12 – Porti e Impianti collegati

12.1. – Generalità

II regime giuridico del mare trae le proprie origini dai lavori dell’Assemblea dell’ONU e della Conferenza Internazionale di Ginevra per l’approvazione delle Convenzioni relative a:

a) mare territoriale e zona contigua;

b) alto mare;

c) piattaforma continentale.

Nelle prime due convenzioni il mare acquisisce un regime giuridico diverso a seconda della sua posizione geografica rispetto alla terraferma:

a) le acque interne, ossia quelle comprese tra la costa e la linea di base, rientrano nella piena sovranità dello Stato, essendo considerate a ogni effetto come territorio dello Stato;

b) le acque territoriali, costituite dalla fascia di mare compresa tra la linea di base e un determinato limite verso il largo, rientrano ugualmente nella sovranità dello Stato rivierasco che deve, tuttavia, consentire il transito inoffensivo di navi straniere;

c) volto mare, è il mare non compreso nelle acque interne e nel mare territoriale, nel quale vi è libertà per tutti di navigazione, ricerca scientifica e posa di cavi e oleodotti, nel rispetto delle regole del Diritto Internazionale.

Il mare territoriale è fissato entro 12 miglia marine dalla linea di base che coincide, in generale, con la linea costiera segnata dal livello della bassa marea.

Per piattaforma continentale s’intende il fondo e il sottofondo marino adiacente al territorio dello Stato fino al limite corrispondente alla profondità di 200 m o, oltre tale limite, fino al punto in cui la profondità delle acque sovrastanti permette lo sfruttamento delle risorse naturali di tali zone

Fanno parte del Demanio marittimo:

a) il lido, la spiaggia, i porti, le rade;

b) le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini d’acqua salsa o salmastra che almeno in una parte dell’anno comunicano liberamente col mare;

c) i canali utilizzabili a uso pubblico marittimo.

12.2 – Le coste

Luogo d’incontro tra terra e mare, le coste sono uno degli ambienti più diffusi del pianeta. Sebbene abbiano un’estensione areale piccola esse sono molto estese in lunghezza e interessano tutte le latitudini.

processi geomorfici agenti sulle coste sono, per tale motivo, in parte continentali e in parte marini. A seconda del tipo di costa predomina attualmente uno o l’altro tipo di processo ma, contrariamente a quanto riportano la maggior parte dei testi di Geografia, dal punto di vista evolutivo sono stati molto più importanti i processi continentali, tanto che la morfologia a grandi linee della maggior parte delle coste è stata determinata da processi continentali durante i periodi freddi del Plio-Quaternario quando il livello del mare era molto più basso dei tempi attuali.

Ad es. la costa della Normandia (da un lato del canale della Manica) e le scogliere di Dover, (dall’altro) sono sempre state considerate come un chiaro esempio di erosione marina mentre studi paleontologici, sedimentologici e stratigrafici hanno dimostrato che sono forme continentali di erosione fluviale. Il ritrovamento di siti paleolitici sulla piattaforma intertidale antistante le scogliere, infatti, indica che le piattaforme non sono di genesi marina ma che si sono formate prima dell’ultima glaciazione, sono evolute in ambiente periglaciale quando, durante l’ultima glaciazione, la Manica si trovava emersa e veniva percorsa da fiumi, e solo di recente sono state invase dal mare.  Le falesie del canale della Manica, di conseguenza, evolvono solo per frana e non a causa dei processi marini; molte forme costiere, inoltre, sono ereditate o riesumate o dipendono dall’invasione di aree continentali durante la trasgressione marina Olocenica, come gli estuari e le lagune.

12.2.1 – Le forze agenti

Le forze e i fattori agenti lungo le coste sono: le onde, le correnti e le maree per quanto riguarda i processi marini, il ruscellamento, l’infiltrazione, il gelo, la dinamica fluviale e di versante, i ghiacciai per quanto riguarda i principali processi continentali; agiscono inoltre il vento, i processi chimici e soprattutto gli organismi viventi, ivi compreso l’uomo.

12.2.2 – Onde

L’onda è un disturbo, ossia una deformazione con profilo oscillante che si propaga sulla superficie del mare. Le parti di un’onda e i suoi parametri sono:

–       cresta: punto più alto dell’onda;

–       cavo o ventre: parte più bassa dell’onda;

–       altezza (h): distanza verticale tra cavo e cresta;

–       ampiezza (a): metà dell’altezza, cioè a = h/2;

–       lunghezza d’onda (λ): distanza orizzontale tra due creste consecutive;

–       periodo (T): tempo (s) necessario affinché una cresta percorra una distanza pari alla lunghezza d’onda;

–       ripidità (δ); rapporto tra altezza dell’onda e lunghezza d’onda: δ = h/λ;

–       frequenza (f): reciproco del periodo f =1/T;

–       velocità (c): in acque profonde c = √(/); in acque basse (< 25÷50 m) c = √gh, dove g è l’accelerazione di gravità.

Le dimensioni delle onde dipendono da:

– velocità del vento generatore;

– durata del vento;

– ampiezza dell’area sulla quale ha agito il vento (fetch).

All’estremità del fetch, nella direzione da cui spira il vento, le onde sono piccole, ma poi crescono con la distanza aumentando il periodo e l’altezza, fino a raggiungere le massime dimensioni compatibili con le caratteristiche del vento generatore (Fig.12.1).

Fig. 12.1 – Caratteristiche del fetch.

Nella zona di formazione le onde sono dette onde vive (sea waves); fuori dal fetch, ormai regolarizzate con forme più tondeggianti e simmetriche, si chiamano onde morte o lunghe (swell waves) e sono in grado di percorrere migliaia di chilometri in mare aperto con perdita di energia molto limitata.

Se il vento soffia dopo un periodo di calma le onde si formano solo quando la sua velocità è > 1 ms-1. Crescono poi rapidamente, anche se il vento non accelera più, fino a che la loro velocità diventa 1/3 di quella del vento. Dopo possono ancora crescere, ma più lentamente.

E’ palese che variando la velocità del vento variano le dimensioni delle onde; la situazione però non è così semplice e lineare. In primo luogo, l’origine delle onde non è quasi mai un impulso concentrato in solo punto: di solito il vento spira a raffiche sopra una vasta estensione, creando onde di forma molto irregolare. In secondo luogo, allontanandosi dal fetch e coprendo distanze notevoli, le onde modificano le loro caratteristiche. In terzo luogo, sono solitamente presenti contemporaneamente diversi treni di onde aventi periodi e direzioni differenti. Comunemente, quindi, si osservano onde di varie dimensioni ed energia, ossia campi di onde.

Con l’aumentare della velocità del vento aumentano i periodi delle onde e aumenta notevolmente la quantità di energia accumulabile dalle onde questo perché aumenta l’altezza delle onde e l’energia è proporzionale al quadrato dell’altezza dell’onda.

L’energia totale di un’onda è data dalla somma dell’energia potenziale e dell’energia cinetica. L’energia potenziale è determinata dalle particelle di acqua che si elevano o si abbassano rispetto al livello medio, cioè dalle particelle che si trovano spostate nelle creste o nel cavo dell’onda. L’energia cinetica invece è legata al movimento delle particelle lungo le orbite del movimento e vi partecipa quindi tutta la massa d’acqua fino in profondità (con un contributo massimo in superficie poiché le orbite si smorzano rapidamente con la profondità).

L’energia totale è

E = pgλh2/8

dove p è la densità dell’acqua.

L’energia dell’onda quindi varia con il quadrato dell’altezza ed è proporzionale alla lunghezza d’onda. Per quanto riguarda la variazione con la profondità, in pratica, entro un livello pari a λ/2, è concentrato il 99.8% dell’energia cinetica. Questo spiega perché solo le onde più lunghe riescono ad agire in profondità.

Per smorzare il moto ondoso quindi sono inutili sbarramenti che vanno in profondità e magari ostacolano il flusso e il ricambio delle acque: sono sufficienti sbarramenti costituiti da galleggianti robustamente ancorati. Inoltre l’azione geologica sulle coste è limitata alla lama d’acqua superficiale intorno al livello medio del mare.

12.2.3 – Effetti fisici subiti dalle onde sottocosta

Avvicinandosi alla costa l’onda subisce una serie di deformazioni dei parametri stessi dell’onda e deformazioni tipiche dei fenomeni ondulatori.

Rifrazione

E’ un cambiamento di direziono dovuto all’influenza del fondo che avviene quando la profondità è <  λ/2 e quando le isobate non sono parallele alle creste delle onde. Le onde tendono allora a disporsi parallelamente alle isobate.

Una valle sottomarina o una baia perpendicolari alle creste provocano divergenza delle creste stesse e quindi dissipazione dell’energia delle onde; una cresta sottomarina o un promontorio perpendicolari alle creste provocano convergenza delle creste e quindi una concentrazione dell’energia delle onde.

La rifrazione è quindi un fenomeno di notevole importanza dal punto di vista geologico; tale effetto può essere visualizzata tracciando delle linee perpendicolari alle creste (dette anche raggio dell’onda, wave ray). Queste linee in acque profonde sono parallele tra loro. Se avviene rifrazione le linee non sono più parallele (rimangono perpendicolari alle creste per costruzione); se le linee sono state tracciate inizialmente a distanze uguali, la distanza tra le linee adiacenti dopo rifrazione indica aumento o diminuzione dell’energia delle onde dopo rifrazione (Fig. 12.2),

Onde con velocità diverse sono rifratte in maniera differente.

sen α1/sen α2 = C1/C2 = costante

dove α1 è l’angolo (in pianta) tra le creste e le isobate ad una data profondità; C1 è la velocità delle onde a quella profondità mentre α2 e C2 sono angolo e velocità in acque profonde.

Fig. 12.2 – Schemi illustranti le relazioni tra topografia del fondo e rifrazione delle onde.

Riflessione

Avviene quando le onde incontrano un ostacolo (diga frangiflutti, cordone litoraneo a forte pendenza etc.) e segue le medesime regole dell’Ottica laddove l’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione.

La riflessione di un’onda che incide normalmente all’ostacolo con un periodo regolare forma un clapotis ossia un sistema di onde stazionarie (creste e cavi sempre nello stesso punto e che si scambiano reciprocamente) dato dall’incontro del sistema incidente e del sistema riflesso (Fig. 12.3).

Una spiaggia ripida può riflettere considerevolmente le onde: in questo caso le onde riflesse possono scontrarsi frontalmente con le onde provenienti dal largo; nel punto in cui si scontrano si formano zampilli alti diversi metri. Se le onde in arrivo si scontrano con le onde .riflesse obliquamente anziché frontalmente si può formare uno zampillo (effetto chiusura lampo) che segue la linea dei punti di scontro successivi muovendosi ad elevata velocità.

Un ostacolo verticale provoca riflessione totale mentre l’effetto diminuisce con l’inclinazione dell’ostacolo.

Fig. 12.3 – Riflessione delle onde su una parete verticale con formazione di un clapotis.

Diffrazione

Si produce quando un’onda aggira la punta di un ostacolo, come l’estremità di una diga foranea, o di un promontorio. Consiste in un cambiamento di direzione delle onde che penetrano nella zona riparata smorzandosi rapidamente (Fig. 12.4).

Fig. 12.4 – Diffrazione delle onde in prossimità di una diga foranea.

Parametri dell’onda

L’onda in acque basse modifica i propri parametri ad eccezione del periodo, che permane costante. Gli altri parametri variano in funzione del rapporto H/λ (Fig. 12.5):

– diminuzione della lunghezza d’onda;

– diminuzione della velocità;

– aumento della ripidità (steepness);

– scomparsa o forte riduzione delle onde a cresta corta (short-crested waves), ondulazioni che perturbano spesso l’onda in acque profonde e nella zona in cui soffia il vento, ossia regolarizzazione dell’onda;

– trasformazione del movimento rotatorio delle particelle in ellissi appiattite che al fondo divengono traiettorie orizzontali di va e vieni (Fig. 12.6). La velocità orbitale delle particelle non è costante dalla superficie al fondo; sulla cresta dell’onda le particelle sono accelerate man mano che si avvicinano a riva (Fig. 12.7);

– aumento della dissimmetria del profilo dell’onda; la parte anteriore diviene sempre più ripida in rapporto alla parte posteriore. Ciò è dovuto alla diminuzione della velocità dell’onda con la diminuzione della profondità: la velocità è maggiore nella parte posteriore dell’onda rispetto alla parte anteriore, in altre parole la parte posteriore spinge e tende a far ribaltare la parte anteriore.

Fig. 12.5 – Variazioni dei parametri delle onde sottocosta: H altezza dell’onda; C velocità dell’onda; L lunghezza d’onda; h profondità dell’onda;  acque profonde. Passando da acque profonde ad acque basse diminuiscono la velocità e la lunghezza delle onde e aumenta l’altezza.

L’onda si frange non per attrito al fondo, ma per aumento della ripidità, cioè quando l’angolo formato dalla cresta dell’onda è minore di 120°, ossia quando l’altezza dell’onda supera un settimo della sua lunghezza ovvero quando la ripidità supera il valore di 1/7. In acque basse le onde si frangono quando la profondità dell’acqua è circa 4/3 della lunghezza d’onda.

Fig. 12.6 – Movimento delle particelle d’acqua nelle onde. A effetto della deriva; B smorzamento del movimento delle particelle con la profondità in acqua alta; C smorzamento del movimento delle particelle con la profondità in acqua bassa.

Le onde non si frangono sempre nello stesso punto perché le altezze delle onde sono differenti. Una ondazione comprende più sistemi che interferiscono tra loro con altezze aumentate o ridotte, di conseguenza più che una linea dei frangenti si osserva una zona dei frangenti (breakpoint – breaker zone).

Fig. 12.7 – Velocità orbitale delle particelle d’acqua; la lunghezza delle frecce è proporzionale alla velocità.

Si distinguono 3 tipi di frangenti, 2 in acque basse ed 1 sulla battigia (Fig. 12.8 e 12.9):

– frangenti a caduta (plunging breaker) avvengono quando la cresta si abbatte improvvisamente racchiudendo una tasca d’aria. Si verificano più spesso con onde basse regolari, non rifratte, su spiagge ripide.

Fig. 12.8 – Principali tipi di frangenti. In B il grafico mostra le relazioni tra frangenti, altezze delle onde (h∞) pendenza della spiaggia (β) e lunghezza delle onde (λ∞).

 – frangenti a versamento (spilling breaker) avvengono quando compare schiuma in cresta che fluisce progressivamente sul corpo dell’onda che continua ad avanzare. Si verificano più spesso su spiagge sabbiose poco inclinate, con onde alte e vento che soffia verso riva.

Fig. 12.9 – Principali tipi di frangenti: a) frangente a versamento; b) frangente a caduta; c) flusso montante.

 – surging breaker: avviene quando il flusso montante risale la battigia ed è più marcato se la pendenza è marcata.

Dopo il frangente l’onda prosegue come onda di traslazione (surf), risale sulla riva in modo turbolento (surging breaker) dove prende il nome di flusso montante (swash) e dà luogo al getto di riva (uprush) sulla battigia. Persa tutta la sua energia cinetica, viene frenata dalla discesa dell’onda precedente, dal suo peso e dall’infiltrazione nel caso che il flusso montante risalga su sabbia non satura, quindi ridiscende all’indietro in modo meno turbolento prendendo il nome di risacca (backwash).

Fig. 12.10 – Effetti delle onde su strutture verticali in relazione alla profondità dell’acqua.

Durante le tempeste (quindi con frangenti a versamento) e sulle spiagge come quelle degli oceani in cui le onde sono normalmente forti, può accadere che vi siano 2 o 3 zone di frangenti successive; l’onda di traslazione si frange nuovamente dopo un primo flusso montante.

Meno è inclinato il pendio della spiaggia sommersa, minore è l’altezza dei frangenti. Negli atolli oceanici che hanno un pendio esterno molto accentuato i frangenti sono invece molto alti.

Quando un’onda incontra invece una falesia o un’opera di difesa costiera può riflettersi formando un clapotis (Fig. 12.10A-B).

Quando si frange sulla parete agisce solo l’erosione dovuta alle particelle in sospensione, ma non c’è azione di urto (choc) (Fig. 12.10C). Per questo motivo i frangiflutti vengono costruiti, se possibile, in fondali così alti che le onde vi si rompono. Quando l’acqua è sufficientemente bassa l’onda che si frange può intrappolare aria tra la falesia e l’acqua, si ha allora azione di urto dovuto alla compressione dell’aria (Fig. 12.10D). Se l’acqua è ancora più bassa l’onda si frange prima della parete e non si ha alcuna azione (Fig. 12.10E).

Storm surge (storm tide)

In italiano si possono tradurre come marea di burrasca o acqua alta, ma poiché le acque alte che si riscontrano sulle coste italiane, specie Adriatiche, hanno principalmente altre origini, si ritiene utile non tradurre il termine. Sono provocati da accumulo d’acqua contro la costa ad opera di venti molto forti soffianti verso terra e da onde. Il livello del mare può salire a volte anche di 7 m o più e le onde quindi agiscono ad un livello ben più alto del normale.

In genere sono dovuti ai cicloni tropicali, ma si possono formare anche in regioni temperate durante tempeste in cui la velocità del vento, la sua direziono e la sua durata siano favorevoli. La configurazione della costa è importante; l’incidenza di storm surge è particolarmente importante nei golfi o insenature la cui unica comunicazione con il mare aperto è bloccata dal vento. L’effetto può essere aumentato in zone con forte escursione di marea, Gli effetti sulla costa sono disastrosi e se la costa è bassa può spingersi molto nell’entroterra.

12.2.4 – Ambienti costieri in relazione al moto ondoso

In base alle caratteristiche del moto ondoso si possono distinguere alcuni tipi principali di ambienti costieri:

Ambienti costieri dominati da onde di burrasca (storm wave environments)

Gran parte delle onde sono originate localmente da venti di burrasca; le onde sono in genere brevi, di alta energia e con direziono variabile. Nei rimanenti periodi dominano onde lunghe.

Ambienti delle coste occidentali dominati da onde lunghe (west coast swell environments)

I venti di burrasca sono rari e, in zona intertropicale, i venti locali tendono a soffiare verso il mare. Nelle zone tropicali dell’America meridionale e dell’Africa sono coste caratterizzate da doldrum (zone di calma equatoriale con venti deboli). Le onde maggiori derivano dalle burrasche delle zone temperate, sono lunghe, basse e relativamente costanti per frequenza, occorrenza e direzione, specie nell’emisfero meridionale. L’energia media delle onde è alta alle alte latitudini, raggiungendo livelli moderati ai tropici per diventare bassa intorno al Golfo di Panama e tra Dakar e Freetown in Africa occidentale. Queste coste sono molto omogenee per quanto riguarda il moto ondoso. Si distingue una parte della costa del Messico che è soggetta ai cicloni tropicali e la costa dell’India dove le onde lunghe sono rinforzate, a seconda delle stagioni, dai monsoni.

Ambienti delle coste orientali dominati da onde lunghe (east coast swell environments)

I venti di burrasca sono rari e le onde lunghe provenienti dalle burrasche delle zone temperate sono rare e poco regolari. Sono però costanti di. I venti soffiano generalmente verso terra nelle zone intertropicali. Molte coste sono soggette ad onde generate dai cicloni tropicali caratterizzate da alta energia liberata in brevi periodi a intervalli irregolari. A parte queste eccezioni, l’energia media è da bassa a moderata.

Ambienti marini protetti (protected sea environments)

Il termine protetto implica che queste sono coste di mari in cui le onde lunghe oceaniche non penetrano o penetrano in minima parte, sono privi di burrasche delle zone temperate o sono protetti da ghiaccio marino. Generalmente sono coste di mari chiusi o semichiusi, con l’eccezione dell’Antartide dove le onde sono deflesse in direzione equatoriale dalle correnti circumantartiche e sono smorzate dal ghiaccio marino. Generalmente sono coste a bassa energia ma alcune, come quelle orientali della Malesia sono soggette al monsone che genera onde di alta energia e quelle del Golfo del Messico soggette occasionalmente ai cicloni tropicali.

12.2.5 – Correnti

Le correnti sono flussi di acqua costanti o temporanei. Dal punto di vista della morfologia litorale interessano solo le correnti costiere, causate in genere dalle onde e dalle maree.

Le onde determinano un trasporto di acqua ortogonale alla riva dovuto al fatto che le ellissi compiute dalle particelle nelle onde non sono chiuse, ma sono in realtà spirali con movimento in avanti (Fig. 12.6A). Questo trasporto è massimo in acque basse e nella zona di traslazione (surf zone) dopo i frangenti.

Il ritorno dell’acqua spostata verso riva avviene lungo il fondo se la spiaggia presenta una pendenza regolare, l’acqua è bassa e le onde sono piccole e distanziate.

Sulle spiagge molto ripide, dove grosse onde si frangono direttamente sulla battigia, il riflusso può prendere la forma di un violento movimento di acqua sul fondo.

Se si ha un accumulo di acqua sottocosta per ostacoli naturali o ad opera della corrente lungo costa il ritorno avviene per correnti di ritorno o di risucchio (rip current). Queste si formano quando le onde si frangono in rapida successione su uno scanno poco profondo. L’acqua spinta verso riva non riesce a tornare agevolmente verso il mare defluendo lungo il fondo, ma si accumula all’interno del truogolo. Questo eccesso d’acqua si mantiene leggermente al di sopra del livello del mare per effetto della continua aggiunta di nuove masse d’acqua portate dai frangenti. Superato un certo dislivello, attraverso la parte più bassa dello scanno comincia a defluire verso il mare una corrente che scava un canale nella sabbia dello scanno; si stabilisce così un flusso continuo, che è appunto la corrente di ritorno. Il canale può essere stretto e la velocità dell’acqua può essere maggiore di un metro al secondo. Le correnti di questo tipo vengono alimentate da correnti tributarie presenti all’interno del truogolo sottocosta che raccolgono l’acqua delle onde di traslazione e scorrono lateralmente lungo la spiaggia (Fig. 12.12).

Fig. 12.12 – Formazione di una corrente di ritorno per accumulo d’acqua in un truogolo (cavo, in fig.)

Al di fuori della linea dei frangenti il canale si allarga bruscamente e la corrente diminuisce di intensità. Spesso si forma un ampio vortice che ruota lentamente. Dato che la profondità è maggiore nel canale della corrente di ritorno che non al di sopra dello scanno ai Iati del canale, in corrispondenza del canale stesso le onde, generalmente, non si frangono. Inoltre, la corrente che scorre in senso opposto alle onde ha l’effetto di aumentare la velocità di queste. Quindi le creste diventano instabili prima del tempo e possono dar luogo a piccoli frangenti a versamento, oppure, più spesso, a molte onde brevi e ripide simili ad onde vive.

Le correnti di ritorno si formano anche quando le correnti lungo costa a piccola scala ammassano acqua sottocosta nella direzione del loro movimento, per cui l’acqua tende a defluire verso il largo dove il livello dell’acqua è minore. Si formano delle celle di circolazione litorale (Fig. 12.13).

Fig. 12.13 – Celle di circolazione litorale prodotte dalla corrente lungo costa.

Le correnti lungo costa (fongshore current) a grande scala sono prodotte da onde che arrivano obliquamente a riva. Infatti nonostante la rifrazione riduca l’angolo che le creste delle onde formano con la linea di riva, questo può non essere completamente annullato. Si accumula acqua che genera una forza di trascinamento parallela alla costa e che ha la massima intensità nelle zone di frangenza e di traslazione (Fig. 12.14).

Fig. 12.14 – Modello di distribuzione del trasporto di sabbia lungo costa e della velocità della corrente lungo costa nella zona dei frangenti.

12.2.6 – Maree

Le maree sono innalzamenti e abbassamenti periodici del livello del mare, dovuti all’attrazione gravitazionale della Luna e in minor misura, del Sole. Sulla Terra vi sono due centri o rigonfiamenti di alta marea che si muovono verso Ovest durante la rotazione terrestre. Il passaggio di uno dei centri provoca l’innalzamento del livello del mare sino ad un massimo detto alta marea (high water). A metà tra i due centri il livello del mare raggiunge un valore minimo detto bassa marea (low water).

In un giorno lunare (24 ore e 50 minuti) vi sono due alte maree e due basse maree (maree di tipo semidiurno). Poiché il giorno solare medio è di 24 ore le alte e le basse maree si verificano con un ritardo di circa 50 minuti ogni giorno. Teoricamente in una determinata zona costiera l’alta marea dovrebbe prodursi contemporaneamente alla culminazione della Luna. In realtà l’alta marea avviene con un ritardo di parecchie ore che dipende dalla conformazione della costa e dalla sua

posizione e varia durante l’anno per una stessa località. Questo ritardo è detto intervallo lunitidale (lunitidal interval) o stabilimento di porto (establishment of the port).

Vi sono vari tipi di marea che possono presentarsi, a seconda dei luoghi e del periodo dell’anno, isolati o variamente combinati a dare mareogrammi complessi (Fig. 12.15).

Fig. 12.15 – Mareogramma di marea semidiurna pura per un periodo di 24 h.

 – maree semidurne (semidaily o semidiurnal tide): tra due alte e tra due basse passano 12.30 ore; tra un’alta e una bassa 6.15 ore. Le alte maree raggiungono sempre lo stesso livello mentre le basse maree differiscono tra loro. L’innalzamento e l’abbassamento del mare non avvengono a velocità costante; il movimento è più lento in prossimità delle alte e delle basse, più veloce nei periodi intermedi (Figg. 12.16).

Fig. 12.16 – Ciclo semidiurno schematico.

 maree diurne (daily o diurnal tide); maree pure di questo tipo sono rare (Fig. 12.17) e presentano un’alta ed una bassa per ogni giorno lunare. Avvengono in genere per fenomeni di risonanza dovuti alla conformazione del bacino.

Fig. 12.16 – Mareogramma con marea di tipo prevalentemente diurno.

Esistono anche maree a periodo più breve, come le maree terzodiurne e quartodiurne, con periodo, rispettivamente, di circa 8 ore e circa 6 ore, che si sviluppano pure in alcune località e hanno importanza specialmente in acque basse. Sono presenti inoltre componenti con periodo più lungo, semimensile e mensile.

Le maggiori maree possibili ricorrono con una periodicità di ~1600 anni quando il perigeo coincide con le sizige e col perielio, i nodi lunari sono sulla linea che congiunge la Terra alla Luna e la declinazione tra la Luna e il Sole è 0°. Queste maree sono avvenute nel 3500 a.C., 1900 a.C., 250 a.C., 1433 e.V. e la prossima avverrà nel 3300 e.V.

Le maree in mare aperto presentano scarsa ampiezza o escursione (range oftide), al massimo di pochi decimetri. L’ampiezza viene esaltata per risonanza nelle zone costiere con mare basso oppure in bacini costieri di forma opportuna. In ogni caso è la morfologia costiera che determina le differenti ampiezze delle maree: in mari semichiusi, infatti, le maree sarebbero poco ampie o quasi nulle, perché la componente orizzontale della forza di marea non può innescare estesi movimenti orizzontali che, viceversa, sono quelli che su grandi distanze, determinano apprezzabili movimenti verticali. Per questi motivi il Mediterraneo, il Mar Rosso, il Mar Baltico e il Golfo del Messico sono virtualmente privi di maree.

In alcuni bacini semichiusi, come l’Adriatico, può avvenire che la marea agente nel mare aperto influisca per risonanza sul bacino interno, determinando maree indotte o co-oscillazioni di marea.

Tali movimenti presentano le medesime caratteristiche delle maree normali o autonome. Le maree indotte possono essere amplificate se il loro periodo è uguale o simile al periodo di risonanza del bacino. Questo fenomeno avviene nella Baia di Fundy (Canada) dove la marea raggiunge la massima ampiezza del mondo (~17 m): infatti la Baia di Fundy è assimilabile ad un solido rettangolare lungo circa 260 km, largo 65 km e profondo in media 70 m con un periodo di risonanza di 12.58 h, praticamente identico al periodo semidiurno.

Nei laghi, per la loro piccola estensione, le maree non sono apprezzabili. Solo nei bacini maggiori (Caspio, Baikal, grandi laghi americani) le ampiezze di marea possono risultare apprezzabili. Si tratta tuttavia di ampiezze di pochi centimetri, facilmente mascherate da altre variazioni di livello come le sesse.

Nei fiumi le maree, indotte dalle variazioni di livello alla foce, possono essere apprezzabili anche per centinaia di km all’interno (estuari). Talvolta le maggiori alte maree, se la corrente fluviale è forte e l’estuario o il segmento fluviale poco profondo, determinano un’onda (del tipo onda solitaria) che risale controcorrente il fiume in forma di un muro verticale di acqua noto come mascaret (tidal bore). Il fenomeno può essere particolarmente rilevante in alcuni fiumi densamente popolati come la Senna e il Tamigi e in alcuni casi (estuario dello Tsientang, Cina) può raggiungere altezze di 3÷5 m.

In un estuario l’intervallo di tempo tra la bassa marea e la successiva alta marea è molto più corto dell’intervallo tra l’alta marea e la successiva bassa marea (Fig. 12.17). L’onda di alta marea infatti viaggia più velocemente della depressione di bassa marea che la precede e di quella che la segue, poiché l’acqua in corrispondenza dell’onda di alta marea è più profonda rispetto alle depressioni di bassa marea. Verso l’interno dell’estuario l’intervallo tra la bassa marea e la successiva alta marea diventa sempre più breve; l’ampiezza della marea invece diviene sempre minore.

Fig. 12.17 – Mareogramma dell’estuario dell’Hudson presso Albany (NY, USA) in cui è possibile osservare la differenza dell’intervallo di tempo tra basse ed alte maree.

In baie lagune e estuari, in dipendenza delle variazioni di livello marino si generano correnti di marea (tidal current). Quando la marea inizia a calare si innesca il riflusso (ebb current), cioè la corrente verso mare, che raggiunge la sua massima velocità all’incirca a metà tra l’alta e la bassa marea. Lo scorrimento cessa in corrispondenza della bassa marea a dare condizioni di acqua ferma o di stanca (slack water). Quando la marea inizia a crescere si innesca una corrente verso terra detta flusso (flood current) che raggiunge la sua massima velocità all’incirca a metà tra la bassa e l’alta marea. La corrente di riflusso, rinforzata dall’acqua dolce fluviale, è più forte del flusso che nel suo avanzare è ostacolato dalla corrente fluviale.

Fig. 12.18 – Nodi anfidromici, linee cotidali e di ugual estensione nel Mare del Nord.

Se le bocche di comunicazione tra laguna e mare aperto, bocca lagunare o bocca di marea (tidal inlet), sono strette le correnti sono molto violente (5÷6 m/s). In alta marea il livello dell’acqua della laguna non riesce ad innalzarsi alla stessa velocità del livello del mare aperto che risulta quindi più alto e genera una forte corrente di marea entrante in laguna. In bassa marea avviene il contrario, il livello dell’acqua in laguna è più alto e genera una forte corrente di marea uscente.

Sulle correnti di marea, che sono presenti comunque anche in bacini semichiusi e in aperto oceano, agisce la forza di Coriolis tanto che si determina una componente trasversale di marea (rispetto al moto originario) che provoca movimenti rotatori antiorari nell’emisfero settentrionale e orari nell’emisfero meridionale.

Sia nei bacini oceanici sia nei bacini semichiusi per questi movimenti si possono individuare, in posizione diversa per le componenti diurne e semidiurne, delle linee convergenti lungo le quali le maree sono in fase, ossia linee lungo le quali la marea è massima allo stesso tempo, dette linee cotidali (cotidal lines). Le linee cotidali confluiscono in punti detti nodi anfidromici (amphidromic point). in cui la marea e sempre nulla. La distribuzione dei nodi anfidromici è condizionata dalla forma del bacino e dalla forza di Coriolis. Perpendicolari alle linee cotidali e concentriche ai nodi anfidromici vi sono le linee di uguale escursione (corange lines) (Fig. 1.18).

Dal punto di vista geomorfologico il tipo di marea è importante perché determina la lunghezza del periodo di secca tra due alte maree che è una variabile molto importante in zona intertidale nel determinare sia l’alterazione fisica sia la zonazione biologica.

Il periodo di secca è ovviamente più lungo con maree di tipo diurno o misto piuttosto che con maree semidiurne. Invece per quanto riguarda l’intensità delle correnti di marea, le maree di tipo semidiurno determinano correnti più veloci dei tipi diurni e misti (per una stessa ampiezza di marea e per una stessa sezione trasversale di canale).

L’escursione di marea influenza direttamente l’evoluzione delle piattaforme costiere, delle spiagge e degli estuari; inoltre determina la forza delle correnti di marea.

Si possono quindi definire 2 tipi estremi di ambienti di marea (tidal environment): macrotidali e microtidali. Tutti gli ambienti intermedi possono essere definiti mesotidali.

L’ambiente macrotidale presenta maree di tipo semidiurno con escursione > 4 m, il microtidale maree di tipo diurno o misto con escursione < 2 m

Le coste macrotidali sono soggette a correnti di marea più forti con una dispersione in altezza dell’azione delle onde molto ampia, mentre le coste microtidali sono virtualmente prive di maree.

I due termini, macro e microtidale, sono riferiti da alcuni autori alla sola escursione di marea.

12.3 – Analisi dello stato del mare

Lo stato del mare può essere esaminato ricorrendo a due tecniche:

a) analisi statistica, mediante una rappresentazione grafica delle caratteristiche fondamentali (HT), che sono valori aritmetici desunti da una registrazione di moto ondoso;

b) analisi spettrale, mediante una rappresentazione dello spettro d’onda, che può indicare il contenuto energetico del mare per ogni mareggiata.

Se si considera la distribuzione dei quadrati delle ampiezze ai in funzione del periodo (T = /ω) o della frequenza f = 1/T e della direzione α, si ottiene uno spettro di energia secondo l’espressione:

dove E (f,α) è la densità spettrale in m2 s nelle bande di frequenza Δf e di direzione Δα.

L’energia media di un treno d’onda è anche uguale al quadrato di σ, che è la deviazione standard del rilievo del moto ondoso.

Lo spettro viene derivato da una registrazione completa di moto ondoso mediante trasformate Fourier e il risultato viene rappresentato in un diagramma (Fig. 12.19) dove E (m2s) è posta in funzione della frequenza f(s-1) e della direzione α (spettro direzionale).

Fig. 12.19 – Diagramma f/α.

Più frequentemente E viene posta in funzione della sola frequenza e, quindi, per una determinata direzione (spettro unidirezionale) (Fig. 12.20). Approfonditi studi, in particolare nel Mare del Nord, hanno consentito di stimare dai dati del fetch e del vento un tipo di spettro uni-direzionale, denominato Jonswap (Joint North Sea Wave Project),in cui l’onda significativa è definita da:

H0 =  = 4 √S(f)

I valori di H0 dell’analisi statistica e di quella spettrale trovano una corrispondente equivalenza. Il valore di T0, invece, è uguale all’incirca al valore corrispondente al picco della curva spettrale.

Lo stato del mare in questa analisi è, perciò, caratterizzato dallo spettro dell’energia, che indica l’ammontare dell’energia di un grandissimo numero di onde elementari, la cui componente conduce alla configurazione irregolare (random) del moto ondoso reale.

Fig. 12.20 – Diagramma E/f.

12.3.1 – Previsione del moto ondoso

II moto ondoso, in mancanza di registrazioni, può essere anche valutato o previsto da condizioni meteorologiche e ambientali di più facile reperimento. In una metodologia pratica è necessario conoscere i parametri del vento (intensità, durata e direzione) e del fetch effettivo, quest’ultimo e relativo a un’area in cui la velocità del vento si discosti dalla media al massimo di 2.5 m/s,

Alcuni studiosi hanno introdotto con questi criteri alcuni metodi, che forniscono tramite abachi i valori di H0 e T0. Tali metodi risentono dei fondali e possono differire uno dall’altro anche a seconda si tratti di mari aperti (come gli oceani) con fetch fino a oltre 2000 miglia o di mari limitati, con fetch dell’ordine massimo di 600 miglia. L’abaco di Darbyshire & Draper (Fig. 12.21), definito per mari a limitato fetch e su fondali di 20÷30 m, sembra adattabile ai mari italiani.

Fig. 12.21 – Abaco di Darbyshire & Draper.

La previsione dello stato del mare viene fornita conoscendo: la velocità dei venti foranei in nodi, la durata dei venti in ore e il fetch in miglia nautiche, relativo alla direzione principale dei venti.

Dall’abaco citato si ricavano il periodo significativo T1/3 e l’altezza massima Hmax10 (corrispondente a una registrazione della durata di 10 minuti contenente ~ 100 onde).

Il valore Hmax10 ricavato dal grafico, viene moltiplicato per un fattore correttivo f dipendente dalla durata della mareggiata Th secondo la Tab. 12.1.

Tab. 12.1 – Fattori correttivi f in funzione della durata Th.

Statisticamente il valore Hmax, così corretto, è legato a quello significativo secondo il rapporto Hmax/H1/3 = 1,60.

12.3.2 – Modelli di moto ondoso nella propagazione verso costa

Rifrazione

Come visto le onde al largo si avvicinano alla costa con una certa inclinazione α, percorrendo un fondale d, che si riduce progressivamente, con conseguente variazione delle grandezze fisiche dell’onda.

L’acclività del fondo, a partire dalla profondità relativa di d/T2 < 0.78 m/s2 e fino a quella relativa a 0.1 m/s2 (acque intermedie e basse) produce un’alterazione dell’altezza d’onda, che è valutata da un coefficiente Ka di acclività.

Tab. 12.2 – Grandezze fisiche del moto ondoso.

La rifrazione rappresenta il cambio dell’inclinazione a rispetto alla linea di costa, e conduce pure una variazione delle caratteristiche ondose, per un fenomeno simile a quello dato dalle leggi dell’ottica, valutabile con un coefficiente Kr di rifrazione (Fig. 12.22).

Fig. 12.22 – Effetto della rifrazione.

L’attrito del fondo, che è sempre più sentito man mano che il fondale diminuisce, produce un’attenuazione dell’onda, dovuta alla perdita di energia conseguente, valutabile con un coefficiente Kf di attrito. Pertanto nell’intervallo citato l’altezza d’onda vale:

H = Ka Kr Kf  H0

con H0 altezza in acque profonde, dove l’onda è quella significativa priva di alterazioni.

La valutazione di questi fenomeni è un’operazione svolgibile solo a mezzo computer. Poiché Ka e Kf sono funzioni di d/L (o d/L0) come pure α, nota che sia α0H può essere anche calcolato per una valutazione di massima con l’uso delle Tabb. 12.3 e 12.4. Questo comporta una pendenza del fondo > 1/20, che esclude praticamente la riflessione e non tiene conto dell’attenuazione dovuta all’attrito.

Tab. 12.3 – Relazioni tra grandezze inerenti gli effetti della rifrazione.

Tab. 12.4 –  Relazioni tra grandezze inerenti gli effetti della rifrazione.

Riflessione

Quando l’onda progressiva incontra una parete con inclinazione < 1/20 viene riflessa dando luogo, come visto, ad un’onda stazionaria (clapotis). Nel caso di parete verticale il clapotis è da ritenersi totale ed è teoricamente il risultato di 2 onde uguali, incidente e riflessa, che viaggiano in direziono opposta, formando in punti fissi dei movimenti nulli (nodi) e dei movimenti verticali che raddoppiano l’altezza incidente originaria (ventri). La superficie risultante è quindi quella di un’onda stazionaria, secondo l’espressione:

η = ηi ηr = H cos kx cos ωt

con movimenti oscillatori, che formano un’onda di altezza variabile teoricamente da 0 a 2H.

Diffrazione

II modello dell’onda progressiva si modifica quando incontra la testata di una barriera (ad es. molo foraneo di un porto) o entra in un’apertura portuale definita da 2 testate. Le linee di cresta si dispongono secondo delle linee curve a tergo della barriera, con variazione dell’altezza d’onda lungo le stesse, quale risultato di un trasferimento d’energia.

La valutazione di tale fenomeno, noto come diffrazione, è necessaria per verificare le altezze d’onda all’interno di un bacino portuale. La Fig. 12.23 mostra un tipico diagramma di diffrazione per un’onda progressiva incidente la testata di un molo singolo, con le linee di ugual coefficiente di rifrazione Kd, rapporto fra le altezze d’onda rifratta e incidente.

Fig. 12.23 – Diagramma di Diffrazione per un’onda progressiva incidente la testata di un molo singolo.

Lungo l’ortogonale delle creste d’onda incidenti, avente origine sulla testata del molo, il coefficiente assume il valore Kd = 0.5 e nell’area riparata valori decrescenti.

La risposta di un bacino portuale difeso da moli foranei (potere riduttore del porto) alla diffrazione è, tuttavia, resa complessa dagli effetti della rifrazione, della riflessione e dell’attrito di fondo da parte della configurazione delle opere interne.

Frangimento

L’altezza e la periodicità dell’onda progressiva sono limitate nelle acque basse dal fondale: come essa si avvicina alla costa, la velocità orbitale delle particelle in cresta eguaglia quella della celerità e l’onda rompe o frange, consumando la sua energia nell’attrito e nella turbolenza.

Secondo la teoria dell’onda solitaria la condizione limite è rappresentata dal rapporto fra l’onda immediatamente prima del frangimento Hb e il fondale corrispondente db, secondo il valore:

Hb/db = 0.78

Nella pratica progettuale, tuttavia, si suole ammettere in prima approssimazione Hb/db = 1.

In ogni caso un tale rapporto non è costante, ma dipende dalla pendenza β della spiaggia e dell’onda al largo, secondo il Numero di Iribarren:

Questo numero è indicativo del tipo di frangimento, sia in acque basse che profonde secondo la Tab. 12.5.

Tab. 12.5 – Relazione tra tipo di Frangimento e numero di Iribarren.

II tipo di frangimento, che si può verificare contro una struttura, assume importanza nel configurare le sollecitazioni contro la medesima e di conseguenza la stabilità dell’opera.

Risalita dell’onda (run-up)

L’onda dopo il frangimento risale sulla spiaggia o sull’opera di difesa per trasporto di massa fino a un’altezza verticale R, chiamata risalita dell’onda.

Questa viene valutata in maniera empirico-sperimentale specialmente per definire l’altezza delle opere di difesa dei porti, per controllare l’eventuale sormonto dell’onda.

Questa situazione, raffigurata in Fig. 12.24, mette in evidenza i fattori che influenzano R, per i quali si ha:

r è un parametro di scabrosità riferito al parametro inclinato.

Saville ha proposto un diagramma sperimentale per valutare la risalita dell’onda su scarpate naturali e artificiali comprese fra pendenze da 0 a cot β = 30, in funzione della pendenza dell’onda al largo (Fig. 12.25), corretta dai coefficienti r della Tab. 12.6 che tengono conto della scabrosità.

Onde estreme e Tempo di ritorno

II criterio usato generalmente per le verifiche di stabilità delle opere foranee è basato sulle condizioni estreme del mare.

Fig. 12.24 – Definizione delle grandezze RhL0H’0 e β.

La statistica delle onde estreme ha lo scopo di prevedere, sulla base di rari eventi, una distribuzione di valori, così da individuare l’altezza e il periodo dell’onda che possono verificarsi una volta in un certo numero d’anni (ad es. 50 o 100).

Fig. 12.25 – Diagramma Risalita/Pendenza.

Tab. 12.6 – Tabella tipi di rivestimento/r.

Si definiscono periodo di ritorno T, e probabilità P le seguenti espressioni:

Tr = (N+1)/m                 P = 1/T

dove m è l’ordine dell’evento (sul totale) ed N il numero dei dati a disposizione.

In tale maniera, assunti nel paraggio i dati estremi disponibili, per esempio per le onde significative nel maggior numero d’anni possibile (almeno 10), è possibile calcolare per ciascuno il Tr, e tracciare il grafico di probabilità (H0,T0) da cui, per estrapolazione, è possibile ricavare le caratteristiche H0 e T0 per tempi di ritorno più elevati.

Sesse

Le sesse, come visto, sono onde stazionarie indotte, di periodo relativamente lungo rispetto alle onde sollevate dal vento (ordine delle decine di minuti), che si manifestano nei laghi, nelle rade e nei bacini portuali. La loro origine risiede nelle variazioni locali della pressione atmosferica, oppure nella rottura dei treni d’onda sulle spiagge contermini che si trasformano in onde molto lunghe attraverso l’imboccatura del bacino.

Tali oscillazioni hanno periodo che dipende in parte dalle dimensioni del bacino e in parte dal periodo delle forze esterne che le causano. In un bacino schematico rettangolare aperto, di lunghezza B e profondità d costante, la sessa si presenta con un nodo nell’imboccatura e un ventre nella parete terminale opposta e può avere, in relazione alla lunghezza Bn nodi interposti lungo l’asse. Il periodo viene valutato tramite la semplice espressione:

La coincidenza eventuale del periodo delle sesse con quello delle onde incidenti può produrre risonanza con aumento sensibile del fenomeno, e quindi creando difficoltà di ormeggio. Per evitare tale fenomeno può essere così necessario uno studio del dimensionamento del bacino portuale, confortato da prove su modelli non distorti.

12.3.4 – Venti

Ogni località della costa, o paraggio, è interessata da un particolare regime di venti foranei (dal mare) che con la loro intensità, frequenza e direzione determinano lo stato del mare. I venti si definiscono regnanti o dominanti quando soffiano rispettivamente durante l’anno con più frequenza o con più violenza, e prevalenti quando raggiungono il massimo effetto combinato della frequenza e della violenza.

La forza del vento viene classificata secondo la scala Beaufort in cui l’intensità varia da 0 a 12 con una distinzione regolata dalla Tab. 12.7.

Tab. 12.7 – Scala Beaufort.

I venti, infine, vengono denominati a seconda della loro provenienza; così si hanno: venti cardinali: tramontana (N), levante (E), mezzogiorno (S), ponente (W); venti laterali: greco e bora (NE), scirocco (-E), libeccio (SW), maestrale (NW). Analoghe denominazioni vengono usate per le agitazioni ondose dei mari (Tab. 12.8). Si chiama settore di traversia l’angolo comprendente tutte le direzioni da cui possono provenire i mari causati da venti foranei: il settore si divide in principale (da cui provengono i mari più violenti) e secondario.

Tab. 12.8 – Scala delle Agitazioni Ondose.

Rappresentazione grafica dei venti

La direzione, la frequenza e l’intensità nelle località di osservazione per un dato periodo di tempo sono rappresentati graficamente dalla rosa dei venti in cui vengono inseriti i dati di osservazione (Fig. 12.26).

Fig. 12.26 – Rosa dei venti.

Azioni dei venti contro un ostacolo

La pressione del vento varia con il quadrato della velocità e viene fornita dall’espressione p = c v2 dove c è una costante usualmente assunta pari a 0.25, v è espressa in nodi e p in kg/m2.

La pressione varia poi con la superficie investita dal vento e p, di solito, viene moltiplicata per un fattore variabile da 1.3 (per le superfici piane) a 1.6 (per costruzioni a torre come le gru).

12.4 – Navigazione interna

La navigazione interna si occupa del trasporto delle merci lungo i corsi d’acqua naturali e artificiali e studia i conseguenti problemi tecnici ed economici. Fra i primi vanno soprattutto ricordati: la sistemazione dei fiumi per rendere possibile il transito dei battelli, la creazione di canali con opere d’arte adatte a far superare dai natanti i dislivelli naturali esistenti, l’impianto di apparecchi meccanici per il carico o lo scarico delle merci in apposite zone portuali o lungo l’asta dell’idrovia; tra i problemi economici devono ricordarsi: la determinazione del probabile traffico di nuove idrovie, del più conveniente tipo e dimensione di barca, in relazione alla natura del traffico, e quindi la convenienza del trasporto per idrovia rispetto ad altri mezzi di trasporto, in relazione alla natura delle merci.

12.4.1 – Fiumi e canali navigabili

Si possono elencare 3 specie di idrovie:

–       fiumi regolati;

–       fiumi canalizzati;

–       canali artificiali.

Fra i fiumi e i canali vi sono delle differenze fondamentali ai fini della navigabilità.

Il profilo di un fiume deve rimanere sempre discendente e il gradiente relativo deve rimanere il medesimo anche dopo la regolarizzazione o la canalizzazione che devono garantire un fondale minimo per il transito dei natanti. Per regolarizzazione s’intende un adeguamento del fiume a corrente libera, senza opere di ritenuta, che renda possibile la navigazione, e ciò è attuabile su grandi fiumi a grande portata e a piccola pendenza. Per canalizzazione s’intende un adeguamento ottenuto con la costruzione di opere di sbarramento da tenersi chiuse nelle magre, in modo che il rigurgito assicuri nel tratto a monte un pescaggio sufficiente alla navigazione, e ciò si rende necessario nei fiumi a portata modesta e pendenza notevole.

Fig. 12.27 – Sezione trasversale di Idrovia.

Gli sbarramenti devono consentire il passaggio delle portate e il trasporto dei sedimenti, analogamente a quanto accadeva prima della canalizzazione per evitare dragaggi e scompensi di fondo.

Le idrovie artificiali (canali) si calcolano con le comuni formule idrauliche: se i due capilinea presentano notevole dislivello, il collegamento viene fatto con più tratti di canale orizzontali, raccordati da conche di navigazione. Un canale quindi, a differenza dei fiumi, può ascendere a quote imposte, a patto di reperire un’alimentazione d acqua sufficiente all’esercizio, necessaria a far fronte al consumo d’acqua per le manovre delle conche e per le perdite dovute a evaporazione e filtrazione. L’alimentazione va commisurata a tali perdite, tenuto conto del tronco ove il traffico è più intenso e del periodo in cui le perdite sono maggiori.

L’adozione delle misure caratteristiche per le idrovie d’interesse internazionale europeo ha imposto in Italia la scelta della classe V per il dimensionamento delle vie di navigazione interna.

Fig. 12.28 – Schemi portuali per navigazione interna: a) e b) attracchi di servizio (parallelo e triangolare); c) attracco protetto; d) attracco multiplo protetto: 1 area di servizio; 2 collegamento natanti-ferrovia; 3 aree sussidiarie.

Per quanto concerne gli insediamenti portuali tipo per la navigazione interna, facendo riferimento agli schemi in Fig. 12.28, il primo tipo (a) viene situato al margine dell’idrovia e rappresenta la forma più semplice che richiede il costo d’impianto più basso; tuttavia presenta notevoli inconvenienti, dovuti all’interferenza con il traffico fluviale e alla mancanza di difese.

Il secondo tipo (b) mantiene gli inconvenienti e i vantaggi del precedente mentre va osservato che, in ragione della notevole modifica di sezione dell’idrovia tale da influenzare le portate e i depositi, esso viene adottato generalmente solo nei canali navigabili.

Il porto con molo di difesa (c) offre una protezione contro l’effetto dell’agitazione ondosa e del traffico e il vantaggio di usufruire di un molo pontile per i prodotti liquidi. Le dimensioni di tale tipo di porto dipendono dalle condizioni locali ma vengono suggerite almeno una lunghezza pari a 5 natanti e una larghezza non inferiore a 40 m.

Il tipo a diramazione (d), con un ingresso e più darsene, rappresenta la forma più razionale e completa, che tiene conto delle migliori possibilità di utilizzazione e di sviluppo, mentre si adatta bene anche a servire importanti aree industriali.

12.5 – Porti marittimi

Un porto è uno specchio d’acqua confinato da opere naturali o artificiali, o da una combinazione di entrambe, le quali consentono protezione e sicuro ormeggio alle navi durante le mareggiate.

In tal senso un porto ha una funzione di rifugio mentre nell’accezione più completa sta a significare il raggiungimento di due obiettivi fondamentali:

a) la costruzione di un’area attrezzata, la più grande possibile secondo la richiesta di una programmazione e di un piano economico, con particolari strutture fisse per ricevere e ormeggiare le navi;

b) la predisposizione di un sistema di opere e mezzi per trasferire merci e passeggeri dalle navi alla terraferma e viceversa.

Tali obiettivi si ottengono con la costruzione e l’adeguata disposizione planimetrica di opere esterne, per la protezione dal mare, e delle «opere interne», per la movimentazione delle merci.

12.5.1 – Tipologie portuali marittime

I porti, secondo la loro ubicazione rispetto alla costa, si distinguono in esterni e interni. I primi si ottengono con opere di difesa protese in mare; hanno il vantaggio di disporre solitamente di notevoli fondali e di offrire accosti anche a navi di grande stazza, ma hanno limitata estensione di terrapieni, per cui sono adatti a scopi prevalentemente commerciali. I secondi sono situati all’interno della costa e sono adatti a finalità industriali data la grande disponibilità di ampie aree. Nei riguardi delle caratteristiche idrografiche del mare su cui si aprono, si distinguono i porti aperti su mari a grande sviluppo di marea e quelli aperti su mari a piccolo sviluppo di marea.

Sotto l’aspetto delle finalità si possono elencare:

aporti militari, che richiedono un’ampia rada con facilità d’accesso, per permettere rapide manovre, con uno sviluppo limitato di banchine atte esclusivamente al rifornimento (ad es. La Spezia).;

bporti rifugio, che sono piccoli scali distribuiti convenientemente lungo la costa con facilità d’ingresso per i modesti natanti colti da tempeste durante la navigazione;

cporti commerciali, che sono definiti da un avamporto e da una serie di bacini o darsene, comunicanti con l’avamporto direttamente o attraverso sostegni e conche in relazione all’escursione di marea. Tra le darsene trovano collocazione i terrapieni, fronteggiati da muri di sostegno o banchine dove attraccano le navi per le varie operazioni (ad es. Genova);

dporti industriali, che sono creati in funzione dell’attività industriale, con ampie aree dotate di fronti accostabili per ricevere direttamente le merci oggetto di lavoro e trasformazione. Le condizioni ideali per l’ubicazione sono offerte dalle aree interne, dove si presenta facile un eventuale dragaggio (ad es. Marghera);

eporti da pesca, che sono finalizzati alle attività pescherecce sia in rapporto al tipo di pesca, che in rapporto alle lavorazioni richieste e al commercio (ad es. Mazara del Vallo);

fporti turistici, che sono riservati al diporto nautico. In questo caso il dimensionamento dello specchio d’acqua portuale nasce da considerazioni economiche e legislative per una gestione economica un porto turistico dovrebbe accogliere almeno 500 unità di piccole dimensioni; per la determinazione dei posti-ormeggio il 25% deve essere riservato al naviglio in transito (ad es. S.Rocco TS).

La distribuzione interna ideale deve considerare: un avamporto che permetta agevoli manovre d’ingresso e uscita dei natanti; una darsena di accettazione dove i natanti in entrata devono fare capo prima di essere inviati ai rispettivi ormeggi; una darsena per gli utenti fissi, possibilmente con attracchi distinti per le imbarcazioni a motore e quelle a vela; una darsena per l’alaggio e la riparazione dei natanti.

L’area degli specchi liquidi è definita dalla conoscenza della flotta utente sulla base di 130 m2 medi per barca. Deve essere garantita una quota liquida costante nei bacini, specialmente se si tiene conto dei minimi fondali (- 2÷ – 4) richiesti e degli elementi stabilizzatori delle barche a vela.

L’ormeggio dei natanti può essere ammesso con accosto in senso parallelo alla riva; con accosto in andana, cioè con la prua assicurata a una bitta e la poppa sull’ancora; oppure con la poppa assicurata alla banchina e la prua a un gavitello o a un palo infisso nel fondo.

Le strutture di attracco sono rappresentate da pontili del tipo classico con pali e solette o del tipo galleggiante ancorato, che permettono il passaggio delle persone ma non dei veicoli terrestri; oppure da banchine, costituite da muri di sostegno, con a tergo dei terrapieni dove può trovare posto un insediamento turistico-residenziale.

12.5.2 – Disposizione delle opere esterne dei porti aperti su mare a grande sviluppo di marea

In generale i porti su mare a grande sviluppo di marea sono ubicati sull’estuario dei fiumi (Londra, Rotterdam, Anversa) o all’interno dei litorali in lagune che comunicano col mare attraverso vani aperti sulla costa (Dunkerque, Le Havre). Nel primo caso non è richiesta alcuna opera particolare di difesa, mentre nel secondo caso l’imboccatura viene protetta generalmente con due dighe parallele o convergenti.

La caratteristica tipica di questi porti è la condizione delle darsene rispetto al livello liquido. Quando questo segue il ciclo di marea si parla di bacino a marea, in comunicazione diretta col mare; quando la comunicazione, invece, avviene attraverso una conca di navigazione si ha un bacino a livello costante.

Tipico esempio di porto a grande sviluppo di marea è il porto di Dunkerque dove l’escursione di marea è di 8 m. Il porto si divide in 2.parti: la prima è a bacino costante e vi si accede attraverso conche di navigazione; in questa le darsene sono a pettine, secondo la concezione pre-guerra. La parte nuova è a bacino a marea e rappresenta il cosiddetto porto rapido per il traffico petroli e container con calate di notevole sviluppo, dove possono attraccare in serie più navi fino a 25 104 DWT con fondali di 15.5 m rispetto al chart datum.

12.5.3 – Disposizione delle opere esterne dei porti aperti su mare a piccolo sviluppo di marea

In questo caso la differenza dei porti precedenti, le darsene sono sempre in diretta comunicazione con il mare con evidenti vantaggi di esercizio:

Porti difesi da un’unica diga parallela alla costa

Questo tipo di difesa si adatta a località aventi settore di traversia limitato e specchi liquidi abbastanza profondi antistanti a coste rocciose, mentre la sua ubicazione si presta a successivi sviluppi dei bacini. Classici esempi sono i porti di Trieste e di Genova.

Porti difesi da un’unica diga radicata alla costa

Quando la costa rocciosa presenta una sporgenza (promontorio o capo) e il settore di traversia è molto ristretto, la diga di protezione viene radicata alla riva fino a raggiungere, attraverso le isobate, i voluti fondali per poi proseguire parallelamente alla riva. Esempi di questo tipo si trovano presso porti modesti, quali Reggio Calabria e Gallipoli.

Porti difesi con due dighe convergenti

Questa disposizione viene scelta quando il settore di traversia è molto ampio; allora la bocca viene rivolta ai mari più pericolosi mentre la sua larghezza è ridotta al minimo, compatibilmente con la sicurezza di navigazione (da 150 a 250 m nei porti a medio fondale). La disposizione favorisce il fenomeno della diffrazione, e richiede un ampio bacino di espansione per smorzare l’agitazione ondosa prima di entrare nelle darsene.

Esempi di questa disposizione possono considerarsi il porto di Sibari (Fig. 12.29), progettato dopo aver esaminato il fenomeno ondoso con prove su modello, e il porto di Ravenna.

Porti difesi con due dighe parallele

L’imboccatura viene definita con due dighe parallele aggettanti e normali al litorale. La maggiore preoccupazione in questi porti è data dalla difesa contro gli interrimenti, che però è efficace solo se si è in presenza di marea di discreta ampiezza: da questo punto di vista si possono considerare validi i porti di Malamocco e Chioggia. Tuttavia oggi sono adottati più frequentemente, accettando una manutenzione di dragaggio, dato il costo relativamente ridotto con l’impiego dei mezzi effossori moderni. Altri esempi di tali porti sono Cesenatico e Pesaro sull’Adriatico. In ogni caso il tipo di entrata può presentare serie difficoltà nautiche allorché esistano correnti e mari trasversali rispetto all’asse delle due dighe parallele.

Fig. 12.29 – Porto di Sibari.

Porti difesi con una diga principale ed una secondaria

Sono fra i più frequenti nei mari a piccolo sviluppo di marea come Ancona, Napoli, Cagliari, Oristano (Fig. 12.30). Il tipo consente un’ampia varietà di disposizioni che vanno adottate caso per caso, tenendo presente che, per una completa difesa del bacino interno, la congiungente le estremità dei due moli deve essere parallela al limite esterno del settore di traversia secondario.

Fig. 12.30 – Porto di Oristano.

In generale è conveniente che il molo sopraflutto (che protegge il porto dalla traversia principale) sia formato almeno da due bracci: il primo destinato a raggiungere il voluto fondale col minimo percorso; l’altro, destinato a proteggere lo specchio portuale dai mari dominanti, è il più delle volte diretto parallelamente alla riva. La posizione del molo secondario è definita tenendo presente la rotta delle navi; spesso, per evitare un’eccessiva larghezza della bocca e accrescere la tranquillità delle acque, all’interno del porto in corrispondenza del molo secondario è costruito un moletto radicato al molo principale.

12.5.4 – Sistema portuale di accesso

Un sistema d’accesso portuale é costituito, di norma, da 3 elementi associati:

a) un canale di accesso che condiziona il passaggio di una nave dal mare aperto agli specchi liquidi riparati. Esso si rende necessario quando, nelle adiacenze esterne dell’imboccatura, non esistono fondali sufficienti alla navigazione;

b) un’imboccatura, definita dalle opere foranee, che rappresenta la porta d’ingresso del porto;

c) un bacino di evoluzione, ubicato normalmente nell’avamporto, per consentire la manovra della nave che deve disporsi nelle darsene.

12.5.4.1 – Canale d’accesso

È tracciato secondo una rotta prestabilita che tiene conto della navigazione di una nave esposta ai venti, alle onde e alle correnti. Il tratto finale, esterno all’imboccatura, deve esser in prevalenza rettilineo e di lunghezza tale da consentire quella riduzione di velocità che permetta l’entrata sicura al porto: tale lunghezza, solitamente, è ≥ 103 m.

La larghezza del canale λ viene valutata nella letteratura tecnica secondo lo schema di Fig. 12.31, ipotizzando:

B1 = B + ln tg θ

dove B1 è la larghezza virtuale della nave, B la larghezza effettiva della nave più grande prevista per il particolare porto, ln è la lunghezza della nave e θ è l’angolo di straorzata, variabile fra 5° e 15° in dipendenza dell’esposizione.

Fig. 12.31 – Schema di canale d’accesso.

La profondità nominale d del canale, riferita al l.m.m. (o alla media delle basse maree per i porti a grande sviluppo di marea), viene stimata sommando all’immersione a pieno carico della nave D un franco di navigazione, che è funzione di più fattori dipendenti dalla geometria della sezione, dai valori di marea, dal movimento della nave (beccheggio, rollio, appoppamento e traslazione verticale).

Non esiste una regola comune per definire il franco di navigazione ΔD, che deve essere determinato paraggio per paraggio con vari sistemi e sommando i singoli fattori prima citati e calcolati. Esistono tuttavia delle Raccomandazioni, proposte dalla PIANC (Permanent International Association of Navigation Congresses), per una definizione di massima:

a) nei canali aperti si deve assumere un valore pari al 15÷20% di D a seconda dell’esposizione;

b) nelle aree di manovra e nelle darsene, con acque tranquille, tale valore sarà del 7% di D.

Le curve sono in genere sconsigliabili, perché ogni mutamento di direzione si riflette sulla direttrice di rotta. Quando si rendono necessarie, devono avere una sezione più ampia di quelle del tratto rettilineo e un raggio di curvatura in funzione della lunghezza della nave. Il valore minimo è R = 1 103 m, che sale a 1.2 103 m per navi lunghe 150 m e 3 103 m per navi fino a 210 m, oltre le quali si può applicare la regola empirica: R = 10 ln.

12.5.4.2 – Imboccatura

Deve garantire un sufficiente margine di larghezza e di profondità, in condizioni medie di moto ondoso: possono valere le medesime considerazioni che per il canale di accesso, di norma però notevolmente largo.

La larghezza dell’imboccatura deve, invece, contemperare la facilità di entrata con la difesa dal moto ondoso: un valore di primo calcolo può essere assunto pari alla lunghezza ln della maggior nave prevista, salvo poi, per i porti importanti, verificare secondo quanto indicato al §12.5.4.4.

Fig. 12.32 – Definizione secondo modello dell’area di manovra.

12.5.4.3 – Bacino di evoluzione

Il bacino d’evoluzione è un’area posta preferibilmente nell’avamporto immediatamente a ridosso dell’imboccatura; deve essere protetto dall’azione delle onde e delle correnti e orientato tenendo conto dei venti prevalenti.

La dimensione del bacino è funzione della lunghezza della nave e del sistema di manovra: l’optimum è costituito da un bacino inscritto in un’area circolare, il cui diametro sia almeno pari a 3 volte la lunghezza della massima nave.

Per valori inferiori la manovra diviene più difficile e richiede l’ausilio di rimorchiatori; il valore minimo accettabile per il diametro è di 1.3 volte la lunghezza della nave.

12.5.4.4 – Controlli della rotta

La controllabilità della rotta della nave lungo il canale navigabile, all’entrata del porto e nella manovra di accosto a un terminale, costituisce parte importante della progettazione del sistema di accesso.

Essa è definita dalla combinazione fra la manovrabilità della nave e il sistema di controllo, ed è appropriata quando la deviazione dalla rotta imposta rimane entro limiti prestabiliti.

È evidente che, tenuto conto delle condizioni meteomarine, questa dipende dalle condizioni, dalle dimensioni e dalla disposizione planimetrica del sistema; un tale controllo e possibile con l’ausilio di modelli matematici, che mettono in conto i citati fattori (Fig. 12.32).

12.6 – Opere foranee di difesa

Le opere foranee più frequentemente impiegate sono rappresentate da strutture che possono essere elencate secondo 3 categorie fondamentali:

aflessibile (o a gettata), costituita da elementi poliedrici naturali o artificiali posti alla rinfusa secondo una sagoma trapezia, con scarpate comprese di norma fra 1.25/1 e 3/1, su cui il moto ondoso dissipa praticamente tutta la propria energia;

brigida (o a parete verticale), formata da monoliti prismatici (prevalentemente cassoni) a parete verticale, che riflettono parzialmente o totalmente l’onda;

celastica (o a giorno), costituita da una serie di elementi verticali (pali) che consentono la trasmissione dell’onda attraverso essi.

Il calcolo di queste opere richiede la definizione delle forze sollecitanti, che sono prevalentemente quelle indotte dal moto ondoso.

12.6.1 – Forze generate dal moto ondoso

Sono definite tramite la scelta dei parametri estremi dell’onda significativa.

Per tale ragione è necessaria una descrizione statistica del regime ondoso, che (come s’é visto) può dedursi da registrazioni dirette di H e T. Poiché ciò è possibile generalmente solo per pochi casi e per brevi periodi bisogna ricorrere ai dati delle caratteristiche estreme ricavate indirettamente dagli annali meteorologici, o direttamente dalle osservazioni registrate su navi appositamente attrezzate.

Si può così coprire un periodo fino a 30 anni, che rende possibile una migliore e sufficiente analisi, con tutte le elaborazioni del merito.

È da ricordare che una dettagliata analisi delle registrazioni ondose rende talvolta manifesto un fenomeno detto del raggruppamento d’onde, se pure ciò non è facilmente riscontrabile ne Mediterraneo. Un treno d’onde, specialmente del tipo di mare morto, può avere la tendenza di raggruppare le sue onde più alte con una periodicità notevolmente superiore (fino a 10 volte il periodo dell’onda singola).

In una progettazione di rilievo, pertanto, bisogna verificare l’esistenza di tale fenomeno, che può influire sul dimensionamento delle opere e sull’ormeggio delle navi.

12.6.2 – Tipo a gettata

La struttura base (fig. 12.33) è formata da:

a) uno strato-mantellata verso mare con massi, stesi generalmente in due strati sovrapposti, di peso W sufficiente a resistere all’azione del moto ondoso;

b) uno strato-filtro sottostante, per controllare la fuoriuscita del materiale più fine costituente il nucleo, con massi usualmente naturali (ossia provenienti da cave di prestito) del peso variabile fra 1/5 e 1/15 rispetto a quello precedente;

c) da un nucleo con materiale tout-venant di cava, la cui porosità influisce sulla stabilità verso il moto ondoso.

Fig. 12.33 – Struttura base a gettata.

A seconda che il materiale costituente la mantellata sia rappresentato da massi naturali o artificiali di calcestruzzo, si hanno le gettate descritte nel seguito.

12.6.2.1 – Gettate di massi naturali (Fig. 12.34)

Fig. 12.34 – Struttura a gettata con massi naturali.

Vengono impiegate generalmente su mari a piccolo sviluppo di marea e su fondali non eccessivi, con scarpata a mare > 1.5/1 e all’interno > 1.25/1.

La formazione della diga, se il terreno di posa e scadente, è preceduta da una bonifica di fondo e dalla stesa di uno strato di sabbia seguita dal nucleo con materiale tout-venant e poi via via dagli scogli di peso maggiore.

Le pezzature del materiale non sono normalizzate, ma possono essere suddivise nelle seguenti categorie: tout-venant (elementi di peso compreso fra 0 e 102kg), scogli di I categoria (peso fra 102 e 103 kg), scogli di II categoria (peso fra 103 e 3 103 kg), scogli di III categoria (peso fra 3 103 e 7 103 kg), scogli di IVcategoria (peso fra 7 103 e 15 103 kg).

Il rivestimento viene eseguito con massi naturali, che generalmente non superano i 15 103 kg. Le gettate possono venire realizzate a sezione completa con diretta avanzata da terra o per successivi tronchi e strati con versamento dei materiali da mezzi di trasporto galleggianti.

Questo tipo di struttura si adatta bene agli assestamenti dei terreni di fondazione e richiede una verifica globale con i metodi usuali della Geotecnica.

12.6.2.2 – Gettate di massi naturali con rivestimento di massi artificiali alla rinfusa (Fig. 12.35)

Fig. 12.35 – Struttura naturale rivestita con elementi artificiali alla rinfusa.

Costituiscono essenzialmente una variante del tipo precedente a scogliera, quando il peso dei massi per la difesa risultasse dal calcolo troppo elevato, e quindi di difficile reperimento e trasporto. La mantellata viene allora formata con massi artificiali di vario tipo che, sulla base di esami sperimentali, hanno assunto forme sempre più sofisticate nella ricerca di un sempre migliore concatenamento del rivestimento, e quindi della sua stabilità.

12.6.2.3 – Gettate con legante bituminoso

La mantellata di rivestimento è costituita da massi naturali posti alla rinfusa, ma sommariamente sistemati e legati con mastice bituminoso colato fra i vuoti: tale mastice è formato da un 20% di bitume ed 80% di sabbia, con una certa % di filler.

Queste dighe sono in genere riservate a difesa di paraggi esposti a deboli mareggiate e presentano il vantaggio di sopportare senza danni anche sensibili assestamenti.

12.6.2.4. Progettazione dell’opera

aMantellata. Il dimensionamento è progettato con una formula dovuta a Hudson ed elaborata sulla base di prove di laboratorio e osservazioni sperimentali. La formula indica il peso medio di ciascun masso, che va a formare la mantellata, secondo la seguente espressione:

Tale formula, in termini più attuali, può essere riscritta mettendo in evidenza il diametro nominale del masso D50 e il numero di stabilità Ns:

dove W è il peso in t o kN, con una tolleranza compresa entro 0.75÷1.25 W (nel caso di difese litoranee, in acque basse, il peso oscilla fra 0.125÷4 W, intendendo così come l’opera sia omogenea, non stratificata, con materiale ad ampia granulometria e posta in essere con l’accorgimento di disporre la frazione più grossa superficialmente e la più fine nel centro del nucleo); γ è il peso di volume del masso in t/m3 o kN/m3H è l’onda di progetto in m (l’onda modificata è assunta pari a H1/10 con tempo di ritorno Tr = 50 anni); Δ = γs/γa – 1, con γa = 1.030 t/m3, acqua di mare; β è l’angolo della scarpata con l’orizzontale in gradi sessagesimali; D50 = (W50/γs)1/3KD è un coefficiente idrodinamico di stabilità, funzione del tipo di masso (nel caso di difese litoranee per H < 2 viene indicato con KRRNs è un parametro strutturale di stabilità.

bSagoma. L’altezza della diga fuori acqua dipende dalla risalita dell’onda e dal sormonto concesso. La larghezza della cresta e lo spessore degli strati superiori (mantellata e filtro) possono essere valutati secondo la formula:

dove n ≥ 3 per la larghezza della cresta e ≥ 2 per lo spessore degli strati  mentre KΔ è un coefficiente di forma (Tab. 12.10).

Tab. 12.10 – Tabulati per KD e KΔ per vari tipi di massi.

La berma verso mare può essere fissata, quando è possibile, a una quota di 1.5 H inferiore al l.m.m. Usualmente l’opera è completata da un muro paraonde per opporsi agli effetti della risalita dell’onda fratta, come appare negli esempi delle Figg. 12.34 e 12.35.

Più recentemente sono state proposte delle nuove formule basate su esperienze con onde irregolari, anche tenendo conto del periodo dell’onda, del numero di Iribarren ξ, del frangimento, della durata della mareggiata e della porosità del nucleo.

Van der Meer, sulla base di esperienze in situ e laboratorio, propone le seguenti formule valide per massi naturali:

– con onde frangenti (ξ < 2.5÷3.5);

 – con onde non-frangenti (ξ > 2.5÷3.5);

dove P è la porosità del nucleo, (VV /V) in %; N il numero di onde della mareggiata, rappresentata dall’altezza dell’onda significativa Hs ed S il grado di danneggiamento, valutato dal numero N0 di massi rimossi da una striscia di scarpata larga D50.

A meno di avere un dettagliato quadro di queste 3 grandezze, nel calcolo vengono usati: N = 3 103 ÷ 5 103S = 1 ÷ 3 (equivalente a un danneggiamento del 5%); P = 0.3.

In ogni caso la formula di Van der Meer, relativa ai massi naturali, va applicata con prudenza confrontandola con quella di Hudson, perché valida solo per scarpate rettilinee in acque profonde e con la cresta della diga a quota superiore al livello della risalita dell’onda.

Poiché nella formula di Hudson l’effetto idrodinamico (che tiene conto di tutte le caratteristiche dell’onda) viene conglobato sperimentalmente ed empiricamente nel coefficiente KD, l’orientamento pratico è quello di ritoccare tale coefficiente secondo esperienza data la semplicità della formula nelle applicazioni pratiche piuttosto che introdurre espressioni più complesse per quanto sempre corrette da coefficienti empirico-sperimentali.

Per i massi artificiali, a causa delle limitate esperienze con una sola scarpata, viene introdotta la pendenza dell’onda s = 2πH0/gT2 che tiene conto del periodo. Assumendo N0 = 0 (inizio di danneggiamento), la stabilità della mantellata, da cui si ricavano le dimensioni del masso, viene assicurata dalle seguenti espressioni.

– Cubi:

 – Tetrapodi:

 – Accropodi (sui quali le esperienze hanno dimostrato la non-influenza della durata e del periodo delle onde):

cMuro paraonde

Viene usato per limitare l’altezza della cresta della diga, per ridurre il sormonto dell’onda e, qualche volta, per creare una via di transito e una sede per tubazioni. La sollecitazione del moto ondoso su tale opera è complessa, anche se presenta similitudine con quella esercitata su una parete verticale. La forza orizzontale FH può essere assunta, secondo lo schema di Jensen, con riferimento alla Fig. 12.36, in forma adimensionale:

Lp = lunghezza d’onda corrispondente al periodo di picco dello spettro) come funzione lineare di x = H0/Δh. Tale funzione sperimentale ha assunto la forma:

y‘ = 0.0515 x – 0.0260

La forza è insignificante quando H0/Δh < 0.5.

La distribuzione della pressione lungo l’altezza del muro può essere assunta costante, ossia ph = FH/h; la sottospinta sarà pv = ph al piede esterno, decrescente fino ad annullarsi all’estremità opposta della base.

Fig. 12.36 – Muro paraonde secondo Jensen.

12.6.3 – Tipo a paramento verticale

Sono strutture massicce di vario tipo resistenti per gravita all’azione delle onde che vengono riflesse. L’opera finita è rappresentata dall’infrastruttura a parete verticale, da una sovrastruttura o muro paraonde e da uno scanno di scogliera d’imbasamento appoggiato sul fondo naturale, che può essere assente se i fondali e la loro tenuta lo permettono.

Le norme generali di progettazione sono state oggetto di varie prescrizioni consigliate nei Congressi Internazionali e fatte oggetto di varie normative internazionali, quali, ad es. le British Standard Codes; in particolare l’altezza libera della parete verticale (dal livello di riposo alla quota d’imbasamento) deve risultare ≥ 2H0, sufficiente al formarsi di un clapotis totale ed evitare pericolosi fenomeni erosivi al piede.

H0 rappresenta l’altezza d’onda equivalente a quella significativa di acque profonde H0 nel sito considerato, cioè dopo aver subito le trasformazioni per rifrazione e diffrazione (a prescindere dall’attrito di fondo, che richiede un particolare approccio). E’ pertanto:

H’0 = Kr Kd H0

il cui periodo rimane T0.

Le opere di questo tipo vengono usate quando i fondali sono notevoli e rendono antieconomiche le dighe a gettata: hanno conosciuto un’evoluzione tecnologica legata, soprattutto, ai materiali e ai mezzi d’opera. Si possono cosi ricordare le opere cosiddette ciclopiche, formate da grossi massi posti in sovrapposizione e in qualche modo collegati fra loro, per poi considerare le attuali opere formate da cassoni di c.a. (successivamente zavorrati) e i cofferdam.

12.6.3.1 – Infrastruttura a massi cellulari e ciclopici

II primo dei due tipi è costituito da una serie di massi internamente vuoti a pianta rettangolare, di lunghezza pari allo spessore dell’opera e larghezza limitata a 4÷6 m, sovrapposti in opera e riempiti successivamente di calcestruzzo così da costituire tanti piloni indipendenti (diga dei Granili – Napoli) (Fig. 12.37).

Fig. 12.37 – Diga dei Granili (NA).

Questo tipo, anche se a opera finita offre una notevole stabilità, presenta il pericolo di essere investito da mareggiate durante la costruzione e prima del suo riempimento.

Il perfezionamento e il potenziamento dei mezzi d’opera galleggianti hanno consentito la formazione di massi non più cavi ma ciclopici, con piccoli vani interni per eseguire poi il collegamento verticale dei massi sovrapposti mediante annegamento in getti di calcestruzzo di putrelle d’acciaio (Fig. 12.38). Così l’infrastruttura può rapidamente essere posta in opera in una giornata di lavoro e ridurre il pericolo delle mareggiate.

Per la costruzione dei massi si seguono le comuni norme impiegando calcestruzzi d’altoforno o pozzolanico nei dosaggi medi di 250 kg/m3. I precedenti tipi sono ormai obsoleti, con l’avvento delle nuove tecnologie.

Fig. 12.38 – Struttura a getto di cls di putrelle d’acciaio.

12.6.3.2 – Infrastruttura a cassoni (Fig. 12.39)

I cassoni in c.a. in Italia sono realizzati a pianta più frequentemente rettangolare, ma possono venire impiegati anche a forma circolare e mista, divisa da setti longitudinali e trasversali d’irrigidimento; questi hanno spessori variabili fino a 60 cm e vengono eseguiti con doppia armatura simmetrica, calcolata sulla base delle sollecitazioni nelle varie fasi di lavoro e a opera compiuta.

Sono costruiti fuori opera galleggianti di dimensioni pari a tutta l’altezza dell’infrastruttura, lunghi 2÷3 volte la larghezza, varati e condotti in sito, affondati e riempiti di calcestruzzo magro, di sabbia o di altro materiale incoerente.

L’operazione più delicata è rappresentata dal trasporto e dall’affondamento di ogni cassone, specie quando è di grandi dimensioni, ma lo sviluppo della tecnologia ne consente oggi l’esecuzione in cantieri anche molto lontani dalla loro collocazione, e il loro rimorchio per grandi distanze. Il tipo di opera è entrato nella pratica corrente in tutto il mondo, con forme più o meno sofisticate, perché permette la formazione di una struttura finale di grande monoliticità e stabilità anche su grandi fondali.

Fig. 12.39 – Infrastruttura a cassoni.

12.6.3.3 – Cofferdam (Fig. 12.40)

Il cofferdam è una struttura composta da un corpo di calcestruzzo magro o di terreno incoerente, circoscritto da una serie di palancole metalliche piatte del tipo Rombas, concatenate a formare un cassone senza fondo, solitamente circolare. Le palancole vengono infisse in sito e il riempimento è contenuto dalla resistenza a trazione opposta dalle singole palancole di ogni cassone; mentre le sollecitazioni esterne sono contrastate per gravità dal complesso palancolato-riempimento.

cofferdam vengono usati quando le condizioni del sottosuolo sono di scarsa capacità portante, perché consentono di raggiungere strati inferiori più consistenti, senza richiedere bonifica del fondo e formazione di scanni.

Vengono usati con due disposizioni geometriche fondamentali:

a) Opera risultante dall’accostamento di più celle cilindriche, che presentano il massimo di stabilità e che richiedono un’infissione nel terreno ridotta e anche nulla, a seconda del tipo di terreno di fondazione;

b) Opera risultante dall’unione di più elementi formati ciascuno da due archi ribassati e riuniti da setti trasversali, sempre formati da palancole piatte; questa disposizione richiede un numero minore di palancole, ma una maggiore infissione nel terreno per sfruttare la spinta passiva contro il ribaltamento.

Anche per questi due tipi l’opera è completata da un coronamento di c.a. gettato in posto.

Fig. 12.40 – Tipologie a cofferdama (sx) e b (dx).

12.6.3.4 – Progettazione dell’opera a parete verticale

I parametri di sollecitazione sono definiti dall’altezza d’onda e dal periodo, come valutati a inizio capitolo e assumendo un periodo di ritorno T, = 50 anni.

Si possono distinguere due casi:

a) l’opera è sufficientemente lunga e i fondali sono tali per cui l’onda viene riflessa,formando il clapotis. In tal caso la forza totale esercitata sull’opera può essere valutata con la teoria di Sainflou, nell’ipotesi di onda regolare monocromatica;

b) l’opera è limitata (per esempio testata di una diga), oppure i fondali sono tali per cui l’onda reale random può frangere. In questo secondo caso la forza può essere valutata secondo la teoria di Goda, per la quale è ininfluente che l’onda sia o non sia frangente.

Clapotis

La distribuzione della pressione sulla parete segue il diagramma di Fig. 12.41 assumendo come altezza dell’onda di progetto H almeno il valore di H1/10.

Fig. 12.41 – Opera a parete verticale.

Deve essere verificata anche la condizione h* > 2H0. Le espressioni fondamentali che consentono di tracciare il diagramma di pressione in coincidenza con la cresta dell’onda sulla parete, sono le seguenti:

(incremento del livello medio del mare durante l’azione dell’onda stazionaria)

dove db (che figura in α2) è il fondale a una distanza dalla parete di 5H0

Pressione dell’onda corrispondente al cavo sulla parete

In certe condizioni è opportuno calcolare l’andamento della pressione corrispondente al cavo dell’onda sulla parete, che è diretta verso mare e che può superare d’intensità quella della cresta.

Nel caso del clapotis la pressione cresce idrostaticamente dal l.m.m. fino alla profondità (Hh0), dove vale γ (Hh0): questo valore si raccorda al fondo  d con la formula di p2.

Nel caso dell’onda random la pressione dal l.m.m. varia approssimativamente nella seguente maniera:

12.6.3.5 – Azione esercitata dall’onda franta su una parete verticale

Quando un’onda colpisce, dopo il frangimento, una parete verticale esercita contro di essa anche una forte azione dinamica.

In pratica per le strutture verticali, poste a valle della zona dei frangenti, si ricorre a ipotesi semplificative circa la sollecitazione del mare, distinguendo una parte dinamica e una idrostatica (R = RdRi), come mostra la Fig. 12.42.

Usando la relazione approssimata C = √gdb (db = profondità di frangimento) la pressione dinamica specifica vale:

Fig. 12.42 – Azione di un’onda franta su una parete verticale.

Essa viene ipotizzata costante dal l.m.m. fino alla quota positiva he = 0.78 Hb per cui la forza dinamica totale diventa:

La pressione idrostatica varia da 0, a quota he, al valore γhe, sul l.m.m., e rimane costante fino alla profondità hi, determinando la forza idrostatica totale:

12.6.4 – Opere a giorno

Le opere a giorno consistono in un sistema di pali (principalmente cilindrici) verticali variamente spaziati, a seconda della funzione e del tipo dell’opera.

Le sollecitazioni del moto ondoso vengono calcolate per analogia con la dinamica di un fluido dotato di velocità unidirezionale rispetto a un corpo fisso.

Con riferimento alla Fig. 12.43 la forza totale su un singolo palo di diametro D usualmente viene calcolata secondo la teoria lineare di Airy, quando d > 1.5 H0D/L < 0.05, con l’espressione:

 

II primo termine si riferisce alla forza d’inerzia fi di un corpo immerso in corrente varia accelerata di un fluido ideale non viscoso; il secondo termine rappresenta la forza d’attrito fD esercitata contro un cilindro in corrente stazionaria di un fluido reale viscoso fd è proporzionale a u2 e agisce nella direzione della velocità u; per correnti che cambiano di direzione si esprime u2 come u|u|).

Fig. 12.43 – Effetto del moto ondoso su palo singolo.

12.6.4.1 – Calcolo delle forze e dei momenti

I valori dei coefficienti CD e CM dipendono dal numero di Reynolds Re = umax D/v (umax = HgLT/2 per z = 0 dove L è la lunghezza d’onda in corrispondenza dell’opera, approssimata secondo la teoria di Airy; v la viscosità cinematica = 1 10-6 m2/s per l’acqua di mare).

L’integrazione al paragrafo precedente viene eseguita ponendo i valori di u e ū secondo le relazioni viste a inizio capitolo con il palo in x = 0. Poiché la forza d’inerzia è massima per sen ( 2πt/T) = 1 o per t = T/4, ne deriva che il valore massimo si riscontra T/4 secondi prima del passaggio della cresta dell’onda sul palo; mentre la forza resistente è massima in coincidenza col passaggio della cresta quando t = 0.

Con la teoria di Airy l’integrazione dell’equazione può essere eseguita tramite semplici diagrammi (→ Bibliografia, Shore Protection Manual) con i quali, oltre a F, si ricava anche il momento di F rispetto al fondale  d.

Il braccio della forza totale deve essere poi valutato rispetto al punto di flesso della deformata elastica (incastro) del palo, ricorrendo ai metodi della Geotecnica in funzione delle caratteristiche del terreno presente.

12.7 – Distribuzione delle opere interne: darsene e terrapieni

Un porto è un impianto destinato alla ricezione di naviglio per collegare i trasporti marittimi, terrestri e fluviali; in via generale la distribuzione e la quantificazione degli specchi liquidi interni (darsene e bacini) e dei terrapieni con finalità industriali e commerciali sono vincolate a considerazioni economiche e a particolari condizioni del sito.

Le darsene di forma rettangolare vengono allineate il più possibile secondo l’asse di percorso delle navi e possono dipartire da un unico bacino di evoluzione (porto vecchio di Genova, Napoli, Palermo) oppure, specie per i porti conquistati al mare (Marsiglia, porto nuovo di Genova), essere disposte a pettine. Allorché più moli e darsene paralleli sono raggruppati, oppure quando esiste una sola darsena troppo lunga, si frappongono da un’estremità all’altra delle zone (cerchi) di evoluzione affinché il natante non debba percorrere a ritroso un percorso troppo lungo per portarsi in posizione di navigazione.

In generale, per fondali fino a  13,00 m, nei porti italiani, la larghezza minima di una darsena compresa fra due banchine è dell’ordine di 150 m, scelta che permette di mantenere attraccate da ambo i lati una nave con accostate 2 o 3 file di chiatte e d’imbarcazioni di servizio (per una larghezza ~ 50 m) e di lasciare uno spazio intermedio libero uguale per una nave in transito.

Le fronti accostabili delle darsene devono essere tali da contenere almeno una nave per un determinato franco di manovra (30÷40 m), variando quindi da 150 m per le navi da 120 m di lunghezza fino a 400 m per le navi da più di 300 m di lunghezza.

Oggi, tuttavia, queste regole vengono sensibilmente incrementate: le darsene destinate alle navi di grosso tonnellaggio superano i 4000 m di lunghezza e 600 m di larghezza (porto di Fos-Marsiglia). Analogamente le banchine, che siano terminali di traffici molteplici, tendono ad avere una larghezza superiore a 400 m.

Il fondale delle darsene in acque tranquille, con trascurabili escursioni di marea, deve garantire un franco da 0.5÷1.0 m rispetto al pescaggio della nave a massimo carico.

Invece in caso di marea e di onda residua all’interno del porto, bisogna tenere conto dell’escursione di marea e ammettere un franco pari al 10% del tirante d’acqua.

Le banchine per merci varie nel Mediterraneo sono limitate nel piano superiore a una quota di + 2.5÷3.0 salvo richieste particolari. Il loro rendimento (ossia le tonnellate di merce trasportate per metro di banchina e per anno), nell’ipotesi di un coefficiente di occupazione pari al 50%, di una densità media della merce di 1 t/m3, e di un’attrezzatura normale di gru, magazzini e mezzi di trasporto, dovrebbe essere mediamente di 103 t/m/anno. Ad es. un accosto di 150 m deve permettere un traffico prossimo a 12 104 t/anno, che richiede un rendimento dei magazzini e terrapieni a tergo da 8 a 12 t/m2/anno: ne risulta che deve esistere un rapporto fra superficie delle aree di magazzinaggio e smistamento, e lunghezza di approdi di circa 1 ha per 150 m di banchina. Invece per le navi petroliere, o per merci liquido, è sufficiente una sola piattaforma isolata e collegata a terra con un pontile leggero, in quanto il carico-scarico avviene tramite pompaggio su oleodotto.

Pure nel caso delle navi roll-on/roll-off è richiesto un attracco di minori dimensioni, limitato a una banchina (rampa) sufficiente ad appoggiare il portellone della nave, da cui vengono movimentati i carichi veicolari.

12.8 – Opere di accosto: tipologie e strutture

Le opere di accosto hanno in generale 3 scopi: fornire un posto d’attracco e di ormeggio alle navi; assicurare un collegamento fra la nave e i vari servizi a terra mediante le attrezzature necessarie per il transito delle merci; e contenere i terrapieni di fronte agli specchi liquidi delle darsene.

Per definizione esistono 3 categorie di strutture tradizionali che rispondono, in parte o totalmente, a questi requisiti:

– la prima è rappresentata dalle banchine, che definiscono un’opera a parete verticale, addossata ai terrapieni, soddisfacente per tutte e 3 le esigenze;

– la seconda dai pontili, che definiscono un’opera isolata atta solo alle prime due esigenze;

– la terza dai duc d’Albe, che rispondono solamente alla prima richiesta.

Negli ultimi anni in relazione al grande movimento di mercé liquida (greggio e prodotti raffinati) si costruiscono, per naviglio di grande stazza, opere di ricezione del prodotto in alto mare senza difese esterne: in questo caso le opere possono essere costituite da strutture composte da pontili e da duc d’Albe .

12.8.1 – Banchine

Sono le opere interne che delimitano darsene e terrapieni. La loro struttura viene comunemente chiamata muro, in analogia con le corrispondenti opere di terraferma a sostegno di rilevati naturali o artificiali.

Muri a massi artificiali sovrapposti

Rappresentano la struttura classica di una banchina e sono i più diffusi e i più sperimentati nei porti, richiedendo un procedimento costruttivo semplice e sicuro. I massi di calcestruzzo sono costruiti in cantiere e vengono poi posti m opera con pontoni via mare e con gru via terra, direttamente sul fondo o su uno scanno di scogliera, quando sia necessario ripartire il carico per ridurre la pressione sul terreno. Vengono di solito collocati gli uni sopra gli altri e sfalsati in maniera da formare delle pile indipendenti di circa 12÷15 m di sviluppo. Le pile vengono completate (a partire da una quota di poco superiore a l.m.m. fino a quella definitiva) da un coronamento superiore in calcestruzzo gettato in posto, che comprende 2 o 3 pile e viene interrotto da giunti di dilatazione. Nel coronamento al momento del getto trovano collocazione le bitte di ormeggio. Il terreno a tergo del muro è costituito da un rinfianco di pietrame, per diminuire la spinta e impedire il risucchio del materiale minuto dai giunti realizzati fra le pile contigue (Fig. 12.44).

Fig. 12.44 – Muri a massi artificiali sovrapposti.

Muri a cassoni galleggianti

Ripetono, con opportune modifiche nelle dimensioni, il tipo già ricordato per le opere esterne di difesa a parete verticale e sono generalmente a pianta rettangolare.

La lunghezza dei cassoni è variabile da 15 a 30 m e la larghezza da 7 a 15 m, a seconda dei fondali e dei sovraccarichi; mentre lo spessore delle pareti e dei setti in c.a. variano dai 20 ai 60 cm, in base alle sollecitazioni sulle pareti interne, esterne e al fondo nelle varie fasi di posa in opera (Fig. 12.45)

Fig. 12.45 – Muri a cassoni galleggianti.

Muri a pozzo

Sono cassoni senza fondo costruiti progressivamente in posto nei terreni emergenti (poi dragati per dar luogo ai bacini e alle darsene), che vengono infissi fino alla quota prestabilita per scavo interno del materiale e autoaffondanti per peso proprio. Sarebbe, quindi, necessario che il peso P del cassone fosse sempre superiore all’attrito F che si sviluppa fra il terreno e le pareti durante l’infissione; se ciò non si verifica, bisogna ridurre l’attrito iniettando attraverso le pareti esterne del cassone, opportunamente predisposte, acqua o liquido tixotropico (miscela di acqua e bentonite) in pressione con funzione lubrificante.

I cassoni autoaffondanti sono in seguito riempiti di tout-venant o calcestruzzo magro, che comunque viene gettato nella parte inferiore per uno spessore sufficiente a equilibrare le sottopressioni: in tal modo nel calcolo di stabilità si ipotizza che il cassone trasmetta i carichi al terreno non solo mediante le pareti, ma mediante tutta la sua base.

Muri a diaframma

Nella tecnologia più recente i muri a pozzo vengono spesso sostituiti da paratie di palancole metalliche o in c.a. battute in sito oppure da diaframmi in c.a., pure costruiti in sito, con circolazione di fanghi bentonitici.

Nel primo caso si ricorre a elementi di acciaio standard (Larssen) o prefabbricati in c.a. di larghezza limitata (50÷100 cm), mentre nel secondo caso si costruiscono in posto dei pannelli verticali di larghezza variabile da 3 a 10 m.

Queste pareti resistono agli sforzi di flessione, mentre la loro stabilita alla spostamento orizzontale viene assicurata equilibrando le forze orizzontali nette, dirette verso mare, con la spinta passiva esercitata dal terreno al piede del diaframma e con un ancoraggio in testa (assicurato nel terrapieno a tergo mediante tiranti in acciaio), che riporta la trazione su una piastra di contrasto o su una palificata inclinata, poste a una distanza tale da non essere interessate dal cuneo di spinta (Fig. 12.46).

Fig. 12.46 – Muri a diaframma.

Muri danesi

Quando una parete,-verticale del tipo precedente è ancorata a un sistema composto da una soletta in c.a. e da pali verticali e inclinati si ha il tipo danese, che viene particolarmente usato nei bacini a marea dei porti del Nord Europa, dove la soletta può essere costruita in bassa marea ottenendo un notevole spessore finale, tale da caricare i pali, consentire grandi reazioni orizzontali e ridurre sensibilmente la spinta attiva orizzontale.

Il calcolo della spinta attiva a tergo del diaframma tiene conto che, tra la quota inferiore della soletta, larga L, e la profondità da questa quota d1 = L tg φ, è nulla l’influenza del terreno superiore alla soletta. Inferiormente alla soletta, alla profondità d2 = L tg (π/4 + φ/2) la soletta stessa non ha più influenza e la spinta assume il suo andamento originario (Fig. 12.47)

Fig. 12.47 – Muri danesi.

Muri banchine a giorno

Nei bacini in cui si rileva una residua agitazione, per evitare fenomeni di riflessione, si ricorre a opere accostabili costituite da un impalcato orizzontale in c.a. o in c.a.p. sostenuto da pali in acciaio, in c.a. prefabbricati o in c.a. a grande diametro.

Per eliminare la spinta dei terrapieni l’opera è delimitata da una scarpata rivestita con scogli, in relazione alle caratteristiche ondose contro i quali si estingue l’agitazione e la cui pendenza (usualmente da 2÷3 a 1:3) determina la larghezza dell’impalcato superiore.

Mentre i carichi sono sostenuti dai pali di lunghezza adeguata al tipo di terreno di fondazione, gli sforzi orizzontali dovuti all’accosto delle navi sono generalmente equilibrati dalla spinta passiva del terrapieno e dalla reazione dei parabordi; quelli dovuti ali ormeggio della nave possono essere equilibrati dalla struttura stessa, opportunamente calcolata, o da ancoraggi del tipo impiegato per i diaframmi (Fig. 12.48).

Fig. 12.48 – Muro-banchina a giorno.

12.8.2 – Pontili (Fig. 12.49)

Sono rappresentati da strutture continue nel loro sviluppo longitudinale costituite da un impalcato in c.a. o c.a.p. di larghezza generalmente ≤ 15÷20 m e da pali di sostegno verticali e inclinati e di dimensioni adeguate alla mole dell’opera. I pontili sono strutture isolate e possono essere radicati alla terraferma con un’estremità.

Fig. 12.49 – Pontile.

Queste opere possono essere accostabili: in tal caso gli sforzi orizzontali esercitati dalle navi sono assorbiti dalla flessione dei pali verticali (accettabile solo per i pali in acciaio o in c.a.p.), o dalla componente orizzontale della reazione dei pali inclinati.

I pontili, usati preferibilmente per navi di grosso tonnellaggio (petroliere), sono integrati da una o più piazzole di larghezza sensibilmente maggiore (all’incirca doppia di quella massima precedentemente indicata) costituite da cassoni riempiti di sabbia, tout-venant o magrone, analoghi a quelli usati per le dighe di difesa, oppure da una piattaforma in c.a. collegata di solito a pali in c.a. di grande diametro (1.5÷2.0 m), in grado di assorbire tutti gli sforzi orizzontali.

Nei pontili non direttamente accostabili, le navi attraccano su un sistema di duc d’Albe, ubicati a una certa distanza dall’opera e in numero dipendente dalle dimensioni del pontile e delle navi accostabili.

12.8.3 – Duc d’Albe

duc d’Albe sono opere isolate che hanno funzione di attracco, oppure di ormeggio per le navi: nell’accezione anglo-americana si distinguono in breasting dolphings per la prima funzione e in mooririg dolphings per la seconda.

II tipo più antico è rappresentato dalle briccole formate da pali di legno, infissi inclinati nel fondo e fortemente fasciati in testa, ancora caratteristici nella Laguna di Venezia.

Al presente vengono utilizzati pali di acciaio verticali di vario diametro, collegati a più livelli per formare un fascio che lavori solidalmente. Inferiormente a una piastra superiore, saldata sulla testa dei pali, sono previste delle barre di torsione incastrate su ciascun palo, che fanno assorbire ai pali le sollecitazioni derivanti da impatti o sforzi eccentrici e dalle forze di attrito. In tal caso le opere sono flessibili con un comportamento a mensola elastica (Fig. 12.50).

Fig. 12.50 – Duc d’Albe; comportamento da mensola elastica.

Sono pure utilizzati pali inclinati (Fig. 12.51), gabbioni di palancole, cassoni di c.a., nel qual caso le opere sono rigide; i due d’Albe sono dotati di parabordi e bitte o ganci a scocco.

duc d’Albe flessibili sì calcolano sfruttando l’elasticità dell’opera che, flettendosi, assorbe l’energia d’urto della nave mediante un lavoro di deformazione secondo l’espressione:

E = 0.5 F f

dove E è l’energia di attracco della nave, F la forza d’impatto e f la freccia o deformazione orizzontale del palo. I due d’Albe rigidi si calcolano come le corrispondenti strutture usate per le banchine o i pontili rigidi, determinando la forza d’impatto trasmessa attraverso i parabordi (fenders) o il tiro delle funi.

Fig. 12.51 – Duc d’Albe: con pali inclinati.

12.9 – Stabilità delle opere di accosto. Calcoli di progetto e di verifica

Nei calcoli statici delle opere di accosto sono anzitutto da valutare le seguenti sollecitazioni:

I – Forze OrizzontaliΣX

aForze d’urto, dovute all’impatto di una nave avente dislocamento D in t e velocità di accosto v: con riferimento all’ultima relazione può scriversi in tal caso ED v2/2g.

Nelle opere rigide dotate di parabordi elastici f è la compressione elastica accettabile di questi, che viene fornita dalle case costruttrici a seconda di E, per cui è facile ricavare il valore di F.

bForze d’ormeggio, dovute principalmente al vento che spira sulla superficie esposta della nave e trasmesse alle bitte di ormeggio, disposte in genere ogni 25÷30 m di banchina. Il tiro di queste forze su ogni bitta viene valutato secondo la Tab. 12.11.

cSpinte uniformi indirette, dovute ai sovraccarichi verticali q:

s = q Ka

dSpinte delle terre, In generale si ricorre alla teoria di Terzaghi, secondo la quali la spinta dei terreni incoerenti variabile con la profondità z assume la forma lineare:

ph = γ z K (t/m2)

dove γ è il peso di volume delle terre, che sotto il l.m.m. diventa immerso (γ‘); K è il coefficiente di spinta (Ka attiva e Kp passiva) valutato secondo l’espressione di Coulomb (Tab. 12.12):

Tab. 12.11 – Tabella valori per dislocamento verso Tiro su bitta.

dove φ‘ è l’angolo di attrito interno, δ l’angolo di attrito terra-muro (posto nel caso di spinta attiva eguale a 2/3 < φ‘, e nullo nel caso di spinta passiva).

Tab. 12.12 – Tabella valori per φ‘ vs Ka e Kp

eSollecitazioni sismiche; per le opere costruite in zone sismiche si deve procedere a una verifica delle opere sottoposte anche a un’accelerazione (orizzontale e verticale) Х g, dove Х è assunto pari a valori compresi entro 0.1÷0.3.

II – Forze verticaliXY

a) Peso proprio delle opere funzione del materiale adoperato e della spinta di Archimede, per la parte immersa sotto il l.m.m.;

b) Sovraccarichi accidentali q: da 2 a 6 t/m2 per le merci varie alla rinfusa, da 6 a 20 t/m2 per i carichi speciali secondo le indicazioni particolari.

I sovraccarichi dovuti ai mezzi meccanici devono essere valutati per ciascun progetto secondo le caratteristiche fornite dalla casa costruttrice nelle condizioni più sfavorevoli.

12.9.1 – Muro di sponda a gravità

Il calcolo dei muri massicci (a massi sovrapposti, cassoni etc.) consiste nel dare a priori un dimensionamento dell’opera sulla base dell’esperienza e nel verificare successivamente l’opera, nelle condizioni più sfavorevoli, per m di sviluppo. II calcolo viene preceduto dall’analisi delle forze sopra elencate (Fig. 12.52) e svolto secondo le seguenti fasi.

a) Verifica al ribaltamento:

1 – determinazione dei momenti ribaltanti, dovuti alle forze orizzontali agenti verso lo specchio liquido (Mr rispetto al punto A);

2 – determinazione dei momenti stabilizzanti, dovuti ai carichi e all’attrito muro-terreno (Ms rispetto al punto A);

3 – determinazione del coefficiente di sicurezza al ribaltamento s = Ms/Mr, scelto pari a ~2;

4 – ricerca del punto di applicazione delle forze applicate per via analitica mediante l’espressione:

d = (Ms – Mr)/ΣP

5 – determinazione della distribuzione del carico sul terreno di fondazione a contatto della base B:

σ = (ΣP/B)[1±(6e/B)]

dove l’eccentricità e = (B/2) – d.

b) Verifica allo schiacciamento. Si ripete il procedimento precedente estendendo il sovraccarico q fino a filo banchina verso lo specchio acqueo. Le pressioni sul terreno di posa devono essere compatibili con la sua portanza.

c) Verifica allo scorrimento. Si determina il rapporto S/P non considerando il sovraccarico sopra il muro, ma limitato al filo interno dello stesso: tale rapporto deve essere inferiore all’attrito calcestruzzo-pietrame d’imbasamento (~ 0.5).

Fig. 12.52 – Verifica al dimensionamento di un Muro di sponda a gravità.

12.9.2 – Palancola ancorata (metodo della trave equivalente)

II dimensionamento del palancolate, nel caso frequente di terreno incoerente (dotato prevalentemente di attrito interno φ‘), può essere effettuato con il metodo della trave equivalente, ammettendo le seguenti ipotesi (fig. 12.53):

a) le spinte delle terre obbediscono alla teoria di Coulomb;

b) l’ancoraggio del tirante è una cerniera fissa;

c) l’ordinata x, del punto d’inflessione è funzione dell’angolo di attrito interno (φ‘);

d) la distribuzione della reale spinta passiva viene semplificata secondo un diagramma triangolare odt, a cui corrisponde una forza concentrata RDsull’ordinata x2 = D‘.

Il calcolo viene, quindi, svolto secondo le seguenti fasi:

1 – determinazione delle spinte unitarie papapt, (i due ultimi valori si riferiscono alle spinte al di sotto del l.m.m.) mediante i coefficienti di spinta attiva Ka, passiva Kp e combinata K‘ = KpKa (vedi diagramma I)

2 – determinazione della posizione del punto d’inflessione c con l’aiuto del diagramma (V) di Fig. 12.53;

3 – calcolo della profondità del punto o secondo la formula:

4 – calcolo della reazione RB nel punto d’inflessione c, sulla trave superiore ac, considerata come semplicemente appoggiata in c e sul tirante;

5 – calcolo del tratto inferiore della parete ct = (D‘ – x1) nell’ipotesi di trave su semplice appoggio e annullando il momento delle forze rispetto a t.

6 – la profondità d’infissione della palancola nel terreno vale D‘ = (x1 + ct) che, introducendo un congruo coefficiente di sicurezza, viene aumentata a D = 1.2D’.

Generalmente il punto di flesso c e il punto di pressione nulla o sono molto ravvicinati; si può, quindi, porre xx0 nel qual caso la profondità d’infissione D‘ si ricava dall’espressione:

7 – calcolo dello sforzo sul tirante e dei momenti flettenti, il cui diagramma è rappresentato in (II) – secondo i metodi usuali della Scienza delle Costruzioni.

Fig. 12.53 – Verifica al dimensionamento di una Palancola ancorata..

12.9.3 – Duc D’Albe

Nel caso di un’opera isolata di larghezza B infissa h nel terreno (come nel caso dei singoli pali costituenti un duc d’Albe) lo sforzo totale che può essere assorbito è dovuto alla spinta passiva dei terreni e può essere valutato secondo l’espressione di Kerisel:

poiché deve essere R = 1.5 – F si può ricavare la profondità d’infissione h, nota F;

Nella manovra di attracco della nave l’impatto non è mai normale al duc d’Albe, perché in generale il vettore velocità del natante ha un’inclinazione θ rispetto al piano passante per i centri dei pali o per quello dell’apparato di attracco (nel caso di un solo palo). Di conseguenza l’energia cinetica E risulta scomposta in 2 termini secondo le componenti x (normale al piano) e y della velocità v:

La massa è M = D/g; la velocità v,. viene controllata dai piloti in funzione di L < 1 nodovx = 0.45 ÷ 0.15 in mare aperto (con il valore più piccolo per le grandi navi); vs = 0.2 ÷ 0.1 in area protetta.

In pratica il calcolo procede per tentativi, assegnando a priori un valore alla forza d’impatto F per una freccia f compatibile con la resistenza del palo, e verificando poi se il prodotto Ff si approssima a 2E; diversamente si ritocca il valore assegnato a F sino a ottenere la congruenza fra forza e deformazione.

La forza F è proporzionale alla freccia tramite una costante elastica secondo l’espressione F = c f, dove c è la costante elastica (approssimativamente pari a 103 kN/m) ed f la freccia (limitata a un valore massimo di 1.5 m, per navi di grosso tonnellaggio). Assegnato un valore di F, si procede alla determinazione di tutte le grandezze richieste secondo la relazione:

con i noti significati, mentre l1 = l + x (l è la distanza di F dal fondo, x è ricavabile dalla Fig. 12.53);

15.56);

dove D è il diametro esterno del palo, W il modulo di resistenza a flessione del palo e J il momento d’inerzia del palo, e poiché è anche:

dove d è il diametro interno del palo, da cui si ottiene lo spessore del palo tubolare:

12.10 – Installazioni di Cantieri Navali

La costruzione, la riparazione e la manutenzione delle navi richiedono un cantiere navale, ossia un’area adeguata all’interno di un sistema portuale dove trova sede tutta una serie di opere, officine, magazzini, bacino di carenaggio e banchina di allestimento, in cui viene organizzato il processo delle varie lavorazioni.

La disposizione di tali edifici o strutture dipende dalle condizioni topografiche del porto, tenendo presente tuttavia che la migliore soluzione è quella che rende possibile una loro sistemazione in linea, tale da facilitare l’assemblaggio e il trasporto dei materiali. In tal caso l’area del cantiere avrà la forma di un rettangolo relativamente stretto e allungato.

12.10.1 – Bacini di carenaggio fissi

La principale opera marittima di un cantiere navale è rappresentata dal bacino di carenaggio fisso: esso è formato essenzialmente da una vasca a pianta rettangolare e con sezione a U (platea di fondazione e muri di fiancata), che può essere isolata dall’acqua circostante mediante una porta mobile.

Quando la porta è aperta il livello d’acqua interno è ovviamente pari a quello del porto in cui il bacino è ospitato. In questo caso una nave può uscire o entrare secondo le finalità richieste.

Quando la porta è chiusa il livello interno può essere abbassato, in modo tale che la nave entrante, per esigenze di riparazione o manutenzione, vada a poggiare sul fondo del bacino; oppure il livello può essere innalzato per consentire alla nave, costruita o riparata, di uscire.

L’abbassamento e l’innalzamento del livello vengono effettuati mediante opportune pompe o valvole. Le dimensioni dei bacini sono legate a quelle della più grande nave prevista, tenendo presente, per quanto riguarda il tirante d’acqua, che la nave è generalmente scarica.

12.10.2 – Descrizione delle strutture connesse ai bacini di carenaggio

Lo schema generale di un bacino (Fig. 12.54) consiste principalmente nelle seguenti strutture.

Fig. 12.54 – Bacino di carenaggio standard.

a) La platea, che deve garantire l’impermeabilità della vasca: viene costruita in diverse maniere secondo il tipo di terreno di appoggio e può essere di piccolo o grosso spessore, incastrata o incernierata alle fiancate; assieme a queste ultime l’opera completa deve resistere alle sottopressioni idrauliche, per non essere posta in condizioni di galleggiamento.

b) Le fiancate fisse (o muri laterali e di testata), che possono essere costruite prima o dopo la platea secondo il criterio costruttivo e le condizioni dei terreni.

c) II lato anteriore aperto, che dopo il ricevimento della nave da riparare viene chiuso (per porre a secco il bacino) con porte di vario tipo:

1 – scorrevoli su rotaie perpendicolarmente all’asse del bacino, sino a trovare alloggiamento in un apposito vano, o camera, posto a lato dell’ingresso;

Fig. 12.55 – Bacino a ribalta rotante.

2 – a settori formati da battenti, ruotanti attorno ad assi verticali collocati ai lati dell’entrata del bacino, a forma di quarto di cilindro. In questa maniera, poiché la risultante della pressione dell’acqua sui battenti passa sempre per l’asse di rotazione verticale, si riducono sensibilmente le sollecitazioni sulla porta e le resistenze durante la manovra. Per contro essi richiedono dei vani laterali di ampie dimensioni;

3 – a ribalta rotante attorno a un asse orizzontale (Fig. 12.55), che le permette di adagiarsi sul fondo, consentendo una manovra più rapida rispetto agli altri tipi e un ingombro nullo a bacino aperto (Fig. 12.56b);

4 – a battello-porta costituito da una struttura metallica a compartimenti o casse di zavorra, che viene reso galleggiante aspirando acqua dal suo interno, e poi allontanato dal bacino, liberandone così l’accesso alle navi. Per la chiusura viene riportato galleggiante, applicato ai gargami e poi affondato pompando acqua nelle casse di zavorra. Sono di funzionamento semplice e possono essere facilmente riparate, ma sono di manovra assai lunga rispetto al tipo precedente (Fig. 12.56).

Fig. 12.56 – Bacino a battello-porta.

12.10.3 – Classificazione dei bacini

Le condizioni idrauliche-geotecniche del sottosuolo, su cui insiste un bacino, ne condizionano fortemente le soluzioni strutturali.

Queste differiscono tra loro soprattutto per il sistema di contrastare la sottospinta idraulica, che agisce alla base della platea, potendosi distinguere 3 categorie di bacini:

–       bacini a gravità (Fig. 12.57) in cui i pesi permanenti e accidentali nel loro complesso superano la spinta idrostatica;

Fig. 12.57 – Bacino a gravità (Livorno).

–       bacini ancorati (Fig. 12.58) in cui la sottospinta viene bilanciata dal peso permanente della struttura e da un adeguato sistema di ancoraggio nel sottosuolo con tiranti o pali;

Fig. 12.58 – Bacino ancorato (Breda, P.to Marghera)

–       bacini drenati (Fig. 12.59) in cui la pressione idrostatica sotto la platea viene annullata da un sistema drenante, mediante pompaggio.

Fig. 12.59 – Bacino drenato (Gydnia, Polonia)

La progettazione dell’opera viene condotta sulla base delle seguenti stratigrafie generalizzate del sottosuolo:

a) formazione rocciosa o di terreno impermeabile omogeneo e compatto;

bterreno omogeneo permeabile (sabbie e ghiaie);

c) stratigrafia alternata di terreni permeabili e impermeabili, che separano acquiferi diversi.

Nel primo caso è possibile la costruzione di un bacino a gravita con platea di notevole spessore; nel secondo può essere prescelta la soluzione precedente, oppure viene preferita una struttura più leggera e ancorata; nel primo (in presenza di argilla impermeabile) e terzo caso si può optare per il tipo drenato, in cui l’acqua, intercettata da uno strato drenante sotto la platea, viene pompata all’esterno.

12.10.4 – Calcoli statici dei bacini e delle conche

Nei calcoli delle strutture vengono valutate:

a) forze orizzontali: sugli organi meccanici (gru); reazione della porta; spinta dell’acqua e delle terre sulle fiancate; tiro o spinta esercitata dalla nave;

b) forze verticali: peso proprio del bacino vuoto e pieno d’acqua, peso della nave (valutabile sulle linee delle taccate da 300 a 500 t/m) distribuito in maniera variabile secondo le differenti parti di una nave, peso della porta, reazioni del suolo, sottopressioni idrauliche (spinta di Archimede).

Le forze di più difficile determinazione sono le reazioni del suolo che dipendono, oltre che dalle caratteristiche del terreno di fondazione, anche dal tipo di fondazione e dal metodo costruttivo.

Una volta determinate tutte le sollecitazioni, la stabilità viene studiata nelle condizioni più sfavorevoli: bacino vuoto e sottopressione idraulica massima (fase I); bacino vuoto con nave a secco e sottopressione idraulica (fase II); bacino pieno d’acqua e sottopressione minima (fase III) (Fig. 12.60).

Fig. 12.60 – Calcolo della struttura di un bacino.

II bacino va verificato dapprima nel suo insieme agli effetti del galleggiamento. Il calcolo esatto della platea e delle fiancate è complicato a causa della forma del bacino che non può essere assimilato a una trave semplice, e a causa del sistema costruttivo che può prevedere la realizzazione prima della platea e poi delle fiancate, o viceversa.

Quando la platea poggia direttamente sul suolo, si può ricorrere alla teoria del suolo elastico.

12.10.5 – Scali

Per la sola costruzione delle navi di piccolo e medio tonnellaggio (≤ 2 104 DWT) vengono eseguite delle opere a terra (scali di alaggio per piccole imbarcazioni, scali di costruzione per navi vere e proprie) che hanno il vantaggio di un costo molto inferiore rispetto a quello dei bacini da carenaggio.

Uno scalo consiste essenzialmente di 2 scivoli in acciaio o in c.a. su cui, tramite le taccate in legno, viene costruito lo scafo per poi essere varato: gli scivoli sono fissati a un piano, parte fuori acqua (che può essere inclinato ~ 5% oppure orizzontale, nel qual caso si crea l’inclinazione giocando con gli spessori delle taccate che sostengono lo scafo) e parte in acqua.

La prima parte è costituita da una striscia di pavimentazione normale alla riva atta a sopportare i pesi non solo delle corsie di sostegno della nave in costruzione, ma anche quelli delle attrezzature meccaniche (gru e altro) necessario per i lavori.

La seconda parte è formata dalle corsie subacquee in pendenza che servono esclusivamente per il varo della nave e possono essere poggiate su un piano appositamente costituito, oppure sostenute da una palificata. Queste raggiungono una profondità tale da consentire allo scafo di galleggiare (6÷7 m sotto il l.m.m.).

12.10.6 – Bacini di carenaggio galleggianti

Sono costituiti da un grande pontone galleggiante a compartimenti stagni con fiancate fisse sui lati maggiori e aperti alle due estremità, costruiti in modo da essere immersi e disposti sotto la nave da carenare ed emergere, quindi, con essa: vengono usati per porti con forti fondali o anche, talvolta, quando si abbiano pessime condizioni geotecniche dei terreni, oppure quando si richieda un mezzo di riparazione suscettibile di essere spostato.

Fig. 12.61 – Schema di bacino galleggiante.

In generale questi bacini sono costruiti in acciaio, ma anche in c.a.p.; la struttura, nella fase di riposo (Fig. 12.61) ha un pescaggio minimo (livello A); quando si deve introdurre la nave, il bacino viene affondato per la corrispondente altezza del tirante d’acqua della nave (livello C); dopo la posa della nave sulle taccate si procede lentamente allo svuotamento delle celle facendo emergere la nave e, quindi, il bacino con la platea al di sopra del l.m.m. (livello B).

Per l’affondamento del bacino si procede all’allagamento delle celle mediante valvole motorizzate installate sulle bocche di presa a mare; per la manovra di sollevamento e di correzione degli sbandamenti trasversali e longitudinali si impiegano elettropompe verticali di esaurimento ubicate sulle due fiancate del bacino.

12.10.7 – Conche di navigazione marittima

Le conche, come visto, costituiscono opere aventi analogia strutturale coi bacini di carenaggio, motivo per cui, dal punto di vista del calcolo statico, possono essere trattate in modo analogo.

La funzione delle conche di navigazione marittima è quella di assicurare la costanza di livello all’interno dei porti su mari a grande sviluppo di marea.

La struttura di una conca è formata da un vaso, con sezione trasversale a forma di U, che termina con due testate libere dove trovano posto le camere delle porte, i relativi organi di manovra e gli acquedotti con le pompe che consentono di far variare il livello all’interno.

Le dimensioni del vaso sono regolate da quelle della nave in transito; al presente, per la larghezza, vale la formula: B = 3.5 (T+p) – 5.25 (dove T è il tirante d’acqua della nave a pieno carico e p è il piede del pilota); per la lunghezza si assume quella della nave più un franco di ~ 30 m per tener conto anche della presenza di eventuali rimorchiatori.

Fig. 12.62 – Conca di navigazione di Zeebrugge.

Il tirante d’acqua è definito dal livello della media bassa marea di acque vive e dal tirante del naviglio medio, poiché le navi più grandi possono transitare ricorrendo alla media marea.

Generalmente le conche sono equipaggiate con porte di tipo vinciano (per larghezze < 30 m) o con porte-cassone a traslazione orizzontale: queste ultime sono attrezzate con galleggianti per ridurre il loro peso durante il funzionamento.

I dispositivi di acquedotto per il riempimento e lo svuotamento delle conca sono attualmente disposti preferibilmente sulle porte-cassone.

La durata completa della concata dura da 30’ a 45’.

Un tipico esempio di conca è quella di Zeebrugge (Fig. 12.62) entrata in funzione nel 1983, in grado di consentire l’accesso al bacino portuale a navi fino a 13 104 DWT; i dispositivi di acquedotto sono collocati sulla porta.

12.11 – Movimenti terra lungo costa e al largo: dragaggi ed escavazioni

II dragaggio rappresenta una categoria di lavoro marittimo attraverso il quale viene rimossa una determinata quantità di terreno dal fondo marino per 2 scopi fondamentali, che possono essere talvolta associati. Il primo riguarda sia il mantenimento di un fondale soggetto a interrimento sia il raggiungimento di un fondale maggiore al fine d’incrementare il pescaggio delle navi; il secondo riguarda l’approvvigionamento di materiale da impiegare nella formazione di terrapieni o nel ripascimento di spiagge in erosione.

Il dragaggio comprende 3 fasi successive di lavoro che possono, o meno, essere effettuate dallo stesso mezzo: l’escavazione del materiale, il trasporto in superficie e la messa a deposito dello stesso. I mezzi o le attrezzature che svolgono tali funzioni sono le draghe, le bette e altri mezzi speciali ausiliari.

12.11.1 – Tipi di draghe

I fondo del mare, che diventa oggetto di dragaggio, può essere costituito da formazioni rocciose o da depositi sedimentar! di terreni sciolti.

Nel primo caso, secondo la compattezza e resistenza della roccia, l’escavazione può essere fatta con draga meccanica, oppure richiedere un lavoro preliminare di disgregazione della roccia, eseguito con esplosivi o con idonei arnesi subacquei di scasso (martelli, scalpelli etc.), che conducono alla formazione di uno strato frantumato e sciolto, successivamente trasportato in superficie.

Nel secondo caso il materiale costituente i sedimenti ha un peso specifico assoluto (G) generalmente attorno al valore di 2.65, ma differisce notevolmente nella granulometria e nel peso di volume, che può variare mediamente fra 12.5 kN/m3 e 20 kN/m3.

I terreni più leggeri sono costituiti da fanghi e da argille, con frequente presenza di materiali organici, quelli più pesanti da sabbie e ghiaie. La suddivisione dei materiali sciolti in queste due categorie richiama un’analoga suddivisione dei mezzi secondo due tipi fondamentali: draghe meccaniche e draghe idrauliche.

Quelle meccaniche smuovono il terreno e lo portano in superficie mediante cucchiai, pale o secchie; esse forniscono un terreno con un peso di volume simile a quello esistente nel fondo; quelle idrauliche utilizzano una pompa centrifuga che aspira in superficie il terreno e successivamente lo spinge, attraverso una condotta, al punto di discarica; esse richiedono una diluizione del terreno secondo un rapporto con l’acqua attorno a 1:5.

Pertanto, a causa della differenza delle caratteristiche geotecniche dei terreni e della conseguente differenza dei metodi operativi, le draghe hanno consentito uno sviluppo di tipologie che è di complessa catalogazione, anche perché esiste una continua evoluzione tecnologica. Tuttavia i mezzi impiegati nei lavori di dragaggio possono essere suddivisi in 2 grandi gruppi: draghe meccaniche e draghe idrauliche.

Draghe meccaniche

Come è implicito nel nome, questi mezzi impiegano degli attrezzi meccanici per disgregare e prelevare il materiale del fondo marino; tali attrezzi possono identificarsi con:

–       benne mordenti;

–       pale meccaniche;

–       cucchiai;

–       secchie;

–       scalpelli.

Draga a secchie (Fig. 12.63) – Si tratta di un natante semovente costituito essenzialmente da un pontone rettangolare, con una scanalatura pure rettangolare a prua attraverso la quale scorre un’elinda equipaggiata con una serie di secchie a bordo tagliente. Il materiale rimosso dal fondo, per la progressione ciclica delle secchie, viene riversato in una tramoggia situata al centro dello scafo, e da qui mediante convogliatori trasversali su bette affiancate allo scafo.

Fig. 12.63 – Draga a secchie.

La draga in lavorazione procede a zig-zag con un movimento oscillante regolato da 6 cavi fissati a un corrispondente sistema di ancore (4 laterali che servono per l’oscillazione trasversale, 1 a prora e 1 a poppa per l’avanzamento longitudinale); in tale maniera la draga forma uno scavo secondo una fascia semicircolare di ampiezza dipendente dalla potenzialità della draga stessa, successivamente esegue un avanzamento e così di seguito.

La potenzialità viene indicata in funzione della capacità delle secchie, variabile da 100 a 2000 t. Questo tipo di draga può essere impiegato per una vasta gamma di terreni fino alle rocce tenere: può operare in acque relativamente tranquille con onde fino a 1 m raggiungendo profondità di scavo fino a 35 m.

Draga a cucchiaio – È costituita da un pontone rettangolare su cui è montato un cucchiaio, che scava e porta in superficie il terreno dragato. Le dimensioni della draga vengono indicate dalla capacità del cucchiaio, che varia da 0.5 a 7.5 m3; viene utilizzata in terreni duri e compatti e su specchi d’acqua tranquilli. Lo scafo viene equipaggiato con piloni scorrevoli verticalmente, che vengono infissi nel terreno per trovare una condizione di ancoraggio, mentre il cucchiaio con bordo tagliente viene forzato entro lo strato di terreno da dragare. Il materiale così estratto viene caricato su bette che provvedono poi al suo trasporto fino al punto di discarica.

Draga a benna mordente – È formata da un pontone rettangolare sul quale è montata una gru mobile equipaggiata con benna mordente. La benna preleva il materiale dal fondo e lo scarica su una betta affiancata; le caratteristiche del mezzo vengono indicate dalla portata della gru variabile da 2 a 35 t. Questo tipo di draga può essere anche del tipo semovente-portante e allora il materiale viene depositato nello scafo stesso entro pozzi di deposito. Può essere usata anche nella costruzione dei moli foranei, nel qual caso la benna effettua l’operazione inversa. Le dimensioni vengono definite dal volume utile della draga, che varia da 200 a 2000 m3.

Pontone rompiroccia – Si tratta di un pontone equipaggiato con un’attrezzatura per disgregare le formazioni rocciose mediante l’impiego di uno scalpello o di un martello pneumatico: generalmente non è atto alla rimozione e al trasporto del materiale frantumato. Le dimensioni vengono indicate dalla capacità del martello pneumatico, che varia da 5 a 15 m3/h.

Piattaforma auto-elevatrice – È formata da un pontone rettangolare galleggiante che, in assetto di lavoro, è fermato e sostenuto da quattro piloni poggianti al fondo. La piattaforma è attrezzata con diverse installazioni quali gru, martelli pneumatici, sonde meccaniche, penetrometri etc., che consentono una molteplicità di lavori a partire dalla disgregazione delle formazioni rocciose fino ai sondaggi nel sottosuolo. In questo tipo le dimensioni vengono indicate dalla lunghezza dei piedi (piloni), che varia entro 10÷80 m e dalla capacità dei meccanismi di sollevamento, variabile da 200 a 3000 t di spinta.

Draghe idrauliche

La caratteristica principale di una draga idraulica è il particolare prelievo dal fondo e il trasporto del materiale, che si effettuano con l’impiego di una pompa centrifuga. Il terreno viene scavato dal fondo del mare mediante un disgregatore a fresa, una ruota a pale, una sorbona aspiratrice o un getto d’acqua; viene diluito con acqua e quindi pompato attraverso tubature, di vario diametro a seconda della potenzialità della draga, fino a deposito. Fra i tipi più frequenti di draghe idrauliche si possono elencare i seguenti.

Draga stazionaria aspirante-rifluente (Fig. 12.64) – Consta di: uno scafo galleggiante dotato di una fresa disgregatrice del materiale del fondo marino sistemato a prora, di cui esistono numerose varianti in funzione del tipo di terreno e allo scopo di ridurre i costi; un sistema idraulico aspirante-rifluente per lo scavo e la discarica dei terreni dragati; un equipaggiamento meccanico di sostegno e manovra di questi organi.

La dimensione della draga ha riferimento col diametro della condotta rifluente, che può raggiungere i 1000 mm; la potenza cresce proporzionalmente fino a 15 MW, necessari a far funzionare il disgregatore, le pompe e i motori ausiliari.

Fig. 12.64 – Draga stazionaria aspirante-rifluente.

La draga è equipaggiata con due piloni di acciaio che, assieme ad un sistema di ancore, hanno lo scopo di posizionare o far avanzare la draga durante le fasi operative. Quando la draga è sistemata nella posizione voluta di partenza, un pilone viene abbassato e infisso idraulicamente nel fondo marino, costituendo un perno su cui oscilla allentando o tirando i cavi fissati alle ancore, mentre ara il fondo fino alla profondità richiesta. Alla fine di una singola strisciata, il secondo pilone (pilone di manovra) viene abbassato e il primo rialzato, effettuando in questa maniera l’avanzamento della draga, per poi ripetere l’operazione precedente e così di seguito. La discarica avviene con il sistema di condutture galleggianti tramite una pompa, che immette il terreno dragato sotto forma di miscela acqua-terreno m un rapporto di volumi medio di 5 a 1. Quando la distanza di discarica è sensibile o la pompa e insufficiente per permettere il rifluimento, si ricorre a una pompa ausiliaria (booster) collocata a un certo punto del percorso, che consente una sufficiente prevalenza. Questo mezzo può operare sui terreni sciolti con onde fino a 1.5 m di altezza e può avere un rendimento massimo di 3000 m3/h di materiale dragato; è molto usato per aree di colmata, specie nei porti industriali, avendo anche la possibilità di selezionare i diversi materiali (argilla o sabbia) per una discarica più consona a un più rapido consolidamento dei nuovi terrapieni.

Draga aspirante-portante-semovente (Fig. 12.65). — Rappresenta un mezzo moderno progettato particolarmente per lavori in mare aperto, e quindi anche agitato con onde fino a 3 m. Lo scafo semovente è equipaggiato con una condotta aspirante montata di fianco e dotata, all’estremità inferiore, di un attrezzo speciale di scavo e lungo l’asse, di giunti e articolazioni, che conferiscono al mezzo una certa flessibilità in modo da operare anche con l’agitazione ondosa. Questo tipo di draga è usualmente polivalente perché può essere equipaggiato con tubo aspirale per terreni molto sciolti, e con fresa disgregatrice, per terreni duri che vengono poi aspirati come nel caso precedente. Il terreno escavato è versato negli speciali depositi dello scafo dove decanta, e può essere scaricato per gravita con la particolare l’apertura della chiglia dello scafo ); oppure può essere ripreso senza decantazioni con pompa e rifluito con condutture, m maniera analoga al tipo di draga stazionaria. La profondità di scavo è notevole e può essere aumentata ponendo una pompa ausiliaria sommersa entro il tubo aspirante. Questo tipo di draga può pervenire a una grande capacità d’immagazzinamento e raggiungere una sensibile profondità di dragaggio: ad es. la draga belga JFJ de Nul ha una capienza di 11.750 m3 e raggiunge una profondità di 75 m.

Lo sviluppo di questo tipo ha rivoluzionato l’industria dragatoria, poiché è possibile ridurre drasticamente i costi: attualmente la manutenzione dei fondali nei canali navigabili esterni e nei porti è dominata dalla draga semovente, che è usufruibile, con le più recenti migliorie, anche per materiali compatti.

Una notevole variante di questa draga consente il recupero dell’olio minerale che, per un qualsiasi incidente, si trovi riversato sulla superficie del mare. Le tubazioni laterali si trasformano in forti aspiratori che possono incamerare anche in alto mare grandi quantità di greggio, mentre la draga diventa praticamente una piccola petroliera.

Fig. 12.65 – Draga aspirante-portante semovente.

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