9 – Difese dei versanti

La previsione del comportamento nel tempo di un corpo naturale di terreno, o di roccia, in pendio, è ardua per i numerosi e complessi fattori dai quali la risposta meccanica dipende: fra questi, la configurazione geometrica, il sistema delle discontinuità, le leggi costitutive, le condizioni al contorno e, non ultimo, l’ambiente (o il clima). La ricerca progettuale, di conseguenza, risulta difficile non potendo ispirarsi a criteri univoci motivo per cui, più che regole di progetto, che non avrebbero carattere di generalità, si rivelano utili raccomandazioni che derivano dall’esperienza in casi concreti.

9.1. – Criteri progettuali

Gli studi per l’inquadramento del fenomeno sotto l’aspetto fisico-meccanico sono parte integrante della progettazione geotecnica di ogni intervento e devono svilupparsi con riferimento alle ipotesi preliminari sull’interpretazione, con la necessaria ampiezza delle caratteristiche meccaniche dei terreni o delle rocce, sia per l’identificazione di superfici di scivolamento preesistenti che per riconoscere i caratteri della circolazione idrica. Le misure in situ devono essere estese a un arco di tempo sufficientemente lungo per raccogliere dati significativi sull’andamento delle pressioni neutre e degli spostamenti.

I modelli di calcolo sono schemi di riferimento che devono applicarsi con cautela per l’interpretazione di un fenomeno reale; infatti, il calcolo si rivela utile solo se il modello è stato scelto con riferimento a risultati sperimentali. Le verifiche risultano significative se sviluppate in termini di pressioni efficaci, in ragionevoli ipotesi sulla distribuzione delle pressioni neutre. Il modello di riferimento e i risultati dei calcoli, infine, devono essere impostati assumendo come parametri quei fattori che si ritengono più significativi e che possono controllarsi con misure in situ. E’ opportuno accertare la sensibilità dei risultati del calcolo alle variazioni che tali parametri possono subire nel tempo o per l’incertezza di stime iniziali. In ogni caso il modello deve essere periodicamente calibrato sui risultati delle misure.

Sul margine di sicurezza non possono darsi indicazioni di generale validità; si deve tenere comunque presente l’importanza di distinguere i casi in cui un pendio e stato sempre stabile da quelli nei quali il pendio é già stato sede di movimenti. Se, ad es., si fa riferimento alle argille e se si può prescindere dalla rottura progressiva, nei casi del primo tipo la resistenza del terreno è regolata dai valori di picco per le argille intatte, assumendo valori anche inferiori al picco per le argille fessurate; viceversa, per i pendii che sono stati sede di frana con apprezzabili spostamenti relativi, risulta prudente fare riferimento alla resistenza residua.

Nei metodi di verifica il coefficiente di sicurezza è introdotto in differenti modi che possono ricondursi alle seguenti 4 definizioni, nelle quali si fa sempre riferimento a una rottura lungo un’ipotetica superficie di scivolamento;

–       rapporto fra le forze che si oppongono allo scivolamento e quelle che lo favoriscono;

–       rapporto fra il momento, intorno a un punto, delle forze che si oppongono allo scivolamento e il momento delle forze che lo favoriscono;

–       rapporto fra resistenza al taglio e tensione tangenziale mediamente mobilitata;

–       fattori per i quali occorre dividere i parametri di resistenza al taglio (c‘, tg φ‘) per portare a rottura il pendio.

Tutte le definizioni fanno riferimento a metodi deterministici; il giudizio sull’affidabilità del progetto dipende, dunque, in larga massima, dall’esperienza del progettista. Teoricamente la stabilità è assicurata se il coefficiente di sicurezza è > 1: i valori assunti da tale coefficiente dipendono, tuttavia, dalla definizione prescelta.

Ad es. in Fig. 9.1, attinente al proporzionamento di un ancoraggio, la definizione che fa riferimento alle forze che si oppongono a quelle che favoriscono lo scivolamento, conduce a risultati diversi da quelli basati sui concetti di resistenza e resistenza mobilitata. Inoltre, nel primo caso, la definizione conduce a espressioni diverse a seconda che si prenda in considerazione lo stato limite rappresentato dallo scivolamento verso il basso (prevalenza della componente della forza peso sulla F) oppure lo stato limite di scivolamento verso l’alto (quando F prevale su W sen α).

Fig. 9.1 – Resistenza Tf resistenza mobilitata Tm nel caso di un blocco su pendio sollecitato da una forza esterna F.

In generale, i valori numerici del coefficiente dì sicurezza dalla prima definizione sono inferiori a quelli che si ottengono introducendo le forze agenti lungo la superficie di scivolamento come aliquote delle forze resistenti e, perciò, vanno considerati a favore di sicurezza. Tuttavia, i valori relativi all’ultima definizione sono concettualmente più soddisfacenti, anche perché non è necessario decidere preventivamente il verso della Tm che, come equilibrante del sistema nella direzione del movimento, è intrinsecamente positiva, qualunque sia il verso di tentativo attribuito al vettore che la rappresenta.

La diversità di definizioni comporta, fra l’altro, l’assunzione di differenti valori di esercizio per i valori della resistenza, come può verificarsi mettendo a confronto, ad es., le ultime due definizioni, e introducendo, oltre al coefficiente di sicurezza globale η = (c’+σtg φ‘)/τm due coefficienti parziali ηc = c’/cm e ηφ = tg φ‘/ tgφm.

Le relazioni fra questi 3 coefficienti sono illustrate nella Fig. 9.2a nella quale si segnala che ηc e ηφ coincidono solo se assumono il valore del coefficiente di sicurezza globale. Tale circostanza è tutt’altro che frequente, soprattutto in terreni argillosi, stante la diversa dipendenza di c‘ e φ‘ dagli spostamenti: la c‘ si mobilita, infatti, per spostamenti notevolmente inferiori a quelli necessari per mobilitare l’attrito φ‘.

Ne segue (Fig. 9.2b) che se, in dipendenza degli spostamenti avvenuti, la coesione si è interamente mobilitata (ηc=1), il coefficiente ηφ rispetto all’attrito deve assumere valori alquanto superiori all’unità perché si conservi il valore che si intende attribuire globalmente al pendio. Si osservi anche che dai vari metodi di calcolo si ottengono in generale risultati diversi per il coefficiente di sicurezza.

Il giudizio sul significato di questo coefficiente e la scelta del valore numerico dipendono, quindi, dal grado di approssimazione delle indagini, dall’affidabilità dei processi di elaborazione e interpretazione dei dati e dalla completezza delle informazioni disponibili.

In ogni caso, il coefficiente di sicurezza può essere utilizzato in senso relativo allo scopo di confrontare differenti soluzioni di progetto. Nel fissarne il valore accettabile occorre valutare la conseguenza di una rottura. Valori > 1.4 s’impongono solo nel caso di elevato rischio di perdite di vite umane; per contro, valori < 1.2 possono accettarsi se il progettista giudica molto affidabili i dati disponibili o se è possibile esercitare un ottimo controllo sull’esecuzione degli interventi.

Le norme geotecniche classiche prescrivono: “Nel caso di terreni omogenei e nei quali le pressioni neutre siano note con sufficiente attendibilità, il coefficiente di sicurezza non deve essere < 1.3. Nelle altre situazioni il valore del coefficiente di sicurezza da adottare deve essere scelto caso per caso tenuto conto principalmente della complessità strutturale del sottosuolo, delle conoscenze del regime delle pressioni neutre e delle conseguenze di un eventuale fenomeno di rottura.”

In relazione alle caratteristiche del materiale e alla storia di precedenti rotture il coefficiente di sicurezza di un pendio nei riguardi della ripresa del movimento può essere diverso da caso a caso. Nelle frane in pendii ripidi in terreni con indice di fragilità elevato, l’energia cinetica associata alla massa in movimento può essere stata tanto elevata da dar luogo a spostamenti superiori a quelli necessari per portare la massa in un nuovo stato di equilibrio statico; in tali casi il coefficiente di sicurezza può essere alquanto superiore all’unità.

Fig. 9.2 — Relazioni fra coefficienti di sicurezza parziali e globale.

In altri casi, laddove la pendenza della superficie topografica non è alta in rapporto alla resistenza del materiale e questo non ha un comportamento fragile, la configurazione raggiunta dal pendio è prossima a quella di equilibrio limite; perciò, il pendio è prossimo al moto e sono sufficienti piccole modifiche nei carichi, nella configurazione o nelle condizioni al contorno per riattivare, anche solo parzialmente, la frana. Importante per le argille preconsolidate è anche la dipendenza degli spostamenti necessari per raggiungere la resistenza di picco e la resistenza residua dal valore dello sforzo normale efficace applicato: al decrescere della σ‘ lo spostamento per il quale la resistenza raggiunge il picco decresce mentre lo spostamento necessario per il residuo aumenta; rie segue, ad es., che una volta raggiunta la resistenza residua sotto una data σ‘ una riduzione di quest’ultima ha come effetto un rigonfiamento che rende necessari ulteriori spostamenti per raggiungere nuovamente la condizione residua.

9.2 – Previsione e prevenzioni

Le condizioni di equilibrio statico di una massa in frana hanno formato oggetto di studio per decenni e di fatto continuano a costituire lo scopo principale degli sforzi dei ricercatori in questo settore. I complicati problemi sui meccanismi responsabili dei processi di decadimento in situ della resistenza a taglio, peraltro, non sono stati ancora pienamente compresi. In realtà, questioni più interessanti dal punto di vista della sicurezza e della gestione del territorio sono imperniate principalmente sulla previsione dell’andamento degli spostamenti di un versante nel quale siano in atto dissesti; la domanda principale che occorre porsi è se questi spostamenti si arresteranno prima che le velocità raggiungano valori tanto elevati da costituire un pericolo per l’habitat ed eventualmente quale possa essere il percorso che verrà compiuto dalla massa in frana fino al completo arresto.

A domande poste in maniera così generale non è ancora possibile rispondere con altrettanta generalità, almeno nella maggioranza dei casi: solo da qualche anno, infatti, la ricerca ha cominciato a spostare l’attenzione dalle condizioni di equilibrio statico alla cinematica dei corpi di frana.

La strategia con cui si affronta il problema della previsione e gestione delle frane è diversa in dipendenza della destinazione d’uso del pendio e delle caratteristiche dei manufatti che insistono su di esso; per questi, infatti, si potrebbe presentare una situazione di rischio anche per spostamenti modesti, ampiamente prima del collasso del pendio. In questa sede, il collasso viene inteso come un fenomeno catastrofico, in cui il corpo di frana è soggetto a forze motrici maggiori di quelle resistenti, con lo sviluppo ai caratteri cinematici (spostamenti, velocità, accelerazione) pericolosi per l’incolumità della popolazione e per la sicurezza dei manufatti.

Così definito, il collasso rappresenta una condizione distinta da quella di equilibrio limite, che segna il passaggio da una fase precedente il collasso in cui il corpo di frana è soggetto a spostamenti di natura deformativa (ed eventualmente a scorrimenti lungo una superficie di rottura non ancora emergente sulla superficie topografica) ad una fase in cui si sviluppano anche spostamenti rigidi su una superficie continua ed emergente sul pendio (in regime di moto stazionario o accelerato). Peraltro, nella fase che precede il collasso, gli spostamenti possono anche essere di notevole entità.

La previsione dell’evoluzione degli spostamenti del corpo di frana, e in particolare del tempo in cui potrebbe verificarsi il collasso, è indispensabile per mantenere in esercizio le opere direttamente o indirettamente minacciate dalla frana.

il compito riuscirebbe agevole disponendo di un modello meccanico capace di schematizzare in modo affidabile il comportamento del pendio, al fine di prevedere e valutarne la risposta alle diverse azioni instabilizzanti causate da variazioni di condizioni al contorno. Ciò richiederebbe la messa a punto di modelli piuttosto raffinati, sia per la schematizzazione geometrica del fenomeno, che dovrebbe prendere in considerazione gli aspetti tridimensionali, sia per l’adozione di leggi costitutive, che tengano adeguatamente conto dell’influenza della velocità di applicazione delle tensioni deviatoriche sull’entità e sulla velocità delle deformazioni, soprattutto all’interno di campi tensionali in prossimità delle condizioni di rottura, nonché sui caratteri di stabilità del moto.

Occorre ricordare, tuttavia, che mentre molti passi in avanti sono stati compiuti nello studio del problema della rottura, l’analisi della mobilità dei versanti è ancora a uno stadio iniziale, e un modello geotecnico generale di riferimento non è ancora disponibile.

Con una classificazione preliminare è possibile individuare 2 categorie di problemi che attengono, da un lato, alle frane con superfici di scivolamento di neoformazione, convenzionalmente dette di primo distacco, e, dall’altro, alle frane antiche riattivate lungo superfici preesistenti.

Nelle frane di primo distacco la resistenza media mobilitata è solitamente intermedia fra i valori di picco e residuo essendo funzione dello spostamento manifestatosi lungo la superficie di scorrimento che non è costante in conseguenza delle deformazioni all’interno del corpo di frana. Di conseguenza il raggiungimento dell’equilibrio limite prelude necessariamente a una fase catastrofica di moto accelerato, in quanto gli spostamenti, provocando il decadimento della resistenza dal valore mobilitato a quello residuo, producono una sensibile diminuzione delle forze resistenti rispetto a quelle motrici con conseguente accelerazione del corpo di frana.

Nelle frane riattivate l’esperienza degli spostamenti avvenuti ha in buona parte eliminato i caratteri di fragilità con i quali si manifestava la risposta del materiale intatto; molto spesso, dunque, la resistenza disponibile coincide con quella residua; il materiale che costituisce il versante (e che è stato nel passato interessato da dissesti) è caratterizzato da un margine di sicurezza estremamente ridotto, tanto da trovarsi quasi in condizioni di moto incipiente; tuttavia, la completa rimobilitazione della superficie di scivolamento può non evolvere verso la fase catastrofica, in quanto non si determina un ulteriore squilibrio fra la resistenza disponibile e quella mobilitata, motivo per cui la frana non può accelerare in misura significativa.

Sulla base delle attuali conoscenze sembra lecito ritenere che i pendii in fase di pre-rottura (da cui possono originarsi frane di primo distacco) abbiano maggiore probabilità di pervenire al collasso catastrofico. Sebbene anche nei casi di post-rottura un’evoluzione catastrofica non possa escludersi, l’analisi della letteratura sembra indicare che i casi di post-rottura presentano spostamenti di tipo stazionario, ossia con accelerazioni molto ridotte, e quindi con velocità e spostamenti che, nella maggior parte dei casi, non esclu­dono alcuni usi del pendio.

9.3 – Indagini

Le indagini richiedono competenza e impegno, comportando inoltre notevoli spese e tempi lunghi. L’argomento è troppo vasto perché possa essere trattato con completezza in questa sede: si rimanda perciò alle opere specialistiche, alcune delle quali citate nell’appendice bibliografica; nel presente paragrafo si ricordano alcuni aspetti delle indagini geotecniche che hanno particolare rilevanza.

– per la misura delle pressioni neutre, condizionano la scelta del piezometro due ordini di fattori: un primo fattore è il ritardo col quale il piezometro si pone in equilibrio con l’ambiente; tale ritardo dipende dalla quantità d’acqua che è necessario spostare all’interno del piezometro per equilibrare la variazione delle condizioni idrauliche al contorno. I piezometri più reattivi sono le celle a diaframma; i più lenti sono gli sfinestrati a tubo aperto.

Fig. 9.3 – Tempi di riposta di piezometri di vario tipo.

In Fig. 9.3 é riportato un grafico che serve a stimare il tempo t95 necessario perché il valore misurato raggiunga il 95% del valore in situ della pressione neutra per diversi tipi di piezometri, in funzione della permeabilità del terreno.

Per eliminare un inconveniente dei piezometri a cella e di quelli sfinestrati (che consentono, rispettivamente, una misura puntuale oppure mediata su un tratto) è stato introdotto un piezoforo per il rilievo continuo dell’altezza piezometrica con la profondità. Lo strumento, inizialmente adoperato in ammassi rocciosi fratturati, è utile anche in terreni sciolti, soprattutto se eterogenei o fessurati.

Fig. 9.4 – Installazione di un piezometro continuo (piezoforo) in terreni disomogenei: a) perforazione; b) installazione di un tubo in pvc forato; c) riempimento con boiacca di cemento; d) riperforazione; e) installazione della membrana.

Un tubo perforato (Fig. 9.4) si cementa in un foro da sonda con una miscela che alla presa diventa fragile e si fessura. Dopo aver riperforato la boiacca dentro il tubo, si adatta alla parete del foro, con acqua a pressione superiore alla pressione esterna, una sottile membrana impermeabile. Una sonda mobile, lunga ~ 50 cm, contenente una cella nella quale può essere inviato un fluido in pressione, viene fatta scorrere fino alla sezione di prova (Fig. 9.5). Due otturatori isolano la cella dal foro. A questo punto si riduce la pressione nella cella di misura fino a uguagliare la pressione esterna. Il tempo di equilibramento delle due pressioni consente anche una stima del coefficiente di permeabilità del terreno.

Fig. 9.5 – Principio di funzionamento del piezoforo: a) sonda in posizione nella sezione di misura; b) s’incrementa la pressione nella cella; c) si azionano gli otturatori per isolare la cella; d) si riduce la pressione nella cella fino al valore esterno.

Lo strumento si rivela utile per ricostruire la circolazione idrica nel sottosuolo, nei casi in cui disomogeneità fisiche e strutturali rendano incerta l’applicazione dei metodi usuali. In Fig. 9.6 è riportato un esempio di risultati di misure al piezoforo nel corpo di una frana in materiali eterogenei argillosi e calcareo -marnosi della sponda di un serbatoio.

Una seconda caratteristica che si richiede a un piezometro quando si debba tenere sotto controllo un pendio sede di uno scavo è la sua attitudine a misurare le variazioni negative di pressioni neutre che potrebbero destarsi per effetto del decremento delle sollecitazioni totali, quando la distribuzione delle pressioni neutre, corrispondente alla nuova configurazione del pendio, é critica per la sicurezza. E’ opportuno rammentare come siano numerosi i difetti d’installazione e come troppo spesso si sorvoli sul fatto che queste possano comportare grossolani errori.

– la resistenza al taglio è influenzata dalla genesi e dall’evoluzione geologica: di recente la ricerca si è orientata decisamente verso lo studio dell’influenza dei processi naturali su alcune proprietà; con riferimento alle argille, sono stati studiati schemi orientativi per la definizione dei comportamenti nelle fasi del ciclo geologico (deposizione, scarico, diagenesi, tettonica, alterazione) ai quali corrispondono specifici problemi di stabilità dei pendii. Sono stati anche proposti criteri di valutazione delle complessità geotecniche di una formazione.

Fig. 9.6 — Altezze piezometriche rilevate con un piezoforo.

Per i parametri della resistenza che intervengono nel progetto, è necessario distinguere gli interventi per incrementare il grado di sicurezza di un versante nel quale non siano ancora avvenuti dissesti, dal caso in cui con il provvedimento ci si propone di consolidare una porzione del pendio già interessato da scorrimenti; in quest’ultima situazione è opportuno introdurre i valori residui della resistenza. Nel progetto degli interventi a scopo preventivo, la questione assume importanza nei pendii in formazioni argillose, quando lo stato limite da considerare nelle verifiche di sicurezza è riferito alle cosiddette frane di primo distacco.

I risultati delle ricerche sull’argomento invitano a distinguere le frane in argille intatte da quelle in argille fessurate. Secondo Skempton, nel primo caso, la resistenza che può mobilitarsi lungo la superficie di scivolamento è prossima al picco; nel secondo caso il valore al quale riferirsi è quello di stato critico, corrispondente alla resistenza dell’argilla rimaneggiata normalconsolidata; in dipendenza, conviene orientare la sperimentazione in laboratorio. Nello studio delle frane è spesso opportuno iniziare con un programma di prima approssimazione, quindi con un piano dì misure più particolareggiate e mirate.

9.4 – Strumentazione

Gli strumenti possono installarsi con due scopi:

a) preparare un quadro di riferimento del comportamento di un pendio prima dell’inizio dei lavori;

b) controllare una zona dove si sia manifestato o si tema un dissesto.

Nel caso a) s’installano strumentazioni a scopo preventivo, col fine di seguire l’evoluzione di grandezze fisiche significative: infatti, considerata l’interazione terreno- strumento che si manifesta con un transitorio che occorre superare, la conoscenza dell’evoluzione del fenomeno è indispensabile per mettere a punto uno schema d’interpretazione.

Importanti sono le misure di spostamento, specie in profondità, con strumenti che si sono recentemente perfezionati: lo scopo principale di queste misure è la ricerca di zone del sottosuolo dove siano in atto spostamenti orizzontali relativi; con la strumentazione più evoluta è possibile misurare anche l’entità di tali spostamenti.

Per il primo scopo sono disponibili deflettometri di vari tipi, con i quali si può localizzare la zona dì scorrimento. I deflettometri sono basati sul principio dell’interruzione di un circuito, meccanico o elettrico, che connette un sistema di sonde, ancorate a un rivestimento deformabile inserito in un foro di sondaggio: per effetto del movimento, il tubo s’inflette nell’intorno della superficie di scorrimento e blocca il passaggio delle sonde. Recuperate le sonde (libere di scorrere mediante il filo che le connette (Fig. 9.7), s’individua la profondità alla quale è stata intercettata la superficie di scivolamento.

Fig. 9.7 – Principio di funzionamento di un deflettometro a fili: a) rivestimento del foro di sondaggio; b) traccia della superficie di scivolamento; c) sonda (torpedine).

La distribuzione degli spostamenti orizzontali con la profondità può essere rilevata con un inclinometro, che misura l’inclinazione, a varie quote, di un tubo nel terreno. La somma dei prodotti dell’inclinazione dei singoli tratti del tubo per la lunghezza dei tratti medesimi (a partire da un punto P di riferimento fino a un punto Q in cui si vuole conoscere lo spostamento) misura lo spostamento orizzontale relativo dei due punti (Fig. 9.8). Nell’inclinometro usuale la misura si esegue inserendo nei tubo una sonda che scorre lungo scanalature predisposte nel tubo: la sonda rivela le inclinazioni del rivestimento rispetto alla verticale, in vari tratti del foro.

Un secondo tipo d’installazione inclinometrica richiede la cementazione di un certo numero di sonde (colonna, fino a 12) in posizioni prestabilite nel foro. Il vantaggio di questi inclinometri fissi, rispetto a quelli a sonda mobile, consiste nella possibilità di centralizzare e automatizzare le letture. Se lo scorrimento è localizzato in una o più fasce, è necessario che la posizione di queste ultime sia preliminarmente stimata, in modo da disporre le sonde fisse in corrispondenza delle presunte zone di scorrimento.

Fig. 9.8. — Schema d’installazione di un inclinometro a sonda fissa.

Errori dì misura dell’inclinazione

Notevole cura va posta nell’installazione degli strumenti e nell’esecuzione delle misure, particolarmente in quelle con inclinometro, che sono molto sensibili a difetti d’installazione: gli errori derivano, oltre che dalla ridotta sensibilità dello strumento, dall’eventuale rotazione torsionale del tubo inclino metrico. Quest’ultimo inconveniente è più insidioso e temibile in frane di notevole spessore: in questo caso non si può garantire che, al trascorrere del tempo, ad una data profondità dal piano di campagna, lo strumento misuri sempre un’inclinazione nel medesimo piano verticale. Questa deformazione a spirale del tubo può essere rilevata con opportuni strumenti prima di effettuare le misure. È buona norma, infine, che gli spostamenti alla testa del tubo inclinometrico siano controllati con rilievi topografici di superficie.

Nell’elaborazione delle misure con sonda mobile è opportuno tenere presente che, ad ogni misura inclinometrica, è associato un grado d’incertezza funzione di numerosi fattori, alcuni dei quali possono essere resi meno influenti curando l’intero processo di misura. La valutazione dell’errore assume particolare importanza per stimare la sensibilità dello strumento in rapporto alle esigenze di progetto degli eventuali interventi e alla sorveglianza dei siti.

Gli inclinometri più diffusi, che potrebbero rilevare inclinazioni locali fino a 0.05 mm/m, hanno, per fori verticali, una precisione variabile da 0.2÷0.6 mm/m a cui si deve aggiungere l’effetto della temperatura che (nell’ipotesi più sfavorevole) è pari a ~ 0.006% del valore misurato per °C.

In letteratura sono citate precisioni variabili da 1 a 6 mm per tubi lunghi 30 m ma l’esperienza ha mostrato che in molti casi gli errori sono stati superiori.

Lo scostamento del tubo inclinometrico dalla verticale è conseguenza di errori grossolani, sistematici e/o aleatori. Gli errori grossolani, di entità solitamente notevole, si presentano saltuariamente nel corso delle letture e derivano da imperfezioni in corrispondenza dei giunti di raccordo degli spezzoni del tubo inclinometrico e dalla presenza di corpi estranei nelle guide.

L’errore sistematico può presentarsi quando, al valore reale d’inclinazione αR, si somma una quantità, positiva o negativa, costante per ogni passo di profondità, che tuttavia può variare tra due misure eseguite in tempi diversi. Tale errore può essere determinato, oltre che da avarie dello strumento, da effetti termici sulla centralina e sulla sonda e/o da derive dello 0 strumentale.

Gli errori aleatori possono assumere valore e segno diversi durante una lettura; essi sono dovuti alla variabilità delle grandezze oggetto delle misure, insita nel funzionamento elettrico e meccanico dei componenti dell’apparecchiatura, nell’accoppiamento tra sonde e guide e nelle operazioni di misura; sono influenzati dall’inclinazione iniziale del tubo.

L’errore aleatorio è dato dalla deviazione standard σ(S) della seminomma S delle letture doppie in opposizione α0 e α180. La grandezza S fornisce un’indicazione dell’entità dell’errore sistematico (costante con la profondità e proporzionale alla media Smed della popolazione delle S) e dell’errore aleatorio (pari alla dispersione dei valori intorno a Smed). L’insieme delle semisomme S lungo il tubo risulta centrato sull’errore sistematico, con una dispersione tanto maggiore quanto più è sensibile l’errore aleatorio. Gli errori aleatori εai alla i-esima profondità sono distribuiti dal basso verso l’alto secondo la relazione εai = σ(S)dn essendo d il passo tra una lettura e la successiva e n, il numero delle letture effettuate fino alla profondità i.

Nella Fig. 9.9 si riportano gli andamenti delle S con la profondità per una lettura in cui la media Smed delle semisomme è bassa (pari, in valore assoluto, a circa 0.15 mm/m) e la dispersione è molto contenuta, come dimostrato dalla modesta deviazione standard σ(S) (~ 0.05 mm/m).

Fig. 9.9 – Esempio di andamento delle semisomme S con la profondità in un inclinometro.

Oltre alla stima dell’errore di misura dell’inclinazione assoluta del tubo, è importante la valutazione degli errori sistematici e aleatori che intervengono tra la lettura iniziale di riferimento al tempo t0 e la lettura a un tempo t generico. L’errore sistematico può essere stimato avvalendosi di due metodi riportati in letteratura. Il primo metodo richiede che la parte più profonda del tubo inclinometrico sia sicuramente stabile nel tempo; tale sicurezza dovrebbe essere confortata dalle conoscenze sulla stratigrafia: secondo tale metodo, l’errore sistematico è pari al valore medio dell’inclinazione locale misurata sull’ultimo tratto del tubo. La correzione si effettua sottraendo l’errore sistematico cosi computato ai valori di inclinazione locale misurati. Il secondo  metodo, detto anche BRGM, si fonda sul riconoscimento, nella lettura al tempo t, di due famiglie d’inclinazioni locali Δα (mm/m).

Fig. 9.10 – Istogramma dei valori di Δα in una misura inclinometrica.

La prima famiglia, detta maggioritaria, centrata su valori modesti e varianza bassa, corrisponde agli errori sistematici; la seconda, poco rappresentata e molto dispersa, rappresenta le inclinazioni realmente indotte dai movimenti del terreno (Fig. 9.10). L’errore sistematico che, di norma, va sottratto alle inclinazioni locali misurate, è pari alla media delle inclinazioni locali Δα appartenenti alla famiglia maggioritaria. Quando il movimento è localizzato su superfici nette o su fasce dì spessore contenuto, le inclinazioni locali Δα danno luogo a popolazioni maggioritarie povere di individui, sicché appare ragionevole ricorrere al primo metodo di stima dell’errore siste­matico basato sul tratto di tubo stabile. L’importanza di depurare le misure dagli errori aleatori e sistematici, specialmente se gli spostamenti sono dell’ordine di grandezza della sensibilità dello strumento, si può rilevare dalla Fig. 9.11: in questa sono riportati gli andamenti dello spostamento (a) e dell’azimut (b) con la profondità in assenza e in presenza di elaborazione statistica col secondo metodo. Grazie a quest’ultimo metodo si può rilevare, in particolare, che gli spostamenti sono concentrati in uno strato superficiale dello spessore 4 m.

Fig. 9.11 – Spostamenti (a) e azimut (b) in funzione della profondità.

Per l’elaborazione delle misure di spostamento e d’inclinazione si rimanda alle pubblicazioni specifiche citate in Bibliografia.

9.5 – Criteri d’intervento

progetto delle opere per la stabilizzazione di un pendio comprende i provvedimenti di pronto intervento e quindi le opere di sistemazione definitiva (Fig. 9.12): queste devono essere dimensionate con una progettazione geotecnica, basata sui risultati di studi e indagini.

Fig. 9.12 – Tipi d’interventi di stabilizzazione dei pendii: a) alleggerimento alla somma; b) riduzione della pendenza; c) introduzione di strutture; d) opere di sostegno tirantate; e) sovraccarico al piede; f) drenaggio a gravità o per pompaggio.

Un affidabile progetto di sistemazione prende le mosse dal meccanismo che ha prodotto il dissesto e si conclude con la valutazione del coefficiente di sicurezza del pendio in seguito all’intervento. L’efficienza del provvedimento viene esplorata con riferimento ai fattori, ai quali l’instabilità è stata attribuita, e sui quali s’intende intervenire.

Fig. 9.13 – Interventi di stabilizzazione e strumentazione di controllo.

Tutti i provvedimenti di sistemazione si ispirano a principi fisici (Tab. 9.1), che hanno specifica influenza sui fattori che sono a numeratore o a denominatore dell’espressione del coefficiente di sicurezza (Fig. 9.13).

Tab. 9.1 – Principi e metodi di stabilizzazione dei pendii.

La strumentazione di controllo deve essere commisurata all’importanza del progetto; il relativo piano approntato con specifico riferimento alle variabili critiche della ricerca progettuale.

9.5.1 – Provvedimenti di pronto intervento

Si citano la disciplina, la captazione e il convogliamento, anche con tubazioni flessibili provvisorie, delle acque superficiali e delle sorgenti che affluiscono alla frana e che s’accumulano nelle aree depresse; la sigillatura, col rispetto della coltre vegetale, delle principali lesioni che si manifestano sul terreno; lo sgombro(con uso d’esplosivi) dei detriti che ostacolano il deflusso delle acque; l’installazione di strumenti in superficie (capisaldi, mire fisse o mobili) e in profondità (inclinometri, piezometri) per il controllo di spostamenti, rotazioni, pressioni neutre e dati climatici; le prime indagini per lo studio della geologia e per la caratterizzazione geotecnica.

Fra i provvedimenti immediatamente attuabili può essere utile il pompaggio da pozzi esistenti, dopo valutazione di possibili negativi effetti su costruzioni vicine.

9.5.2 – Opere di sistemazione definitiva

Possono attuarsi quando gli spostamenti sono in esaurimento e dopo aver rilevato, in situ e in laboratorio, i necessari dati sulle caratteristiche fisico-meccaniche dei terreni. Verificata la validità dello schema fisico interpretativo, la soluzione deve essere sviluppata sulla base di calcoli geotecnici con i metodi esposti nella sezione B, possibilmente dopo aver confrontato le caratteristiche rilevate in laboratorio con quelle dedotte da verifiche a ritroso.

I programmi di lavoro devono tener conto del clima, che in certi terreni condiziona l’acces­so dei mezzi, nonché della possibile periodica ripresa del movimento nelle stagioni piovose.

Fig. 9.14 – a) Planimetria del dissesto e linee neutre relative a diversi valori del coefficiente B di Skempton; b) Sezione Y-Y col carico viaggiante ΔW; c) linea d’influenza del coefficiente di sicurezza relativo alla sezione Y-Y.

9.5.2.1 – Riprofilature

La stabilità di un pendio può essere migliorata modificando la superficie topografica con alleggerimento in sommità e con la costituzione di rinfianchi di materiale francamente permeabile dì buona resistenza.

Provvedimenti basati su semplici movimenti terra (sebbene poco efficaci per pendii lunghi) consentono l’immediato inizio dei lavori e possono risultare economici. Oltre all’entità, è necessario ricercare la posizione più favorevole del sovraccarico; può essere utile a riguardo il concetto di linea d’influenza nei confronti del coefficiente di sicurezza, associata a un generico sovraccarico viaggiante ΔW lungo la superficie del pendio (Fig. 9.14). Il ΔW tende a far diminuire il coefficiente di sicurezza quando il carico si sposta verso la parte alta del pendio; il contrario accade quando il ΔW è applicato al piede. Il punto d’applicazione del ΔW, per il quale lo stesso non modifica il coefficiente di sicurezza, è il punto neutro; la traccia in pianta dei punti neutri relativi a diverse sezioni del pendio è la linea neutra.

Per determinare la posizione del punto neutro (che non coincide necessariamente con il punto più depresso della superficie di scivolamento) occorre confrontare i valori che il coefficiente di sicurezza assume prima e dopo l’applicazione del sovraccarico mobile ΔW.

Posto η0 = ΣR0/ΣD0 in cui ΣR0 e ΣD0 sono, rispettivamente, la somma delle forze resistenti lungo la superficie di scivolamento e la somma delle forze che tendono a provocare lo scorrimento, per effetto del peso proprio, dopo l’applicazione del ΔW, il coefficiente di sicurezza risulta in generale:

Se, in via d’approssimazione, la sovrappressione neutra che insorge all’applicazione di ΔW è Δu = BΔσ1 = Bw (dove

B = B[1-(1A)(1Δσ3/Δσ1)]

è il coefficiente di Skempton e w il sovraccarico per unità di lunghezza) si ha:

La posizione del punto neutro è individuata da αn per il quale è η1/η0 = 1; sostituendo, αn deve soddisfare l’equazione trascendente:

Tale relazione può essere risolta per due valori di B (1 e 0) che rappresentano situazioni fisiche differenti. Nella prima (= 1) la relazione si trasforma in:

la cui unica soluzione significativa è αn = 0; il punto neutro coincide in questo caso con il punto più depresso della superficie di scivolamento. Il caso (= 0) può essere considerato equivalente alla condizione drenata (Δu=1); la relazione diventa:

la cui soluzione significativa è αn = φmob, dove φmob è l’angolo di attrito mobilitato.

Se l’analisi è in tensioni totali, la posizione del punto neutro si ha per αi = αn = 0; risultato che corrisponde al caso in cui l’analisi in tensioni efficaci viene condotta per B = 1.

Nella Fig. 9.15b sono tracciate le linee d’influenza del coefficiente di sicurezza relative a un carico e ad uno scavo viaggianti, d’intensità pari a 200kN, applicati su una striscia larga 1 m per varie posizioni della falda (uvw) e per i due valori di B. Per entrambi gli interventi, se B=1, la posizione iniziale della falda non ha influenza; inoltre, per fissata posizione dell’intervento, il rapporto η1/η0 cresce al diminuire di B per un carico mobile; viceversa, per uno scavo mobile.

Lo studio delle linee d’influenza permette di giudicare l’efficacia a breve termine, in rapporto a quella a lungo termine, dei provvedimenti per la stabilizzazione dei pendii basati su movimenti terra.

Fig. 9.15 — a) Sezione schematica del pendio, con tre diverse situazioni della falda uvwb) linea d’influenza del coefficiente di sicurezza, per carico e scavo viaggianti.

9.5.2.2 – Riduzione delle pressioni neutre

Il regime delle pressioni neutre nel sottosuolo è determinante per la stabilità; su tale regime si può influire nel senso di modificare le quote piezometriche in punti interni o del contorno del masso in frana, con conseguente drenaggio per gravità (terreni a grana media e grossa, rocce fessurate) o per favorire la consolidazione (terreni a grana fina), a mezzo di fori, cunicoli, pozzi o trincee.

Cunicoli e pozzi

Eventualmente collegati con pozzi drenanti, i cunicoli anche a scopo esplorativo e possono raggiungere qualsiasi lunghezza con tracciati flessibili; possono servire per dedurre portate elevate, ma l’effetto sulle pressioni neutre si fa risentire a distanza limitata. I cunicoli possono scavarsi nel corpo della frana solo con precauzioni, e quindi i costi sono elevati. Anche un sistema di pozzi (Fig. 9.16) collegati da fori orizzontali in prossimità del fondo comporta notevole impegno; il pozzo più depresso è munito di un recapito idraulico, per allontanare le acque drenate dall’area d’intervento. I pozzi si eseguono con le attrezzature dei pali trivellati con un rivestimento metallico, temporaneo o permanente; il collegamento con fori orizzontali viene realizzato prima del riempimento con materiale drenante e dell’eventuale estrazione del rivestimento (9.17) e solo con grandi cautele per la sicurezza del personale. Il fondo viene impermeabilizzato.

Movimenti del terreno successivi all’installazione possono interrompere i collegamenti.

Fig. 9.16 — Schema di pozzi drenanti collegati da tubi.

Dreni sub-orizzontali

Si realizzano collocando tubazioni metalliche o di plastica, forellate, eventualmente riempite di sabbia, entro fori Ø 10 cm, eseguiti a rotazione o a rotopercussione in direzione leggermente inclinata verso l’alto. Sono applicabili solo in pendii o scarpate relativamente ripidi; la direzione deve essere stabilita in progetto; la lunghezza massima è ~100 m, ma il raggio d’azione e la portata emungibile sono limitati. L’efficienza è limitata nel tempo, se non si adottano cautele nella posa in opera. Per il proporzionamento possono distinguersi due situazioni (AB), che differiscono per la posizione del tetto della formazione impermeabile. Per ciascuna situazione si considerano due casi: nel primo (stabilizzazione generale) si vuole incrementare la stabilità del pendio per un’estensione indefinita inserendo numerosi dreni; nel secondo (stabilizzazione locale) si vuole ottenere il massimo incremento di stabilità con dreni in numero limitato. L’interasse S e la lunghezza L da assegnare ai dreni per ottenere un incremento Δη del coefficiente di sicurezza rispetto al valore iniziale η0 possono calcolarsi con i grafici di Fig. 9.18: i diagrammi sono applicabili a pendii che hanno scarpa 2.5÷3.5 con rapporto Hu/H = 0.5÷0.7.

  

Fig. 9.17 – Tipi di pozzi drenanti: a) senza rivestimento permanente riempito di materiale drenante; b) ispezionabile con rivestimento metallico permanente e filtro di transizione  fra rivestimento e terreno; c) ispezionabile con rivestimento metallico permanente associato a conglomerato armato.

Trincee drenanti

Con prevalente funzione di drenaggio, possono assumere anche funzione resistente, se spinte in profondità.

L’abbassamento della quota piezometrica per effetto del drenaggio viene studiato sulla scorta delle ipotesi di terreno omogeneo e isotropo con piano di campagna e falda inizialmente paralleli; le trincee hanno forma rettangolare e sono parallele; il moto di filtrazione si assume piano.

Salvo casi speciali, le trincee raggiungono profondità relativamente modesta: per questo motivo si prestano a interventi su frane, in atto o presunte, di dimensioni contenute, caratterizzate da movimenti traslatori lungo superfici parallele al piano di campagna.

Fig. 9.18 – Schema di un sistema di dreni sub-orizzontali in 2 ipotesi (A, B) per la posizione del tetto della formazione impermeabile e diagrammi per il dimensionamento dell’interasse S e della lunghezza L.

Nella Fig. 9.19 si riportano in forma adimensionale le quote piezometriche sul piano di posa dei dreni relative a due interventi: nel primo (tratto intero) il rapporto n fra spessore dello strato permeabile e profondità del dreno è 1; nel secondo (tratteggio) tale rapporto è 4.5; i grafici si riferiscono a situazioni caratterizzate da diversi valori del rapporto S/D fra distanza e profondità.

Nel caso n = 1, in cui il fondo della trincea coincide con il tetto della superficie impermeabile, il coefficiente di sicurezza del pendio è:

dove r è il rapporto fra l’altezza piezometrica sulla superficie di scivolamento e l’altezza piezometrica iniziale. Il valore di r dipende dalla distanza S fra le trincee e differisce (Fig. 9.20) se riferito ai valori medi r (h/h0) o massimi rm = hm/h0.

Fig. 9.19 – Calcolo delle trincee drenanti; a) schema; b) linee piezometriche fra i dreni.

I grafici si prestano al calcolo di verifica e al progetto. In quest’ultimo caso, calcolato il coefficiente di sicurezza iniziale η0 con l’ausilio della curva S → ∞ (assenza di drenaggio) e scelto il nuovo valore η1 che s’intende attribuire al pendio con l’intervento in progetto, si ottiene r ≤ (n – η1)/m. Con i valori di r e dell’inclinazione α del pendio, si ricava S dalla Fig. 9.20.

Fig. 9.20 – Altezze piezometriche normalizzate, massima e media, sulla superficie di scivolamento, per diversi valori della distanza S fra le trincee.

A distanze troppo grandi le trincee non fanno sentire il loro effetto ed è possibile che la porzione di pendio compresa fra le trincee permanga in condizioni critiche di sicurezza; si raccomanda, perciò, che ai valori di r, ai quali corrispondono valori di S/h0 elevati, si faccia riferimento solo in quei casi in cui si prevedono distanze S < 4h0.

Cunicoli, fori e trincee devono essere progettati con le regole dei filtri nei riguardi dell’erosione interna. Soluzioni soddisfacenti si ottengono proporzionando la granulometria del materiale del dreno a quella del terreno da drenare e all’apertura dei fori nei tubi di raccolta, rispettivamente secondo le relazioni:

5d15 < D15 ≤ 5d85                    D85 ≤ 2a

dove d15 e d85 sono le dimensioni corrispondenti al 15% e all’85% in peso di passante del terreno; D15 e D85 le dimensioni corrispondenti al 15% e all’85% in peso di passante del dreno; a la dimensione dei fori nei tubi. Se non è possibile con un materiale soddisfare le due condizioni, occorre disporre due materiali: il più fine, a contatto col terreno da drenare; l’altro, più grossolano, a contatto con il tubo. Il recapito delle acque deve essere precisato in progetto e la sua efficienza garantita nel tempo.

Opere di sostegno

Si collocano al piede della frana; sono muri a gravità, paratie, palancolate, sistemi di pali o di pozzi, capaci di assorbire elevati sforzi orizzontali: salvo situazioni particolari, hanno scarsa efficacia per la sistemazione di frane di grandi dimensioni.

Tiranti, chiodi e reti metalliche di protezione si applicano prevalentemente in roccia, spesso in collegamento con pareti o altri elementi strutturali: questi provvedimenti rientrano fra le opere di sostegno (→ vol. 2°)

Miglioramento delle caratteristiche dei terreni

I criteri e le relative tecniche sono descritti nel capitolo relativo (→ vol. 2°); fra gli interventi di consolidamento: fra questi l’elettrosmosi, i trattamenti termici e le iniezioni dì miscele cementizie trovano applicazione nella stabilizzazione di piccole frane.

Sistemazioni superficiali

Si indicano convenzionalmente con questa denominazione quei provvedimenti che mirano in senso generale a migliorare il rapporto del terreno con l’atmosfera, attenuando le discontinuità fra i due mezzi, in particolare il terreno e l’acqua, che si trovano a contatto.

Comprendono la disciplina delle acque superficiali con fossi e cunette di guardia, briglie, inerbimenti, fascinate, viminate e rimboschimenti; con una scelta adeguata delle essenze determinano un certo consolidamento della crosta superficiale del terreno per l’influenza delle radici, che ne alterano il contenuto d’acqua e l’assetto strutturale.

Sono valide solo per la stabilizzazione di movimenti superficiali (2÷3 m) e per la conservazione del suolo agrario; sui fenomeni profondi hanno effetti stabilizzanti limitati, in quanto alterano in misura inapprezzabile e indiretta i più importanti fattori geotecnici, che regolano la meccanica delle grandi frane.

Gli eventi indesiderati che possono manifestarsi in prossimità di un contatto fra due mezzi sono vari: per fronteggiare questi stati limite sono state inventate le interfacce strutturate, con le quali si creano appropriate transizioni che rendono compatibili le azioni che si trasmettono. Le interfacce strutturate assumono cosi funzioni di separazio­ne, drenaggio, filtraggio e così via, secondo i casi. Al contatto del suolo con l’atmosfera è necessario garantire anche protezione, supporto, difesa dall’erosione, gradevolezza alla vista.

Nella strutturazione di queste interfacce un molo importante hanno assunto i geosintetici in associazione con legname, metalli e materiali sciolti tradizionali per ospitare vegetazione, che trova condizioni favorevoli per attecchire, crescere, rinforzare, mascherare, coniugando natura naturale con natura artificiale, facendo largo ricorso alle tecniche di rinaturazione geo-naturalistiche legate a tradizioni locali. A tale scopo e per il supporto della cotica vegetale, l’interfaccia potrà essere strutturata con bioretibiostuoie con fibre vegetali, georeti e geostuoie, preferibilmente biodegradabili, geocelle, griglie (→ vol. 2°).

Con le sistemazioni superficiali si mira principalmente (a) a rinforzare la coltre di terreno superficiale e (b) a limitare l’erosione dovuta all’impatto della pioggia e al ruscellamento dell’acqua sul pendio. La vegetazione ha un duplice effetto benefico:

–       arenante, per il fenomeno dell’evapotraspirazione che attenua le pressioni neutre;

–       sostegno, per la presenza delle radici che costituiscono un’armatura nel terreno.

La valutazione quantitativa del contributo della vegetazione alla stabilità della coltre superficiale del terreno non è facile. Le difficoltà derivano dall’estrema varietà di terreni e vegetali; per esempio, le radici del castagno non penetrano nella roccia madre, mentre le radici di altre essente sono capaci di esercitare una vera e propria funzione di ancoraggio nella roccia; dall’esigenza di lunga sperimentazione in situ; dalla spiccata interdisciplinarietà della materia che richiede competenze agronomico-forestali e pedologiche per assicurare l’attecchimento della vegetazione, archi tettonico-formali per un risultato fruibile, naturalistico-ecologiche per l’autosostentamento e l’integrazione con la vegetazione preesistente, geotecniche per i requisiti di stabilità dell’interfaccia strutturata con il substrato.

Sui metodi di proporzionamento e verifica della stabilità di una coltre di terreno armata con radici di vegetali esiste una letteratura specializzata. In Fig. 9.21 è illustrato un semplice criterio per valutare l’incremento Δ di resistenza al taglio di uno strato di terreno attraversato da radici ancorate in un substrato. La deformazione nella zona di taglio mobilita nelle fibre della radice una resistenza a trazione che si traduce nell’incremento Δ di resistenza del terreno:

Δ = tr (cos υ tg φ + sen υ)

dove tr = TR AR/A è la resistenza unitaria media a trazione delle radici; AR/A è il rapporto tra l’area della sezione trasversale delle radici e l’area della sezione di terreno interessata dalle radici.

Fig. 9.21 – Schema per la valutazione dell’incremento di resistenza di uno strato di terreno armato con radici.

La formula è valida nell’ipotesi che la resistenza di attrito al contatto sia sufficiente a impedire lo sfilamento della radice dal terreno. Le sistemazioni superficiali comprendono la disciplina delle acque con fossi e cunette, piccole briglie: sono preliminari l’abbattimento e l’estirpazione di piante e la pulizia del terreno; l’accantonamento della terra vegetale, che è materiale pregiato per la finalità dell’intervento, l’approvvigionamento dell’acqua e il progetto dell’irrigazione.

La terra dovrà avere caratteristiche pedologiche appropriate per la messa a dimora dei vegetali; dovrà essere sufficientemente permeabile, ma quasi priva di ghiaia grossa; se proveniente da cava sarà prelevata a profondità non superiore a circa 30 cm; se necessario, integrata da fertilizzanti.

Piante, sementi e zolle di prato coltivato vanno scelti con particolare riguardo alla caratterizzazione dell’apparato radicale, per la funzione che questo assume nella stabilizzazione della coltre superficiale del pendio.

La preparazione della superficie del terreno per la messa a dimora delle piante (di regola fra metà ottobre e metà aprile) e per lo scorrimento delle acque zenitali e d’irrigazione é conforme ai requisiti di sviluppo della vegetazione con particolare riguardo all’apparato radicale evitando ristagni.

Per la semina si procede con varie tecniche (spargimento manuale, con fiorume, a paglia e bitume, per idrosemina, a strato con terriccio, ecc.) secondo i casi. I manufatti più diffusi per il sostegno della coltre superficiale e per la difesa dall’erosione sono le viminate e le fascinate.

La viminata è formata da paletti di legno (larice, castagno) Ø = 3÷5÷8 cm, o di ferro Ø 12÷14 mm, L = 80÷100 cm infissi nel terreno con altezza fuori terra 15÷30 cm alla distanza 1÷3 m l’uno dall’altro intervallati ogni 30 cm da paletti o talee vive di 40÷50 cm, collegati da verghe di salice vivo o altra specie legnosa con capacità di propagazione vegetativa, con l’estremità conficcata nel terreno, di almeno 150 cm di lunghezza, intrecciate sui paletti principali e secondari e legate con filo di ferro per un’altezza di 15÷25 cm fuori terra e una parte interrata di almeno 10 cm. Sono disposte sul pendio a file parallele diagonali distanti 1.2÷2 m.

Le fascinate di specie legnose vive con capacità di propagazione vegetativa (salici, pioppi, tamerici etc.) sono posate in solchi aventi 0.3÷0.5 m di larghezza e pari profondità.

Le fascine sono composte di 5÷6 verghe con punti di legatura distanti ~ 70 cm e fissate con paletti dì legno vivi o morti di almeno 60 cm e Ø 5 cm o con aste metalliche Ø 8÷14 mm, infilati attraverso la fascina o a valle di essa, legati con filo di ferro, il tutto ricoperto con un sottile strato di terreno. Le file di fascine si posano orizzontali per trattenere acqua o inclinate per deviare il flusso; distando 1.5÷2 m l’una dall’altra, con molte varianti. Le fascinate possono essere rinforzate con pietrame e associate a gradonate, graticciate, gabbionate, materassi.

9.6 – Protezione da caduta massi

La scelta e il dimensionamento di un’opera di difesa da caduta di massi comportano, innanzitutto, l’analisi cinematica. Questa viene condotta con lo scopo di determinare alcuni fattori critici: lunghezza massima del percorso del blocco, distanza fra i rimbalzi, distanza della traiettoria dal piano di campagna, energia del blocco durante le fasi di caduta, rimbalzo, rotolamento, scivolamento.

L’analisi cinematica, relativamente semplice in sé, richiede la conoscenza di parametri sperimentali, mediante i quali calibrare la modellazione numerica; questi possono essere ottenuti da appositi esperimenti di caduta nel sito d’intervento. Il rilievo delle discontinuità sulle pareti rocciose, dalle quali i blocchi possono distaccarsi, indica le dimensioni medie dei blocchi che è necessario prendere in considerazione.

I principali interventi riguardano la sgradonatura della scarpata, in modo da intercettare e arrestare il blocco prima che questo possa raggiungere la zona da difendere, lo scavo di fossati nella zona di prevedibile impatto, l’installazione di barriere paramassi, la costruzione di gallerie paramassi. In tutti questi casi, i provvedimenti hanno lo scopo di disperdere, ovvero assorbire, l’energia cinetica che il blocco ha acquistato lungo il percorso di caduta.

Le differenze fra i diversi metodi per la previsione del percorso dei blocchi traggono origine dalle ipotesi adottate, che attengono principalmente alla geometria del blocco e all’eventuale complanarità della traiettoria. Metodi che considerano l’intera massa del blocco concentrata in un punto non sono in grado di prevedere l’eventuale deformazione del blocco o il momento angolare che al medesimo viene impresso in seguito a un impatto; d’altra parte, il percorso di un corpo in movimento difficilmente può immaginarsi contenuto in un piano sul quale il blocco impatta ripetutamente, dal momento che la sua traiettoria è fortemente influenzata dalla morfologia locale del versante e dalle caratteristiche fisico-meccaniche dei blocchi in moto e dei terreni costituenti il pendio.

Gli impatti producono dissipazione di energia a spese del blocco in movimento; la dissipazione si manifesta con distorsioni e rotture dei corpi a contatto, generazione e propagazione di onde di deformazione nel terreno, resistenza allo scivolamento e al rotolamento sul versante. Nel complesso, la capacità di rimbalzo del blocco è solitamente descritta dal coefficiente di restituzione, indice della dissipazione d’energia in seguito all’impatto: tale coefficiente è definito dal rapporto fra le velocità del blocco prima e dopo l’impatto. Una migliore descrizione del fenomeno si ottiene assegnando due coefficienti di restituzione: il primo per definire il rapporto fra le velocità tangenziali; il secondo per l’analogo rapporto relativo alle componenti normali alla superficie su cui avviene l’impatto.

Per la modellazione del moto si può, in definitiva, ricorrere alla cinematica del corpo rigido (con opportuni coefficienti correttivi per tener conto della deformabilità del blocco e della superficie di impatto) introducendo fra i dati necessari la velocità iniziale, i coefficienti di attrito allo scivolamento e al rotolamento, i coefficienti di restituzione.

Per l’analisi numerica de) fenomeno di distacco dei blocchi dall’ammasso roccioso al quale appartengono, si rivelano utili alcuni codici di calcolo, specificamente implementati per trattare la risposta di un sistema di blocchi (e segnatamente il sistema di spostamenti relativi) all’applicazione di sollecitazioni esterne o alla modifica delle condizioni al contorno; fra questi, ben noto è il cosiddetto Metodo degli Elementi Distinti (DEM).

9.6.1 – Dimensionamento di opere paramassi

I risultati dello studio sulla cinematica, e in particolare le informazioni sulle traiettorie e sull’energia cinetica dei blocchi in caduta, condizionano la scelta della posizione della barriera, delle sue dimensioni e dei materiali con i quali la stessa deve essere realizzata.

Il progetto viene sviluppato mettendo in relazione il lavoro di deformazione compiuto sulla struttura destinata a opporsi al moto del blocco con l’energia cinetica posseduta dal blocco al momento dell’impatto.

Nell’ipotesi che la struttura lavori in campo elasto-plastico, si può utilizzare la seguente formula per calcolare l’aliquota di energia assorbita dalla medesima per deformarsi di una quantità assegnata:

Pu(Yu – 1/2Ye) = E/(M/m + 1)/mv3/[2(M/m + 1)]

dove Pu il carico ultimo della struttura; Yu spostamento plastico della struttura; Yr = spostamento elastico della struttura; E l’energia cinetica di un blocco di massa m animato dalla velocità vM = massa della struttura. Per le barriere si utilizzano rotaie ferroviarie, rilevati di materiali sciolti, reti metalliche sospese a cavi, a loro volta collegati a pali infissi nel terreno.

Fig. 9.21 – Esempio di stabilizzazione di un pendio. L’intervento è differenziato per garantire la stabilità a breve (palancolata) e a lungo termine (dreni).

Le barriere di rotaie ferroviarie sono piuttosto rigide; a esse competono energie di deformazione alquanto basse (~ 30 kNm), corrispondenti all’energia d’impatto di un blocco di 0.5 t animato da una velocità di 10÷12 m/s. Al contrario l’energia assorbita dalle reti varia col tipo e col materiale; i produttori che commercializzano queste strutture dichiarano valori dell’energia assorbibile da 1 102 fino a 1 103 kNm per le reti ad alta resistenza.

9.6.2 – Tipologie d’intervento

Nella Fig. 9.21 sono illustrati i criteri adottati per la stabilizzazione di un pendio in materiali colluviali da incidere con lo scavo per un impianto industriale.

Per effettuare lo scavo in sicurezza e garantire la stabilità a breve termine viene realizzata dapprima una palancolata tirantata, con lo scopo di bloccare il piede del pendio e l’inizio della rottura progressiva; viene poi installato un complesso sistema drenante, costituito da dreni di sabbia verticali e cunicoli per ridurre le pressioni neutre. All’intervento di drenaggio restò affidato il compito della stabilizzazione permanente.

In situazioni geologiche e geotecniche complesse, l’interprelazione del fenomeno e la caratterizzazione meccanica del sottosuolo possono lasciare ampi margini d’incertezza, anche dopo indagini approfondite. In tali casi la progettazione geotecnica viene sviluppata in modo più articolato, prevedendo soluzioni che vengono rese operative con gradualità dopo un adeguato piano di misure e controlli in corso d’opera. Quest’ultimo modo di procedere è anche delineato nella vigente normativa geotecnica nella quale si riconosce l’esigenza di proseguire le indagini in corso d’opera per il controllo delle ipotesi di progetto, e per adattare, se necessario, le opere previste alle situazioni che si vanno definendo durante la costruzione.

L’esperienza dimostra l’utilità dì una strategia basata sul criterio dì porre il fenomeno sotto osservazione, con lo scopo di controllare con idonei strumenti la risposta meccanica globale del pendio a note variazioni di fattori legati alle cause, dalle quali il dissesto presumibilmente dipende. Il metodo può essere perfezionato con un intervento sussidiario. Una volta individuato (almeno nelle linee principali) un modello del fenomeno, si studiano una soluzione base e una soluzione sussidiaria che con la prima deve essere congruente e integrativa; precisati i controlli necessari per verificare la validità della soluzione base e i valori ammissibili per le grandezze oggetto delle misure, se la soluzione base non è sufficiente, si adotterà in variante la soluzione sussidiaria.

9.7 – Sistemi di protezione delle scarpate vincolate a manufatti stradali

Le scarpate in taglio e quelle dei rilevati sono soggette ad erosioni, smottamenti, rotolamenti, cedimenti e frane che per la stabilità dei manufatti associati e la sicurezza del traffico vanno evitati. I metodi di prevenzione (alcuni dei quali già visti) sono :

–       l’adozione del corretto angolo d’inclinazione;

–       la costruzione di drenaggi di superficie e di profondità;

–       il gradonamento del piano di appoggio del rilevato se inclinato;

–       la formazione di banchine longitudinali;

–       l’iniezione di sostanze coagulanti;

–       le terre armate e gli ancoraggi;

–       le gabbionature e i muri di sostegno.

9.7.1 – Inclinazione delle scarpate

Come visto, in un terreno dotato di attrito e coesione la formazione di una scarpata stabile è possibile se la pendenza non supera un ben determinato valore che dipende appunto dai suddetti parametri di resistenza e dall’altezza della scarpata.

La coesione delle rocce compatte consente l’impiego di scarpate anche verticali ed eventualmente di strapiombi; l’angolo di sicurezza decresce col diminuire della compattezza ed a ciò contribuisce notevolmente l’infiltrazione delle acque sia favorendo fenomeni di slittamento di superfici che con l’azione meccanica dovuta ai loro cambiamenti di stato.

Nelle terre non coesive (sabbie, ghiaie etc.) l’angolo di attrito (che corrisponde nelle condizioni di minima compattezza all’angolo di equilibrio) non è molto influenzato dal grado di umidità bensì dalla granulometria e dalla rugosità della superficie dei grani; è compreso normalmente fra 30°÷50°.

Nelle sabbie fini e nei limi (< 2 mm) in assenza di argilla l’acqua, per effetto della capillarità induce a coesione e conseguente resistenza al taglio che manca se il materiale è asciutto.

Nelle terre argillose, con tenore di acqua inferiore al limite liquido, per effetto delle reciproche attrazioni molecolari si ha una certa resistenza al taglio che cessa tuttavia con l’aumento dell’umidità; il materiale diventa plastico e, praticamente, un angolo d’equilibrio non esiste.

Valori indicativi dell’angolo d’equilibrio da adottare nelle scarpate sono riportati nella Tab. 9.2 per quanto,nel caso di altezze notevoli sì debbano stabilire caso per caso ricorrendo eventualmente sia in taglio che in rilevato a banchine longitudinali (m 0.7÷1.2 di larghezza) ed a scarpate decrescenti.

Tab. 9.2 – Angolo d’equilibrio delle terre (Φ).

9.7.2 – Rivestimenti

Preservano le scarpate dai fenomeni erosivi e sono di vario genere; i rivestimenti erbosi o arbustacei, visti in precedenza, al pregio dell’economia e semplicità d’esecuzione uniscono quello della durata.

Fig. 9.22 – (sx) Trincea filtrante trasversale per il drenaggio dei gradoni: spe) tratto permeabile; sim) strato impermeabile; g) gradoni con sovrastante strato drenante in ghiaia; tf) trincea filtrante. (dx) Captazione di una sorgente con dreno longitudinale e scarico nel pozzetto della cunetta stradale.

Quando non si ricorre alle piote erbose tuttavia, nel periodo che va dalla semina al completo sviluppo delle piantine, la scarpata del rilevato è esposta all’azione delle acque provenienti dalla piattaforma stradale; l’inconveniente può essere evitato convogliandole, mediante arginelli longitudinali al bordo delle banchine, in canalette (Fig. 9.23) che, disposte ad opportuni intervalli e seguendo la linea di massima pendenza della scarpata, le allontana dalla sede stradale.

 

Fig. 9.23 – (sx) Canalette o doccioni in elementi prefabbricati; (dx) Arrangiamento dello scarico delle acque in una banchina di scarpata.

Le stuoie antierosione (Curlex blankets) costituite da riccioli di legno di pioppo fissati ad una rete di plastica biodegradabile sono ideali per mantenere le condizioni ambientali per una rapida crescita dell’erba ritenendo l’umidità, evitando i bruschi sbalzi di temperatura ed impedendo alle gocce di pioggia di provocare l’erosione della scarpata

Le reti metalliche possono essere impiegate per la protezione di rilevati (nel qual caso è necessario ricoprire preventivamente la superficie della scarpata con scaglie rocciose) e più frequentemente per impedire la caduta di massi e detriti da scarpate in sterro di roccia sciolta o degradata. S’impiega usualmente rete metallica a maglia esagonale (6×8 o 8×10 cm) di fili a doppia zincatura Ø 3 mm con resistenza a trazione ≥ 4 103 kg/cm2 che viene posta in opera dopo che la scarpata in taglio è stata pulita e regolarizzata.

Due sono i metodi d’ancoraggio della rete a seconda tipo di terreno da ricoprire:

–       se il materiale è tenero é friabile, la rete é fissata alla sommità della scarpa mediante una barra orizzontale e lasciata cadere fino a circa 50 cm dal piede senza fissarla in modo che i detriti si depositino lentamente su di una sottostante banchina appositamente predisposta :

–       alternativamente la rete è fissata anche lungo la scarpata con file verticali di cavalletti costituiti da spezzoni Ø 8÷10 mm ad intervalli di ~ 3 m.

geotessili trovano sempre più largo uso nel rivestimento delle scarpate. La stuoia è composta da una leggera rete in polimero che mantiene insieme delle fibre naturali di paglia o di cocco; al di là dell’effetto piacevole, si rivela resistente anche alle forti precipitazioni mentre col tempo le fibre imputridiscono fertilizzando un terreno e facilitando quindi l’inerbimento.

Le stuoie sono acquisibili in rotoli lunghi 30 m del peso di ~20 kg che, a richiesta, contengono già i semi delle varie essenze per l’inerbimento.

Rivestimenti più impegnativi, limitati per ragioni di costo a pochi casi, sono quelli in pietrame a secco o con malta di cemento utilizzando sia elementi irregolari per forma e dimensioni (rip-rap) che blocchi squadrati nel qua! caso il rivestimento ha una durata maggiore (Fig. 9.24 e 9.25).

La premessa per un’opera duratura è la buona compattezza del terreno d’appoggio se si tratta di un rilevato.

Fig. 9.24 – Drenaggio nella cunetta stradale di un rivestimento in pietrame su una parete di taglio.

Più pratiche sono le mantellate di rivestimento, composte di lastre piene di cm 25×50 spessore 5 cm, oppure di griglie di dimensioni maggiori, prefabbricate in calcestruzzo vibrato e che sono provviste di speciali giunti nei quali è possibile inserire un tondino Ø 6 mm nei due sensi da annegare poi nella malta con la successiva sigillatura dei giunti stessi.

Più di rado si ricorre a solette in cemento armato per proteggere più efficacemente il rilevato se si teme una violenta azione dell’acqua di ruscellamento.

Le iniezioni di poliuretano sono utili quando la roccia della scarpata in sterro tende a staccarsi.

Fig. 9.25 – Rivestimento in pietrame su letto di sabbia. Particolare del drenaggio del fondo.

Si perfora prima la parete con fori Ø 4 cm profondi fino a 3 m se necessario e spaziati a 1.5÷2.5 m. Il prodotto si compone di due liquidi che vengono pompati simultaneamente dal mixer dell’apposita macchina entro i fori con una lancia. Indurisce in poche ore (95% della presa nelle prime 2 h) ma all’inizio é molto fluido per consentirne l’infiltrazione nelle fessure della roccia.

La spruzzatura di malta cementizia o gunitatura si realizza sulla parete alla quale è spesso preventivamente applicata una rete metallica. Col termine si intendono delle aste o trefoli d’acciaio che, munite agli estremi di particolari dispositivi, sono introdotti in fori praticati nella parete rocciosa fino a superare il previsto cuneo di slittamento, con lo scopo di fissare la parte instabile a quella compatta retrostante. Con tale tecnica, a mezzo della quale si aumenta anche la coesione e l’angolo di attrito della roccia, si possono consolidare versanti franosi, mantenere scarpate molto ripide nelle trincee stradali riducendo così il volume degli scavi e l’area occupata e stabilizzare le superfici di scavo delle gallerie.

I vari tipi di ancoraggio comprendenti i chiodi, gli stabilizzatori, i bulloni e i tiranti, hanno in comune una parte cementata o ancora ed una parte libera (salvo i tipi descritti in seguito) sottoposta a trazione.

chiodi rappresentano la forma più semplice di ancoraggio. Sono costituiti da spezzoni di tondino di ferro che introdotti nel foro previamente praticalo nella parete (1.5÷2.0 m max) vengono poi fissati per la loro lunghezza con malta cementizia o, più frequentemente, con resine che induriscono rapidamente in presenza di un catalizzatore.

I chiodi (Fig. 9.26) sono utilizzati per ricucire la parete rocciosa appena formata e per reggere le reti metalliche.

Un’alternativa ai chiodi sono i cosiddetti stabilizzatori (rock stabilizers) che consistono in un tubo di acciaio ad alla resistenza, taglialo lungo la sua lunghezza che varia da 0.8÷3.0 m.

L’estremità che va introdotta nel foro è rastremata mentre all’altra e saldata una flangia.

Fig. 9.26 – Chiodi: tipologie e terminologia.

Essendo il diametro del tubo Ieggermente maggiore di quello del foro, lo stabilizzatore è forzato al suo interno mantenendo unita la roccia per la forza d’attrito. Alla flangia può essere applicato uno speciale piallo per aumentare il volume della massa contenuta.

Sulla serie di tubi infissi vengono poi effettuate, ad intervalli, delle prove di tenuta a mezzo di martinetti che esercitano una forza di ~10 t tendente ad estrarre il tubo.

bulloni che raggiungono profondità maggiori dei chiodi sono di 2 tipi:

– i bulloni ad ancoraggio puntuale, costituiti da un’asta che viene tesa tra l’ancoraggio in fondo al foro e la testa bloccata sul paramento (Fig. 9.26.B)

– i bulloni ad ancoraggio ripartito richiedono l’impiego di una barra di acciaio ad aderenza migliorala, sigillata per tutta la lunghezza da una resina che viene attivata da un catalizzatore.

II bullone ad ancoraggio puntuale è adatto nelle gallerie a forte copertura e negli ammassi stratificati dove, applicando uno sforzo normale ai piani di stratificazione, si migliora la resistenza al taglio. Si rivela invece sconsigliabile nelle rocce poco resistenti per la possibilità che l’ancora, col tempo, si sfili dal foro. La testa dell’ancora, funzionante ad espansione, varia con la tipologia di produzione: comune è il modello a cuneo in cui l’allargamento della testa è ottenuto appunto da un cuneo che viene tirato dall’esterno lungo uno spacco dell’asta. La posa in tensione del bullone viene effettuata con una chiave dinamometrica; la posa in opera é pertanto rapida e l’effetto immediato.

bulloni ad ancoraggio ripartito (grouted bolts) sono adatti negli ammassi rocciosi fessurati di resistenza media ed anche debole purché provvisti di sufficiente coesione; infatti la resina o la malta di cemento vanno a riempire le discontinuità della roccia rendendola più omogenea ed aumentandone la resistenza. La resina è poco consigliabile in presenza d’acqua per il pericolo di una sua polimerizzazione e pertanto, in questa eventualità, va sostituita con la malta di cemento a presa rapida ed alta resistenza con aggiunta dell’additivo che la rende plastica ma non troppo liquida da uscire dal foro. Va comunque pompata a bassa pressione per impedirne una eccessiva espansione nell’ammasso e quindi una sua impermeabilizzazione che aiuterebbe il normale drenaggio. I diametri dei bulloni ad ancoraggio ripartito sono usualmente di 20 e 25 mm per fori varianti da 32 a 46 mm.

Fig. 9.27 – Schema di un ancoraggio: Lp = lunghezza passiva che sottende lo spessore di roccia instabile; La = Lunghezza attiva entro la roccia compatta; A = Asta; B = Dado; C = Piastra dì ripartizione; D = Raccordo in cls di cemento; F = Fodero; F = Ancora o fondazione o bulbo.

La loro lunghezza e densità è basata interamente sull’esperienza avvalendosi dall’auscultazione durante i lavori. A titolo indicativo, a questo riguardo, si riporta la Tab. 9.3.

Tab. 9.3 – Lunghezza minima dei bulloni.

Per quanto riguarda la spaziatura è opportuno scegliere il minore tra -2.0 – 2.5 m e -0.5 volte la lunghezza del bullone.

tiranti rappresentano la forma più elaborata di ancoraggio e possono essere del tipo passivo od attivo: i tiranti passivi vengono messi in trazione dagli effettivi movimenti delle strutture ancorale e cioè con l’inizio del processo di distacco del cuneo di spinta; i tiranti attivi o pretesi impediscono il formarsi del cuneo di spinta.

La scelta del tirante, per la quale è essenziale l’esperienza, è in funzione del tipo e delle caratteristiche della roccia. L’asta (o tendine) può essere costituita da un tondino di acciaio oppure da un trefolo di fili d’acciaio con carico di rottura minimo di 10.5 103 kg/cm2.

Il tondino è meno soggetto alla corrosione sotto sforzo che si verifica sopratutto nel tratto immediatamente inferiore al tampone di separazione tra il tratto scorrevole e quello aderente e pertanto nelle tirantature permanenti, la fondazione del tirante deve essere protetta con guaine (pvc) solcate da grecature così da trasmettere gli sforzi di ancoraggio dalla malta interna a quella esterna e quindi al terreno.

Fig. 9.28 – Ancoraggio del corpo stradale in versante instabile o molto ripido.

Nei tipi più semplici, l’estremità esterna dell’asta è filettata e la tensione è ottenuta con un dado che appoggia su di uno speciale piatto a scanalature e che viene avvitato fino a portare la tensione ad un livello pari alla metà del valore accertato di rottura.

Negli ancoraggi di profondità che possono arrivare a 70÷80 m ed oltre con un bulbo d’ancoraggio di 12÷15 m e tiri utili dell’ordine di 150÷200 t l’apparecchiatura è più elaborata e varia a seconda dei brevetti (Dywidag, Tirsol).

Fig. 9.29 – In A) bulbo di ancoraggio e sacco otturatore di un tirante Tirsol; B e C) rispettivamente, la sezione trasversale del tirante nella parte ancorata e in quella libera.

Essa è comunque sostanzialmente composta:

–       dalla parte cementata o bulbo d’ancoraggio che contiene un tubo centrale in pvc comune alla parte libera in trazione e che è munito per la parte cementata di valvole di iniezione (o manchettes);

–       dalla parte libera da sottoporre a trazione;

–       da un otturatore o tappo (nel modello Tirsol gonfiabile) destinato ad impedire la risalita della miscela d’iniezione; attorno al tubo centrale sono disposti i trefoli d’acciaio tenuti in posizione da distanziatori e protetti nella parte libera da resina epossidica anticorrosiva (applicata prima del montaggio del tirante) nonché da una guaina flessibile che avvolge il tutto;

–       da una testata formata da una piastra di ripartizione in metallo con foro centrale e fori laterali cui fanno capo i trefoli coi relativi morsetti d’ancoraggio; la piastra può essere alloggiata in una nicchia ricavata nella roccia oppure su un elemento prefabbricato in cemento armato (Fig. 9.30).

Fig. 9.30 – Testata di tirante con crociera in cemento armato prefabbricata che alloggia al centro la piastra metallica per i trefoli e testata a nicchia.

9.7.3 – Posa in opera degli ancoraggi attivi

Quando si voglia fissare una zona suscettibile di franare (Fig. 95) i tiranti sono disposti con diverse lunghezze ed inclinazioni così da interessare il massimo volume di roccia solida.

Quando si temono frane in corso di scavo, il tirantaggio (come d’altra parte tutti gli ancoraggi) segue da vicino il suo progresso e le due operazioni dovranno essere sincronizzate, rallentando eventualmente il ritmo dello scavo quando la posa dei tiranti ritardasse.

Stabiliti numero e disposizione dei tiranti, le diverse fasi di posa sono:

–       esecuzione del foro con perforatori a percussione o rotativi a distruzione di nucleo utilizzando se il caso lo richiede fanghi di perforazione a base di bentonite o miscele di polimeri;

–       introduzione del tirante (se molto lungo le difficoltà sono notevoli);

–       attivazione del tappo di separazione;

–       iniezione a pressione (fino a 10÷15 atm) della miscela cementante nell’ancora usufruendo del tubo centrale in pvc e procedendo per sezioni di 50÷100 cm per dar modo alla miscela che usualmente è composta da 50 kg di cemento per 20 l d’acqua e 1 kg di materiale espansivo che annulla il ritiro della malta, di penetrare nelle eventuali fessure della roccia;

–       posa della testata del tirante riempiendo con calcestruzzo la nicchia od applicando la crociera prefabbricata;

–       tensionamento dei trefoli con martinetti oleodinamici: si tesa prima ogni singolo trefolo fino a 2 t per correggerne eventualmente la posizione poi si tesano tutti assieme fino al carico finale previsto; l’operazione è effettuata a 5÷10 g di distanza dall’iniezione di malta nel bulbo di ancoraggio;

–       riempimento dell’interno della guaina flessibile con malta di cemento più attivante; attraverso le valvole d’iniezione poste al fondo della parte libera del tirante la malta risale avvolgendo i trefoli; (a volte prima di questa operazione può essere necessario ritensionare il tirante).

Fig. 9.31 – Bloccaggio di una frana mediante tiranti.

9.7.4 – II calcolo degli ancoraggi

L’utilizzazione degli ancoraggi in un cantiere deve essere preceduta da prove per determi­nare la portata dell’ancora (e non dell’asta o del cavo d’acciaio o dei trefoli) con riferimento al carico previsto e tenendo in conto un adeguato margine di sicurezza.

La prova viene effettuata utilizzando i medesimi equipaggiamento e asta successivamente impiegati, secondo le previsioni, sulla parete da rinforzare ma su di un corpo che è soltanto i 2/3 della lunghezza prevista e ciò per permettere di accertare il carico di rottura dell’ancora senza eccedere !a capacità del tendine.

Dai risultati delle prove è possibile quindi calcolare la resistenza per metro lineare di ancora e stabilire un adeguato fattore di sicurezza (usualmente assunto = 1.5).

Si impiegano martinetti idraulici provvisti di flessimetro che registra i movimenti con una precisione di 0.025 mm; si applicano carichi sempre maggiori fino a superare quello di progetto per poi ridurli fino a 2/3 dello stesso (Fig. 9.32).

L’asta si muove lentamente ad ogni incremento di carico ed un cedimento improvviso indica che si è raggiunta la massima resistenza dell’ancora o che è giustificato un carico minore.

Fig. 9.32 – Diagramma dei carichi e corrispondenti movimenti dell’asta.

L’interpretazione dei risultati, per quanto ottenibile attraverso calcoli teorici è sopratutto affidata all’esperienza del tecnico che effettua le prove. Osservando la Fig. 9.33:

– se T é la risultante per metro lineare di lunghezza della scarpata, i l’intervallo verticale tra gli ancoraggi ed n il numero degli ancoraggi su una fila verticale, Io sforzo su un ancoraggio è To = T i/n;

– essendo La la parte attiva dell’ancoraggio, D il suo diametro, c la coesione della roccia ed f il coefficiente d’attrito, la forza resistente per unità di lunghezza attiva è Tr/La = f c π D;

– fissato pertanto l’intervallo i sulla base del grado di fratturazione della roccia, il numero n degli ancoraggi in una fila verticale e la lunghezza attiva La, vengono stabiliti assicurando le seguenti condizioni: La compreso entro 3÷5 m; Tr/T0 > 2.

Fig. 9.33 – Diagramma dei carichi.

La prima limitazione è dovuta al fatto che l’esperienza ha dimostrato che, oltre una certa lunghezza, la forza resistente non aumenta linearmente con l’incremento di La mentre la tenuta di un’ancora troppo corta è aleatoria. Fissato il valore di La, la lunghezza passiva Lp è stabilita in base al disegno della scarpata, alla posizione del piano di frattura e dell’ancoraggio e dal possibile valore di Y (che tiene conto della irregolarità del piano di frattura); essa è data da (L0+Y) in cui L0 e ricavato dal diagramma di Fig. 9.34 in base al tipo di roccia.

Fig. 9.34 – Diagramma per il calcolo della lunghezza passiva L0.

Gli ancoraggi vengono distribuiti uniformemente lungo l’altezza della scarpata partendo col primo ad una distanza dal piede di essa pari all’intervallo i lasciando una parte della parete in sommità libera per un’altezza pari a 2÷5 volte i (Fig. 9.35) si distinguono pertanto cinque tipi rappresentativi di roccia:

– tipo A:roccia poco fratturata                     peso   2.4 t/m3                  φ = 35°       c’ = 20 t/m2    2.3

– tipo B:roccia fratturata                              peso   2.3 t/m3                  φ = 30°       c’ =15 t/m2     2.3

– tipo C roccia decomposta                         peso   2.0 t/m3                  φ = 27°       c’ =  1 t/m2     2.3

– tipo D detriti ad elementi fini                     peso   2.1 t/m3                  φ = 30÷40° c’ = 0÷3 t/m2  2.3

– tipo E:detriti ad elementi grossi                peso   2.1 t/m3                  φ = 45÷50° c’ =   7 t/m2    2.3

Fig. 9.35 – Disposizione degli ancoraggi.

Sulla base di questa distinzione si suggeriscono nella Fig. 9.36 gli elementi per il corretto disegno della sezione trasversale del taglio e per il dimensionamento degli ancoraggi nel due casi (tipo A e tipo B) in cui possono essere applicati. tenendo presente il valore indicativo dei dati forniti.

9.7.5 – Gabbionate e muri di sostegno

Per gabbioni si intendono dei contenitori in rete metallica di forma usualmente parallelepipeda che vengono riempiti con ciottoli o pietrame nella posizione di impiego e disposti in uno o più ordini per formare muri di sostegno, opere di difesa fluviali etc. Le caratteristiche dei contenitori in rete metallica a maglia esagonale a doppia torsione di filo di ferro zincato sono riportate nella Tab. 9.4.

Tab. 9.4 – Caratteristiche dei gabbioni.

Fig. 9.36 – Linea corretta per taglio e dimensionamento d’ancoraggi.

I ciottoli di fiume od il pietrame da spacco non debbono avere dimensioni < 10÷15 cm e vanno assestati con cura (ideale è l’assestamento a mano sebbene lento e costoso) ad evitare successivi movimenti del materiale entro il gabbione che potrebbero rompere, sotto il peso, la rete metallica compromettendo la stabilità della costruzione.

I gabbioni risultano molto adatti per il sostegno di terre instabili, su fondazioni dubbie, in zone sismiche, sulle rive dei corsi d’acqua, per la loro flessibilità ai cedimenti. Si distinguono:

– muri di sostegno propriamente detti, che sostengono il corpo stradale in rilevato e il cui piano di coronamento è alla stessa quota della banchina stradale (con eventuale parapetto);

– muri di sottoscarpa che sostengono il rilevato senza però arrivare alla quota di banchina;

– muri di controripa per il sostegno del piede delle scarpate in taglio e che possono essere a contrafforti (interni o esterni);

– muri di paramento con compito di solo rivestimento di pareti poco consistenti.

I muri di sostegno e di sottoscarpa sono soggetti anche agli sforzi dinamici creati dal traffico. I muri di sostegno, come visto (Vol. 2°) sono costruiti in pietrame a secco oppure legato con malta di cemento, in calcestruzzo di cemento, in cemento armato, in elementi prefabbricati in c.a. ed in gabbioni. Scelto il tipo di sezione, il dimensionamento del muro può essere fatto con procedimento analitico e più frequentemente con formule empiriche; esso è soggetto a due forze, quella dovuta al peso proprio e quella dovuta alla spinta delle terre e pertanto è sollecitato prevalentemente a pressione, a flessione ed a taglio.

II drenaggio a tergo del muro di sostegno è molto importante e di conseguenza deve essere efficace e duraturo. Oltre ai fori ricavati nel corpo del muro (dimensioni minime 10×10 cm) a diverse altezze ed a file sfalsate con distanze tra foro e foro di 2÷4 metri le acque devono filtrare attraverso un vespaio interposto tra il muro ed il terreno, preferibilmente in misto granulare o pietrame con alla base una cunetta che scarica longitudinalmente.

Il vespaio deve poi essere ricoperto superiormente con uno strato di terreno impermeabile (argilla) ben costipato per evitare la penetrazione delle acque superficiali di scorrimento.

Fig. 9.37 – Muri di sostegno ad elementi prefabbricati.

9.7.6 – Muri di sostegno ad elementi modulari prefabbricati

Questi muri, detti anche cellulari, utilizzati da tempo all’estero, si sono affermati anche in Italia per la loro praticità. Infatti, oltre alle diverse possibilità d’impiego (a sostegno di scarpate, arginatura di corsi d’acqua, sbarramenti anche provvisori essendo gli elementi ricuperabili) offrono il vantaggio del facile trasporto in situ, anche in terreni accidentati, degli elementi che li compongono, della semplicità di montaggio dei medesimi e soprattutto della possibilità della struttura di adeguarsi senza danni ad eventuali limitati cedimenti del terreno d’appoggio.

In Italia esistono alcune varianti a questo tipo di muro; tra le più note, il muro FEI i cui blocchi prefabbricati (m 1.2×1.2 e m 0.7 di profondità) possono essere, nella faccia vista, lisci, bugnati o rigati e vanno messi in opera collegati tra loro con speciali spine di acciaio.

In Fig. 9.38 è riportato questo tipo di muro che, nel caso di notevole altezza e poca inclinazione richiede l’impiego di tiranti con blocco di ancoraggio all’estremità, anch’essi in c.a., che vanno inseriti nel terreno naturale per profondità variabili da m 4.0÷5.0 e più ed interassi da m 2.4 a 6 ed altezze massime della struttura ~10 m.

Fig. 9.38 – Muro di sostegno cellulare tipo FEI. A) blocchi prefabbricati; T) tirante; B) blocco d’ancoraggio; F) dado di fondazione in calcestruzzo anche non armato.

9.8 – Opere di difesa di versanti su manufatti stradali

9.8.1 – Attraversamenti di zone erosive

Si possono distinguere le misure intese ad arrestare il progresso dell’erosione, quelle per stabilizzare il fondo delle varie branche che la compongono ed infine le misure di rafforzamento delle scarpate e dei drenaggi appartenenti alla strada, già descritte nei paragrafi precedenti, ricordando che le pendenze, specie se in presenza di limo e loam, vanno tenute al minimo ad evitare gli effetti deleteri dell’acqua in velocità.

Tra le prime, oltre ad un sistema dì fossetti a livello con arginelli provvisti di sfioratori che circoscrivono a monte la zona di erosione si devono prevedere dei fossi direzionali ed eventualmente piccole briglie che portano l’acqua ad una struttura di apice allo scopo di evitare l’avanzamento di quest’ultima. A propria volta tale struttura si compone di una serie di gradini e di una briglia di contenimento di un piccolo bacino.

I letti erosivi veri e propri si stabilizzano ricorrendo, nelle regioni ricche di legname, a palificate preferibilmente di tronchi verdi oppure a gabbioni così da formare delle briglie di varia altezza e di larghezza tale da penetrare per almeno 1 m nella scarpata naturale ad evitare all’acqua pericolosi by-pass. L’intervallo delle briglie dovrebbe essere tale che la sommità di ognuna sia al livello o quasi della base della precedente a monte. Tra le misure a tempi lunghi non va poi dimenticata la opportunità del rimboschimento della zona ricorrendo a quegli alberi e sopratutto cespugli che meglio attecchiscono nella regione.

Quando la strada attraversa una gola od una forra di natura erosiva con un rilevato che non eccede i 10÷12 m, si può prevedere un bacino a monte della strada da utilizzare, nei periodi di scarse precipitazioni, a scopi agricoli o altro. In tale evenienza, la strada deve possibilmente attraversare il corso d’acqua ad angolo retto e nel punto più stretto dopo aver accertato la natura del sottosuolo con sondaggi fino a 10 m di profondità.

Calcolato il volume prevedibile d’acqua, il rilevato viene pertanto a comportarsi come una diga la cui altezza deve essere ~ 1 m al di sopra del massimo pelo d’acqua del bacino. Per la sua costruzione le terre comuni contenenti un livello pari al 50÷60% di sabbia si rivelano le migliori. Il lato a monte viene usualmente ricoperto con uno strato di pietrame o ciottoli mentre quello a valle con piote erbose.

La differenza tra la sezione di un rilevato stradale normale e quella di un rilevato col compito di diga consiste soltanto nelle scarpate dolci del secondo, il cui valore dipende comunque dalla altezza e dal tipo di materiale.

La discarica delle acque di piena oppure per lo svuotamento parziale o totale del bacino è ottenuta con un acquedotto al fondo della diga provvisto all’imbocco di una torre-sfioratore (per mantenere costante il pelo d’acqua del bacino) dalla quale si può manovrare la paratoia di chiusura dell’imbocco stesso.

9.9 – Attraversamenti di versanti soggetti a caduta di massi

A seconda delle dimensioni dei massi rocciosi instabili gli interventi si differenziano:

a) se la dimensione massima è dell’ordine di 5÷10 m3 si ricorre prima al disgaggio che consiste nel rimuovere i massi più pericolanti riducendoli eventualmente di volume prima di farli precipitare; quindi proteggendo la strada e/o le strutture con barriere paramassi ad alta deformabilità (Fig. 9.39) disposte eventualmente anche in due ordini a distanza di 10÷30 m.

Le eventuali rotture della rete sono facilmente riparabili utilizzando appositi morsetti.

b) Se le dimensioni dei massi sono notevoli si ricorre al collaggio degli stessi alla parete sana con resine epossidiche e con l’ancoraggio.

Nel primo caso, effettuate le necessarie prove incollando due spezzoni di roccia con la resina epossidica e sottoponendo il provino a trazione, si ripulisce !a parete rimuovendo le piccole scaglie e raschiando le superfici di contatto prima di fissarle con la resina che, con la sua azione passiva, non altera lo stato di equilibrio del diedro.

Fig. 9.39 – Rete paramassi vista in prospetto, in sezione ed in particolare.

9.10 – Protezione dalle valanghe

Le valanghe, come noto, sono masse nevose che possono raggiungere le decine di migliaia di m3 le quali, perduta l’adesione al materiale su cui poggiano, precipitano lungo la scarpata precedute da un’onda d’aria che può causare distruzione anche dove la valanga vera e propria non è giunta. Le cause delle valanghe sono diverse; la densità della massa nevosa (omogenea o stratificata) può variare da 50 a 800 kg/m3 aumentando verso la fine dell’inverno per un processo di ricristallizzazione e quindi di aumento dei cristalli di neve.

Dalla differenza di temperatura (10÷15°C) tra lo strato più alto e quello più profondo si crea un movimento di vapore acqueo dal basso all’alto per cui i cristalli sono distrutti e la base della massa nevosa si discioglie.

In altri casi quando la neve è asciutta, e l’aderenza è quindi minima, basta un colpo di vento od un’onda sonora per far cadere una cornice nevosa e dar quindi inizio ad una valanga.

Fig. 9.40 – Protezione della strada dalle valanghe, slavine, caduta di detriti etc. mediante una galleria artificiale.

In primavera o durante il disgelo sono frequenti le valanghe di neve bagnata in quanto gli strati inferiori si saturano d’acqua e quindi la massa scivola a valle trascinando con sé detriti, alberi etc. Una prima misura antivalanga è lo studio di un tracciato che eviti le zone che ne sono soggette: presenza di forre molto ripide, depressioni nelle parti alle del bacino dove la neve può accumularsi, declivi esposti a Sud dove essa si scioglie rapidamente durante il disgelo.

Gli esami degli aerofotogrammi e l’ispezione in situ forniscono altri elementi di giudizio: presenza di foreste e di pendii molto ripidi (> 60°) dove per ragioni diverse le valanghe non possono formarsi per la difficoltà che incontra la neve ad accumularsi; al contrario le pendenze più propizie per il fenomeno sono tra i 21° e 24° per la neve secca e ~ 31° per quella bagnata. Le misure di difesa attiva consistono in:

– reti di contenimento lungo i pendii;

– gradonamenti;

– muri di sostegno in pietrame a secco elevati normalmente alla direzione delle valanghe (larghezza 4÷6 m alla base ed altezze 5÷10 m );

 breakers in muratura di pietrame e cemento, a sezione triangolare e disposti angolati di 30÷40°.

La scelta tra i vari metodi è puramente economica dopo avere attentamene valutalo l’ampiezza della zona di distacco delle probabili valanghe ed il loro percorso lungo il quale, per effetto della conformazione del terreno, la valanga potrebbe tendere a restringersi oppure ad aprire a ventaglio.

Nel caso in cui la zona di distacco è limitata e comunque di facile accesso, si cerca di bloccare la valanga al suo inizio ricorrendo ad una o più barriere e ad eventuali paravento dove si presume che il fenomeno abbia origine per rottura delle croste sui crinali esposti al vento.

Le reti vanno disposte normalmente alla linea di massima pendenza del versante e possono essere di tipo rigido con montanti in acciaio (o leghe leggere) e più economicamente con scarti dì binario (Fig. 9.41) oppure, preferibilmente, di tipo elastico tenute da 3÷5 cavi in acciaio (Ø 16÷20 mm) che reggono la rete metallica (Ø 2÷5 mm).

Fig. 9.41 – Telaiatura per interposizione reti lungo pendio.

Per il loro posizionamento e dimensionamento si deve tener conto del prevedibile tipo di valanga.

Si hanno, infatti:

– valanghe di fondo che interessano tutta la coltre nevosa fino alla superficie del terreno e nelle quali la neve è bagnata e quindi più pesante; possono inoltre trascinare nella caduta massi e simili e la velocità di caduta non è elevata (15 m/s max);

– valanghe di superficie che scivolano su sottostanti strati gelati; sono più leggere delle precedenti in quanto il peso non arriva a 350 kg/m3 ma più veloci (fino a 50 m/sec);

– valanghe di neve polverosa, molto leggere (fino a 100 kg/m3) e veloci (fino a 100 m/s), che sono le più temibili per la loro forza d’urto e lo spostamento da esse provocato.

Esiste un rapporto tra l’altezza (h) della rete (variabile entro 2÷5 m), pendenza (υ) del terreno e distanza tra le barriere (d). Poiché il dislivello ottimale delle barriere sembra essere ~15 m e l’angolo di naturale declivio della neve (φ) può assumersi pari a 31° si ha:

d = 15/sen u

che per una rete alta 3 m fornisce una distanza di ~19 m. La spinta S della neve contro la rete, utile per calcolare i sostegni, i puntoni o i tiranti, può essere assunta con la relazione:

S = y h2 sen u      (in Kg/m2)

dove y è il peso specifico della neve (che difficilmente raggiunge i 500 kg/m3).

Da notare che mentre nelle barriere rigide, in cui, cioè, i ritti sono collegati tra loro rigidamente, questi vanno infissi normalmente al terreno o leggermente inclinati a valle, nelle barriere elastiche i ritti sono verticali qualunque sia la pendenza del versante.

paravento o frangivento vengono disposti ad una determinata distanza dalla cresta così da accumulare la neve portata dal vento. Sono costituiti da montanti in profilato alti fino a 5 m controventati da puntoni o tiranti in cavo metallico e collegati tra loro da 3÷4 trefoli e da piattine disposte orizzontalmente ad intervalli col compito appunto di frangivento.

Quando la zona di distacco delle frane è molto ampia, oppure sono di difficile posizionamento le barriere è conveniente ricorrere alle gallerie artificiali quando addirittura non si preveda l’internamento della strada in galleria.

Le gallerie artificiali (Fig. 9.40) debbono essere progettate in modo da favorire il passaggio della valanga evitando l’impatto della massa nevosa sulla loro copertura e facilitandone invece lo slittamento su di essa. La soluzione migliore in tal senso è quella che prevede una pendenza del tetto della galleria almeno uguale a quella del terreno a monte.

9.11 – Attraversamento di terreni salini

Un terreno è definito salino quando lo strato superiore (circa 1 m di spessore) contiene almeno 0.3 % in peso di sali solubili.

Quando i sali sono concentrati negli strati al disotto dei 50 cm dal piano di campagna (ad es. le terre alcaline nere), la loro presenza è causa di notevoli variazioni di volume del terreno e di una sua tendenza ad asciugare molto lentamente.

Quando i sali (soprattutto clorati, solfati e carbonati di Sodio, Calcio e Magnesio) sono in superficie e le precipitazioni sono scarse, possono arrivare a formare uno strato in sommità (particolarmente in regioni aride e depresse dove la poca acqua ristagna) che per il colore biancastro fa attribuire alle terre il termine di alcaline bianche.

Con riferimento ai sali contenuti si possono comunque distinguere tra le terre saline 4 gruppi:

– quelle in cui la vegetazione è del tipo foresta-steppa e contenenti carbonato di sodio (Na2CO3), solfato di sodio (Na2SO4) e silicato di sodio (Na2SiO3);

– le steppe, dove i solfati (Na2SO4) predominano sui clorati (NaCl) raggiungendo livelli del 2-3%.

– i semi-desertici dove i clorati sono invece superiori ai solfati ed in totale lo strato superficiale del terreno può contenere il 5-8%.

– i deserti, contenenti in ordine decrescente: NaCl, NaNO3,MgCl2, MgSO4, CaSO4 per un totale che può arrivare al 20-25%.

L’effetto negativo della presenza dei sali si manifesta in modi diversi:

–       quando il terreno è umido, la sua resistenza ai carichi esterni diminuisce rapidamente ed aumentando il contenuto in acqua le scarpate diventano altamente instabili; ne consegue la necessità d’impiegare le terre saline solo nella parte centrale dei rilevati la cui altezza va incrementata se il livello della falda è vicino alla superficie per evitare un ulteriore aumento della salinità del rilevato per effetto della salita capillare dell’acqua;

–       i sali possono attaccare il materiale della sotto-base e della base distruggendolo in pochi anni; si distinguono al riguardo i solfati di Sodio e Magnesio anche se il loro livello è solo dell’1% mentre i clorati sono molto meno dannosi. Offre una maggior resistenza l’aggregato di origine calcarea nei confronti di quello proveniente da rocce ignee;

–       i sali rendono difficili le applicazioni bituminose facendo percolare od emulsionare il legante; i danni sono ridotti con l’impiego di leganti a caldo e ad elevata viscosità.

9.12 – Difesa della strada dalle sabbie nei deserti

Nelle zone desertiche la conformazione del terreno cambia continuamente per effetto della sabbia mossa dai venti. La Tab. 9.5 indica le dimensioni critiche dei granuli di sabbia, in rapporto alla velocità del vento, al di sopra delle quali la sabbia si solleva.

Tab. 9.5 – Rapporto tra frazioni granulometriche dei sedimenti e Velocità del vento al di sopra delle quali s’innesca il sollevamento eolico della frazione medesima.

L’entità del fenomeno dipende molto dalla regolarità della superficie del suolo: i deserti di origine argillosa o salina piatti e levigati come pure i depositi spessi di sabbia offrono poca resistenza al movimento di quest’ultima.

Le correnti di aria e sabbia sopra le irregolarità del terreno sono accompagnale da vortici e da zone di relativa calma dove la sabbia si deposita formando delle dune la cui mobilità, causata dai granelli spinti lungo la scarpata sopravento e depositati su quella opposta, decresce con !a loro altezza.

La conformazione delle dune varia in funzione di fattori diversi:

–       ai limiti di depositi di sabbie sciolte, dove il terreno è piatto e senza ostacoli, le dune assumono una forma a V coi due bracci volti in direzione del vento, la scarpata sottovento più ripida (26-36°); sono le dune meno stabili;

–       nelle regioni in cui i venti prevalenti invertono la loro direzione due volte al giorno (in estate ed in inverno) si formano le catene irregolari di dune alte fino a 200 m che corrono ad angolo retto con la direzione dei venti;

–       dove invece i venti prevalenti hanno un direzione costante durante l’anno si formano delle lunghe creste parallele, spaziate in media di 180 m e pendenza minima sopravento con strisce, tra duna e duna, in cui la sabbia è pressoché assente;

–       ancora dove i venti sono prevalenti la sabbia può formare collinette isolate, di forma irregolare, alte non più di 6÷8 m ancorate dalla vegetazione;

–       le dune libere del Sahara sono meno alte di quelle dei deserti americani o asiatici e di estensione meno rilevante; tali dune dette barchane sono molto mobili e in grado di superare ostacoli; le più piccole si spostano più velocemente (20÷30 m l’anno).

La quantità di sabbia trasportata dipende dalla forza del vento ed è proporzionale alla sua velocità; è pertanto opportuno, progettando una strada in regioni soggette all’azione delle dune, costruire una Rosa della Velocità dei Venti (detta anche dinamica) che si ottiene (Fig. 9.42) riportando in ogni direzione un vettore che rappresenta la somma dei prodotti dei quadrati delle velocità per la frequenza dei venti, escludendo dai calcoli i periodi in cui la sabbia è in movimento.

Fig. 9.42 – Rosa dei venti dinamica.

Tale rosa risulta molto utile nella progettazione del tracciato che, per quanto possibile, deve essere ispirata ai seguenti concetti:

–       evitare le aree ricche di sabbie sciolte approfittando invece di quelle dove le sabbie sono ancorate dalla vegetazione;

–       scegliere le aree dove la sabbia è più grossa;

–       passare sulla sommità delle dune o meglio tra due catene di dune evitando cioè le mezze coste che richiedono complesse opere di stabilizzazione;

–       evitare le zone dove l’accumulo di sabbia si rivela più facile;

–       le scarpate del rilevato stradale dovranno essere molto piatte (1 su 4÷5);

–       non sono richieste le cunette laterali e drenaggi in genere.

Tra le misure di difesa attiva della strada in rilevato intese a facilitare il passaggio della sabbia senza che questa si depositi sulla piattaforma si ricordano:

–       l’eliminazione, entro i limiti di 40÷50 m dall’asse tutti gli ostacoli ed irregolarità del terreno che possono trattenere la sabbia;

–       il conferimento alla sezione trasversale stradale di un profilo aerodinamico (Fig. 9.43) in modo da offrire la minima resistenza al vento e rivestendo le scarpate con uno strato di almeno 15 cm di terreno coesivo o ancora con una miscela sabbia-bitume;

–       l’utilità, in certi casi, della costruzione di un argine di 1.5÷2 m di altezza, con le pareti protette da miscele bituminose che correndo a 30÷40 m parallelamente alla strada crea vortici e correnti ascendenti che rendo­no più difficile il deposito della sabbia trasportata.

Fig. 9.43 – Sezioni trasversali della strada in aree coperta da dune di sabbia.

La difesa delle trincee dalla sabbia è difficile; con un rapporto ottimale tra la larghezza del taglio in sommità e la sua profondità, i venti abbastanza forti generano dei vortici all’interno della trincea che contribuiscono ad allontanare la sabbia mentre al contrario, con venti deboli, essa tende a depositarsi.

Alcuni rimedi, sovente non risolutivi, sono: l’impiego di scarpate molto piatte e spigoli arrotondati e l’allargamento della trincea così da consentire la formazione di 2 strisce parallele alla strada che trattengono la sabbia impedendole di occupare la piattaforma stradale.

Le sabbie delle dune contengono poche sostanze nutritive e più facilmente dei sali dannosi alle piante quali clorati e solfati. E’ possibile, tuttavia, in molte regioni selezionare qualità di erbe e soprattutto di arbusti tipici dei deserti che attecchiscono con facilità e che rappresentano, pur richiedendo lunghi periodi di tempo prima di fornire tangibili risultati, il metodo più efficace per stabilizzare le sabbie. Nel caso di inerbimenti lo spandimento di emulsioni bituminose dopo la semina favorisce la crescita delle piantine trattenendo l’umidità.

Risultati immediati si ottengono invece con siepi e staccionate formate con rami o giunchi disposte anche in serie di varia altezza e, dove la mano d’opera non è facilmente reperibile, con schermi in materia plastica. Tali barriere, rallentando la velocità del vento, provocano la caduta della sabbia, parte sopravvento e parte oltre la barriera secondo uno spessore sempre più decrescente.

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