3 – Il Rilevamento Geologico-Tecnico

3.1 – Introduzione

Il rilievo geologico-tecnico, condotto sulla base dei modelli di riferimento relativi a rocce e terreni esposti in precedenza, é la prima e obbligata operazione attivabile ai fini della determinazione puntuale delle caratteristiche dell’ambito in indagine.

Tale pratica, oltre che necessaria analisi introduttiva, si rivela fondamentale base d’indirizzo per il prosieguo geognostico specifico successivo, condotto in situoltre che in laboratorio, atto a quantificare le grandezze progettuali di cui abbisogna l’operatore al fine d’impostare l’idoneo intervento sul sistema.

3.2 – Rilevamento geologico-tecnico di terreni

Nei paragrafi che seguono vengono definite le procedure per la descrizione geologico-tecnica di un affioramento naturale o artificiale di terreno (sia esso in superficie, pozzetto esplorativo o trincea) così come del materiale contenuto in una cassetta catalogatrice di un sondaggio geognostico unitamente ad alcuni test speditivi, realizzati in terreni per determinarne le caratteristiche tecniche, svolti con attrezzature leggere, poco costose, normalmente di rapido impiego, trasportabili ed utilizzabili dal singolo rilevatore.

Nel prosieguo vengono descritti alcuni dei rilievi più frequentemente eseguiti; in tale contesto vengono presentati strumenti di misura leggeri (presupponenti, talora, la preventiva installazione di una strumentazione accessoria) nonché le tecniche di prelievo di campioni superficiali di terreno.

3.2.1 – Descrizione granulometrica

Avendo a disposizione un affioramento naturale o artificiale oppure la cassetta catalogatrice di un sondaggio geognostico è possibile procedere ad una descrizione del terreno osservandone e descrivendone alcune caratteristiche: tra queste, di fondamentale importanza, è sempre la composizione granulometrica che, in situ, viene definita stimando visivamente le % in volume dei diversi fusi granulometrici costituenti il terreno. Nella Tab. 3.1 vengono indicati i limiti dimensionali dei grani secondo l’Associazione Geotecnica Italiana (A.G.I.) e l’American Standard for Testing and Materials (ASTM).

Tab. 3.1 – Classificazione dei terreni secondo AGI e ASTM.

I terreni vengono spesso definiti genericamente granulari, se composti prevalentemente da sabbia, ghiaia, ciottoli o massi, e coesivi o fini, se composti da particelle di dimensioni < 1 mm (anche se, come visto in precedenza, non è sempre vero che un terreno fine mostri la proprietà della coesione). In alternativa, secondo la ASTM un terreno può essere definito grossolano o fine a seconda che i grani siano prevalentemente di diametro superiore o inferiore, rispettivamente, a 0.075 mm.

Poiché la capacità di risoluzione dell’occhio umano non consente di distinguere le dimensioni nell’ordine di grandezza di 0.01 mm, sono necessari metodi di valutazione diversi quando si ha a che fare con terreni fini.

Le sabbie fini si distinguono, ad es., in quanto al tatto offrono una sensazione lievemente ruvida e, se asciutte, sono costituite da grani del tutto privi di legami coesivi. La distinzione tra sabbia fine e materiale a granulometria inferiore si rivela spalmando sugli incisivi superiori una piccola quantità di terreno: la sabbia dà sempre una sensazione granulare al passaggio della lingua, cosa che non avviene con limo e argilla.

Alla prova dello scuotimento la sabbia ha una reazione immediata di comparsa (prima) e di scomparsa dell’acqua. La prova dello scuotimento consiste nel preparare una pallina (Ø ~12÷13 mm) di terreno miscelato con acqua. La pallina viene poi premuta e appiattita contro il palmo della mano; la prima parte della prova consiste nello scuotere violentemente, in direzione orizzontale tra le mani, la pallina schiacciata e osservando l’eventuale comparsa d’acqua sulla superficie di questa. La seconda parte consiste nello schiacciare tra le dita la pallina tenuta nel palmo di una mano e osservare l’eventuale scomparsa dell’acqua.

Un terreno costituito da limo tende a perdere umidità rapidamente; se secco, può essere ridotto in frammenti e questi possono essere polverizzati con la pressione delle dita. La reazione alla prova dello scuotimento è lenta.

L’argilla al tatto è decisamente liscia; con un’eventuale aggiunta d’acqua si comporta plasticamente, tende a perdere umidità lentamente mentre essiccando si ritira in modo evidente presentando fratture. Alla prova dello scuotimento la reazione è pressoché nulla.

Sulla base dell’esame, visivo o meno, occorre assegnare un nome in termini granulometrici al terreno. Una metodologia semplice, adatta all’esame in situ, consiste nell’ assegnare al terreno un primo nome che dipende dalla frazione granulometrica stimata come più abbondante, seguito dalle altre frazioni granulometriche via via meno abbondanti. Queste vengono nominate precedute dalla preposizione con se presenti in % compresa entro 50÷25; vengono, viceversa, seguite dal suffisso “…oso” se quantitativamente comprese entro 25÷10% e da “debolmente …oso” se con % entro 5÷10. Quantità < 5% possono essere trascurate o citate mediante la dicitura “tracce di…“.

Ad es., un terreno composto dal 20% di ghiaia, dal 50% di sabbia e dal 30% di limo viene definito come: sabbia con limo, ghiaiosa. Per i terreni grossolani si fa riferimento alla terminologia ASTM (Tab. 3.2).

Tab. 3.2 – Descrizione dei terreni grossolani (ASTM).

La descrizione granulometrica viene completala indicando la stima percentuale dei clasti di Ø >75 mm, informazione particolarmente utile ogniqualvolta dal terreno in esame si intenda prelevare un campione per una successiva analisi granulometrica di laboratorio. Qui infatti vengono scartali tutti gli elementi di Ø>75 mm (norme ASTM); di conseguenza, la curva granulometrica e la denominazione del terreno che ne deriva, anche se molto più precise di quanto sia possibile stimare in situ visivamente, si riferiscono ad un campione che può non essere rappresentativo del terreno effettivamente presente. Tale effetto si rivela decisivo nel caso di terreni eterometrici con abbondanti ciottoli e massi, per i quali la mancanza della stima della quantità di clasti di dimensioni non sottoponibili all’analisi granulometrica porterebbe a dati di laboratorio assolutamente non significativi sulla composizione granulometrica del terreno nel suo insieme.

E’ utile, infine, annotare il Ømax dei clasti e quello più frequente (Ø+). Per Ømax si deve intendere il diametro massimo significativo (→ quello che è percentualmente ben rappresentato) e non il massimo assoluto che può costituire una eccezione poco significativa o, peggio, fuorviante.

Un cenno doveroso è da riservare a quelle tipologie di terreno che non si prestano ad una definizione in termini granulometrici, ovvero dei terreni organici (torbe) costituite da materiale fibroso di natura organica, di colore marrone scuro o nerastro, talora maleodorante, derivato dalla decomposizione più o meno avanzata di resti vegetali.

Un’interessante considerazione, infine, riguarda la diversa metodologia seguita nella descrizione granulometrica in situ, ove le % dei vari componenti vengono stimate e si riferiscono a volumi, rispetto alla analisi granulometrica che viene eseguita in laboratorio, nella quale si misurano le quantità in peso dei diversi componenti.

3.2.1.1 – Granulometria della frazione più grossolana

Le procedure per la conduzione di analisi granulometriche in laboratorio prevedono che il campione da sottoporre a test non contenga clasti di dimensioni superiori a una determinata misura, che può essere, a seconda delle diverse norme, di 60 mm, 75 mm etc.. Le medesime procedure impongono inoltre che il campione, perché possa considerarsi rappresentativo, debba presentare un peso minimo funzione del Ømax dei clasti (Standard ASTM in tab. 3.3).

Tab. 3.3 – Standard ASTM per frazione grossolana.

Quanto espresso impone che, per analizzare un terreno prevalentemente ghiaioso, si debba procedere al prelievo di notevoli quantità di materiale, azione che, per talune condizioni logistiche sfavorevoli, può risultare complessa, se non impossibili; inoltre, dovendo analizzare terreni a granulometria ancora maggiore, il campionamento e il trasporto in laboratorio del materiale risultano del tutto inutili.

In molti casi, tuttavia, la conoscenza della distribuzione granulometrica dei terreni più grossolani è un’esigenza da non trascurarsi, da cui segue la necessità di avere a disposizione una procedura semplice ma affidabile che permetta di costruire una curva granulometrica anche per terreni grossolani o per la porzione più grossolana di terreni fortemente eterometrici.

La procedura ora esposta fa uso di un semplice strumento costituito da un telaio quadrato che sorregge una maglia di fili disposti con passo pari a 5 cm. Questa griglia viene disposta sul piano dell’affioramento del terreno da esaminare ed in corrispondenza di ognuno dei nodi della maglia viene rilevato il diametro minore del clasto. Tale rilevazione può essere una misura (avvicinando un calibro al ciottolo, senza spostare la griglia), oppure una stima (per confronto con le dimensioni del lato della maglia).

Un’alternativa da preferire, volendo accelerare il lavoro di campagna, consiste nello scattare una fotografia perpendicolarmente alla griglia disposta sul terreno, analizzandone la stampa successivamente. La procedura consente di misurare l’immagine dei clasti con precisione maggiore rispetto alla stima visiva e con rapidità superiore all’impiego del calibro in situ.

Si noti come il Ømin minore del clasto, rilevato come descritto, venga assunto quale asse b (intermedio) e come questo venga normalmente considerato rappresentativo delle dimensioni del clasto stesso.

Una volta conteggiati i vari Ø rilevati sulla griglia a 8 mm è possibile definire una curva granulometrica del terreno oppure, in caso di terreni sui quali sia possibile eseguire anche l’analisi granulometrica tradizionale, estendere la curva ottenuta in laboratorio. II passaggio tra la distribuzione degli assi b dei clasti e il peso degli stessi, necessario per uniformarsi alla curva granulometrica che considera le % in peso, può essere eseguito calcolando il volume del clasto come b3 e moltiplicando questo per il peso di volume medio stimato del materiale. Volendo collegare la curva della frazione grossolana alla curva granulometrica di laboratorio deve essere nota la % in peso dell’intera porzione grossolana rispetto al peso totale del campione.

II metodo descritto, impiegato spesso negli alvei dei torrenti, consente una rapida valutazione quantitativa delle granulometrie entro 0.2÷2.0 dm. Per clasti di dimensioni maggiori si può fare riferimento ad una descrizione granulometrica che comprenda le dimensioni medie, massime e minime ed una stima delle loro frequenze relative.

3.2.2 – Descrizione geologico-tecnica di un terreno

La descrizione geologico-tecnica di un terreno comprende, oltre alla granulometria, l’osservazione di altre caratteristiche più o meno evidenti. Trattandosi di valutazioni qualitative è necessario fare riferimento, quanto più possibile, a metodologie descrittive standardizzate, per quanto empiriche, che limitino la componente soggettiva.

Una descrizione geologico-tecnica inizia, necessariamente, con un cenno introduttivo alle caratteristiche geologiche del terreno in esame, alla sua genesi, alla morfologia del sito ed alla presenza di strutture all’interno del deposito. Pur risultando le medesime alquanto varie in questa sede interesserà solo descrivere l’eventuale presenza di strati, laminazioni, fessurazioni, lenti, variazioni laterali, eteropie e discontinuità.

Per i terreni grossolani si possono descrivere l’alterazione, l’arrotondamento, la sfericità, la forma, la litologia dei clasti, il grado d’addensamento e di cementazione.

Per quanto compete allo stato d’alterazione, questo riguarderà soprattutto gli elementi di maggiori dimensioni facendo riferimento alla tab. 3.4 che distingue 5 termini.

Tab. 3.4 – Grado di alterazione dei clasti in terreni grossolani.

Per quanto concerne arrotondamento e sfericità, il grado di arrotondamento e quello di sfericità possono essere descritti facendo riferimento a classici diagrammi uno dei più sintetici dei quali è quello presentato in tab. 3.5.

Tab.3.5 – Grado di arrotondamento per clasti grossolani (per ogni classe di arrotondamento viene mostrato un grano ad alta o bassa sfericità)

Per quanto riguarda la forma, considerando le 3 dimensioni principali di un clasto, questo può essere definito allungato (1 dimensione nettamente maggiore) appiattito (1 dimensione nettamente minore alle altre 2, fra loro simili) piatto e allungato (1 dimensione nettamente minore e le altre 2 diseguali tra loro) equidimensionale e parallelepipedo.

Per quanto attiene alla litologia dei clasti, in alcuni casi può avere interesse riconoscerne le caratteristiche. Vengono utilizzate, a tale proposito, le medesime tabelle proposte dall’Intemational Society for Rock Mechanics (ISRM) per il riconoscimento delle rocce configurate nel § 3.3.

Per quanto compete al grado di addensamento questo dipende dalla forma dei clasti, dall’ambiente e dal modo di deposizione, dai carichi che hanno interessato e interessano il terreno. Il terreno viene definito sciolto se può essere facilmente scavato con una pala; addensato, se con la sola pala non si può procedere allo scavo; mediamente addensato nei casi intermedi.

Per ciò che riguarda il grado di cementazione, essendo questa opera dei fluidi circolanti nei pori del terreno che, in determinate condizioni chimico-fisiche, depositano CaCO3 o altre sostanze che legano più o meno saldamente tra loro i clasti, la medesima può essere assentelieve (quando dai clasti si possono asportare i grani superficiali con le dita) oppure elevata ( quando il terreno tende a dividersi in blocchi usando martello e scalpello e i grani superficiali possono venire asportati con le dita solo con fatica). La cementazione può raggiungere inoltre un livello tale da trasformare il terreno in una roccia debole (→ v. descrizione oltre).

Per i terreni fini si possono descrivere la plasticità, la consistenza e la resistenza al taglio non drenata.

La plasticità viene definita come la capacità di un terreno a lasciarsi plasmare senza rompersi. La procedura per rilevarne il grado si attua formando dei bastoncini (Ø = 3 mm) rimpastando il materiale e procedendo alla formazione di nuovi bastoncini simili ai precedenti. Durante tali la manipolazioni il terreno perde umidità in modo progressivo. Il materiale, a questo punto, viene definito non plastico quando, per qualsiasi contenuto d’acqua non è possibile modellarlo formando i bastoncini; è di bassa plasticità quando possono essere formati i bastoncini un’unica volta e poi il materiale si fessura; è di media plasticità quando i bastoncini possono essere formati con facilità 2 o 3 volte successive; infine si definisce di alta plasticità quando si possono formare n volte i bastoncini prima che la perdita di umidità sia tale da far uscire il terreno dallo stato plastico e, entrando in quello semi-solido, si producano fessure nel campione.

Per quanto concerne la consistenza, questa può essere definita come la capacità del terreno di resistere alla penetrazione (meccanica). Avendo a disposizione un penetrometro tascabile si può definire la consistenza del terreno in modo più accurato; il penetrometro tascabile (pocket penetrometer) è uno strumento di ~20 cm di lunghezza e Ø = 2 cm, costituito da un cilindro in acciaio inox contenente una molla tarata su cui agisce una punta cilindrica che viene appoggiata e spinta nel terreno con la pressione della mano. Maggiore è la consistenza del terreno e maggiore risulta la forza applicabile perché la punta cilindrica penetri di una quantità prefissata nel terreno. Un cursore lungo una scala graduata o una sfera su un quadrante indicano (kPa o kg/cm2) la resistenza offerta dal terreno alla penetrazione. Al fine di operare col medesimo sistema di misura su terreni con consistenze differenti è possibile sostituire punte cilindriche con basi d’appoggio diverse, maggiori per terreni più deboli e minori per terreni più resistenti.

Tabella 3.6 – Definizione del grado di consistenza.

Il medesimo strumento trova utilizzo anche nelle sabbie delle quali si può stimare (approssimativamente) l’angolo d’attrito. In assenza del penetrometro tascabile, si può valutare la resistenza offerta alla pressione delle dita utilizzando i riferimenti di Tab. 3.6.

Per quanto concerne la resistenza al taglio non drenata, questa può essere misurata con scissometri manuali di diverso tipo, da quelli tascabili che misurano la resistenza al taglio del terreno pochi cm sotto la superficie di questo, a quelli che consentono di eseguire prove in sito sino a profondità entro 0.2÷4.5 m.

In ogni caso si tratta d’infiggere a pressione palette appositamente sagomate nel terreno indisturbato misurandone il valore del momento torcente necessario a farle ruotare. Tale movimento si realizza quando il terreno si taglia lungo la superficie di un cilindro di Ø e H pari alla larghezza e all’altezza delle palette.

Le palette presentano dimensioni diverse in funzione del tipo di attrezzatura e della resistenza dei terreni, sezione quadrilama e forma rettangolare.

La resistenza al taglio fornita dal terreno (non drenata in quanto la prova è veloce) viene misurala direttamente sul quadrante dello strumento (kg/cm2 o kPa).

Anche con gli scissometri manuali è possibile determinare, oltre alla resistenza di picco, la resistenza residua, misurabile, questa, dopo che s’è fatta ruotare la paletta per 10 giri completi e il terreno viene, di conseguenza, rimaneggiato. La relazione tra resistenza di picco e residua viene definita sensitività alla prova.

Procedendo con l’analisi tutti i terreni, sia grossolani che fini, possono essere descritti per il colore, l’odore, l’umidità e la reazione HCl.

Per quanto concerne il colore, questo deve essere descritto considerando il campione umido. Per i terreni fini è consigliabile fare riferimento alle tabelle colorimetriche Munsell. Per i terreni grossolani ci si limita, viceversa, ad una descrizione soggettiva e qualitativa.

Le Munsell Soil Color Charts costituiscono il sistema più oggettivo in uso per la descrizione dei colori di un terreno: sono costituite da 9 tavole, tratte dal Munsell Book of Color, contenenti 322 differenti colori di riferimento disposti in maniera ordinata. Consentono la descrizione dei colori di un terreno identificando 3 parametri: l’hue, cioè il colore dominante; il value, cioè la luminosità; il chroma che indica l’intensità.

Sempre riferendosi ai terreni, l’hue può essere rosso (simbolo R, red), arancio (YR, yellow-red), giallo (Y, yellow); più raramente blu (B, blue), verde (G, green) e viola (P, purple).

Oltre che dal simbolo, l’hue è definito da un numero compreso entro 0÷10, posto prima della lettera maiuscola: numeri bassi indicano lunghezze d’onda della luce maggiori per cui, ad es, due arancioni presentano hue 2.5 YR se la componente rossa è elevata e hue 7.5 YR se è maggiore la componente gialla.

La luminosità (value), definita anche come quantità di luce riflessa, può variare da 0 (nero assoluto) a 10 (bianco assoluto); nei terreni varia normalmente entro 2.5÷8.

Il chroma, infine, indica il grado di mescolamento del colore principale con i colori neutri (bianco, grigio, nero): di norma varia tra 0 (corrispondente all’assenza di colore principale e presenza totale di colore neutro) e 20 (corrispondente a presenza totale di hue e assenza di colore neutro); per i terreni è compreso normalmente entro 1÷8.

7 delle 9 tavole si riferiscono ai seguenti hue: 10 R, 2.5 YR, 5 YR, 7.5 YR, 10 YR, 2.5 Y e 5Y, passando dal rosso all’arancione al giallo. Ognuna di queste è organizzata in modo da presentare la scala del value in ordinata e quella del chroma in ascissa.

Il confronto diretto col terreno in esame consente di attribuire un nome al colore unitamente ai relativi simboli Munsell. Le rimanenti 2 tavole (color chart far gley) raccolgono differenti gradazioni di colori neutri o quasi-neutri con limitate componenti gialle, verdi, blu o viola.

Per quanto riguarda l’odore, lo stesso può essere indice della presenza di sostanze organiche in decomposizione o d’inquinamento da parte di liquidi o gas di varia natura.

Nel riquadro di Tab. 3.7 viene riportato un modulo cumulativo per la maggior parte delle caratteristiche relative ad un affioramento di terreno. Il listingcomprende: genesi, morfologia, strutture interne, classificazione granulometrica, clastizzazioni extra, gradi di alterazione, sfericità e arrotondamento, forma, litologia, gradi d’addensamento e cementazione, plasticità, consistenza, cu non drenata, valore al pocket penetrometer, colore, odore umidità, reazione all’HCl et alia.

Tab. 3.7 – Modulo cumulativo generale.

Per quanto attiene all’umidità naturale questa deve essere descritta tenendo conto, negli affioramenti naturali, delle condizioni meteorologiche del momento del rilievo e, possibilmente, dei giorni precedenti. In uno scavo di qualsivoglia tipologia il rilievo deve essere eseguito immediatamente dopo la messa a vista del terreno da descrivere onde evitare modifiche al contenuto naturale d’acqua. Di norma vengono utilizzati i riferimenti di Tab. 3.8.

Tab. 3.8 – Modulo di riferimento per la definizione del grado di Umidità.

Per ciò che compete alla reazione all’HCl è talora utile rilevare la presenza di CaCO3 o nei clasti o come agente cementante i medesimi. Si usa una soluzione di HCl al 5% distribuita in gocce sui clasti o sulla matrice. Per quantificare la reazione, proporzionale al contenuto di CaCO3 del terreno, si fa normalmente riferimento alla Tab. 3.9.

Tab. 3.9 – Modulo di riferimento per Reazione all’HCl.

3.2.3 – Prove speditive in situ

Nel presente paragrafo vengono illustrate in breve alcune prove e misure che vengono svolte ordinariamente dal rilevatore geologo-tecnico. In questa sede per prova (o test) s’intende una procedura applicativa in grado di sollecitare in qualsivoglia modo il terreno leggendone la risposta mentre per misura s’intende la sola lettura di una grandezza caratteristica fisica o chimica del terreno.

Le procedure descritte riguardano la prova di permeabilità in un pozzetto superficiale, lo short test penetrometrico dinamico e l’indagine sismica con attrezzatura portatile.

3.2.3.1 – Prova di permeabilità in pozzetto superficiale

Tale prova viene eseguita intendendo venire a conoscenza della permeabilità dei terreni superficiali al di sopra del livello della falda. La procedura impone di eseguire piccoli scavi a base quadrata (o circolare) di lato (o Ø 10÷15 Ømax dei granuli del terreno nonché di riempire d’acqua pulita il pozzetto misurando la portata necessaria a mantenere costante il livello (prove a carico costante) oppure la velocità di abbassamento del livello (prove a carico variabile). Il terreno viene preventivamente saturato con abbondante immissione d’acqua per instaurare un regime di flusso permanente.

Il coefficiente di permeabilità si calcola (in m/s) sulla base di formule empiriche valide per terreni omogenei ed isotropi e con permeabilità  10-8 m/s. Per le prove a carico costante valgono le relazioni:

K = q/b2[27(hm/b)+3]

per pozzetti quadrati, e:

K = q/π d hm

per pozzetti circolari, dove q è la portata assorbita (m3/s), b il lato della base del pozzetto quadrato (m), hm l’altezza media dell’acqua nel pozzetto (m) e Ø il diametro del pozzetto circolare (m).

Per le prove a carico variabile si ha:

K = (h2-h1) [1+(2hm/b)]/(t2-t1) [27(hm/b)+3]

per pozzetti quadrati, e:

K = (h2-h1d /(t2-t1) (32 hm)

per pozzetti circolari; dove, oltre a quanto indicato, h2-h1 (m) è la variazione di livello nel pozzetto nell’intervallo di tempo t2-t1 (s).

3.2.3.2 – Prove penetrometriche dinamiche con penetrometro leggero

La prova penetrometrica dinamica viene effettuata infiggendo verticalmente nel terreno una punta conica, posta all’estremità di una batteria di aste, per mezzo di un maglio che cade da un’altezza costante e nota. Secondo la classificazione ISSMFE si distinguono 4 categorie di Penetrometri dinamici in funzione del peso del maglio di battuta: quelli con maglio di massa ≤ 10 kg costituiscono la categoria dei Penetrometri Leggeri (DPLDynamic Probing Light) che, in talune versioni, presentano pesi e ingombri sufficientemente contenuti da poter essere trasportati ed usati da un singolo operatore.

L’attrezzatura è fondamentalmente composta da un maglio che, cadendo da un’altezza di 50 cm, percuote una testa di battuta al di sotto della quale sono montate le aste. Queste hanno lunghezza di 1 m, Ø 22 mm e sono cave. Alla base delle aste è montata la punta conica che penetra nel terreno; quest’ultima presenta un angolo d’apertura del cono di 90°, area di base della punta conica di 10 cm2 o 5 cm2.

Durante l’infissione si misura il numero di colpi necessari per ottenere successivi affondamenti della punta di 10 cm.

Nei Penetrometri Leggeri non è previsto, di norma, l’impiego di tubi di rivestimento che proteggano le aste dall’attrito laterale del terreno (effetto, quest’ultimo, in grado di alterare in termini grossolani i risultati della resistenza alla punta).

La resistenza alla penetrazione dinamica è data dalla relazione:

qd = M2 g H / (M+M’A e

dove M‘ è la massa delle aste e del dispositivo di battitura (< 6 kg), A l’area di base della punta conica (5-10 cm2), g l’accelerazione di gravità, H l’altezza di caduta del maglio (0.5 m), M la massa del maglio (< 10 kg) ed e la  penetrazione media per colpo.

Per ogni prova si costruisce un diagramma con, in ascissa, il numero di colpi richiesti per ottenere l’affondamento di 10 cm della punta conica e, in ordinata, le profondità d’indagine (Tab. 3.10).

La prova viene conclusa o al raggiungimento della profondità prevista oppure quando non si ottiene l’affondamento di almeno 10cm con 50 colpi (rifiuto).

Il campo di utilizzo di questo strumento leggero è tuttavia assai limitato; può essere impiegato soprattutto per la ricerca di un substrato resistente prossimo alla superficie topografica oltre che per stilare delle stratigrafie di larga massima. Viene usato soprattutto in terreni granulari.

La profondità di indagine è funzione delle caratteristiche di resistenza del terreno: raramente si riescono ad investigare profondità > 7÷8 m.

Tab. 3.10 – Diagramma tipico da Penetrometro Leggero.

3.2.3.3 – Indagini con sismometro portatile

La prova consiste nel classico test di rifrazione sismica eseguito con sismometro leggero (in genere monocanale) ed energizzazione mediante massa battente. L’attrezzatura è completata da una piastra di battuta, dai cavi di collegamento tra starter e sismometro e tra questo e i geofoni.

Questi ultimi sono di due tipi, uno per la lettura delle onde di compressione ed uno per quelle di taglio. Questo consente, oltre alla ricostruzione della stratigrafia dei primi metri sotto la superficie topografica, anche la determinazione dei parametri elastici dinamici come il modulo elastico (Ed) quello di taglio (Gd) e il rapporto di Poisson (vd). Le relazioni sono:

Ed = γ Vs2 (3 Vp2  4 Vs2)/(Vp2  Vs2)

Gd = γ Vs2

vd = (Vp2  2 Vs2/ 2(Vp2  Vs2)

dove γ è il peso di volume del mezzo investigato mentre Vp e Vs sono le velocità delle onde longitudinali e trasversali. Espressi γ in kg/m3Vp e Vs in m/s si ottengono i moduli in pascal.

Come noto dalla Geofisica i valori dei moduli dinamici risultano normalmente maggiori a quelli statici ma sono comunque utili a definire le caratteristiche elastiche del materiale; in mancanza di riferimenti più precisi nei terreni vale il rapporto modulo dinamico/modulo statico = 2.

Il modulo statico sta ad indicare che la sollecitazione viene aumentata in modo infinitamente lento mentre il termine dinamico indica che la sollecitazione è applicata in un tempo molto breve.

3.2.4 – Misure in situ

3.2.4.1 – Misure in continuo

In diverse situazioni, oltre alla caratterizzazione tecnica del terreno e della roccia, è indispensabile, procedere a misure dirette di caratteristiche fisiche (spostamenti e tensioni) che interessano il mezzo in studio o l’opera in corso di realizzazione.

Nello studio di movimenti lenti o caratterizzati da alternanze di fasi quiescenti e attive, infatti, poter misurare direttamente gli spostamenti delle masse (frane, convergenze, rilevati etc.) è evidentemente di fondamentale utilità pratica per ogni prosieguo successivo.

Nel presente paragrafo vengono solo elencate le tipologie di misura diretta tra le più usate rimandando ad una trattazione più specifica per le particolarità acquisitive dei sistemi.

Si sottolinea, tuttavia, che tra le tecniche descritte nel precedente paragrafo e quelle trattate nel presente esiste la sostanziale differenza che nelle prime il terreno viene sollecitato appositamente registrandone le relative risposte mentre nelle seconde si misura una caratteristica o un comportamento non direttamente innescato dalla tecnica di rilevamento adottata.

Gli strumenti registranti in continuo (sebbene fruenti in molti casi solo di letture saltuarie) possono essere raggruppati in funzione del tipo di caratteristica rilevabile:

–       spostamenti (estensimetri, fessurometri, inclinometri, assestimetri, distometri);

–       variazioni di tensioni (celle di pressione e di carico);

–       caratteristiche statico-dinamiche (accelerometri, tiltmetri, pendoli);

–       posizione della superficie piezometrica (piezometri).

Alcuni degli strumenti descritti trovano applicazione in fori di sondaggio, altri in superficie o in scavi, altri ancora vengono impiegati in condizioni diverse a seconda dei problemi da analizzare; e per quanto permanga evidente che la realizzazione di un foro di sondaggio nonché l’installazione di uno degli strumenti citati non competa direttamente al rilevatore geologo-tecnico, la progettazione dello schema strumentale, la scelta di quantità e tipologie delle attrezzature e, in molti casi, anche la loro lettura periodica costituiscono sicuramente parte dell’attività d’indagine.

Le letture degli strumenti d’ultima generazione vengono eseguite tramite l’ausilio di trasduttori e di centraline elettroniche parzializzatrici che consentono anche la trasmissione in remoto a collettori di registrazione. A questo proposito è opportuno rammentare come la sensibilità dei comparatori meccanici usati fino a pochi anni fa fosse normalmente dell’ordine di 0.01 mm mentre coi trasduttori ultimi la medesima è ormai giunta all’ordine dei μm.

Per la gran parte degli strumenti elencati, infine, le misure rilevate sono di tipo relativo e non assoluto: di conseguenza è condizione operativa obbligatoria procedere ad un offset iniziale di zero al quale riferire le successive.

3.2.4.2 – Determinazione del peso di volume con Volumometro a sabbia

La determinazione del peso di volume di un terreno può essere eseguita in laboratorio avendo a disposizione un campione di elevata qualità. Nei terreni granulari, nei quali l’ottenimento di campioni indisturbati o semi disturbati è spesso difficile, e comunque qualora non fosse possibile prelevare campioni, si può misurare direttamente in sito il peso di volume con metodologie diverse. La più impiegata è basata sull’uso di uno strumento noto come Volumometro a sabbia.

La procedura consiste nel praticare un piccolo scavo a mano sulla superficie del terreno, di raccogliere il materiale in modo che possa esserne misurato il peso naturale in laboratorio e di colare nel foro, mediante un cono metallico, un quantitativo di sabbia calibrata da un contenitore di peso noto. Conoscendo il peso del contenitore prima e dopo l’operazione di travaso della sabbia calibrata (peso di volume noto e costante tranne nel caso in cui venga sottoposta a vibrazioni) si ottiene il volume di sabbia colata nel foro pari al volume del terreno estratto. Il rapporto tra peso del terreno determinato in laboratorio e il suo volume fornisce il peso di volume cercato.

3.2.4.3 – Determinazione dell’umidità naturale in situ

Per misurare in situ il contenuto di acqua di un terreno lo strumento più diffuso è il Misuratore a carburo di Calcio: questo consiste in un robusto cilindro metallico entro il quale vengono inseriti un piccolo quantitativo di terreno e il carburo di Calcio in polvere di cui si sfrutta la reazione violenta con l’acqua presente nel terreno. Terreno e carburo vengono inseriti separatamente nel contenitore e solo dopo aver sigillalo quest’ultimo li si pone a contatto agitando lo strumento.

Un quadrante ad ago presente sul cilindro metallico permette la lettura diretta, dopo 3÷5 minuti, dell’umidità del terreno in esame, espressa in % in peso. L’attrezzatura è completata da una bilancia che consente il peso della corretta quantità di terreno da testare.

3.2.5 – Prelievo di campioni superficiali

Sovente, durante il rilevamento geologico-tecnico, è necessario procedere al prelievo di campioni dai terreni e dalle rocce in esame per poterne definire alcune caratteristiche fisiche di base indispensabili per la caratterizzazione tecnica dei materiali medesimi. Nella presente trattazione vengono prese in considerazione alcune delle metodologie che consentono il prelievo di campioni di qualità diversa e in materiali differenti (superficiali o sub-superficiali) con macchine e strumenti leggeri. Il significalo di qualità nei campioni è riassunto nel riquadro di Tab. 3.11.

Tab. 3.11 – Classificazione di Qualità per il prelievo di campioni di terreno.

Le classi Q1Q2 e Q3 individuano i campioni rimaneggiati, la classe Q4 i campioni semi-disturbati e la classe Q5 i campioni indisturbati (dove l’ultimo termine non ha significato assoluto ma solo relativo).

I diversi strumenti disponibili consentono di prelevare campioni di qualità diverse in funzione dell’accuratezza delle operazioni di prelievo e del tipo di materiale in questione. In altri termini, pur ammettendo in ogni caso la massima cura nel prelevare il campione, alcuni strumenti risultano più adatti di altri e consentono di raggiungere classi di qualità più elevata in terreni fini mentre altri strumenti sono preferibili in terreni grossolani. In alcuni tipi di terreni, inoltre, non sono in ogni caso acquisibili campioni di classe Q4 o Q5 (sabbie pulite sciolte o in falda).

E’ altresì da riportare come non sempre si debba, o risulti conveniente, tendere al prelievo di campioni della qualità migliore in quanto rimane il tipo di destinazione del campione, ossia la tipologia di parametri che s’intende ottenere a determinare la classe di qualità cui mirare nel campionamento. Essendo sufficiente, come sovente accade in lavori di caratterizzazione di vaste aree, classificare il terreno, è evidente che le prove di laboratorio necessarie consisteranno solo nell’analisi granulometrica e nella determinazioni dei limiti liquido e plastico (sono sufficienti, cioè, campioni di classe Q2 risultando antieconomico perseguire classi di qualità superiori).

Occorre poi rammentare che, soprattutto per i campioni semi-disturbati e indisturbati, è indispensabile procedere, immediatamente dopo il prelievo, alla sigillatura degli stessi, all’etichettatura e ad un trasporto in laboratorio quanto più rapido e privo di sollecitazioni possibile. La sigillatura, se il campione è stato prelevato con una fustella, consiste nel versare paraffina fusa sulle due basi del cilindro prelevato, nel chiudere con tappi di plastica le basi stesse e nel sigillare con nastro adesivo il tutto.

Tali operazioni consentono di non far muovere il terreno nella fustella (eventualmente non perfettamente riempita) e nell’impedire variazioni di umidità al campione. L’etichettatura deve comprendere almeno il numero del campione e l’indicazione alto-basso. Ulteriori informazioni (profondità del prelievo, attrezzatura impiegata, committente, ubicazione etc.) possono essere riportate sul modulo di descrizione tecnica dei terreni superficiali.

L’eventuale conservazione del campione, in attesa del suo trasferimento in laboratorio, deve avvenire in un luogo ove non ci siano forti sbalzi termici e in generale non sia ne troppo caldo ne troppo freddo, ove non subisca urti o vibrazioni. II trasporto in laboratorio deve essere organizzato con rapidità e, anche in questo caso, avendo cura che siano limitate le sollecitazioni ai campioni.

3.2.5.1 – Prelievo con pala

Si tratta di riempire con una quantità opportuna di materiale un sacchetto di plastica facendo in modo che il terreno prelevato sia effettivamente rappresentativo dal punto di vista granulometrico di quello in situ. Normalmente si tratta di campioni superficiali.

Risulta conveniente tracciare sul terreno, prima d’iniziare lo scavo, il contorno del materiale che si intende prelevare. La classe di qualità che ci si prefigge di raggiungere è normalmente Q2. Intendendo avere un’indicazione di massima sulla umidità naturale occorre fare in modo che non rimanga intrappolata aria nel sacchetto e che, ovviamente, questo venga ben chiuso.

3.2.5.2 – Prelievo con trivella a mano

Lo strumento è costituito da una trivella in acciaio di diametro compreso tra 80 e 150 mm e lunghezza 20÷30 cm fissata ad un’asta ~1m di lunghezza. Un manico montato perpendicolarmente all’asta ed, eventualmente, un’altra asta di prolunga, completano il set.

Il sistema consente il prelievo di campioni rimaneggiati in terreni sia fini che grossolani. L’approfondimento del foro avviene per successive infìssioni, ottenute per rotazione e pressione, della trivella, fino alla profondità desiderata (mai > 1÷2 m). In condizioni ottimali si può ricostruire la stratigrafia del terreno; sovente, in tuttavia, si realizza però un mescolamento parziale dei terreni dei diversi livelli attraversati. La qualità del campione non è mai superiore a Q3. La conservazione del materiale avviene in sacchetti di plastica.

3.2.5.3 – Prelievo con campionatore a percussione

Nei terreni fini è possibile prelevare campioni di classe Q3 (ed, eccezionalmente, semi-disturbati) con questo campionatore portatile. L’attrezzatura comprende un’asta di 1m di lunghezza alla quale è fissata ad una estremità una testa di battuta porta-fustella; lungo l’asta viene fatto scivolare un maglio di 3÷5 kg di peso che colpisce la testa di battuta a cui è agganciata la fustella campionatrice e la fa affondare nel terreno. La fustella, in acciaio, ha diametro compreso entro 38÷100 mm e lunghezza non >25 cm. Si tratta di un campionatore a pareti spesse, con coefficiente di parete, quindi, > 0.15. D coefficiente di parete è dato dalla relazione:

cp = (De2-Di2)/De2

dove De e Di sono, rispettivamente ,il Ø esterno e quello interno della fustella campionatrice. Il raggiungimento della profondità di prelievo può avvenire con l’uso della trivella a mano. Il campione contenuto nella fustella va paraffinato e sigillato.

3.2.5.4 – Prelievo con scatola cubica

Sul fondo o sulle pareti di scavi (pozzetti, trincee) è possibile prelevare, in terreni coesivi, campioni indisturbati con il metodo della scatola cubica. Si tratta di isolare, usando spatole rigide sottili, un cubo di terreno (libero su 5 facce) delle dimensioni della scatola disponibile; d’inserire la scatola (che ha 2 facce opposte aperte) sul cubo di terreno preparato, di versare paraffina fusa sulla faccia superiore del cubo di terreno in modo che vada anche a riempire i vuoti eventualmente esistenti sui lati, di chiudere questo lato della scatola, di tagliare con una spatola sottile il cubo alla base, isolandolo dal resto del terreno, di versare paraffina fusa sulla faccia a vista del campione (quella, cioè, creata con l’ultimo taglio) e di chiudere la scatola con il sesto lato. La scatola, di legno o plastica, ha lato compreso entro 15÷25 centimetri.

3.2.5.5 – Prelievo con fustelle da laboratorio

Spesso è conveniente, soprattutto lungo scavi aperti e in terreni fini, procedere al campionamento utilizzando le medesime fustelle utilizzate in laboratorio per preparare i provini da sottoporre a prove meccaniche (edometriche, di taglio diretto, triassiali etc.).

Si tratta di preparare accuratamente una superficie liscia su cui appoggiare e far penetrare a pressione le fustelle preventivamente spalmate con paraffina all’interno e all’esterno per diminuire gli attriti. Scavando tutto attorno alla fustella riempita è possibile così isolare il campione senza arrecare grave disturbo. La sigillatura deve risultare immediata al fine di evitare variazioni di umidità che diverrebbero, su volumi così ridotti, subito significativi. I campioni in tal modo prelevati possono raggiungere la classe di qualità Q5 e costituire in laboratorio, senza ulteriori preparazioni, i provini (con provini s’intende normalmente la porzioni di terreno o di roccia ottenuta in laboratorio da un campione prelevato in situ con tecniche diverse).

Le fustelle normalmente impiegate sono quella edometrica, quella per la prova di taglio diretto con la scatola di Casagrande e quella per le prove triassiali).

3.3 – Rilevamento geologico-tecnico di ammassi rocciosi

3.3.1 – Ammassi rocciosi a comportamento rigido

Vengono di seguito presentate le operazioni pratiche da condurre nell’esecuzione di un rilievo geomeccanico di dettaglio effettuato su un ammasso roccioso a comportamento rigido sulla base delle procedure raccomandate dall’Intemational Society for Rock Mechanics (ISRM) e dall’Intemational Association of Engineering Geology (IAEG).

Per rilievo geomeccanico s’intende un insieme ordinato di misure e osservazioni che devono essere svolte al fine d’acquisire i parametri di base dell’ammasso e delle sue discontinuità. La descrizione deve fornire una visione generale delle caratteristiche dell’ammasso con particolare riguardo al loro comportamento meccanico esponendo, per quanto possibile, dati quantitativi.

Prima di procedere allo studio del comportamento meccanico è opportuno identificare in modo univoco l’oggetto specifico d’indagine.

Un corpo roccioso naturale risulta composto dall’insieme di una parte solida, indicata come materiale roccia, delimitata e suddivisa da discontinuità. Per materiale roccia s’intende, in questo caso, un elemento costituito da particelle discrete (granuli o cristalli) legati tra loro da forze coesive a carattere permanente e privo di discontinuità. Quest’ultimo termine indica qualsiasi superficie di debolezza strutturale dovuta a stratificazionescistositàlaminazioneragliamentoclivaggio o fratturazione, lungo la quale la resistenza a trazione, misurata normalmente alla superficie medesima, sia nulla o comunque trascurabile rispetto a quella del materiale roccia.

Col termine ammasso roccioso s’indica, allora, il corpo fisico costituito dall’insieme del materiale roccia e dalle discontinuità; il comportamento meccanico dell’ammasso dipende, per conseguenza, dal comportamento del materiale roccia e da quello delle discontinuità oltre che dalla reciproca interazione in quanto la presenza di discontinuità riduce sensibilmente le caratteristiche di resistenza e di deformabilità proprie del materiale roccia.

Il materiale roccia, infatti, è un mezzo continuo che può essere omogeneo o eterogeneo, isotropo o anisotropo, in relazione alla variazione delle caratteristiche fisiche con la direzione mentre  l’ammasso roccioso, sempre eterogeneo ed anisotropo, è un mezzo non continuo entro il quale le discontinuità sono l’elemento che più determina il comportamento meccanico dell’insieme.

Di conseguenza, in corrispondenza ad un affinamento via via più puntuale dei modelli interpretativi dei fenomeni fisici, si devono associare osservazioni di tipo geologico e geomeccanico sempre più razionali e precise; e procedendo operativamente solo un congruo numero di stazioni di rilievo razionalmente distribuite sul territorio in indagine rende possibile la descrizione e la caratterizzazione completa degli ammassi rocciosi.

Per l’esecuzione, in situ, di un rilievo geomeccanico è utile fare riferimento ad un modulo del tipo di

quello riportato in Tab. 3.12.

Tab. 3.12 – Modulo raccolta dati per rilievo dati geomeccanici.

3.3.2 – Caratteristiche dell’area di rilievo geomeccanico

La scelta dell’area su cui effettuare le misure, oltre a dipendere dal problema in analisi, deve seguire alcune procedure a carattere generale: per prima cosa, infatti, la medesima deve risultare rappresentativa di una zona con caratteristiche strutturali omogenee (per quanto non necessariamente omogenee dal punto di vista litologico).

Le dimensioni dell’affioramento su cui eseguire le misure devono risultare, laddove possibile, ≥ 50 m2 e, sebbene nella maggior parte dei casi il rilievo debba limitarsi allo studio di un’unica superficie d’affioramento, sono da preferirsi aree entro le quali la geometria dell’esposizione permetta di osservare 2 facce contigue dell’affioramento stesso consentendo osservazioni più congrue.

Effettuata la scelta dell’area, si procede alle seguenti operazioni e misure:

–       individuazione plano-altimetrica;

–       misura dimensioni dell’affioramento;

–       misura giacitura della superficie d’esposizione dell’affioramento;

–       esecuzione riprese fotografiche d’insieme e di dettaglio.

Per quanto concerne la descrizione geologica questa deve risultare sintetica comprendendo:

–       nomenclatura formazionale;

–       definizione petrografica (v. Tab. 3.13);

–       colore, tessitura e composizione mineralogica della roccia;

–       struttura dell’ammasso roccioso (presenza pieghe, faglie, eteropie etc.);

–       alterazione dell’ammasso roccioso nel suo insieme (v. Tab. 3.12);

–       classe di appartenenza per caratteristiche litologico-tecniche; distinguendo:

– ammassi rocciosi massicci (R1);

– stratificati (R2);

– fortemente scistosi e/o fissili (R3);

– costituiti da rocce deboli (weak rockWR).

Tab. 3.13 – Grado di alterazione dei clasti in terreni grossolani.

3.3.2.1 – Orientazione delle discontinuità

Le discontinuità presenti nell’ammasso roccioso sono raggruppabili in famiglie sulla base della loro orientazione nello spazio e delle loro caratteristiche fisiche; il dato che consente di accorpare le discontinuità è il valore della giacitura che, per quanto disperso, costituisce un intorno di un valore modale caratteristico per ogni singola famiglia.

Le differenti caratteristiche fisiche sono conseguenza, infatti, della diversità nell’origine geologica dei vari allineamenti, motivo per cui risulta opportuno distinguere tra superfici di strato (St), piani di scistosità (Sc), superfici di frattura (K) e, nell’ambito di queste, le diverse famiglie di discontinuità eventualmente presenti (K1K2 etc.). Per quanto possa capitare che il medesimo intorno di valori corrisponda a due differenti famiglie di discontinuità con origine diversa, nella gran parte dei casi, ogni famiglia presenta una giacitura che, prima di ogni altra caratteristica, consente di definirlo quale unità a sé stante. La giacitura delle discontinuità, definita da immersione (in termini di azimuth) ed inclinazione (zenith) espresse in gradi sessagesimali, viene rappresentata da una coppia di numeri di 3 e 2 cifre,rispettivamente.

Il numero n delle misure di giacitura da effettuare per ricavare uno schema accurato è funzione della complessità dello schema strutturale: nel caso di famiglie di discontinuità evidenti può essere sufficiente misurare una decina di giaciture per ogni famiglia al fine di ottenere un valore medio significativo mentre situazioni più complesse richiedono una densità di misure sempre maggiore, fino al centinaio di valori.

Lo scopo principale in questa fase del rilievo è consentire una rappresentazione sintetica e completa dello schema strutturale relativo alla posizione nello spazio delle discontinuità ponendo particolare attenzione nella misura della giacitura di una discontinuità ondulata o ad andamento irregolare, della quale interessa la giacitura media, ed alle misure effettuale in zone di anomalia magnetica.

Poiché i valori di giacitura vengono rappresentati mediante proiezioni stereografiche polari è conveniente eseguire le letture con la precisione del grado, in modo da ridurre le sovrapposizioni dei poli negli stereogrammi.

3.3.2.2 – Spaziatura delle discontinuità

La spaziatura delle discontinuità è definita quale distanza media tra le discontinuità appartenenti ad una medesima famiglia misurata perpendicolarmente alle discontinuità stesse. Per ogni famiglia di discontinuità si considera il valore della spaziatura calcolata come rapporto tra la lunghezza della base di misura (ortogonale alle discontinuità) e il numero di discontinuità che intersecano la base stessa:

S = L/n

Una metodologia alternativa consiste nel misurare la distanza tra tutte le successive discontinuità della medesima famiglia ottenendo un certo numero di valori da elaborare successivamente.

Si tratta allora di effettuare, per ogni famiglia, una serie di misure di distanze entro un tratto di lunghezza  10 x spaziatura media che si sta calcolando, e comunque  2m.

Comunemente vengono considerate solamente le discontinuità aventi una persistenza lineare > 90% e quelle che intersecano altre discontinuità. Spaziature di discontinuità con persistenza inferiore vengono misurate solo in casi particolari e tenendo comunque distinti i valori ottenuti.

3.3.2.3 – Persistenza delle discontinuità

Una superficie di discontinuità può presentarsi formata da zone di totale separazione tra le 2 pareti (coesione nulla) e da ponti in roccia per i quali le caratteristiche meccaniche possono essere simili a quelle della roccia intatta. Tra questi due estremi si possono trovare zone parzialmente indebolite ove i parametri meccanici hanno valori intermedi. Infine, una discontinuità può terminare lateralmente, lasciando il posto a roccia intatta.

La persistenza delle discontinuità può essere definita come il rapporto % tra l’area di effettiva separazione e l’area del piano che contiene la discontinuità stessa. In questi termini viene correttamente definita una persistenza areale per distinguerla dalla persistenza lineare intesa, quest’ultima, come l’estensione di una discontinuità rispetto a una linea di riferimento appartenente al piano su cui giace la discontinuità medesima (sempre in rapporto %).

Di norma tale linea di riferimento è data dall’intersezione della superficie di affioramento con il piano che contiene la discontinuità.

La persistenza è senza dubbio uno dei parametri più importanti dell’ammasso roccioso, ma e anche uno dei più difficili da misurare in quanto non ne è possibile un rilievo diretto e solo in pochi casi è possibile una sua stima basata su osservazioni relative a due superfici di affioramento o su dati di perforazione.

Più frequentemente ci si deve limitare a valutare la persistenza lineare di una discontinuità lungo una sola direzione. Le osservazioni, in ogni caso, vanno effettuate per ogni singola famiglia e per altre discontinuità eventualmente presenti e significative. Per la maggior parte delle volte è sufficiente stimare la persistenza lineare media di una famiglia distinguendo 3 classi: < 50%, compresa entro 50÷90%,  90%. Quando è possibile eseguire osservazioni dirette lungo 2 superfici di affioramento contigue ed orientate differentemente, è possibile stimare la persistenza areale distinguendo le 3 classi (corrispondenti alle classi di persistenza lineare): < 25%, compresa entro 25÷80%;  80% (Fig. 3.1).

La scelta dell’ampiezza di queste classi deriva da studi riguardanti l’importanza relativa della persistenza delle discontinuità sul comportamento meccanico dell’ammasso. Da questi, infatti, risulta che se la persistenza areale é < 25% la resistenza al taglio dell’ammasso roccioso dipende quasi esclusivamente dalle caratteristiche meccaniche del materiale roccia mentre risulta ininfluente la resistenza al taglio lungo le discontinuità; viceversa, se la persistenza areale è > 80% il comportamento dell’ammasso roccioso è condizionato essenzialmente dalla resistenza al taglio lungo le discontinuità.

Fig. 3.1 – Persistenza lineare e areale espressa in % su 2 facce di un affioramento.

Le situazioni intermedie sono riassunte in unico gruppo anche in considerazione delle incertezze insite nell’acquisizione dei dati e quindi dello scarso significato che suddivisioni più dettagliate assumerebbero. Le 3 classi riportale sono identificate dai termini descrittivi ISRMnon persistentesub-persistentepersistente. La persistenza viene definita anche come effettiva estensione della discontinuità nell’ammasso roccioso espressa in mlin.

Volendo mettere in evidenza, più che il valore % o quello assoluto della persistenza, le variazioni relative di questa da una stazione di misura ad un’altra è opportuno calcolare l’indice di terminazione (IT) espresso dalla relazione:

IT = (ΣTr/2d100

dove Tr è il numero delle terminazioni laterali delle discontinuità in roccia (Fig. 3.2) e d il numero delle discontinuità considerate.

Fig 3.2 – Terminazioni delle discontinuità in roccia.

3.3.2.4 – Irregolarità delle discontinuità

Osservando alla scala dell’affioramento emergono indicazioni sulla forma della discontinuità; queste, infatti, possono essere limitate alla distinzione tra superfici planali, ondulale, seghettate o irregolari, e fornire la stima o la misura dell’ampiezza e della lunghezza di ondulazioni, seghettature e irregolarità. La rugosità, come visto in precedenza, viene rilevata tramite il pettine di Barton (passo di lettura ≤1 mm). Tale grandezza, di norma, viene espressa in termini di Joint Roughness Coefficient (JRC) secondo la nota tabella di confronto (v. → cap.1).

Fig. 3.3 – Profili di rugosità e forme delle discontinuità; la lunghezza dei profili risulta compresa entro 1÷10m.

Le scale verticale e orizzontale sono uguali.

La talora difficile accessibilità alle superfici di discontinuità limita sovente la possibilità di ricavare un numero significativo di misure; tuttavia, per ogni famiglia, è prassi operativa obbligata eseguire un numero di misure tale (5÷10) da caratterizzare con decisiva rappresentatività la rugosità naturale; quest’ultima, salvo diversa indicazione, viene effettuata di norma lungo l’immersione.

In alternativa, qualora fossero sufficienti solo indicazioni di massima, è possibile descrivere la forma e la rugosità della discontinuità in accordo con la Fig. 3.3 basata su osservazioni a scala dell’affioramento e di dettaglio.

3.3.2.5 – Resistenza e alterazione delle superfici delle discontinuità

II mezzo più rapido per la determinazione della resistenza superficiale in situ è lo sclerometro.

In ogni rilievo geomeccanico è quindi opportuno testare con tale strumento non solo le superfici di discontinuità (più o meno alterate) ma anche il materiale roccia integro, pulito con una pietra abrasiva dall’eventuale alterazione superficiale, al fine di rendere, in termini quantitativi, il grado di alterazione delle superfici di discontinuità, parametro in grado di condizionare in modo determinante la resistenza al taglio delle medesime.

Qualora non fosse possibile utilizzare tale procedura, è possibile, in alternativa, fornire una descrizione dell’alterazione delle superfici di discontinuità ai sensi dei riferimenti riportati in Tab. 3.14.

Tab. 3.14 – Alterazione delle superfici di discontinuità (WD).

3.3.2.6 – Apertura delle discontinuità

Le misure, distinte per famiglie di discontinuità, vengono eseguite con uno spessimetro o un calibro; è sufficiente, di norma, distinguere le seguenti classi di apertura:

< 0.1 mm (→ discontinuità chiusa)

0.1 – 1.0 mm

1.0 – 2.5 mm

2.5 – 5.0 mm

> 5.0 mm

La classificazione ISRM, più dettagliata, è data invece dalla:

< 0.10 mm

0.10 – 0.25 mm

0.25 – 0.50 mm

0.50 – 2.50 mm

2.50 – 1 cm

1 – 10 cm

10 – 100 cm

> 1 m

Utilizzando quest’ultima classificazione occorre considerare il valore modale delle aperture misurate per ogni singola famiglia rammentando che le aperture misurate in affioramento vengono solitamente influenzate da fattori quali il rilascio tensionale e l’alterazione superficiale risultando maggiori di quelle esistenti all’interno dell’ammasso roccioso (Fig. 3.4).

Fig. 3.4 – Andamento medio della variazione dell’apertura delle discontinuità con la profondità.

3.3.2.6 – Materiale di riempimento

La presenza di materiale di riempimento nelle discontinuità deve essere registrata considerandone lo spessore, la composizione mineralogica, la granulometria e le condizioni di umidità.

Qualora il materiale di riempimento fosse composto da un terreno e si presentasse in quantità sufficiente diviene opportuno procedere al campionamento sottoponendo il materiale alle prove geotecniche di routine. Meno sovente accade di poter eseguire, in situ, prove con strumenti di rapido impiego quali penetrometro o scissometro tascabili.

3.3.2.7 – Condizioni di umidità

La circolazione idrica negli ammassi rocciosi fratturati avviene quasi esclusivamente per permeabilità secondaria lungo le discontinuità; tuttavia, pur rivestendo la presenza d’acqua un significativo ruolo nella caratterizzazione di un ammasso roccioso per quanto attiene ad un rilievo geomeccanico, è in ogni caso sufficiente distinguere le condizioni di umidità dell’ammasso considerando le condizioni delle singole famiglie di discontinuità secondo il seguente schema descrittivo:

–       discontinuità serrata e asciutta (→ circolazione d’acqua non possibile);

–       discontinuità asciutta e assenza di tracce di circolazione idrica;

–       discontinuità asciutta con presenza di circolazione idrica;

–       discontinuità umida in assenza di visibilità di circolazione idrica;

–       circolazione idrica discontinua all’interno della discontinuità;

–       circolazione idrica continua all’interno della discontinuità.

Nel caso di circolazione (e comunque fosse possibile) andrebbero fomiti i dati sulla portata; per una corretta valutazione in situ sono altresì indispensabili anche i dati relativi al regime delle precipitazioni che si sono avute nell’area nel periodo precedente a quello dell’osservazione.

3.3.2.8 – Intercetta delle discontinuità

L’intercetta viene misurata senza considerare l’appartenenza delle discontinuità alle diverse famiglie; tale grandezza rappresenta quindi la distanza media tra le discontinuità; la misura di questa viene effettuata lungo almeno 2 basi di riferimento (di norma una orizzontale ed una verticale) misurando le distanze tra tutte le discontinuità che intersecano la linea di riferimento indipendentemente dalla famiglia d’appartenenza considerando, in generale, solamente discontinuità con persistenza lineare > 90% o intersecanti altre discontinuità. Precisione di lettura, lunghezza delle basi e procedura di calcolo sono analoghe a quelle previste per la spaziatura.

Lo scopo di effettuare misure su più basi di riferimento è quello d’individuare il valore minimo e più cautelativo dell’intercetta; per tale motivo, nelle successive elaborazioni, qualora si presentasse una famiglia di discontinuità assai più frequente, la base di misura più utile diviene quella utilizzata per il valore di spaziatura di tale famiglia. L’inverso dell’intercetta, ossia il numero di discontinuità per unità di lunghezza, viene indicata come intensità di fratturazione.

3.3.2.9 – Dimensione dei blocchi (VRU)

L’ammasso roccioso, suddiviso dalle discontinuità, risulta composto da elementi discreti di materiale roccia indicati come volumi rocciosi unitari (VRU) i quali presentano generalmente entro un ampio spettro dimensionale. Il volume roccioso unitario fornisce importanti indicazioni sull’assetto dell’ammasso roccioso. Per tale definizione, spesso difficoltosa, si procede stimando le dimensioni tipiche medie (Jmed) massime (Jmax) e minime (Jmin) significative dei blocchi in cui è scomposto l’ammasso avvalendosi dell’osservazione dei detriti eventualmente presenti alla base della superficie di affioramento. Nel caso in cui la forma dei blocchi risultasse, almeno in prima approssimazione, simile a quella cubica o di un parallelepipedo, vale la relazione:

VRU = S1 S2 S3

dove Sn è la spaziatura delle diverse famiglie di discontinuità.

Si definisce indice di densità di discontinuità per unità di volume di roccia il numero di discontinuità per volume unitario (JV). Tale misura diretta è possibile solo nel caso in cui si rendano osservabili 2 superfici contigue e diversamente orientate del medesimo ammasso (Jè definito anche quale somma del numero di discontinuità per mlin di ciascuna famiglia di discontinuità). La forma dei blocchi viene definita introducendo poche classi descrittive, distinguendo tra blocchi cubicitabularicolonnari e irregolari.

Casi particolari e situazioni richiedenti informazioni quantitative, sono espresse in termini di rapporto tra le lunghezze maggiore ed intermedia misurate ortogonalmente tra loro, e la lunghezza minore assunta come unitaria.

3.4 – Rilievo geomeccanico in ammassi rocciosi a comportamento debole e complesso

In termini generali le rocce possono essere considerate deboli o perché costituite da materiali a bassa resistenza oppure perché, indipendentemente dalla resistenza del materiale del continuum, si presentano fortemente interessate da piani di discontinuità dovuti a fratturazione, stratificazione, scistosità etc.

Nel primo gruppo ricadono le rocce definite deboli in quanto costituite prevalentemente da materiali deboli (ad es. marne); le rocce che, indipendentemente dalla resistenza dei minerali che le costituiscono, risultano poco cementale (ad es. arenarie) unitamente ad altri materiali diventati deboli a seguito di processi d’alterazione chimica, degradazione fisica o di metamorfismo retrogrado.

Nel secondo ricadono le rocce sottilmente stratificate, intensamente scistose e tutte quelle che, indipendentemente dalla genesi, hanno subito intensi processi di fratturazione.

Nella classe delle rocce deboli possono essere inoltre inseriti gli ammassi rocciosi costituiti da alternanze di litotipi a differente comportamento meccanico di cui quello debole è nettamente prevalente.

Alla classe delle rocce complesse vengono invece riferiti tutti gli ammassi rocciosi costituiti da alternanze di litotipi a differente comportamento meccanico di cui nessuno nettamente prevalente. In ogni caso le rocce deboli presentano un comportamento in qualche modo intermedio tra i terreni e le rocce propriamente dette e questo fa sì che le weak rock (terminologia anglosassone) siano generalmente difficili da descrivere, campionare e sottoporre a test

3.4.1 – Definizione di roccia debole

I parametri più comunemente impiegati per definire il limite tra un terreno e una roccia debole sono la resistenza a compressione monoassiale e la coesione.

I materiali con coesione < 0.3 MPa e resistenza a compressione monoassiale < 2 MPa sono considerati terreni; i materiali con resistenza a compressione compresa entro 2÷20 Mpa sono descritti come rocce deboli.

La resistenza a compressione di questi materiali risulta significativamente funzione del grado di saturazione a differenza di quanto si osserva nelle rocce dure.

In termini di modulo di deformazione si può attribuire a queste rocce un valore compreso entro 0.5÷5 GPa sebbene per alcune di queste, mostrando significative deformazioni per creep anche a bassi livelli pensionali, non abbia significato parlare in termini di modulo di deformazione in quanto il loro comportamento è marcatamente tempo-dipendente.

Nella classificazione delle rocce deboli sono prese in considerazione anche altre proprietà quali la durabilità e il rigonfiamento esercitanti una forte influenza sul comportamento di questi materiali in funzione delle modificazioni dell’umidità e del livello tensionale.

La durabilità (slaking) dipende sostanzialmente dalla tessitura della roccia e indica la propensione della roccia al degrado a seguito di cicli umido-asciutto; il rigonfiamento (swelling) è funzione della composizione mineralogica e, soprattutto, della presenza di minerali del gruppo delle argille, particolarmente sensibili all’umidità.

Alcune rocce moderatamente dure in condizioni naturali, inoltre, prendono a diventare deboli per i fenomeni descritti a seguito della variazione delle condizioni al contorno (marne e calcari marnosi) in particolari situazioni geologico-tecniche (creazione di pendii artificiali o scavo di gallerie). Queste rocce vengono definite evolutive rocks proprio per indicare la loro tendenza a modificarsi al cambiamento delle condizioni di sforzo o di umidità.

3.4.1.1 – Tipi di rocce deboli: classificazione genetica

In base alle caratteristiche genetiche si possono distinguere 4 seguenti gruppi principali di rocce deboli:

–       rocce deboli a causa di deboli legami tra i componenti;

–       rocce deboli a causa dell’alterazione dei componenti del materiale;

–       rocce deboli a causa della formazione (di origine tettonica) di piani di taglio in seguito a processi di piegamento e ragliamento;

–       rocce deboli per l’abbondante presenza di cavità.

Le prime 2 classi comprendono ammassi che sono deboli a causa del materiale roccia che li costituisce; le seconde descrivono ammassi deboli costituiti anche da materiale roccia resistente. Rocce appartenenti alla prima classe possono essere di origine sedimentaria (argilliti, siltiti, marne, gessi, arenarie e calcareniti) oppure di origine metamorfica (scisti argillitici, filladi) o vulcanica (tufi, brecce). In ogni caso i legami esistenti tra le particelle costituenti il materiale roccia (dovuti a presenza di cemento o a legami tra minerali) sono deboli.

Sebbene alcuni minerali (miche, pirite, feldspati, calcite etc.) siano maggiormente predisposti a trasformarsi rispetto ad altri, le rocce del secondo gruppo sono suscettibili di presentare qualsiasi natura petrografica ed origine ma, in ogni caso, la roccia di partenza ha subito profondi processi di alterazione fisica e/o chimica che le fanno attribuire alle classi W5 e W4.

La formazione di pieghe e faglie, con relativa formazione di piani di taglio ravvicinati e d’intensa microfratturazione nel materiale-roccia, è responsabile della trasformazione di rocce anche di elevata resistenza in rocce deboli della classe W3. Al decadimento delle caratteristiche meccaniche del materiale-roccia a motivo di questi processi meccanici possono associarsi fenomeni di alterazione a causa della maggiore facilità di circolazione delle acque. Sebbene le rocce deboli di questo tipo (→ fenomeni di fagliamento) possono interessare volumi circoscritti, il loro peso in qualsiasi valutazione progetto assume importanza fondamentale.

Il quarto gruppo comprende tutti gli ammassi rocciosi che devono la loro debolezza all’abbondante presenza di vuoti di piccole o grandi dimensioni di qualunque origine (arenarie, conglomerati, travertini, rocce carsiche etc.).

Tab. 3.15 – Classificazione delle rocce metamorfiche e ignee.

 Tab. 3.16 – Classificazione delle rocce sedimentarie e piroclastiche.

3.4.2 – Rilievo geomeccanico di rocce deboli

Operando in situ (in particolare nell’esecuzione di rilievi geomeccanici) è opportuno poter fare riferimento a classificazioni più articolate di quella puramente genetica, in grado di considerare le caratteristiche litologiche riflettenti differenze nel comportamento meccanico.

E’ possibile, a questo proposito, fare riferimento alla Tab. 3.17 dove sono schematizzati i tipi caratteristici di rocce deboli ognuno dei quali presenta particolari proprietà.

Per ognuna delle sottoclassi citate, in particolare per quelle che si riferiscono ad alternanze di litotipi con caratteristiche differenti, é altresì opportuno indicare tra parentesi anche la sigla riferentesi al termine subordinato eventualmente presente (ad es., WR a f(c) indica una roccia debole costituita da un’alternanza di strati prevalentemente di litotipi semicoerenti a grana fine con subordinati strati di litotipi semicoerenti a grana medio-grossa).

Tab. 3.17 – Classificazione delle rocce deboli sulla base delle caratteristiche rilevabili in un rilievo geomeccanico.

(rc = resistenza a compressione; I = intercetta delle discontinuità; W = grado di alterazione dell’ammasso.)

A differenza di quanto accade per le rocce dure, nelle rocce deboli alcune delle operazioni tipiche del rilievo geomeccanico risultano impossibili oppure molto difficoltose proponendo talora livelli di significato del tutto relativi. A motivo dell’eterogeneità di tali rocce, di conseguenza, non appare conveniente indicare tutti gli accorgimenti necessari ad eseguire correttamente un rilievo geomeccanico in rocce deboli, ragione per cui vengono proposte di seguito solamente alcune considerazioni aventi lo scopo di mostrare come, operando su tali elementi, sia indispensabile adattare in continuo il rilievo e i suoi moduli al singolo caso specifico.

Una considerazione di carattere generale riguarda, inoltre, la differente influenza che la persistenza delle discontinuità manifesta sul comportamento meccanico dell’ammasso roccioso quando si considerano rocce dure e rocce deboli. Come noto, infatti, il comportamento dell’ammasso, nel suo insieme, dipende dalle caratteristiche fisico-meccaniche del materiale-roccia: da quelle delle discontinuità e dalla loro interazione; nelle rocce dure, per le quali la persistenza è uno dei parametri più significativi, il rapporto tra resistenza del materiale e quella delle discontinuità è molto maggiore di quello esistente nelle rocce deboli; alle condizioni limite di ammassi molto deboli, infatti, a motivo della bassa resistenza del materiale-roccia, il significato della persistenza, così come di altre caratteristiche delle famiglie di discontinuità, viene decisamente ridotto mentre, al contrario, risulta talora assai utile poter descrivere il valore di intercetta con maggior dettaglio fornendo indicazioni sulla dispersione dei valori misurati tramite un istogramma di frequenza. Se la dispersione delle misure risulta molto elevata o la sua distribuzione irregolare nell’area di rilievo può tornare utile corredare le misure con una descrizione e una rappresentazione grafica della disposizione delle discontinuità. Sotto altre condizioni, invece, si rivela utile integrare le misure dell’intercetta (basate sul conteggio delle sole discontinuità con elevata persistenza) con rilievi che considerino tutte le discontinuità, indipendentemente da questa. Tornando alla spaziatura è opportuno, nelle classi WRa, mantenere distinte le misure di spessore degli strati più resistenti da quelli più deboli.

Infine, per alcuni tipi di rocce deboli, è utile accompagnare il rilievo geomeccanico con l’esecuzione di brevi rilievi di sismica leggera che, misurando in situ la velocità sia delle onde longitudinali che di quelle trasversali, consentono di risalire ai parametri elastici dinamici dell’ammasso. Il modulo elastico dinamico ed il rapporto di Poisson così misurati, come visto, possono avere significato sia in termini assoluti, sia confrontati coi parametri elastici dinamici ottenibili su campioni di materiale-roccia.

3.4.3 – Il corretto campionamento

Il campionamento di materiale-roccia rappresentativo delle caratteristiche fisiche e meccaniche per la conduzione di prove ed analisi di laboratorio costituisce, in molti tipi di rocce deboli, un problema di difficile soluzione con le attrezzature e le metodologie tradizionali.

Tab. 3.18 – Indicazioni di massima sull’applicabilità di differenti tecniche di campionamento alle rocce deboli (R = raccomandato; U = utilizzabile ma con esito incerto; N = necessario; O = opzionale).

I problemi principali non sono legati, quindi, alla debolezza del materiale quanto alle sue eterogeneità, anisotropia, sensibilità alle vibrazioni, variazioni del contenuto d’acqua e, infine, alla combinazione di tutti tali fattori; operativamente, infatti, la resistenza della roccia è spesso troppo alta per consentire l’impiego delle attrezzature e procedure tipiche del campionamento in terreni; nel medesimo tempo l’uso delle tecniche impiegate in rocce dure provoca sollecitazioni meccaniche tali da alterarle irrimediabilmente. Di conseguenza, nelle perforazioni geognostiche, viene raccomandato l’uso del triplo carotiere (utilizzato con minimo impiego di fluidi di circolazione) nel caso fossero necessari campioni d’elevata qualità per test di laboratorio mentre col metodo del carotaggio integrale (Integral Coring Method) si può viceversa ottenere un’elevata % di recupero unitamente alla possibilità di svolgere un’accurata descrizione della roccia. Così, in affioramento, è da preferire il campionamento di blocchi con la tecnica della scatola cubica o con tubi campionatori a pareti sottili infissi a pressione o a rotazione.

3.4.5 – Prove di laboratorio per rocce deboli

A motivo del carattere peculiare delle rocce deboli, dai moduli intermedi tra roccia e terreno, le analisi e le prove che vengono effettuate sono, in parte, tratte dall’esperienza del laboratorio geotecnico e in parte da quello geomeccanico in funzione della resistenza del materiale che può essere prossima ai limiti inferiore o superiore attribuibili alla classe delle rocce deboli.

Tab. 3.19 – Indicazioni di massima sulla possibilità di eseguire alcuni tipi di prove sulle rocce deboli e loro significatività. (E = eseguibile; U = utilizzabile ma con esito incerto; NE = non eseguibile; S = significativa; PS = poco significativa; NS = non significativa).

Le prove di laboratorio tornano particolarmente utili per interpretare il comportamento dell’ammasso roccioso soprattutto per quanto concerne le rocce deboli a motivo delle scadenti caratteristiche meccaniche del materiale-roccia (classi genetiche 1 e 2) rappresentando le proprietà del materiale-roccia sostanzialmente quelle dell’ammasso.

Oltre alle proprietà meccaniche, costituenti quasi sempre le informazioni più significative dal punto di vista applicativo ma difficili da misurare direttamente, può essere utile rilevare alcune caratteristiche fisiche che in qualche modo controllano le proprietà meccaniche; più in generale si rivela decisivo definire correlazioni tra quelle proprietà che sono, per un determinato tipo di roccia debole, più semplici da misurare e le principali caratteristiche di resistenza e di deformabilità.

Una procedura di tal fatta consente (per un preciso tipo di roccia debole) di misurare i parametri di più semplice determinazione su molti campioni limitando le prove più complesse definendo correlazioni significative tra i 2 gruppi di test. Un parametro fisico significativo in alcune rocce deboli, ad es., è la porosità, che può risultare particolarmente elevata nelle rocce che hanno subito processi d’alterazione (15%÷40%): di tale parametro è nota una buona correlazione inversa con la resistenza a compressione monoassiale soprattutto nelle arenarie.

Nelle rocce ignee particolarmente alterate si è dimostrata, viceversa, una buona correlazione tra la medesima resistenza a compressione monoassiale e la capacità di assorbimento idrico.

Confronti vengono inoltre proposti tra indice di resistenza al carico puntiforme, prove di compressione monoassiale e slake-durability test (2° ciclo).

Va anche sottolineato, in generale, che la variabilità delle rocce deboli e la difficoltà di ottenere campioni di buona qualità tendono ad aumentare la dispersione dei risultati delle prove, comportando ciò la necessità di eseguire un maggior numero di test, rispetto alle rocce dure, per ottenere un risultato significativo.

Nella Tab. 3.18 vengono sintetizzati la possibilità dell’esecuzione pratica ed il grado di significatività delle più comuni prove di laboratorio sulle rocce deboli considerando la suddivisione proposta in precedenza.

A commento s’intende sottolineare la praticità di alcune prove, quali il test di resistenza a carico puntiforme, in quanto eseguibile anche su provini di forma irregolare, unitamente all’utilità della prova ad ultrasuoni che, essendo non-distruttiva, permette di eseguire successivamente test diversi sul medesimo materiale. Si osserva infine che le difficoltà relative al campionamento e alla successiva preparazione dei provini di laboratorio fanno si che, spesso, si sia costretti a ricorrere alle più costose prove in situ le quali forniscono, naturalmente, informazioni relative all’ammasso roccioso nel suo complesso.

3.4.6 – Rilievo geomeccanico in sotterraneo

Il rilevamento geologico-tecnico si rivela indispensabile, nella fase di progetto di un’opera in sotterraneo, per prevedere le condizioni degli ammassi rocciosi (ed eventualmente dei terreni) interessati dallo scavo. Questo consente di programmare le differenti fasi di lavoro dal punto di vista delle tecniche da impiegare, della tempistica, dei materiali necessari, del personale e, quindi, del costo globale dell’opera.

Il rilievo geologico-tecnico segue il rilievo geologico e viene a propria volta integrato da una campagna d’indagini in situ (di tipo meccanico e/o geofisico) e di laboratorio decisa nei dettagli sulla base dei risultati del rilievo geologico-tecnico. Nella pratica ultima, infatti, il rilievo ha grande valenza, via via che lo scavo prosegue, per confrontare aspettative e previsioni della fase progettuale con lo stato di fatto ed, eventualmente, modificare il tipo e l’entità degli interventi previsti inizialmente.

Tutto ciò porta alla necessità di classificare, avanzamento dopo avanzamento, l’ammasso roccioso in maniera oggettiva e rapida: il lavoro prevede quindi il rilievo con continuità sul fronte di scavo delle caratteristiche degli ammassi applicando sistematicamente una classificazione degli stessi; i risultati di questa consentiranno all’Impresa di confermare le ipotesi progettuali oppure di apportarvi modifiche. Supponendo condizioni non particolari e se l’avanzamento avviene con il metodo tradizionale si tratta, in sostanza, di eseguire un rilievo geomeccanico su ogni fronte (cioè, misurando lungo l’asse di avanzamento, circa ogni 4 m) agendo durante la fase di perforazione preparatoria per la nuova volata.

Date le condizioni di lavoro è opportuno procedere al rilevamento facendo uso di moduli prestampati costruiti di volta in volta in funzione delle caratteristiche specifiche del singolo cantiere (le condizioni contrattuali indicano quasi sempre il metodo classificativo da impiegare imponendo talora anche il modulo di rilevamento).

L’esperienza generale suggerisce d’impiegare la classificazione Q-System, basata su tabelle di ingresso di rapido impiego, eseguendo nel contempo uno schizzo del fronte che ponga in rilievo solo le discontinuità principali, eventuali passaggi litologici o venule d’acqua, fuori sagoma e zone rilasciate o con distacchi parziali e l’eventuale strumentazione posta in opera (Fig. 3.5).

Fig. 3.5 – Rilievo speditivi del fronte di una galleria in fase di scavo.

Condizioni del tipo, ad es., si possono ritrovare quando s’intende ripristinare una galleria oppure incrementare il fattore di sicurezza di un’opera in esercizio. In tali casi il rilievo geologico-tecnico viene ad interessare sistematicamente piedritti e calotta entro i quali vanno riconosciuti i passaggi litologici, le discontinuità con le loro giaciture e caratteristiche, la presenza di zone in equilibrio precario o dove crolli siano già avvenuti e di zone sottoposte a concentrazioni di tensioni, venute d’acqua perenni o temporanee, eventuali interventi di consolidamento già posti in opera ed il loro stato.

3.4.7 – Prove speditive in situ

3.4.7.1 – Prova di resistenza a carico puntiforme

A partire dalla metà degli anni ‘70 è andato sviluppandosi con sempre maggior diffusione l’uso di un apparato portatile d’impiego rapido per la misura della resistenza a carico puntiforme.

La prova, una valutazione indiretta di trazione, viene indicata anche come Point-Load Strength Test, e consente la definizione di un indice di resistenza correlabile anche con la resistenza alla compressione monoassiale. Il sistema trova largo impiego anche in laboratorio.

Fig. 3.6 – Rapporti di forma per la prova a carico puntiforme (ISRM).

L’apparato consente di operare, oltre che su spezzoni di carota, anche su provini di forma irregolare posizionati tra una coppia di punte coniche tramite le quali viene esercitato lo sforzo di compressione. Le prescrizioni dell’ISRM i rispettivi rapporti di forma sono esposte in Fig. 3.6; i provini devono essere nelle condizioni di umidità naturale salvo indicazioni differenti.

La distanza tra le punte (D) è ~50mm; per ottenere una campionatura rappresentativa nei test assiali o diametrali su spezzoni cilindrici si devono portare a rottura almeno dieci provini.

Per campioni irregolari occorre eseguire almeno venti misure tenendo separati i valori rilevati nelle prove con direzione d’applicazione del carico parallela ad eventuali piani di debolezza da quelli nei quali i piani sono ortogonali all’asse d’applicazione dello sforzo.

Quando la dimensione caratteristica del provino D, pari alla distanza tra le punte coniche dello strumento, è = 50mm, l’indice di resistenza al point load è definito come rapporto tra la forza di compressione assiale a rottura P ed il quadrato della dimensione caratteristica D:

IS(50) = P/D2

Per i provini che presentano un valore di D ≠50mm l’indice IS(50) viene ricavato dalla Size Correction Chart partendo dal valore di IS calcolato, come sopra indicato, per un provino con una dimensione caratteristica differente (Fig. 3.7).

L’introduzione di una carta di correzione s’è rivelata necessaria in quanto osservazioni sperimentali hanno evidenziato che i valori di IS ottenuti sulla medesima roccia variano regolarmente in funzione della dimensione del provino; la funzione che lega IS e D è riportata sulla carta di correzione.

Fig. 3.7 – Carta di correzione in funzione della dimensione caratteristica D (ISRM).

Il rapporto tra gli indici ottenuti con direzione di applicazione dello sforzo normale e parallela ai piani di debolezza eventualmente presenti nella roccia definisce l’indice di anisotropia alla prova di carico puntiforme:

IA = IS() /IS(װ)

Per rocce a comportamento meccanico isotropo IA = 1.

Sperimentalmente sono state osservate relazioni sufficientemente approssimate tra IS e resistenza a trazione σT, tra IS e resistenza a compressione monoassiale σC (Fig. 3.8)

Fig. 3.8 –Apparato per PLST e relazione tra Indice di Point-Load e σC (ISRM).

Numerosi ricercatori hanno studiato la prova di point-load nel dettaglio analizzando, in particolare, l’influenza delle variazioni del contenuto d’acqua, l’effetto scala e l’effetto forma sul risultato della prova e si é verificato, tra l’altro, che non sempre la resistenza della roccia in condizioni sature è minore della resistenza in condizioni secche, al contrario di quanto avviene per la resistenza alla compressione monoassiale. Anche per quanto concerne gli effetti legati alle dimensioni ed alla forma dei provini sono state proposte numerose relazioni per ottenere un valore IS indipendente da questi in sostituzione della Size Correction Chart.

Si è infine constatato come il fattore di conversione per ottenere la resistenza a compressione monoassiale vari da litotipo a litotipo entro un intervallo piuttosto ampio (10÷25%).

In considerazione dell’ampia diffusione della prova, a integrazione delle norme ISRM, vengono di seguito riportate alcune indicazioni suggerite dalle più recenti acquisizioni in merito.

3.4.7.1.1 – Forma e dimensioni dei provini

Il provino è generalmente costituito da uno spezzone di carota prelevato durante una perforazione o da una porzione di roccia ricavata da un affioramento di superficie; in quest’ultimo caso, benché di forma irregolare, il provino deve risultare assimilabile ad un parallelepipedo mentre le dimensioni dei 3 lati devono soddisfare le seguenti condizioni:

–       la dimensione caratteristica D, misurata lungo la direzione di applicazione dello sforzo e pari alla distanza tra le punte coniche dello strumento al momento della rottura, deve risultare ≥ 30mm;

–       le dimensioni massima (L) e minima (l) del provino misurate sul piano D, devono essere tali che i rapporti L/D e 1/D siano compresi entro 1÷3 (estremi inclusi).

Nel caso di provini cilindrici è possibile effettuare sia prove assiali come prove diametrali; nel primo caso lL mentre nel secondo caso D = 1. Le dimensioni massime dei provini sono legate unicamente alle caratteristiche costruttive dell’apparato e operativamente risultano ≤15÷20cm.

3.4.7.1.2 – Preparazione del campione

La preparazione del provino viene effettuata di norma in laboratorio per scalpellatura, carotaggio e segagione sino al raggiungimento della forma e delle dimensioni volute; risultano sempre utilizzabili i frammenti ottenuti durante l’esecuzione delle prove ,purché soddisfacenti alle condizioni generali esposte, mentre devono essere scartati i campioni che mostrano fratture e quelli che, per qualunque motivo, non possano essere ritenuti rappresentativi del comportamento del materiale-roccia in esame. Le prove vengono effettuate, di norma, su provini che abbiano mantenuto il contenuto d’acqua naturale; è opportuno, di conseguenza, sigillare i campioni in buste di materiale plastico resistente e procedere rapidamente all’esecuzione dei test.

3.4.7.1.2.1 – Procedura

Dopo l’esecuzione delle prime prove su un determinato litotipo occorre verificare che il manometro impiegato sia quello che consenta le misure più precise delle forze necessarie a portare a rottura i provini. Per ciascun provino è consigliabile utilizzare un modulo di laboratorio sul quale registrare i dati, analogo a quello riportato in Fig. 3.9.

3.4.7.1.3 – Calcolo dell’indice di resistenza a carico puntiforme

L’Indice di resistenza al Point-Load Test può essere determinato anche secondo quanto proposto da Greminger, considerando fattori correttivi sia per l’effetto scala che per l’effetto forma dei singoli provini; per ognuno di questi l’Indice di Point-Load Strength viene calcolato, in MPa, secondo le relazioni:

IS = F/D1.5d0.5 = 0.141 F/D1,5

per spezzoni cilindrici con carico diametrale, e:

IS = 0.834F/D l)0.75 d0.5 = 0.118 F/(D l)0.75

per tutti gli altri casi.

dove F è lo sforzo a rottura (N), d il diametro di riferimento = 50 mm, l la dimensione sul piano normale alla direzione di applicazione dello sforzo lungo la quale si sviluppa la rottura (con riferimento al modulo di Fig. 3.9 questa dimensione può coincidere con l o L a seconda di come si sviluppa il piano di rottura) (mm), D la distanza tra le punte al momento della rottura (mm).

3.4.7.2 – Prova di resistenza allo Sclerometro

Lo sclerometro (→ Martello di Schmidt) è uno strumento portatile, di semplice impiego ideato per la misura indiretta della resistenza del calcestruzzo. Trova applicazione, con minima modifica, nel rilevamento geologico-tecnico qualora s’intenda conoscere approssimativamente la resistenza alla compressione del materiale.

Lo strumento è composto essenzialmente da una massa battente che viene proiettata da una molla calibrata contro un’asta metallica posta a contatto con la roccia.

Fig. 3.9 – Modulo raccolta dati per prove di Point-Load.

Il rimbalzo elastico della massa battente R, funzione della quantità d’energia elastica restituita dalla superficie d’appoggio, viene misurato da un cursore la cui scala rientra, normalmente, entro i valori 10÷100; il sistema è contenuto in un cilindro metallico (Fig. 3.10)). La resistenza della roccia si ottiene, di conseguenza, tramite la lettura della risposta ad una sollecitazione dinamica.

Il Martello di Schmidt viene impiegato su superfici non eccessivamente irregolari (che potrebbero dare risposte falsate dalla ridotta area di contatto punta/roccia) controllando che non vi siano superfici di discontinuità nell’immediato intorno del punto di contatto.

Di norma viene accettata una rugosità massima, espressa in termini JRC,  8, mentre la distanza minima delle discontinuità non deve risultare < 35÷40 cm; in caso contrario l’energia d’urto non potrebbe venire interamente restituita in termini elastici ma, almeno in parte, dispersa lungo le discontinuità medesime (Fig. 3.11).

Lo strumento, in realtà, determina praticamente la resistenza alla compressione della porzione più superficiale della roccia (ovverosia quella direttamente a contatto con la punta) che viene indicata come resistenza alla compressione apparente (o resistenza superficiale) usata soprattutto per ottenere la resistenza delle pareti delle discontinuità (Joint Wall Compressive StrenghtJCS).

Fig. 3.10 – Sclerometro o Martello di Schmidt.

II valore R del rimbalzo letto sullo strumento viene corretto in funzione dell’angolo, positivo o negativo, formato dal medesimo con l’orizzontale al momento della prova poiché la parte mobile è diversamente influenzata dalla forza di gravità in funzione di quest’angolo; la correzione viene effettuata con apposite tabelle fornite dal costruttore dello strumento.

Per ottenere risultati statisticamente significativi si eseguono, di norma, gruppi di 10 misure scartando le 5 minori e calcolando il valore di rimbalzo rappresentativo quale media aritmetica dei 5 valori maggiori (ISRM). Ottenuto tale valore si ricava la resistenza a compressione monoassiale apparente utilizzando la relazione di Miller:

σc = 10(0.00088γR + 1.01)

dove σc viene espresso in MPa e γ (peso di volume) in kN/m3 (occorre comunque tener conto della possibile dispersione dei risultati fomiti dallo sclerometro che, sempre secondo Miller, è dell’ordine di ± 50-60% del valore misurato).

Eseguendo la prova su una superficie non alterata (o pulita con pietra abrasiva) il valore di resistenza ottenuto con lo sclerometro risulterebbe pari al valore della resistenza alla compressione monoassiale ottenuto con prove dirette o con altre prove indirette quali il PLST visto precedentemente. Se la prova, viceversa non viene eseguita su superficie fresca, il rapporto tra il valore della resistenza ottenuta con lo sclerometro e la resistenza propriamente detta può essere considerato un indice del grado di alterazione superficiale della roccia perché, mentre le prove di resistenza, sia dirette che di Point-Load, misurano il comportamento in toto del provino, cioè la risposta interna alle sollecitazioni, la prova effettuata col Martello di Schmidt indaga, più che altro, la parte superficiale della roccia.

Fig. 3.11 – Valori di rimbalzo (R) allo sclerometro rispetto allo spessore di roccia senza discontinuità.

Se la roccia non è alterata il rapporto è pari all’unità; alterazioni progressivamente più intense vengono indicate da rapporti σC/σ(app) crescenti (σC/σ(app) >10 per rocce molto alterate); se la roccia risulta completamente alterata il rapporto torna ad essere ~1 poiché l’alterazione non interessa più solo una parte più o meno superficiale della roccia ma l’intero provino.

3.4.7.3 – Tilt Test e Push Test

Per diversi problemi applicativi è necessario almeno stimare in modo attendibile, la resistenza al taglio mobilizzabile lungo determinate superfici di discontinuità. La misura diretta viene eseguita con prove di taglio in laboratorio e, molto più raramente, mediante prove di taglio in situ.

La stima della resistenza al taglio può essere eseguita con l’approccio previsto da Barton, ponendo in relazione la rugosità, l’alterazione e l’eventuale presenza di riempimento, assumendo persistente la discontinuità; il calcolo della resistenza al taglio può avvenire anche tramite l’equazione empirica di Barton & Choubey conoscendo la rugosità (in termini JRC), la resistenza a compressione superficiale delle pareti della discontinuità (JCS), l’angolo d’attrito di base del materiale (φb) e lo sforzo efficace normale al piano di discontinuità.

Un calcolo speditivo dell’angolo di resistenza al taglio lungo una discontinuità viene anche eseguito (Bollettinari & Clerici) conoscendo i 5 parametri elementari che meglio descrivono le caratteristiche delle discontinuità (persistenza, rugosità, apertura, alterazione ed eventuale riempimento).

In alternativa ai metodi di misura diretta tradizionali e/o alle stime si procede con prove speditive, realizzabili sul terreno o in laboratorio, note come Tilt Test e Push Test (Barton & Choubey) in grado di fornire misure sufficientemente accurate in molli casi reali.

3.4.7.3.1 – Tilt Test

La prova consiste nell’isolare i 2 blocchi contenenti la discontinuità in esame e nell’inclinarli lentamente e progressivamente sino a quando il blocco superiore scivola lungo il piano di discontinuità. E’ possibile allora calcolare il valore del coefficiente JRC secondo la relazione:

JRC = (α  φr)/log10(JCS/σN)

dove, al numeratore α è l’angolo d’inclinazione della superficie di discontinuità al momento dello scivolamento, φr l’angolo d’attrito residuo della discontinuità, ottenuto con la relazione empirica di Richards φr =10°+(φb-10°)r/R dove φb è l’angolo d’attrito di base, r il rimbalzo allo Sclerometro sulla superficie più o meno alterata della discontinuità ed R il rimbalzo allo Sclerometro su una superficie non alterata; oppure secondo la relazione di Barton: φr= (φb-20°)+20r/Rdove φb è l’angolo d’attrito di base stimato per superfici lisce, non alterate e asciutte, r il rimbalzo allo Sclerometro su superficie umida ed R il rimbalzo allo Sclerometro su superfici asciutte, non alterate e lisce.

Secondo la relazione di Richards, φr = φb se la discontinuità non è alterata (r/R =1).

Secondo la relazione di Barton, φr = φb solo quando la discontinuità non è alterata ed è asciutta (r/R = 1).

Al denominatore della relazione che fornisce JRCJCS è la resistenza a compressione delle pareti della discontinuità, σN lo sforzo efficace normale alla superficie di discontinuità, valore dato, a propria volta, da γh cos2α dove γ è il peso di volume della roccia (kN/m3), h lo spessore del blocco scivolato (m), cos2α un fattore che tiene conto dell’effetto scala dovuto alle limitate dimensioni del blocco e che si adatta meglio ai casi sperimentali rispetto a cos α, come a prima vista indicato.

La prova, per quanto appaia grossolana, consente precisioni elevate (dell’ordine del grado sessagesimale) agendo su superfici con rugosità basse (JRC<6) e precisioni abbastanza elevate (1°÷2°) con rugosità fino a JRC<12. Qualora la rugosità rendesse necessaria un’inclinazione della discontinuità ~90° il test perde di significato.

Una volta ottenuto il dato JRC si entra nell’equazione empirica espressa nei termini più generali:

τ = σN tg [JRC log10(JCS/σN)+φr]

ricavando la resistenza al taglio per qualunque livello di sforzo normale efficace richiesto.

3.4.7.3.2 – Push Test

Avendo una rugosità elevata (JRC>12) si utilizza, viceversa, il Push Test. Tale prova consiste nel prelevare 2 blocchi contenenti la discontinuità, nel posizionare la medesima in orizzontale e nel provocare lo scorrimento del blocco superiore agendo con un piccolo martinetto idraulico o con un dinamometro a molla calibrata. Anche in questo caso, noti o stimati i diversi parametri, occorre per prima cosa calcolare JRC. Poiché il Push Test non è altro che una normale prova di taglio con uno sforzo verticale molto basso, si fa uso della relazione generale:

JRC = [arctg (τ/σN φr] / log10(JCS/σN)

dove τ è lo sforzo di taglio applicato.

Nel prosieguo si procede al calcolo della resistenza al taglio per un qualunque sforzo efficace verticale richiesto secondo la classica relazione empirica riportata.

In condizioni ottimali, rappresentate da test svolti in situ su blocchi di grandi dimensioni (superficie discontinuità ~0.25 m2)e rapporti JCS/σN ≤ 104, si considerano significative anche prove condotte su discontinuità molto rugose (JRC>12).

3.4.7.4 – Prove con Scissometro portatile per rocce deboli

Uno dei più frequenti problemi che s’incontrano analizzando le rocce deboli è costituito dalla difficoltà nel prelevare campioni rappresentativi da sottoporre in seguito a prove in laboratorio. In questa categoria di rocce, così come nei terreni più o meno cementati o molto consistenti, si rivela particolarmente utile l’impiego di Test in situ, soprattutto se di rapida esecuzione e costo limitato. Prendendo spunto dalle prove scissometriche tradizionali in terreni è stata così sviluppata una tecnica che consente di misurare la resistenza al taglio non drenata (cu) nelle rocce deboli.

La prova consiste nell’eseguire un foro con un trapano elettrico nella roccia, nell’inserire lo strumento e applicare una forza mediante una chiave torsionale leggendo la resistenza offerta dalla roccia.

Il foro viene realizzato utilizzando punte con Ø crescente sino alla misura dell’astina porta-palette dello strumento (~1cm) e profondità tale (15÷25 cm) da tenersi lontano dalla superficie libera della roccia dove sono sempre possibili condizioni differenti da quelle interne.

Lo strumento è costituito da palette a sezione rettangolare, più robuste di quelle degli strumenti per terreni, montate su un’asta cilindrica; questo viene infisso a percussione nella roccia lungo l’invito costituito dal foro. Le palette vengono quindi forzate nel materiale mentre l’asta segue il foro realizzato in precedenza. La forza viene applicata manualmente mediante una chiave torsionale con ago-memoria indicatore del massimo momento applicato. La rottura viene supposta avvenire lungo una superficie cilindrica delimitata dal diametro e dalla lunghezza delle palette. Sebbene possano sussistere  incertezze legate al possibile disturbo del materiale durante l’infissione, al possibile sviluppo di rotture progressive e all’aumento delle tensioni indotto dalla forzatura delle palette nella roccia, il confronto tra la resistenza al taglio misurata con questo strumento e quella misurala con metodologie consuete conferma la validità del metodo per una stima rapida e a costo minimo dell’ordine di grandezza della resistenza al taglio non drenata in ammassi rocciosi in cui risulta difficoltoso realizzare prove diverse.

3.4.8 – Sintesi dei dati

Misure e osservazioni svolte in situ, poi raccolte sul modulo di campagna, devono ancora essere elaborate e sintetizzate per poter avere utilità pratica. Le centinaia e più misure di giacitura delle discontinuità, infatti, servono a riconoscere le 3÷4 famiglie di discontinuità principali e a fissarne i valori di giacitura medi. Occorre quindi procedere ad un’elaborazione dei dati di campagna consistente nell’applicare una classificazione geomeccanica definendo una qualitàdell’ammasso roccioso in termini tecnici o una sintesi descrittiva che riassuma le principali caratteristiche condizionanti il comportamento meccanico del medesimo. Nella presente sede vengono di seguito considerate:

–       le proiezioni polari dei piani di discontinuità misurati in situ;

–       l’elaborazione sul reticolo equiareale;

–       la sintesi con proiezioni ciclografiche;

–       l’elaborazione delle misure di spaziatura;

–       la predisposizione di una tavola di sintesi.

3.4.8.1 – Elaborazione delle misure di giacitura delle discontinuità

Le giaciture delle discontinuità rilevate sul terreno necessitano di un’elaborazione preliminare al fine di poter essere impiegate quali informazioni per la risoluzione strutturale. L’uso del computer rende questa fase di lavoro assai rapida là dove fino a pochi anni fa si richiedevano tempi lunghi, come nel disegno delle proiezioni dei piani di discontinuità. Prima di utilizzare programmi automatizzati è comunque fondamentale conoscere la procedura convenzionale di realizzazione di tali elaborazioni. L’utilizzo di proiezioni stereografiche delle misure registrate in situ permette, anche nei casi più complessi, di delimitare, su un reticolo equiareale, aree a uguale densità di poli; di riconoscere le famiglie di discontinuità presenti e definire i baricentri delle aree a maggiore densità, rappresentativi della giacitura media di ogni singola famiglia di discontinuità.

I valori medi vengono rappresentali con proiezioni ciclografiche, cosi come le discontinuità maggiori, anche se non appartenenti a famiglie.

3.4.8.1.1 – Proiezioni ciclografiche e polari

Supponendo che per un punto O della superficie terrestre passi un piano avente immersione 150° e inclinazione 50° (Fig. 3.12) disegnando una sfera con centro in O il piano intersecherà la superficie di tale sfera lungo una circonferenza che viene chiamata grande cerchio (Fig. 3.13). Questo termine indica l’intersezione di una sfera con qualunque piano passante per il centro della sfera medesima.

La proiezione ciclografica, sul piano equatoriale della sfera, della metà inferiore del grande cerchio si ricava dall’intersezione del piano equatoriale con le congiungenti del punto zenitale P col semicerchio (Fig. 3.14).

La proiezione ottenibile è mostrata in Fig. 3.15; è importante notare come sia sufficiente proiettare un solo emisfero (di norma quello inferiore). Proiettando in tale maniera una serie di piani aventi direzione N-S ed immersione E-W sotto differenti angoli d’inclinazione, è possibile costruire una serie di curve meridiane del tipo in Fig. 3.16.

Col termine piccolo cerchio si indica l’intersezione della sfera con ogni piano non passante per il centro della stessa. Anche i piccoli cerchi possono essere proiettati nel modo anzi descritto disegnando archi di circonferenza.

Fig. 3.12 – Piano di giacitura 150/50.

Supponendo che, con centri nei punti N e S (Fig. 3.17), vengano disegnate 2 serie di piccoli cerchi di raggio crescente, la loro proiezione stereografica genera una serie di archi di circonferenza intersecanti i cerchi meridiani di Fig. 3.17 costruendo un reticolo di riferimento equiangolo come in Fig. 3.18. Sovrapponendo a questo reticolo un foglio trasparente è allora possibile tracciare la proiezione di un qualsiasi piano del quale si conosca la giacitura semplicemente ruotando opportunamente il foglio trasparente.

Fig. 3.13 – Intersezione piano/sfera e Grande Cerchio.

Operativamente il miglior modo di operare consiste nell’usare un reticolo fissato su un supporto rigido e un foglio trasparente libero di ruotare concentricamente al reticolo. II reticolo normalmente utilizzato per problemi di Meccanica delle rocce ha Ø = 20cm e una suddivisione di grandi e piccoli cerchi di 2°.

Fig. 3.14 – Intersezione tra piano equatoriale della sfera e congiungenti del punto zenitale P coi punti costituenti il Grande Cerchio.

Quando un piano strutturale è rappresentato sullo stereogramma dalla traccia del suo grande cerchio, la proiezione viene detta ciclografica; lo stesso piano può essere rappresentato, in modo univoco, dall’orientazione della sua normale. Il punto nel quale questa normale interseca la sfera rappresenta il polo del piano.

Fig. 3.15 – Proiezione sul piano equatoriale del Grande Cerchio.

Proiettando stereograficamente il polo giacente nell’emisfero inferiore si ottiene una proiezione stereografica polare. Nella Fig. 3.19 è rappresentato un piano di giacitura 270°/60° con la sua normale mentre in Fig. 3.20 sono mostrate le relative proiezioni ciclografica e polare.

Fig. 3.16 – Grandi Cerchi, proiettati sul piano eq. della sfera, di piani con immersione verso E-W diversa di 10° in 10°.

Supponendo, ora, di voler disegnare il grande cerchio rappresentante il piano avente giacitura 150°/50°, dopo avere riportato sul foglio trasparente la circonferenza esterna del reticolo e, quali riferimenti, i punti corrispondenti al centro del reticolo e al nord sulla circonferenza, si ruoti il foglio trasparente fino a quando la linea rappresentante la direzione di immersione 150° venga a trovarsi sull’asse E-W. (la rotazione può essere eseguita in senso orario o antiorario indifferentemente).

Fig. 3.17 – Piccoli Cerchi sulla semi-sfera inferiore.

Partendo dalla circonferenza esterna si contino verso il centro del cerchio i gradi relativi all’inclinazione, considerando che il punto 0° è situato sul cerchio meridiano e il punto 90° corrisponde col centro del reticolo.

Fig. 3.18 – Reticolo equiangolo.

Individuato l’arco di circonferenza corrispondente all’inclinazione 50° lo si riporta sul lucido; questa circonferenza corrisponde alla proiezione del piano di giacitura150°/50°.

Fig. 3.19 – Costruzione della proiezione polare di un piano.

Per rappresentare un piano mediante il suo polo si opera come per tracciare il grande cerchio ma, una volta individuata l’immersione, la misura dell’inclinazione deve essere effettuata partendo dal centro del cerchio verso l’esterno, dalla parte opposta a quella del grande cerchio (si controlli che tra la posizione del polo e quella del grande cerchio vi siano, contando sull’asse E-W, sempre 90°). Riportando il foglio trasparente nella posizione di partenza si hanno la proiezione ciclografica e polare del piano in esame.

Fig. 3.20 – Proiezione ciclografica e polare del piano di giacitura 270/60.

3.4.8.1.2 – Diagrammi di aree a uguale concentrazione di poli

Una carta geologica o strutturale può dare una sintesi dell’ assetto di una regione, ma vi sono evidentemente dei limiti pratici al numero di informazioni che possono essere rappresentate su di essa. Se, viceversa, abbiamo una notevole quantità di dati possiamo dare una rappresentazione sintetica più completa e più chiara tramite una serie di diagrammi.

Per rappresentare le giaciture delle discontinuità esistono vari tipi di diagrammi tra i quali i più adatti sono indubbiamente quelli stereografici. Bisogna innanzi tutto considerare che, in queste sintesi, non si ha a che fare con una o alcune direzioni da rappresentare, ma con gruppi composti da numerose misure (mediamente 100 per ogni diagramma); un’altra considerazione deve essere fatta riguardo al tipo di reticolo utilizzato: il reticolo di Wulff, descritto nelle pagine precedenti in quanto meglio si presta alla illustrazione dei principi delle proiezioni stereografiche ed alla procedura di costruzione del reticolo stesso, è un reticolo a egual-angoli; viceversa, nelle operazioni descritte più avanti è preferibile l’impiego di un reticolo a egual-area, come il reticolo equivalente di Lamberto di Schmidt (Fig. 3.21).

Fig. 3.21 – Reticolo equivalente con suddivisione a 2°.

In Fig. 3.22 sono rappresentati su un diagramma equivalente i poli di n fratture rilevate su un affioramento. Le caratteristiche generali di questo insieme di fratture vengono qualitativamente evidenziate dal diagramma nel quale sono osservabili zone a maggior concentrazione di poli. Risulta evidente anche una parte delle fratture fortemente inclinata (→ i punti sulla circonferenza rappresentano piani verticali).

Per delineare meglio la distribuzione dei punti occorre calcolare la concentrazione % dei poli in ogni porzione del diagramma. Si può operare ponendo sul diagramma della figura precedente un reticolo a maglia quadrata (carta trasparente) utilizzando la cd. maschera di Schmidt (Fig. 3.23).

Il lato della maglia del reticolo deve risultare 1/20 del diametro del reticolo di proiezione mentre la maschera deve avere le dimensioni riportate in figura. Posizionando uno dei due fori della maschera su un nodo del reticolo, è possibile contare i punti contenuti in esso e riportare tale valore in corrispondenza del nodo stesso.

Se, così posizionato, il cerchio della maschera esce dal contorno del diagramma, occorre considerare anche i punti che si vedono nel cerchio diametralmente opposto e riportare, in corrispondenza del nodo considerato, tale somma.

Fig. 3.22 – Rappresentazione dei poli di n fratture rilevate in affioramento su diagramma equivalente equatoriale.

Quando, infine, il nodo che deve essere considerato cade sulla circonferenza esterna del diagramma, occorre ancora contare i punti che si leggono in entrambi i fori della maschera, ma tale valore va riportato sul nodo in esame e su quello diametralmente opposto (che cadrà anch’esso al centro del secondo foro della maschera).

Fig. 3.23 – Maschera di Schmidt.

Il conteggio porta ad un diagramma come quello rappresentato in Fig. 3.24. Se le misure di partenza sono in quantità ≠ 100, i numeri in corrispondenza di ogni nodo del reticolo vengono ricalcolati in termini %.

Fig. 3.24 – Conteggio poli individuati con maschera di Schmidt per ogni nodo del reticolo a maglia quadrata.

Tali valori % vengono riportati nei nodi corrispondenti su un secondo reticolo a maglia quadrata.

Avendo effettuato 100 misure di campagna si ottengono i vantaggi di non dover procedere a calcoli %, di non dover usare un secondo reticolo a maglia quadrata nonché di evitare valori decimali.

Conclusa l’assegnazione dei valori di concentrazione % per ogni nodo del reticolo, è possibile tracciare delle linee di uguale densità scegliendo classi di valori opportuni; ciascuna classe è generalmente indicata sul diagramma tramite delle campiture (Fig. 3.25).

Fig. 3.25 – Diagramma equiareale di densità.

Al termine di tale trattamento preliminare è possibile trarre informazioni più precise dal diagramma: le aree più scure indicano l’esistenza di due famiglie di fratture, K1 e K2, e di una terza famiglia (S) a concentrazione maggiore, costituita dalla stratificazione. Il baricentro di ciascuna area a massima concentrazione di poli corrisponde al valor medio di giacitura delle singole famiglie di discontinuità. Dopo che le n misure di giacitura prelevate in situ sono state ridotte a 3valori significativi, è possibile utilizzare un reticolo con proiezioni ciclografiche (Fig. 3.26).

Fig. 3.26 – Proiezione ciclografica conclusiva.

3.4.8.2 – Elaborazione delle misure di spaziatura

Qualora la spaziatura di una famiglia di discontinuità sia stata rilevata in situ in modo analitico, si possono organizzare sintesi diverse dalla banale media aritmetica dei valori. Ad es., nekl caso si volesse esprimere un’indicazione sulla dispersione dei valori misurati è possibile procedere disegnando un istogramma di frequenza in scala semilogaritmica, utilizzando le classi di spaziatura suggerite dall’ISRM (Fig. 3.27).

Fig. 3.27 –  Istogramma di distribuzione spaziature mmd e M misurate per una famiglia di discontinuità.

Nel caso in cui la distribuzione dei valori di spaziatura sia di tipo gaussiano, è possibile anche quantificare la dispersione dei valori disegnando un istogramma nel quale l’ampiezza delle classi viene calcolata secondo la relazione empirica di Sturges:

a = (Xmax-Xmin)/(1+3.222 log N)

nella quale Xmax e Xmin rappresentano il valore massimo e minimo del parametro calcolato mentre N corrisponde al numero di misure considerate (frequenza totale). Una distribuzione del valore della spaziatura di tipo modale consente il calcolo del valore della mediana secondo l’algoritmo:

ME = {a [(N/2)-Σf)]/fme+ LIme

dove Σf è la somma delle frequenze delle classi precedenti la classe mediana, fme la frequenza della classe mediana e LIme il limite inferiore della classe mediana.

Poiché il valore significativo della spaziatura espresso in centimetri viene comunemente approssimato all’unità, appare evidente che il maggiore onere che il calcolo della mediana comporta rispetto al calcolo della media è giustificato solamente nel caso di esigenze particolari. Se la dispersione risulta molto elevata, potrà essere utile corredare le misure con una descrizione sintetica e con una rappresentazione grafica delle discontinuità dell’ammasso roccioso.

Infine, è possibile fare riferimento ad una terminologia descrittiva (ISRM), corrispondente al valore della spaziatura in millimetri, riferita ad un dato set di discontinuità:

–       Estremamente fitta                        S < 20       mm

–       Molto fitta                               20 < S < 60       mm

–       Fitta                                         60 < S < 200    mm

–       Moderata                              200 < S < 600     mm

–       Ampia                                   600 < S < 2000   mm

–       Molto ampia                       2000 < S < 6000   mm

–       Estremamente ampia                    S > 6000   mm

3.4.8.3 – Tabella di sintesi dei dati geomeccanici

I dati misurati in situ ed elaborati possono venire utilmente raccolti in tabelle sintetiche, una per ogni rilievo geomeccanico, che ordinatamente riportano i valori significativi dei diversi parametri relativi alle discontinuità, al materiale roccia e all’ammasso nel suo complesso.

Tab. 3.20 – Modulo Sintesi per rilievi geomeccanici.

Un campione è fornito nella Tab. 3.20, organizzata in 4 settori:

–       Il primo coincide con l’intestazione;

–       Il secondo sintetizza i dati relativi alle singole famiglie di discontinuità rinvenuti;

–       Il terzo riassume dati di base del materiale roccia;

–       Il quarto fornisce informazioni sull’ammasso roccioso nel suo insieme.

Le abbreviazioni e i simboli rivestono significato evidente e sono congruenti con quelli già utilizzati. All’interno delle Note possono essere aggiunte ulteriori informazioni oppure specificate situazioni particolari.

3.4.8.4 – La sintesi descrittiva BGD

La Basic Geotechnical Description (BGD) è una sintesi descrittiva degli ammassi rocciosi il cui scopo è quello di caratterizzare i diversi ammassi in modo semplice e linguaggio preciso usando i dati provenienti da osservazioni da affioramenti, sondaggi o scavi sotterranei. La BGD (descrizione geologico-tecnica di base) soddisfa ai requisiti di basarsi su misure quantitative semplici evitando osservazioni qualitative nonché di fornire un’impressione generale dello stato dell’ammasso roccioso con particolare riguardo al suo comportamento meccanico. Vengono operativamente considerate le seguenti caratteristiche:

1) il nome della roccia, con una descrizione geologica semplificata;

2) lo spessore della stratificazione;

3) l’intercetta delle discontinuità;

4) la resistenza alla compressione monoassiale del materiale roccia;

5) l’angolo di resistenza al taglio delle discontinuità.

I parametri strutturali, spessore degli strati e intercetta delle discontinuità, vengono considerati sia perché caratterizzano l’aspetto morfologico dell’ammasso sia perché influenzano il comportamento meccanico dello stesso mentre la resistenza a compressione monoassiale e l’angolo di resistenza al taglio delle discontinuità sono gli elementi più direttamente condizionanti il comportamento meccanico dell’ammasso.

La BGD prevede la suddivisione preliminare dell’ammasso roccioso in zone distinguendo unità geologico-tecniche le cui caratteristiche possano essere considerate uniformi. Un’unità può includere volumi dell’ammasso roccioso non contigui oppure corpi contigui di differente natura litologica ma, sostanzialmente, aventi le medesime caratteristiche geomeccaniche.

nel caso di ammassi rocciosi varianti in modo continuo da punto a punto come, ad es., può verificarsi in seguito ad alterazione meteorica, è opportuno delineare limiti arbitrari in modo tale che le proprietà di ogni singola unità possano essere considerate uniformi.

La zonazione preliminare é basata su dati geologici generali disponibili quali: differenze litologiche, grado di alterazione, caratteri della stratificazione e della fratturazione; con l’acquisizione progressiva e diretta dei parametri considerati nella Descrizione è quindi possibile procedere ad un eventuale maggior dettaglio oltre che a precisazioni nella zonazione.

Dopo aver suddiviso l’ammasso roccioso in diverse zone, la Descrizione geologico-tecnica di base viene applicata a ciascuna di esse ed ognuno dei parametri considerati viene determinato su porzioni rappresentative della unità; il numero, la posizione e la dimensione di queste dipendono dalla precisione desiderata.

Il nome della roccia viene assunto in accordo con la classificazione riportata

La descrizione geologica deve, in genere, considerare i seguenti aspetti: struttura geologica dell’ammasso roccioso (presenza di faglie, pieghe, scistosità etc.) fratturazione dell’ammasso (presenza di set di discontinuità) colore, tessitura, composizione mineralogica della roccia e grado di alterazione.

Lo spessore degli strati viene determinato intendendo il termine strato in senso ampio, in modo che possa essere applicato anche a formazioni ignee o metamorfiche che presentino una suddivisione piano parallela, ad esempio per la presenza di giunti di raffreddamento o scistosità. Si assume come significativo il valore medio della spaziatura degli strati e si fa riferimento alle classi riportate in Tab. 3.21.

Se è possibile suddividere i vari set di discontinuità, è opportuno registrare per ogni singola famiglia il valore della spaziatura misurato perpendicolarmente ai piani di discontinuità e riportare questo dato come supplementare.

L’intercetta delle fratture in una zona dell’ammasso roccioso viene sintetizzata dagli intervalli di valori indicati in Tab. 3.22.

Poiché l’intercetta varia in funzione della direzione di misura, si assume, come valore significativo, il minore tra quelli calcolati, a meno che particolari circostanze suggeriscano diversamente.

Tab. 3.21 – Classi di Spaziatura degli strati.

La resistenza alla compressione uniassiale del materiale-roccia assunta come caratteristica per una data zona è la media delle resistenze dei campioni provenienti da quella zona.

Il valore della resistenza può essere determinato direttamente tramite una prova monoassiale o di carico puntiforme.

Tab. 3.22 – Classi di Intercetta delle fratture.

I campioni dovrebbero essere testati al contenuto d’acqua pertinente al problema da risolvere.

Talora, in uno stadio preliminare di indagine, il valore della resistenza alla compressione può essere stimato senza eseguire prove specifiche (questa soluzione deve essere chiaramente evidenziata nella Descrizione).

Qualora il materiale sia marcatamente anisotropo, il valore da considerare nella descrizione deve corrispondere a quello minore misurato (riportando comunque, come informazione supplementare, anche il valore di resistenza alla compressione misurato nella direzione ortogonale). Le classi caratteristiche relative alla resistenza alla compressione monoassiale sono riportate in Tab. 3.23.

Tab. 3.23 – Classi di Resistenza a compressione monoassiale del materiale-roccia.

Il valore dell’angolo di resistenza al taglio da usare nella BGD è definito come la pendenza della tangente alla curva d’inviluppo della resistenza di picco determinata sotto uno sforzo normale di 1 Mpa in un diagramma σ/τ. Tale definizione, arbitraria, è valida ai soli fini classificativi.

La misura diretta tramite prove di laboratorio è poco indicata, considerando il significato descrittivo e lo spirito speditivo della Descrizione.

Una stima può essere effettuata sulla base di osservazioni della rugosità, dell’alterazione e delle caratteristiche del materiale di riempimento eventualmente presente nelle discontinuità; le irregolarità e le ondulazioni a scala maggiore del campione di laboratorio non sono da considerare ai fini della BGD anche se possono avere un significalo considerevole in fase di progetto.

Il valore dell’angolo di resistenza al taglio, ottenuto come media dei valori propri di una singola zona, viene riportato nelle classi indicate dalla Tab. 3.24 avendo cura, qualora questi siano diversi per i vari set di discontinuità, di assumere il valore minore.

Tab. 3.24 – Classi di valori per l’angolo d’attrito delle discontinuità.

L’applicazione della BGD ad un ammasso roccioso richiede la compilazione di un modulo per la raccolta dei dati sul quale vengono riportati caratteri generali dell’ammasso e i valori per la valutazione dei parametri classificativi e le informazioni supplementari

Fig. 3.28 – Modulo Sintesi BGD.

Ogni zona viene caratterizzata dal nome litologico seguito dai simboli degli intervalli corrispondenti ai valori dei parametri, questi ultimi indicati nella medesima sequenza utilizzata precedentemente.

Avendo misurato o stimato i valori, la sintesi descrittiva può quindi risultare, ad es.: Granito: L0 F3 S1 A2 W1, con evidente significato dei simboli (→ forma grafica Fig. 3.28).

Per ciascun parametro può essere impiegata una classifica a 5 (preferibile) oppure a 3 classi.

In alcune situazioni può essere giustificato considerare più di 5 intervalli per alcuni o tutti i parametri; per mantenere comunque la struttura della BGD, in questo caso è necessario stabilire ulteriori suddivisioni interne agli intervalli riportati nelle tabelle, introducendo dei limiti secondari caso per caso.

sub-intervalli vengono identificati con le lettere a, b,…; quindi, se fosse necessario, descrivendo un ammasso roccioso, suddividere l’intervallo della intercetta delle discontinuità F3 in due sub – intervalli con ampiezze 40÷60 cm e 20÷40 cm, questi potrebbero essere indicati dai simboli F3a e F3b rispettivamente.

Analogamente possono essere suddivise tutte le altre classi.

Qualora sia prevista l’applicazione della BGD nell’ambito di una campagna geognostica di sondaggi, i log di perforazione devono riportare una colonna ove vengono registrati i valori dei parametri tramite l’introduzione dei rispettivi simboli.

3.5 – La classificazione geologico-tecnica dei terreni USCS

Per classificare i terreni ai fini applicativi, distinguendoli quindi non solo in base alla granulometria ma anche tenendo conto di una importante caratteristica come la consistenza, è indicato, e di largo impiego, lo Unified Soil Classification System (USCS), noto anche come Classification of Soils for Engineering Purposes.

Per applicare compiutamente e correttamente il sistema occorre avere a disposizione la curva granulometrica del terreno e, nel caso sia presente la frazione fine, anche le determinazioni del limite liquido e del limite plastico sulla porzione di materiale passante al setaccio ASTM No. 40 (425 μm).

Il sistema può essere parzialmente impiegato, comunque, anche sulla base delle osservazioni e delle semplici determinazioni descritte ai paragrafi iniziali. I clasti di dimensioni tali da non passare al setaccio con maglia 75 μm non sono considerati.

Il sistema distingue innanzi tutto 3 principali categorie di terreni: si definiscono grossolani i terreni che hanno una % di passante al setaccio ASTM No. 200 (avente una maglia di lato pari a 75 μm) < 50% calcolato sul peso dell’intero campione; i terreni fini sono quelli per i quali il passante al setaccio No. 200 è > 50%; i terreni fortemente organici sono quelli costituiti sostanzialmente da materia organica, di colore scuro e odore caratteristico, denominati torbe (Tab. 3.25).

Tab. 3.25 – Classificazione preliminare.

Questa prima suddivisione viene seguita da una più dettagliata distinzione che si basa sulla % di passante al setaccio ASTM No. 4 (maglia di lato 4.75 mm), sui valori (Fig. 3.29) del Limite liquido e dell’Indice plastico (si ricorda che l’Indice plastico è dato dalla differenza tra Limite liquido e Limite plastico), sul valore del coefficiente di uniformità CU (CU = D60/D10), dove D60 e D10 sono i Ø corrispondenti al 60% e al 10% di passante letti sulla curva granulometrica (nel caso in cui la curva non arrivasse a permettere la lettura del D10 è possibile estrapolare la curva stessa per ottenerne un valore stimato), del coefficiente di curvatura CC (CC = (D30)2/(D10 D60, dove per D30 si intende il Ø corrispondente al 30% di passante). In Tab. 3.25 sono indicate le 3 classi principali e i 15 gruppi-base di terreni.

Fig. 3.29 – Classificazione Terreni individuata dalla corrispondenza IP e LL.

Potendo operare sulla base delle semplici determinazioni di laboratorio citate si può procedere ad un impiego completo del sistema classificativo. In sostanza, per i terreni fini si tratta di utilizzare le Tabb. 3.26 e 3.27 e per i terreni grossolani la Tab. 3.28.

Tab. 3.26 – Carta per la classificazione dei terreni fini.

Avendo a disposizione solo le osservazioni di campagna è possibile, introducendo una serie di stime al posto dei valori misurati richiesti dalla Tab. 3.25, utilizzare quest’ultima e attribuire al terreno un simbolo relativo al gruppo ed il nome corrispondente.

Tab. 3.27 – Carta per la classificazione dei terreni fini organici.

In ogni caso, se il terreno naturale contiene clasti di dimensioni >75mm (esclusi dalla analisi granulometrica) nell’attribuire il nome al campione questa informazione andrà aggiunta al simbolo ottenuto.

Tab. 3.28 – Carta per la classificazione dei terreni grossolani.

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