polveri etc.).

Lo studio geologico del terreno è la base di partenza per gli studi meccanici e geofisici.

La geofisica di superficie ha lo scopo essenziale di definire i limiti geometrici del giacimento e lo spessore del cappellaccio. Sovente è necessario ricorrere a sondaggi con metodi elettrici se il giacimento è alluvionale e sismici (a rifrazione) per gli ammassi rocciosi.

Si utilizzano anche sondaggi distruttivi e di misura della radioattività che permettono di reperire le diverse formazioni ed i possibili inquinamenti.

Tali sistemi sono oggi preferiti al carotaggio (molto più costoso) ogniqualvolta questa tecnica non sia ritenuta indispensabile.

depositi fluviali di sabbie e ghiaie si trovano normalmente lungo le rive o letto del corso d’acqua; tuttavia la ricerca va sempre estesa alle fasce laterali più elevate dove di frequente, sotto un cappellaccio più o meno consistente, si trovano banchi notevoli di materiale.

Una volta scelta l’area o le aree più promettenti (e tenendo in debito conto l’accessibilità delle stesse) si procede ad un esame più accurato del materiale, con speciale riguardo alla granulometria, mediante la escavazione di assaggi ad intervalli la cui entità varia colla uniformità apparente del materiale.

A seconda dell’importanza del deposito, della sua natura e profondità gli assaggi sono scavati a mano, con escavatori oppure con sonde meccaniche con le quali si fanno penetrare tubi d’acciaio da 30÷60 cm. di diametro dai quali si prelevano i campioni con speciali estrattori; nei primi due casi, ad evitare la contaminazione del materiale al fondo della buca per franamento delle sponde, s’impiegano speciali cassoni (m 1,00 x 1,50) ad elementi sovrapponibili sufficientemente robusti per la sicurezza dell’operatore.

Qualora non si rivelassero eccessivi cambiamenti nella qualità del materiale, l’esame granulometrico viene effettuato su strati successivi (m 1.0÷1.5 di spessore) mantenendo il fondo dello scavo orizzontale ad ogni prelievo così che ogni campione rappresenti effettivamente la qualità del deposito alle diverse profondità.

Per evitare, tuttavia, di esaminare quantitativi elevati quanto inutili di materiale si preleva prima un campione di circa 60 cm. di diametro per la massima profondità consentita dalla consistenza dello strato e che serve per l’esame; si estrae quindi il volume restante fino a portarsi al livello del fondo dello scavo campione dopodiché si ripetono le operazioni fino alla profondità voluta.

Per la classificazione degli elementi si impiegano normalmente 6 vagli così da separare le seguenti pezzature: >6″, 6÷3″, 3″÷1/2″, 1/2″÷3/4″, 3/4″÷3/8″, 3/8″÷3/16″, sabbia.

Per quanto concerne i giacimenti di roccia da cava questi si presentano in natura:

–       in strati disposti orizzontai mente od inclinati o ancora piegati;

–       in ammassi esposti per denudazione da rocce tenere superficiali (rocce ignee);

–          in filoni o dicchi per intrusione di rocce ignee allo stato liquido che possono avere delle apofisi più meno estese per scorrimento della massa liquida lungo i piani di frattura delle rocce che li contengono.

Non di rado si tratta di sfruttare giacimenti precedentemente iniziati o comunque in aree estesamente sfruttate per cui si conoscono già natura, disposizione e difetti delle rocce da estrarre. Nel caso più difficile di formazioni rocciose vergini sono necessari, come detto, estesi sondaggi per essere certi fra l’altro che i campioni prelevati siano tipici del giacimento e che comprendano ogni significativa variazione della tipologia della roccia.

Negli ammassi ignei, infatti, ritmi diversi di raffreddamento della massa fluida o segregazione di minerali durante tale fase comportano variabilità nelle dimensioni dei granuli, nella tessitura e nella composizione del materiale; nelle rocce sedimentarie, cambiamenti ambientali al tempo del deposito possono risultare in un’alternanza di strati di arenarie o calcari con strati di argilla o scisti, per non dire delle alterazioni chimiche provocate da soluzioni circolanti attraverso fessure e strati permeabili.

La presenza del cappellaccio in spessori notevoli può restringere le aree di prelievo e mascherare il vero carattere del giacimento; inoltre le rocce superficiali per l’azione degli agenti atmosferici si diversificano da quelle all’interno dell’ammasso per cui i campioni staccati dal fronte roccioso o raccolti come massi sciolti alla base di esso difficilmente risultano rappresentativi.

Nel caso di depositi stratificati di calcari o arenarie si debbono accertare prevedibili cambiamenti della qualità dei successivi strati così come l’entità di una loro eventuale inclinazione che, con l’avanzare del fronte di cava, potrebbe portare alla luce strati completamente diversi: in Fig. 1.26, ad es., una cava aperta in M oppure in Z non potrebbe avere lunga durata: nel primo caso a causa di una faglia nel secondo per l’andamento dello strato mentre un fronte aperto in N offre prospettive più favorevoli.

La massima attenzione va poi rivolta alle possibilità d’incontrare zone di materiale indesiderabile: l’argilla e gli scisti possono essere talmente prevalenti da richiedere un metodo d’escavazione selettivo estremamente oneroso per l’elevata quantità del rifiuto.

Fig. 1.26 – Situazioni reali ed apparenti per giacimenti di cava.

1.2.16 – La produzione degli aggregati

Diversi sono i modi di sfruttamento dei giacimenti con impianti a carattere temporaneo e permanente; questi ultimi variano per caratteristiche e dimensioni dal piccolo gruppo mobile o piccola installazione a tipo artigianale e stagionale alle installazioni industriali con produzioni annuali superiori al milione di tonnellate.

Tenuto conto che gli inerti possono essere utilizzati:

–       per la formazione dei rilevati;

–       per la costruzione degli strati di base;

–       per la preparazione dei conglomerati e delle malte bituminose;

–       per saturare il legante nei trattamenti superficiali;

–          per la preparazione dei calcestruzzi di cemento.

si possono sempre distinguere le seguenti fasi, più o meno complesse, in ragione del tipo di materiale: l’estrazione, l’elaborazione (lavaggio, frantumazione, separazione) lo stoccaggio, la ricomposizione ed il trasporto.

1.2.16.1 – L’estrazione

Nello sfruttamento di materiali alluvionali le modalità di estrazione, che incidono sulla qualità del prodotto, si diversificano a seconda che si tratti di cave fuori acqua o sommerse o nel letto di un fiume tenendo presente che è in questa fase che è essenziale eliminare la maggior quantità di materie inquinanti. Si utilizzano:

– impianti di scavo a benna sospesa costituiti da benne che scorrono mediante carrucole su cavi portanti e trainate da funi. La benna scende per gravità lungo il cavo (fissato ad una estremità sopra una torre a traliccio ed all’altra ad un ancoraggio a terra) fino ad adagiarsi sull’area di scavo dove è trascinata, fino a riempimento, dalla fune di traino e quindi sollevata al punto di scarico.

Spostando opportunamente l’ancoraggio a terra si può sfruttare un ampio settore anche in presenza d’acqua; la benna carica è trainata a sufficiente altezza da scaricare in una tramoggia e da qui agli automezzi di trasporto (Fig. 1.27).

– impianti a benna mordente, normalmente installati su un natante, che offrono il vantaggio di prelevare il materiale sott’acqua anche a notevoli profondità.

– ruspe (scrapers) che s’impiegano particolarmente nella coltivazione di banchi alluvionali estesi purché all’asciutto.

– escavatori a cucchiaio frontale utilizzati sopratutto nei banchi di sabbia-ghiaia che per la loro posizione e consistenza rendono possibile l’escavazione su un fronte più o meno verticale in condizioni pertanto favorevoli al carico degli automezzi che si affiancano all’escavatore nelle posizioni più convenienti.

Quando l’argilla e le sostanze organiche sono presenti in quantità notevoli ed un corso d’acqua è disponibile si possono formare dei bacini di lavaggio dove il materiale di cava è depositato e successivamente pompato ai vagli.

L’apertura di una cava in roccia oltre alle operazioni preliminari comuni alle cave alluvionali comporta studi particolari richiesti dalla diversità dei metodi di estrazione (specialmente l’impiego dell’esplosivo che richiede determinati dispositivi di sicurezza con riguardo alle persone ed agli impianti) e dalla usuale accidentalità del terreno.Ne deriva l’importanza di un accurato rilievo quotato dell’area della cava e degli impianti per una razionale progettazione dell’insieme con riguardo al fronte di cava, agli accessi, alle aree di scarico del cappellaccio, alla ubicazione dei macchinali dei depositi del prodotto e dei fabbricati (uffici, magazzini, officina ecc.) al sistema dei drenaggi etc.

Fig. 1.27 – Schema d’impianto per la produzione di aggregato naturale.

Particolare importanza riveste la strada che dalla cava porta agli impianti per la elaborazione del materiale soprattutto se le rispettive aree sono altimetricamente sfasate.

Nella maggioranza dei casi la prima risiede a quota più elevata per cui gli automezzi carichi si trovano in discesa; in ogni caso la spesa per un tracciato agevole nelle curve e nelle pendenze ed una massicciata scorrevole viene largamente ripagata dalla maggior velocità dei veicoli in condizioni di maggior sicurezza e minore usura.

L’abbattimento della roccia si effettua attraverso il fronte di cava scelto tenendo conto sopratutto della qualità del materiale in quel punto rispetto ad altri, della profondità sfruttabile e delle facilità di accesso. Il cappellaccio e lo strato di roccia degradata che di solito coprono il banco roccioso vanno rimossi per almeno 8÷10 metri dal fronte per evitare la contaminazione continuando l’operazione man mano il fronte stesso arretra.

L’abbattimento della roccia viene eseguito con l’esplosivo secondo tecniche diverse che, peraltro, non influenzano grandemente la qualità del prodotto ed in cave ben organizzate l’abbattimento di 10÷20 103 t di roccia per ogni volata è normale.

I blocchi di roccia che risulterebbero troppo grossi per i frantoi primari vanno ulteriormente ridotti mediante esplosivo (blasting secondario) ed il materiale è quindi caricato tramite escavatori a cucchiaio frontale (capacità  0,5 ÷2 m3) su autocarri ribaltabili di tipo pesante oppure su vagonetti.

Questo tipo di caricamento, molto più redditizio di quello effettuato a mano, presenta tuttavia l’inconveniente che, pur esercitando un controllo a vista, gran parte del materiale scadente finisce nei frantoi; di qui la necessità di eliminare gli elementi di piccole dimensioni, che contengono le frazioni più terrose, degradate o tenere, mediante l’utilizzo di scalper (vagliatore primario).

1.2.16.2 – L’elaborazione

E’ la fase colla quale si ottiene il prodotto corrispondente alle esigenze del lavoro cui è destinato sotto l’aspetto della granulometria, della forma e della pulizia.

Evidentemente se la destinazione del materiale è il rilevato stradale questa fase si riduce alla sola eliminazione dei massi che per le loro dimensioni potrebbero ostacolarne la costruzione, per diventare sempre più complessa quando si richiedono materiali per sotto-basi, basi e conglomerati. Nella Fig. 1.27, che rappresenta schematicamente un impianto per la produzione di aggregato naturale, l’elaborazione consiste nel lavaggio e nella separazione del materiale a seconda delle varie pezzature richieste.

La produzione di aggregati di alta qualità (elementi cubici) provenienti da cave in roccia richiede una graduale riduzione del materiale che si ottiene attraverso almeno due stadi di frantumazione:

– la frantumazione primaria è ottenuta normalmente con frantoi a mascelle aventi aperture variabili da cm 50×25 fino a 150×100 e che forniscono elementi da 15 cm di Ø in giù (anche 30 cm nei grossi frantoi) per quanto, se la roccia è abrasiva, si preferiscano oggi frantoi giratori; eccedere nella riduzione del materiale al frantoio primario significa ottenere materiale di forma scadente.

Fig. 1.28 – Sequenza dei processi per la produzione degli aggregati da cave di roccia.

La produzione di un frantoio primario varia colla durezza della pietra e con l’apertura delle mascelle; rocce molto dure e frantoi medi danno:

–       50% di pietrisco Ø 30÷70 mm;

–       30% di pietrisco Ø 12÷30 mm;

–       20% di pietrisco Ø 0÷12 mm.

mentre rocce più tenere (granito):

–       35% di pietrisco Ø 30÷70 mm;

–       30% di pietrisco Ø 12÷30 mm;

–       35% di pietrisco Ø 0÷12 mm;

–       con una quantità del 5% di polvere.

– la frantumazione secondaria è ottenuta quasi sempre con frantoi conici che riducono la pezzatura a 70-80 mm e meno; per ulteriori riduzioni si utilizzano granulatori a martelli, a palle, a cilindri etc. che normalmente rielaborano il rigetto del primo vaglio a valle del frantoio secondario.

– la vagliatura del prodotto dei frantoi ha lo scopo di separarne le diverse pezzature a seconda delle esigenze ed è di 3 tipi:

–       primaria (o scalping) (che in effetti è di regola a monte del frantoio primario) di tipo grossolano trattando elementi che sovente presentano Ø > 10 cm;

–       vagliatura a circuito chiuso che separa elementi a Ø compreso entro10÷1. 5 cm;

–       separazione del prodotto finale (elementi a Ø compreso entro30÷0 mm;

Tab. 1.12 – Tipologie di Vagli e funzione nel ciclo d’elaborazione.

Scegliere i corretti vagli per queste 3 diverse operazioni dipende dall’esperienza, dalla economia del lavoro ed ovviamente dai limiti di pezzatura fissati per quel prodotto, dalle proporzioni richieste fra !e varie pezzature, dalla capacità dei frantoi.

Nella tab. 1.12 si fornisce una indicazione sui vagli più idonei per tali operazioni dal punto di vista del tipo di movimento e del tipo di elemento vagliante.

Circa la dimensione dei fori è da tener presente che per effetto del movimento del vaglio e per altri motivi, le particelle, anche se leggermente più piccole del foro, hanno difficoltà a passarlo; conseguentemente la dimensione del foro deve essere del 10÷20% più grande della pezzatura che si vuole ottenere. Se comunque in un impianto in cui si richiedano, ad es., le pezzature: 0/4 – 4/8 – 8/12 – 12/16 mm la frazione 4/8 è scarsa usando le maglie da 6 e 9 mm si provvederà a sostituire questi due vagli adottando, ad es., le maglie da 5 e 10 mm.

Un altro fattore che influenza il prodotto dei vagli è il rapporto lunghezza-larghezza del telaio; evidentemente più questo valore è alto minore è la % del ritenuto che invece dovrebbe passare i fori.

Ancora, è importante lo spessore dell’aggregato sul vaglio che non dovrebbe superare il lato o diametro del foro ad evitare valori elevati di tale %. In effetti, una stratificazione ha luogo nella prima parte del vaglio (~1 m) per cui la quasi totalità degli elementi più piccoli di metà della dimensione della maglia sono ritenuti in questo tratto per poi passare velocemente ne! tratto seguente così che se si supera la lunghezza ottimale del vaglio il risultato migliora di poco.

Riassumendo, se in un sistema vagliante il prodotto non risponde alle esigenze e chiamando Pu la sottomisura del grosso e P0 la sopramisura del fine riferiti alla pezzatura considerata:

–       se è troppo alta la sopramisura nel passante (P0 alto), si riduce la dimensione la maglia;

–       se, viceversa, è troppo bassa rispetto al limite consentito (P0 basso) aumentare la dimensione della maglia;

–       se è troppa elevata la sottomisura nel prodotto grosso (Pu alto), aumentare la dimensione del vaglio e l’opposto se è bassa la sottomisura (Pu basso).

– Stoccaggio, trasporto e composizione delle misceleLo stoccaggio del prodotto uscito dai vagli è effettuato:

– in cumuli disposti convenientemente nell’area dell’impianto e dai quali potrà essere caricato sugli automezzi mediante pale o immesso nel ciclo di produzione dei conglomerati mediante nastri caricati in un tunnel posto sotto il cumulo;

– nelle tramogge o nei silos, molto costosi e dì ridotta capacità dove però il prodotto resta più pulito ed è più facilmente trasferibile.

In entrambi i casi è necessario evitare la segregazione dovuta soprattutto ad una cattiva discarica dai vagli, specialmente quando si usano i nastri trasportatori, o ancora a troppi rimaneggiamenti del materiale.

La composizione delle miscele ottenute mescolando varie pezzature nelle percentuali richieste, avviene attraverso i pre-dosatori di centrale.

1.2.17 – Considerazioni sugli impianti per la produzione degli aggregati

Nelle normali attività di produzione i frantoi tendono generalmente ad essere sottoalimentati anziché sovralimentati; sebbene il primo caso sia maggiormente da evitare per i riflessi economici, l’ingolfamento del frantoio è pure dannoso.

In generale risulta opportuno disporre il frantoio primario in posizione favorevole come, ad es., a ridosso di una collinetta o di un rilevato, in modo che basti un piccolo apripista per alimentario; l’operazione è semplificata se si dispone di un impianto mobile; qualora mancassero entrambe le possibilità risulta allora conveniente l’installazione di un alimentatore meccanico.

Nelle attività di cava occorre verificare la tecnica di perforazione della roccia quando il prodotto presenta elementi che superano dimensioni accettabili (80÷90% della bocca d’alimentazione); alternativamente è opportuna la disponibilità di un demolitore per ridurre i massi più grossi.

Allo stesso modo un frantoio a mascelle non risulta sempre ideale per la frantumazione primaria; al contrario, per impianti a produzione elevata è spesso preferibile il rotativo.

Si rivela inoltre buona norma controllare giornalmente la regolazione del frantoio: una differenza anche di pochi mm nell’apertura delle mascelle può alterare notevolmente la produzione.

Per quanto concerne i vagli, se i fori di questi sono troppo piccoli, maggiore è la quantità di ritenuto che ritorna nel ciclo, rendendo così operazione preferibile un leggero sovradimensionamento. Allo stesso modo quando esista la possibilità frequente che il materiale da vagliare sia troppo bagnato e comunque tenda ad ostruire le maglie sono consigliabili vagii a fili paralleli tesi (tipologia ad arpa).

Se, ancora, nelle varie pezzature ottenute scarseggia il fine, può risultare opportuno aggiungere sabbia alla roccia da frantumare.

Per quanto riguarda i nastri trasportatori, questi debbono essere in grado di trasportare la produzione massima del frantoio senza perdite lungo il percorso.

Allo stesso modo un nastro carico e molto inclinato tende a scivolare sulla puleggia di testa se metallica e bagnata: in tale evenienza è conveniente sostituire quest’ultima con altra di materiale più adatto.

Per quanto, infine, attiene allo stoccaggio, è importante avere spazio sufficiente attorno ai cumuli di aggregato per facilitare le operazioni del macchinario di carico.

Inoltre, quando il materiale cade liberamente dal nastro è facile la segregazione soprattutto se la giornata è ventosa: una soluzione può trovarsi attraverso la riduzione dell’altezza di caduta.

l

1.2.18 – La cubatura dei cumuli d’aggregato

La cubatura materiali è uno dei problemi che si pone più di frequente ai produttori nelle cave, nelle centrali e nei cantieri per inventariare i materiali giacenti in cumuli. A prescindere dai rilevamenti con strumenti topografici, talora laboriosi e comunque adatti per cumuli di grandi dimensioni, si utilizzano con successo alcune procedure speditive (Fig. 1.29) per inquadrare con buona approssimazione le quantità in gioco:

Fig. 1.29 – Procedure speditive per la cubatura di ammassi e cumuli.

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