10 – Difese spondali

La sistemazione di un corso d’acqua riguarda il tratto, montano e quello medio e medio-basso, con caratteri idraulici e morfologici assai diversi nei due tratti. Caratteri relativamente costanti presentano, invece, i corsi d’acqua (non numerosi) alimentati da risorgive che prendono origine, per lo più, nella parte medio-alta della pianura.

Nei paragrafi a seguire sono trattate, nell’ordine, le sistemazioni dei torrenti e, successivamente, quelle dei fiumi.

10.1 – Sistemazione dei torrenti

La sistemazione di un torrente si propone di dare assetto stabile o quasi all’asta, al bacino di raccolta, alla confluenza e all’eventuale conoide di deiezione.

Il comportamento dei torrenti è caratterizzato da notevole pendenza e rapidità nella formazione delle piene. L’instabilità dei versanti e talvolta la loro scarsa copertura vegetale concorrono alla produzione dei materiali che alimentano il trasporto solido nei tratti montani e in quelli che precedono la prima pianura.

La produzione di materiale raccolto dal corso d’acqua è riferita in m3/km2, anno): l’ordine di grandezza medio in un lungo periodo, all’uscita dalla parte montana o quasi, varia da 150 a 300 m3/(km2, anno) (erosione media del bacino di 0.3 mm/anno) per corsi d’acqua alpini e fino a 1000 e più per quelli appenninici.

Il carattere complesso del rapporto di un torrente col suo bacino rende difficile la ricerca di una sistemazione che si prefigga di stabilizzare l’alveo, attraverso la definizione d’una pendenza d’equilibrio (trasporto nullo) o di compensazione (tra materiali erosi e depositati).

La sistemazione di un torrente è specialmente necessaria quando si debba provvedere alla difesa d’insediamenti e di abitati: essa è, pertanto, da considerare in un contesto più ampio di quello che si traduce nel solo proposito di fissare con soglie o briglie il suo profilo longitudinale. Ma si deve anche valutare la permanenza nel tempo della sistemazione in dipendenza dallo stato dell’alveo e dei versanti; per evitare di dovere riaffrontare, a distanza di qualche anno, gli stessi (insoluti) problemi.

10.1.1 – Classificazione dei problemi

Le opere di sistemazione di un torrente possono riguardare: la stabilizzazione dell’asta, delle sue sponde e della conoide di deiezione; gli interventi nel bacino per ridurre i fenomeni erosivi: seminagione di essenze adeguate, opere di drenaggio, soglie, piccole briglie e muri di sostegno.

La stabilizzazione dell’asta con l’obiettivo di ridurne la pendenza si attua con: soglie di fondo che fissano la sezione; briglie sporgenti dal tondo. I muri di sponda, le scogliere longitudinali ed eventualmente i pennelli evitano l’erosione delle sponde.

I cunettoni, canali rivestiti a sezione ristretta, relativamente profondi, sono impiegati per evitare l’erosione dal fondo e delle sponde.

La stabilizzazione della conoide di deiezione, assegnando appropriate caratteristiche all’alveo, dà modo di fare defluire il materiale solido verso valle senza depositi significativi. La disponibilità di capacità (piazze di deposito) lungo l’alveo consente il deposito controllato del materiale solido trasportato trattenendo i materiali, la cui deposizione a valle potrebbe coinvolgere centri abitati o procurare esondazioni. Se un evento esaurisce in parte o tutta la capacità delle piazze di deposito, si deve provvedere alla rimozione del materiale depositato.

Nelle sistemazioni si fa riferimento a un evento di piena con periodo di ritorno (Tr = 100 anni) per le opere principali: quelle che crollando possano recare danni gravi; ma con Tr ≤ 20 anni per opere da cui possano derivare solo contenuti danni materiali.

10.1.2 – Trasporto solido

Nella sistemazione dei torrenti il trasporto dei materiali litoidi ha un ruolo centrale. I materiali sono mobilitati in due modi: dalla corrente (sul fondo e in sospensione) con le sabbie, i limi, le argille; dai versanti verso l’alveo o dall’alveo stesso con una massa fluida detritica e fangosa (debris flow): con esiti talvolta disastrosi per elevata velocità e impatti. Di seguito vengono esposte alcune relazioni utili per la comprensione del testo, rinviando per ulteriori approfondimenti a pubblicazioni specialistiche.

10.1.2.1 – Trasporto sul fondo

Per i materiali di maggiore dimensione dipende dalla geometria dell’alveo (sezione A, tirante y, perimetro P, pendenza i), dall’attrito e coesione tra gli elementi.

Il moto dei materiali di diametro d (e minori) prende origine quando la tensione tangenziale τ sul fondo (o la velocità media v) superi il valore critico τcr (o vcr).

La tensione tangenziale media sul perimetro P, indicato con RH il raggio idraulico, è:

τ0 = yiA/P = yRHi

con distribuzione di τ legata alla forma della sezione: prossima a τ0 per sezioni larghe

rispetto all’altezza d’acqua e circa rettangolari.

Il valore critico τcr che mobilita sul fondo un granulo d con peso specifico ys, in assenza di coesione e in regime turbolento, ha diverse determinazioni:

– per d << y con fondo ~ orizzontale (secondo Shields & Krey):

τcr/d(ysy) = 0.06

per d comparabile con y (secondo Armanini):

per miscugli non omogenei (secondo Egiazarov):

essendo d50 la dimensione del passante il 50% in peso; con fondo inclinato dà α:

essendo φ l’angolo d’attrito del materiale di fondo.

Le relazioni valgono per un numero di Reynolds Re = cr/y)1/2 d/v > 300 (dove v è la viscosità cinematica).

Le relazioni indicate valgono su fondo piano o quasi: con le forze resistenti proporzionali al peso immerso e forze destabilizzanti dovute allo sforzo tangenziale.

Sulla sponda di un corso d’acqua, tuttavia, vanno considerate anche altre forze: quelle che tendono a muovere le particelle lungo la sponda stessa.

Lane ha fornito una relazione di τcr che modifica le relazioni per porre in conto l’inclinazione a della sponda e l’angolo φ d’attrito del materiale:

La sponda è stabile se è α < φ. Poiché τcr(α) < τcr(0) quando sul fondo sia τ ≈ τcr la sponda va rivestita con materiale di maggior pezzatura.

Le valutazioni ottenute con l’ultima relazione, cosi come quelle con le precedenti, richiedono qualche cautela essendo riferite alla velocità media. La velocità puntale può essere infatti ben maggiore: 1.5 o più volte quella media. Il diametro critico diventa allora maggiore (più del doppio) di quello relativo alla velocità media.

La velocità critica (m/s) assunta in luogo di τcr, è data dalla:

con i granuli d (e minori) posti in moto per c > 8 (d in m) e in stato di regime per c = 4.

Dalla prima relazione, per i = v cr2/(Kcr2 RH4/3) e posto Ks = 25÷35 m1/3/s, si ottiene:

risultato comparabile con quello ottenuto in precedenza.

Per il calcolo della portata solida, le formule danno al più l’ordine di grandezza.

La portata Q, per unità di larghezza ha varie espressioni: tra le più significative si ricordano quella di Peter-Mayer:

e quella di Shields:

II materiale d’alveo concorre a determinare, assieme alla forma della sezione, la resistenza al moto. Il coefficiente Ks (Gauckler-Strickler) in m1/3/s, è dato dalla relazione (di maggior uso) di Muller:

dove d90 (m) è la dimensione del passante il 90%. Il d90 si stima a vista in situ, collocando sul greto un graticcio con una maglia avente lato appropriato.

10.1.2.2 – Colate detritiche

La mobilitazione e il deflusso di una grande massa detritica fluida (debris flow) può dare luogo, per i modi con i quali avviene, a eventi di singolare impatto. Essa avviene per l’esistenza di uno stato precario di stabilità della massa e appropriate pendenze del versante o dell’alveo. La fonte dei materiali sono i versanti erodibili, con ammassi instabili, o l’alveo per precedenti depositi o frane o colate; i due modi di mobilitazione del materiale riguardano un ammasso (instabile) su un pendio, oppure il collasso di uno sbarramento naturale o artificiale.

Uno strato indefinito di spessore costante D, sotto un carico h, è posto su un piano impermeabile inclinato di α. Il materiale granulare (ζs massa di volume, φangolo d’attrito, C* concentrazione volumetrica) omogeneo e isotropo, è esposto alla tensione tangenziale destabilizzante τd cui si oppone la resistente τr: si deve definire la profondità a dello strato posto in moto (Fig. 10.1).

Le modalità che producono il debris flow a partire da un ammasso saturo sono varie, ma sempre legate alla condizione che sia τd > τr. Un evento molto intenso può generare una corrente superficiale di acqua e detriti (altezza h e concentrazione C) che defluendo produce l’instabilità rovinosa dell’ammasso; oppure il processo può prendere origine a partire da una corrente alta h (con C = 0) che sovrasti lo strato. La condizione τd > τr dà modo di calcolare lo spessore a dello strato sottostante mobilitato. Indicata con ζ la massa volumica dell’acqua, si ha rispettivamente:

Lo strato è stabile per a → 0: nel primo caso, per un valore di C che annulli il numeratore e anche, con ζs = 2650 kg/m3 e ζ = 103 kg/m3, per tg α < 0.5 tg φ; nel secondo per h = 0.

La concentrazione C* non può eccedere un determinato limite (teorico) C ≤ 0.5÷0.74 determinato dalla distribuzione del materiale granulare: di fatto è C ≤ 0.65; più spesso tra 0.58 e 0.6.

La seconda delle ultime relazioni consente di calcolare la pendenza tg α limite inferiore, a partire dalla quale prende avvio il debris flow. Assunti: C* = 0.6; h/a= 0.7 (valore sperimentale secondo Takahashi) si ha:

tg α < 0.29 tg φ

La seconda condizione critica (non può mantenersi nessuno strato) si ha per α ≥ φ.

L’altro modo di mobilitazione riguarda il collasso di uno sbarramento di materiali sciolti. Esso può avvenire: per tracimazione e asportazione progressiva degli strati superficiali; per instabilità del rilevato; per crolli successivi; oppure per loro combinazioni, ma anche per sifonamento o per liquefazione del materiale costituente il corpo arginale.

Fig. 10.1 – Schema del moto di uno strato.

Il collasso di uno sbarramento naturale in alveo è forse, tra gli eventi possibili, il più pericoloso: lo sbarramento, infatti, può essere creato da frane o da colate da un versante in occasione di eventi climatici intensi, in modo inatteso o in momenti nei quali non sia attiva la sorveglianza.

La conoscenza dei luoghi, le frequenti ricognizioni sullo stato dei versanti, l’osservazione strumentale offrono la possibilità d’individuare le zone potenzialmente pericolose e di provvedere a migliorare le condizioni di stabilità con opportuni interventi: difese di sponda, drenaggi, piantumazioni etc.

Le verifiche di stabilità dei versanti, note le proprietà meccaniche dei materiali, offrono un valido criterio per stabilire il grado di sicurezza delle formazioni.

10.1.3 – Sistemazione dell’asta

La sistemazione dell’asta di un torrente viene di norma ottenuta diminuendone la pendenza con opere trasversali: briglie e soglie per fissare l’alveo; le prime sporgenti, le seconde fissate nell’alveo (Fig. 10.2).

La distanza tra le briglie dovrebbe consentire l’instaurarsi, per la portata di progetto, di uno stato di moto circa uniforme, sempre che non si debba concentrare in breve spazio una cascata di briglie. In questi casi molta cura è richiesta nel trattare i problemi di filtrazione, di dissipazione e quelli strutturali.

Fig. 10.2 – Sistemazione con briglie e soglie.

Meno asservita alla condizione altimetrica è la distribuzione delle soglie che garantiscono, fissando lo stato naturale, una maggiore stabilità nel tempo.

Le briglie assicurano l’assetto desiderato in modo relativamente certo; con le soglie l’esito, se l’obiettivo è la diminuzione delle pendenze, è più incerto, legato com’è a un processo di scavo: ciò consiglia di adottare tra le soglie un passo minore di quello proprio delle briglie, a parità di pendenza.

10.1.3.2 – Pendenza di compensazione e di equilibrio

La ricerca della pendenza appare di esito incerto, anche se, in modo assai schematico, essa può determinarsi, noti la portata Q di progetto e il diametro d del materiale di riferimento.

Ritenuto che sia vcr = c√d ≈ C√RHi si può scrivere:

assunto d come dimensione media del materiale più grossolano.

Valentini ha ricavato, per i torrenti della Valtellina, k = 0.093; per i fiumi Adda e Mera, k = 0.871: a designare ancora l’incertezza di questi calcoli.

Un procedimento più progredito utilizza la relazione iniziale: determinato quindi d90 si ha Ks. Per essere τ = yRHi , dall’equazione del moto uniforme si ha:

Fissato il diametro d* di riferimento, posto τ* = 0.06 (ysyd*, la relazione diventa:

da τ = yRHi, posto τ = τ*, si ha la pendenza i. RH si determina per tentativi, partendo da P uguale alla larghezza b dell’alveo. Il riferimento a d90 assicura la presenza dei materiali più grossolani e una relativa stabilità.

Nelle sistemazioni dei torrenti trentini valgono le seguenti sintetiche determinazioni: indicata con ic la pendenza originaria, la pendenza di sistemazione is è data nel rapporto is/ic dai valori: 0.59; 0.68 e 0.77 per formazioni, rispettivamente, altamente, mediamente e scarsamente erodibili; e da 0.66 per l’insieme dei dati raccolti ed elaborati.

10.1.3.3 – Briglie

Sono opere trasversali, al torrente, sporgenti dall’alveo nel quale sono fondate. La struttura varia per forma e modo di resistere: a gravità e ad arco; per materiali: calcestruzzo o pietrame, gabbioni, legname; per il rapporto col deflusso e coi materiali trasportati: pietrame, massi, alberi o tronchi; e ancora: le classiche briglie chiuse oppure aperte, selettive e filtranti.

Le briglie, come struttura, non presentano in generale problemi di rilievo: riservare solo qualche attenzione per i moti filtranti intorno alle spalle; i sifonamenti; gli scavi a valle. Le strutture, la cui altezza sia > 15 m o di minore altezza ma che determini un invaso > 106 m3 sono sottoposte al Regolamento Dighe.

Briglie classiche

Sono costituite da un muro a sezione trapezia, con paramento di monte verticale, e fondazioni in alveo e sulle sponde nelle quali esso è immorsato per almeno 2 m.

Le portate defluiscono solo dalla gàveta, limitata dalle ali della briglia (Fig. 10.3a) inclinate di circa il 10%; il raccordo ad esse è ~ 45°. La piena, defluendo al centro del torrente, evita a monte, per erosione delle sponde, l’aggiramento delle ali; a valle, ancora l’erosione delle sponde.

Fig. 10.3a – Prospetto e sezione schematica di una briglia.

Il bordo superiore della gàveta sporge leggermente dal muro per proiettare portata e materiali lontano dalla fondazione.

Fig. 10.3b – Schema tridimensionale di briglia e controbriglia.

La gàveta può essere protetta da una lamiera d’acciaio o da profilati disposti sui bordi, o rivestita con masselli o bolognini di pietra dura. Il calcestruzzo impiegato nella parte centrale della briglia può essere migliorato con l’aggiunta di speciali fibre metalliche. Le fondazioni devono essere profonde a sufficienza per proteggerle contro lo scavo che la lama stramazzante può produrre nella zona d’impatto. Il blocco di fondazione a monte è spesso approfondito con un taglione in calcestruzzo o dente di ancoraggio contro lo scorrimento.

Il muro è attraversato da tubi drenanti il cui diametro (≥ 0.15 m) è dell’ordine del d90 del materiale d’alveo, per ridurre la spinta idrostatica e le sottopressioni. I fori, a quinconce, con interasse orizzontale, su una stessa fila, di ~ 2 m; sono più fitti nella parte bassa per la maggior spinta e la maggior efficacia nei riguardi delle sottopressioni. A valle è generalmente disposta una vasca di dissipazione delimitata da una controbriglia (Fig. 9.3b).

Dimensionamento statico

La struttura d’una briglia classica è quella di un muro a gravità sottoposto a: peso proprio, spinta sul paramento di monte e sottopressioni lungo la fondazione e il suo dimensionamento risponde a quanto già trattato per le Opere d’arte e di sostegno.

Per quanto concerne il dimensionamento della gàveta, fissata la portata Q di progetto, i modi di deflusso sono due: l’uno prima dell’interrimento; l’altro quando il tronco di monte abbia assunto la pendenza di progetto. Il deflusso sulla gàveta è, nel primo caso, a stramazzo in parete grossa.

Si ha:

dove b0 e b1 sono le basi minore e maggiore della gàveta; h0 il carico; Cq = 0.385. Sulla soglia l’altezza della lama d’acqua è 2/3 h0.

Dopo il riempimento di monte, non è più lecito trascurare la velocità della corrente in arrivo, la corrente essendo quasi sempre rapida; l’altezza sulla soglia può determinarsi utilizzando, secondo i casi, l’equazione del moto permanente oppure quella del moto uniforme.

L’altezza della gàveta è generalmente da commisurarsi al primo caso, salvo che si ritenga che il riempimento possa prodursi assai rapidamente. Si raccomanda che la linea dell’energia sulla soglia abbia quota inferiore a quella della sommità delle ali.

Problemi idraulici delle briglie (salti di fondo)

Tali problemi riguardano il processo di dissipazione a valle del salto (per i possibili scavi dovuti al getto stramazzante) e i moti di filtrazione che il dislivello genera.

La sistemazione del torrente, diminuendo le pendenze, porta a concentrare nelle briglie una parte del dislivello naturale con la creazione di un salto di fondo: con la necessità di dissipare l’eccesso di energia rispetto a quella occorrente per assicurare il moto verso valle. La dissipazione avviene con la produzione di un risalto localizzato, alimentato e seguito da una corrente generalmente rapida.

Il salto di fondo e il processo che prende origine può essere sintetica- mente trattato assumendo che la corrente incidente sia rapida e che a valle (larghezza b) possa prodursi il risalto.

Con i simboli indicati nella Fig. 10.4, nota la portata q per unità di larghezza cui corrisponde l’altezza critica yc = (q2/g)1/3 posto F = v/√gy0 (con y0 ≤ yc) un ampio ventaglio di ricerche sperimentali per F ≤ 5 ha dato modo di fissare le seguenti relazioni (col conforto d’una verifica teorica):

Per y0 = yc, cioè F = 1, si ha il caso di corrente lenta in arrivo. La differenza tra i contenuti dell’energia H0 e H2 da la misura della dissipazione. Si deve provvedere al rifornimento di aria alla zona compresa tra la briglia e la lama stramazzante.

Una corrente che abbandoni una platea rigida può provocare poco a valle erosioni anche di apprezzabile entità se non un salto di fondo.

Esse sono dovute al prodursi d’una zona a diffusione turbolenta sovrapposta a una corrente di ritorno che lambisce il fondo declive dello scavo.

Fig. 10.4 – Schema del risalto.

Con i simboli della Fig. 10.5, dove il risalto si forma sulla platea, Schoklitsch ha dato per lo scavo massimo smax la relazione:

relativa alla portata specifica q (m3/s, m) con H2 e Δz in m.

Fig. 10.5 – Erosione a valle di una platea.

L’elaborazione di osservazioni sperimentali ha accertato una dipendenza di smax e dell’ascissa xmax dal parametro T = τcr/(ζv22) essendo τcr = 0.06 (ysydla tensione critica per il diametro d e v2 la velocità media della corrente indisturbata. Le relazioni ottenute sono:

Lo scavo a valle di un salto sul fondo non protetto può essere calcolato tacendo riferimento al diametro d90 del materiale di fondo. Si ha (Fig. 10.6):

con h e y1 in m, d90 in mm e q in m3/s, m.

Fig. 10.6 – Erosione a valle di un salto di fondo.

La stima dello scavo può dare valori anche abbastanza diversi con le diverse formule proposte così da doversi raccomandare non poca cautela nel loro uso. Si consiglia il riferimento ai maggiori valori ottenibili nell’assumere i provvedimenti di difesa consistenti, di regola, nel presidiare il bordo d’uscita o il piede del salto con un taglione e con materiale di pezzatura adeguata.

Tipi di briglie

Le briglie a struttura classica sono realizzate con muri a gravità di calcestruzzo o di pietrame, con numerosi fori di drenaggio ricavati nel corpo della struttura.

Le briglie moderne possono avere con il materiale trasportato dalla corrente un rapporto diverso, ritenendone solo una parte con l’obiettivo di ritardare o evitare il rapido riempimento a monte.

Sono così nate le briglie aperte: filtranti, selettive: con apertura a finestra, a fessura, a pettine e reticolari. La Fig. 10.7 illustra vari possibili schemi. Il deflusso della portata di progetto avviene sulla gàveta, mentre portate minori impegnano solo la parte filtrante.

Fig. 10.7 – Schemi di briglie.

La selezione del materiale trasportato dipende dalle dimensioni delle aperture.

Le briglie reticolari e a pettine sono di calcestruzzo armato, con strutture assai robuste e abbondantissimi ricoprimenti essendo esposte agli urti e al rotolamento dei materiali, o d’acciaio. La gàveta può essere rivestita, se di c.a., con pietra da taglio o protetta con profilati metallici sui bordi.

L’ipotesi di carico più gravosa comporta che le aperture siano ostruite dai materiali trasportati. L’efficienza di queste opere deve essere assicurata con un’attenta e sistematica manutenzione.

Briglie classiche a gravità e ad arco

Sono costruite con calcestruzzo o pietrame, utilizzando i modelli strutturali semplificati propri delle dighe: le indagini geologiche e geotecniche suggeriscono la forma strutturale.

Per le strutture a gravita è richiesto che il risultante di tutte le azioni, nella più onerosa delle condizioni di carico, sia contenuto entro il terzo medio della base: pertanto, struttura a sezione trapezia.

Quando le formazioni geologiche dei fianchi o dei versanti siano rocciose e in buono stato, e il rapporto tra corda C e altezza H delle sezioni sia non maggiore di circa 2, si può adottare una soluzione ad arco: una volta cilindrica sottile, d’ampiezza non minore di 100° (Fig. 10.8).

Lo spessore s dell’arco di raggio medio r sollecitato dal carico yh può calcolarsi con la formula di Mariotte s = yhr/σ assumendo σ = 2.53 MPa per il calcestruzzo. Calcolata la distribuzione degli spessori, si deve procedere al disegno della sezione mediana della diga; la verifica può farsi per archi elastici indipendenti, oppure con modelli o schemi più progrediti. La Fig. 10.8 mostra una briglia ad arco di calcestruzzo.

Fig. 10.8 – Briglia ad arco in calcestruzzo.

Briglie selettive (per la trattenuta di materiali galleggianti e contro il debris flow)

Tali manufatti permettono una selezione granulometrica del materiale solido trattenendo i materiali di maggior diametro. II corretto dimensionamento dell’apertura comporta che, per le maggiori portate, la corrente passi in regime lento (con un risalto) a monte della briglia per acquistare l’energia necessaria per defluire dall’apertura in stato critico. In questa zona di monte deposita il materiale solido (Fig. 10.9): prima i materiali di maggior diametro e poi quelli più fini.

Fig. 10.9 – Schema di funzionamento di una briglia selettiva.

Attraverso la briglia passano i materiali che la corrente (lenta) riesce a trascinare a ridosso dell’apertura; l’estensione della zona di deposito, il suo spessore locale e la granulometria dipendono dalla successione delle portate verificatesi durante la piena. Successivamente per le minori portate, la corrente mantiene carattere veloce asportando le fasi più minute dei depositi e lasciando in situ i materiali di dimensioni maggiori: sono questi i vantaggi di una briglia selettiva.

Le briglie selettive possono, col tempo, evolversi in senso classico: di questo e consigliabile tenere conto in fase di progetto. Le briglie per la trattenuta di materiali galleggianti (tronchi, arbusti etc.), hanno una griglia a maglie larghe: si deve provvedere alla manutenzione periodica, specie dopo le piene. Il materiale galleggiante che giunge a ridosso delle briglie, infatti, tende a portarsi in alto anche per effetto dell’inclinazione del paramento, lasciando così la parte bassa delle luci sgombra per lo smaltimento delle portate.

La struttura è generalmente costituita da due quinte: l’apertura centrale ospita una serie di speroni di conglomerato cementizio o d’acciaio con luci libere di 2÷3 m definite dalla dimensione prevista per il materiale. Le quinte sono in genere rinfiancate con materiale d’alveo per assorbire l’impatto; gli speroni hanno il paramento di monte inclinato di 30°÷50°; la parte esposta agli urti viene rivestita con acciaio. Lo sperone è dimensionato per sopportare l’urto del più pesante masso prevedibile.

Briglie di legno e pietrame

Sono opere di tipo geonaturalistico, già impiegate all’inizio del secolo scorso: utilizzano come materiale di costruzione piante viventi (o loro parti), spesso in unione con altri materiali, quali legname, pietrame, acciaio etc,

10.1.3.4 – Soglie

Sono opere trasversali non sporgenti; hanno due impieghi nella sistemazione dei torrenti: ridurre la pendenza in alternativa alle briglie oppure fissare e stabilizzare il fondo alveo.

Nel primo caso, la riduzione della pendenza avviene per naturale asportazione del prisma di materiale compreso tra due soglie successive. Dunque brighe (di altezza limitata) in prospettiva con gli stessi problemi già trattati, ma con la differenza di dover collocare sui fianchi e al di sotto dell’alveo la struttura nonché di curare la sistemazione delle sponde al procedere dell’asportazione del materiale d alveo.

Fig. 10.10 – Soglia in legname e pietrame.

Nel secondo caso, le soglie stabilizzano la sezione in un tratto peraltro ritenuto, per pendenza, almeno, sufficientemente stabile. La soglia è necessaria, ad es., nel caso di un attraversamento sub-alveo di una condotta per evitarne lo scoprimento al divagare della corrente. La condotta è posta a monte della soglia ed esterna a essa: per evitare che l’eventuale suo spostamento possa produrre rottura della condotta. In caso contrario la condotta è da porre in uno specifico cunicolo dotato di due giunti terminali per consentire limitati spostamenti relativi.

Le soglie vengono anche poste nella sezione a valle dei ponti al fine di eliminare il pericolo dell’abbassamento dell’alveo o dello spostamento della linea di talweg; e anche al termine di un tratto d’alveo protetto da una gettata di massi per assicurare la stabilità della protezione. La Fig. 9.16 mostra un esempio di soglia in legname e pietrame .

La profondità del manufatto, al di sotto della linea di talweg, deve essere di almeno 2÷2.5 m; del medesimo ordine è l’entità dell’immorsamento alle sponde.

10.1.3.5 – Difese di sponda

Le opere di difesa delle sponde, principalmente contro l’erosione sono longitudinali (o radenti) e sporgenti (pennelli o repellenti): le prime fissano, con un muro o una scogliera, la linea di sponda; le seconde, radicate alla sponda, si protendono verso l’alveo delimitando, per punti, la nuova linea. La difesa può comportare un restringimento e una regolarizzazione dell’alveo e, quindi, un approfondimento del quale tener conto nel fissare il piano d’imposta dei manufatti.

Un’indicazione di quale evoluzione possa avere il fondo dell’alveo può ottenersi dai tratti limitrofi già sistemati o da tratti nei quali l’alveo sia sufficientemente regolare; ritenendo che la pendenza di questi tratti corrisponda a uno stato medio di stabilità. Sono comunque da disporre soglie di fondo all’inizio, alla fine e lungo il tratto da sistemare, al fine di dare modo al torrente di ricercare spontaneamente con un controllato processo di scavo , una distribuzione delle pendenze diversa da quella progettata se questa non fosse risultata appropriata.

Difese longitudinali con scogliere

La scogliera è formata da massi di varia pezzatura e peso, con dimensioni che assicurino la loro stabilità (Ø 1 m e peso 1÷1.5 t) quando si teme la loro rimozione, i massi possono essere collegati tra loro con cavi d’acciaio (trefoli) ancorati ai massi.

I massi naturali che s’impiegano nelle opere marittime sono edificati, senza che esista una specifica normalizzazione, per categoria: tout-venant, massi entro 0÷0.1 t; massi di 1a categoria, entro 0.1÷ 1 t; 2a categoria entro 1÷3 t; 3a categoria entro 3÷7 t; 4a categoria entro 7÷15 t. Oltre la 4a categoria si provvede con massi artificiali. Il riferimento a questa classificazione può essere adottato anche per le difese fluviali.

La fondazione deve essere approfondita non meno di 2÷2.5 m sotto la linea di talweg; la scarpa deve essere dell’ordine di 3/2 o 2/1; la sommità è posta in genere 0.5 m sopra la quota della massima piena.

La Fig. 10.11 mostra diversi tipi di difesa a scogliera: con fondazione in alveo; con taglione in calcestruzzo (per maggiori profondità realizzato con la tecnica del jet-grouting); infine con un rivestimento di terra seminata con essenze erbacee.

In talune circostanze vengono usati massi di calcestruzzo: solitamente cubici, ma qualche volta anche con forme proprie delle difese marittime (tetrapodi etc.).

Fig. 10.11 – Difese di sponda con scogliere (sx) e con muro di sponda (dx).

Difese longitudinali con muri di sponda

Viene impiegata quando vi siano problemi di spazio, per la presenza di manufatti, strade, abitazioni; speciali situazioni geotecniche o topografiche: sponde molto ripide etc.

Anche i muri di sponda vanno fondati non meno di 2.0÷2.5 m sotto la linea di talweg; e, talvolta, protetti al piede da massi gettati alla rinfusa per evitare o ridurre lo scavo. I muri sono dotati (come le briglie) di fori di drenaggio opportunamente distribuiti. Anche in questi casi può essere usata talvolta la tecnica del jet-grouting. Sono anche impiegati muri di sponda di legname e pietrame.

Difese sporgenti

pennelli o repellenti radicati alla sponda e protesi verso l’alveo sono costruiti con strutture non rigide. La loro disposizione planimetrica rispetto all’asse dell’alveo sistemato, può essere ortogonale, discendente o ascendente (con inclinazione di ~ 70° rispetto all’asse del torrente).

La forma planimetrica del pennello può essere: ad asta semplice; a L; a martello; a baionetta; a hockey (Fig. 10.12). La sezione trasversale è generalmente trapezia.

Fig. 10.12 – Tipi di pennelli e loro disposizione rispetto alla direzione della corrente.

La distanza tra due pennelli è dell’ordine di 2÷4 volte la loro sporgenza: in queste condizioni il costo con l’ammorsamento alla sponda e la difesa della testa contro lo scalzamento è comparabile con quello di una difesa longitudinale. La prima e talvolta preferita, anche perché la disposizione può dare luogo a un’interessante modifica ambientale e morfologica creando zone d’alveo inattive, nelle quali si sviluppano vegetazioni spontanee o piantate, che concorrono a rendere stabile la sponda. La stabilità dei pennelli può essere compromessa dall’azione della corrente che li investe, e dallo scavo che può crearsi intorno alla sua testa: i pennelli ascendenti e a martello sono i più esposti.

Il manufatto è generalmente costruito con la sommità degradante verso l’alveo: la sezione esposta si riduce così a misura che aumenta la velocità della corrente. Se lo scavo intorno alla testa del pennello giungesse a interessare il piano delle fondamenta si potrebbe avere il franamento di una sua parte, seguito dalla distruzione progressiva del manufatto. La difesa contro l’azione dello scavo si ottiene approfondendo il piano d imposta delle fondamenta o, meglio, realizzando intorno alla testa una difesa con una cortina di colonne consolidate (jet-grouting) armate, collegate in sommità con un cordolo di calcestruzzo. In ogni caso la legatura dei massi tra loro con trefoli o con grappe di acciaio riduce la possibilità di dissesto.

I pennelli vengono anche impiegati per proteggere dallo scalzamento i muri di sponda con fondamenta superficiali o per tenere comunque lontano dai muri il filone della corrente. In questi casi la distanza tra i pennelli può essere ragionevolmente aumentata.

I pennelli negli alvei torrentizi sono solitamente realizzati con massi di pietra naturale con diametro che raramente supera 1.25 m (1 m3 di volume di ~ 2.5 t) per la difficoltà di movimentazione che presentano i massi di dimensione superiore. Un esempio di pennello è dato dalla fig. 9.21, con massi di circa l,00m di diametro e massa di circa 1,5 t.

Quando siano richiesti massi maggiori, o non siano disponibili massi naturali, si ricorre all’impiego di blocchi di calcestruzzo (cubici o d’altra forma) come per le difese longitudinali.

Nei torrenti non sono consigliabili gabbioni riempiti di ciottoli: il materiale trasportato sul fondo, infatti, investendo e colpendo la rete può provocarne la rottura e, quindi, la rovina del gabbione e della struttura.

Fig. 10.13 – Pennello ortogonale costruito con massi Ø ~ 1m.

10.1.3.6 – Cunettoni

Sono piccoli canali a elevata pendenza solitamente di calcestruzzo, spesso rivestiti con bolognini di pietra da taglio ma costruiti anche con tecniche geonaturalistiche (Fig. 10.14).

La notevole pendenza dell’alveo induce sovente a realizzare il cunettone con una serie di stramazzi: non tanto per dissipare energia, quanto per avere una struttura saldamente ancorata al terreno con un angolo che elimini la possibilità di scorrimento. A valle del salto sono talvolta disposte due quinte radicate sulle sponde per ottenere, restringendo la sezione, un risalto e così dissipare una parte dell’energia.

 

Fig. 10.14 – Esempi di cunettoni.

La forte velocità da luogo, per cambiamenti di direzione o curve, a onde stazionane e a sovralzi che potrebbero superare il bordo del cunettone. Le curve con elevata curvatura sono quindi da evitare, inviluppando la curva con una serie di tratti ad andamento poligonale, con l’avvertenza che alla fine di ogni tratto sia posto un salto di fondo, anch’esso con due quinte a valle e con i muri laterali opportunamente raccordati. Per i cunettoni, con terreni poco permeabili o con falda esterna, sono da prendere idonei provvedimenti contro le sottopressioni: con un peso proprio sufficiente oppure con drenaggi laterali.

10.1.4 – Laghetti e paludi integratori

Gli interventi di sistemazione possono portare a dovere sacrificare le eventuali pozze umide presenti lungo il corso d’acqua. In questo caso, per ripristinare, ma anche per creare, un habitat favorevole all’aviofauna acquatica e agli anfibi si crea talvolta in fregio al corso d’acqua un gruppo di laghetti disposti, per planimetria e profondità, in modo irregolare e contornati anche da piante palustri. L’alimentazione dello stagno avviene con acqua superficiale o meglio, per evitare l’interrimento, con acqua di falda. La disposizione deve assicurare che nello stagno sia sempre presente acqua, anche se con livelli variabili per i variabili stati idrometrici del corso d’acqua adiacente (Fig. 10.15). Qualora la falda nell’area interessata sia profonda più di qualche metro rispetto al piano di campagna, l’alimentazione del laghetto è ottenuta con acqua derivata dal corso d’acqua. In questo caso è spesso necessario impermeabilizzare il fondo con uno strato d’argilla; uno sfioratore provvede a restituire al corso d’acqua la portata in eccesso rispetto a quella perduta per infiltrazione ed evaporazione, garantendo un utile ricambio.

Fig. 10.15 – Laghetto con zone paludose in fregio.

L’acqua è, di norma, prelevata a monte, con una disposizione che consenta un’agevole derivazione. Un diverso modo potrebbe essere quello di derivare la portata necessaria prelevandola dal sub-alveo con un’appropriata collocazione di condotte drenanti: col notevole vantaggio, anche con questa disposizione, di evitare il trasporto di materiali solidi.

10.1.5 – Manutenzione e controllo delle sistemazioni montane

Le attività di manutenzione derivano da normali e frequenti ricognizioni. Le attenzioni da riservare alle briglie riguardano: fenomeni di aggiramento delle spalle; scavo al piede; sifonamento; lo stato di conservazione del rivestimento della gàveta. Contro l’aggiramento della spalla si deve provvedere a un suo maggior immorsamento; oppure disporre una scogliera a monte della gàveta per mantenere la corrente entro l’alveo. Un anomalo scavo a valle richiede il ripristino della protezione con massi di diametro maggiore e la costruzione di una soglia al termine. Controllando anche la profondità d’imposta delle fondamenta nei riguardi del sifonamento: e intervenendo, se la profondità non sia adeguata, con un diaframma di colonne consolidate armate.

I danni della gàveta possono comportare la costruzione di una trave in c.a. a forma di C rovesciata ancorata con barre d’acciaio e prolungata sul paramento di monte; e rivestita con bolognini di pietra dura incorporati sul getto; oppure rivestendo con acciaio inox l’intera gàveta. Il maggiore danno cui sono esposti i muri di sponda è lo scalzamento al piede. Gli interventi possono essere: una sottofondazione delle fondamenta con gettiniezione; una gettata di massi al piede. E ancora, se l’alveo è sufficientemente largo, la costruzione di piccoli pennelli. I dissesti delle scogliere sono tra i più frequenti: la ripresa deve essere assai sollecita.

Se il dissesto ha avuto origine per scalzamento, si deve intervenire al piede del tratto franato con un provvedimento esteso a monte e a valle. Uno dei più sicuri è quello di legare tra loro i massi della fila posta al piede con cavi a trefoli passanti entro 1 occhiello di barre inox inserite nei massi; e ancorando le funi al terreno con spezzoni di rotaia o profilato. Oppure s’inserisce un taglione al piede: da farsi, preferibilmente, con la tecnica del jet-grouting. L’adozione di un taglione di calcestruzzo richiede lo scavo di una trincea profonda non meno di 2÷25 m alla distanza di 2÷2.5 m dal piede. Tra scogliera e taglione è quindi da creare un banco con massi. Se il danno alla scogliera è dovuto all’insufficienza delle dimensioni del pietrame, la scogliera va ricaricata con uno strato di maggiore pezzatura. Quando la difesa sia stata erosa alle sue estremità è fondato il sospetto che d dissesto sia da imputarsi a una sua insufficiente intestatura: il suo prolungamento e l’immorsamento rappresentano la soluzione.

10.2 – Sistemazione dei fiumi

La difesa dalle piene interessa, per lo più, il tratto medio-basso o di pianura dei fiumi. Il regime della corrente è quasi sempre lento; il trasporto solido è limitato ai materiali più fini. La difesa di un territorio esposto alle piene può ottenersi: aumentando la capacità di portata dell’alveo; diminuendo la portata di piena che, con prefissato periodo di ritorno, transita nel tratto in esame.

10.2.1 – Aumento della capacità di portata

Può ottenersi in vario modo: con la marginatura del corso d’acqua o, se esistente, il suo sovralzo e ringrosso; che può però comportare l’aumento della portata a valle se sottrae aree alla libera espansione; la ricalibratura dell’alveo comporta, se aumentano le sezioni, la riduzione della velocità, delle perdite di carico e della quota liquida; senza aumento (centro abitato), la riduzione delle perdite può ottenersi riducendo la scabrezza dell’alveo con una sistematica pulizia o rivestendo le sponde; un risultato analogo si ha con una rettifica fluviale o drizzagno che accorcia il percorso col taglio di una o più anse.

10.2.2 – Riduzione della portata

Si può ottenere invasando l’onda di piena (o una sua parte)in un serbatoio (di piena o che disponga di una capacità riservata in una definita stagione dell’anno); oppure utilizzando le capacità che un corso d’acqua talvolta possiede in prossimità dell’alveo: in aree golenali laterali inondabili, ma controllate da un’opera di ritenuta (casse d’espansione).

Un altro modo per ridurre la portata è quello di derivare, a monte, una sua parte da avviare, con un’opera artificiale, a un altro corso d’acqua (o lago o mare); oppure quello di realizzare un by-pass della zona interessata, restituendo a valle la portata derivata in una sezione in grado di ospitare l’intera portata. Queste opere sono dette diversivi o canali scolmatori.

Fig. 10.16 – Nomenclatura per le arginature.

10.2.3 – Arginatura dei corsi d’acqua

I rilevati arginali (nuovi o sovralzi), progettati per contenere la piena di progetto e svolgere l’azione

resistente, sono costruiti con materiali terrosi. La Fig. 10.16 riporta la nomenclatura in uso per le arginature, tratta da una pubblicazione del Ministero delle Infrastrutture.

i problemi delle terre sono: definirne le caratteristiche geotecniche e individuare le cave nella misura richiesta con l’avvertenza che, per quantità significative, le cave siano non lontane dal cantiere per contenere i costi di trasporto.

L’arginatura viene generalmente eseguita con terra classificata A6 e A7 (norma CNR-UN1 10006).

I fianchi del rilevato vengono ricoperti con zolle erbose o altro rivestimento contro l’erosione a fiume e il dilavamento per le piogge a campagna. Il materiale terroso deve possedere una modesta permeabilità ( ≤ 10-4÷10-6 cm/s) oltre ad un elevato peso specifico. La compattazione contribuisce a migliorare entrambe le proprietà.

Si deve impedire, in generale, che il rilevato e la zona a campagna siano esposti a sifonamenti o impaludamenti. Ciò può comportare lo spostamento del piede a campagna più di quanto sia richiesto dalle normali verifiche di stabilità. La sezione trasversale deve assicurare la copertura della linea d’infiltrazione che può stabilirsi nel corpo arginale, a partire dalla quota di massima piena. Un affidabile criterio assegna alla linea ‘infiltrazione pendenze entro 1/5÷1/6 a partire dalla quota di massima piena (Fig. 10.17).

Fig. 10.17 – Rialzo di un argine per ricoprire la linea d’infiltrazione.

Gli ordini di grandezza per il dimensionamento di un argine sono: scarpa media a fiume (petto) da 3/2 a 2/1; scarpa media (comprendendo anche le bancate) a campagna (spalla) 4/1, larghezza in sommità (corona) di 4÷5 m o maggiore in funzione dell’eventuale traffico; banche larghe almeno 3÷4 m distanti tra loro in senso verticale non oltre 5 m.

I rilevati arginali sono talvolta sedi stradali sebbene tale uso non sia da raccomandare. I vantaggi della compattazione possono non compensare la riduzione di franco (≥ 1 m, per la piena centenaria) a meno che la sommità non sia sottoposta a periodiche livellazioni di controllo e ricaricata. Inoltre, per essere la sommità spesso asfaltata, la costituzione di un soprassoglio (o piccolo sovralzo arginale) a fiume, praticata in stato d’emergenza con l’aratura, diventa pressoché impossibile per la tenacità del fondo.

Il terreno d’appoggio dell’argine, se di nuova costruzione, deve avere caratteristiche comparabili con quelle del rilevato: il che può comportare lo sbancamento dello strato superficiale se non idoneo e la sostituzione del materiale in posto con altro. Se i terreni sottostanti (strati tanto profondi da non potersi rimuovere) sono scadenti può essere necessario in qualche tratto procedere a un pre-carico per accelerarne il consolidamento.

Spesso il materiale usato per gli argini era, in passato, scavato in golena: talvolta non sempre adatto (le antiche regole davano circa 1/3 d’argilla e 2/3 di sabbia) e anche non bene fondato. Ciò ha comportato la necessità di successivi interventi quali: sovralzi; ringrossi; diaframmature e rivestimenti.

Per argini importanti può essere imposto di scavalcare l’argine con le pile a campagna e a fiume a una distanza non inferiore a 10 m dall’unghia: se il tirante d’aria sotto il ponte, dalla sommità dell’argine, non consente il transito dei mezzi, il passaggio può essere ottenuto sulla sottobanca o al piede dell’argine creando una rampa di discesa e una di salita.

10.2.4 – Filtrazione nel corpo arginale

La presenza di acqua in un corpo terroso può condizionare la sua stabilità, specie con un elevato e duraturo livello o per un suo abbassamento relativamente rapido.

Lo studio dell’andamento della filtrazione in regime vario può farsi con modelli matematici. Nel caso di un argine può bastare lo studio a moto permanente: in aggiunta al criterio già dato sulla linea di filtrazione. Un procedimento assai semplice è il seguente: si suddivide il campo di moto in parti elementari a ciascuna delle quali sia possibile applicare risultati noti, imponendo poi la continuità tra ciascuna parte.

Si assuma un rilevato arginale a sezione trapezia (Fig. 10.18) di materiale omogeneo e uniforme posto su uno strato impermeabile o relativamente meno permeabile del rilevato stesso.

Fig. 10.18 – Moto di filtrazione attraverso un rilevato.

Fissati gli assi X e Y, la struttura viene divisa in 3 parti. Si ipotizza che le curvature non siano molto-accentuate così da potere considerare come superfici equipotenziali le verticali. Con i simboli indicati in figura, la portata q per unità di larghezza defluente dalla parte I è:

In modo analogo si procede con le altre parti. Le altre relazioni, posto h2 = 0, sono:

Con le ultime due relazioni si calcolano, con qualche tentativo, h1 e a2, e quindi q (dalla relazione inerente lo scavo alla testa dei pennelli) e l dalla relazione iniziale.

Quando sia presente sulla fondazione a valle un drenaggio di lunghezza f, assunti i nuovi assi Z ed S, il tracciamento della superficie freatica si ottiene (secondo Casagrande) a partire da un punto posto sulla superficie libera a distanza 0.3 h0/tg α dal paramento di monte.

Definita la distanza L0 = L – f – (0.7 h0/tg α), le relazioni:

a = √h02 + L02 – L0         e         z = √2as + a2

danno modo di tracciare la parabola della superficie libera attraverso l’intercetta a sull’asse Z e l’ordinata corrente z. Essa è da raccordare a sentimento, a partire dal punto del paramento di monte, con una curva che parta normalmente a esso.

10.2.5 – Stabilità degli argini

Lo stato di stabilità di un pendio in materiale sciolto o di un argine è espresso dal fattore F di sicurezza, rapporto fra le azioni resistenti e quelle destabilizzanti. Il valore è da confrontare con quelli della normativa.

I metodi di verifica disponibili offrono una misura globale dello stato di stabilità del rilevato arginale. Si opera su un elemento piano verticale di spessore unitario, ricercando fra le possibili superfici di scorrimento quella cui corrisponda Fmin; il giudizio è più semplice quando esista e sia nota una superficie di scorrimento. Il calcolo pone in conto l’effetto di eventuali sovraccarichi, sottopressioni, presenza di falda, azioni sismiche.

10.2.6 – Protezione delle arginature e rivestimenti

I paramenti degli argini devono essere protetti sia dalle acque fluenti sia da quelle meteoriche.

I modi di protezione sono relativamente numerosi. Essi dipendono da: frequenza degli eventi di piena e loro durata; carattere delle correnti; valore ambientale dei luoghi; disponibilità e caratteristiche dei materiali.

Rivestimenti a verde

Si tratta di un tappeto erboso, compatto e perenne, costituito da specie a radice strisciante e a sviluppo rizomatoso che imbrigliano col loro intreccio la parte superficiale dell’argine. È adottato specialmente per gli argini che solo occasionalmente sono, a fiume, a contatto con l’acqua.

I sistemi di consolidamento più razionali ed efficaci sono:

–       seminagione: una seminagione con miscugli prescelti di erbe graminacee e leguminose su terreno preparato e, se del caso, concimato;

–       zollatura: adottata per interventi immediati; prelevamento di zolle erbose da altri luoghi e posa sulle sponde degli argini;

–       consolidazione con stoloni di gramigna: quando la natura del terreno non permetta la crescita naturale dell’erba;

–       seminagione e trattamento bituminoso: seminagione seguita dalla ribattitura di un leggero strato di terreno e dall’aspersione di una speciale emulsione bituminosa. L’intervento può essere fatto in qualsiasi stagione dell’anno, mentre per i precedenti si può operare solo in primavera o autunno.

La consolidazione a verde non è consigliata: nei fiumi navigabili (erosione per moti ondosi); nelle foci dei fiumi a contatto con acqua salsa, limitatamente alla fascia interessata.

Rivestimenti di conglomerato cementizio e bituminoso

Sono usati per proteggere o per impermeabilizzare in qualche tratto, generalmente limitato, il paramento a fiume dell’argine. i primi possono essere di tipo rigido e di tipo flessibile.

Tipi rigidi: si utilizzano lastre di calcestruzzo armato, gettato in opera o prefabbricato, normale o precompresso; talvolta, per ragioni estetiche, conglobando nel getto pietrame di qualità; un risultato simile può ottenersi anche con mantellate prefabbricate in muratura di pietrame (a vista) legato con malta su letto di calcestruzzo. Per contrastare e riparare possibili cedimenti del terreno è richiesta un’attenta sorveglianza e manutenzione.

Il rivestimento a lastre richiede spianamento del sottofondo e, talvolta, una ricarica con materiale inerte (sabbia e ghiaia), apprezzato anche per le sue capacità di essere drenante, specie quando sia da temere, per un rapido abbassamento del livello, l’insorgere di una sottopressione. La pratica di adottare una disposizione anche moderatamente drenante è raccomandabile: i geotessuti agevolano questa possibilità. La Fig. 10.19 espone una disposizione drenante con elementi flessibili prefabbricati collegati tra loro.

Fig. 10.19 – Esempio di rivestimento drenante.

Il tipo flessibile è formato con elementi a connessione multipla. Sono talvolta impiegati elementi di calcestruzzo trasparenti aventi dimensioni da circa 0.5×0.5 m2 fino a 1.5×1.5 m2 ed un’intelaiatura esterna suddivisa in celle senza fondo con sporgenze e rientranze per connessione fra gli elementi assicurando la continuità tra falda e corso  d’acqua e lo sviluppo di vegetazione tra le celle.

Il rivestimento di conglomerato bituminoso assicura l’impermeabilizzazione, la protezione dell’argine e la flessibilità. Nella Fig. 10.20 sono riportati alcune tipologie.

Fig. 10.20 – Esempi di rivestimenti bituminosi.

Un notevole progresso si è registrato con i materassi tipo Reno costituiti da una struttura parallelepipeda a rete d’acciaio zincato (diametro 2 o 2,2mm), riempita con ciottoli e imbibita, eventualmente, con una malta bituminosa. La rete è a maglia esagonale (5×7 o 6X8 cm2) e masse da 300 a 400 kg/m2; lo spessore è 23 o 30 cm. La struttura a moduli consente di corrispondere a molte esigenze. La tecnica dei gabbioni parallelepipedi ripieni di ciottoli trova largo impiego per la possibilità di comporre fra loro gli elementi nel formare molte opere di sistemazione fluviale.

Recentemente ha trovato impiego anche un rivestimento formato da teli di geotessuti foggiati a tubo o a trapunta, riempiti con sabbia o malta.

Rivestimento con scogliera

Molto usato per tratti in curva e per fiumi navigabili esposti a moto ondoso; è costituito da massi di pezzatura ed estensione scelte in funzione della velocità o della possibile ampiezza dell’onda. Esso richiede un sottostante filtro rovescio o, meglio, un geotessuto per evitare lo sprofondamento o la rimozione dei massi: alcuni schemi sono riportati nella Fig. 10.21.

Fig. 10.21 – Schemi di rivestimento a scogliera.

La Fig. 10.22 mostra un’opera longitudinale nell’alveo del fiume Adda con nucleo interno protetto con scogliera e pietrame. Una maggiore protezione si sarebbe potuta ottenere con un geotessuto al di sotto del pietrame.

Fig. 10.22 – Opera in alveo.

Qualora la protezione a scogliera riguardasse una parte a fiume, e non l’arginatura maestra, nella sezione iniziale è necessario immorsare il rivestimento per evitare l’aggiramento della testa: riempiendo con scogliera una trincea perpendicolare alla sponda. Per rivestimenti di sponde estese in senso longitudinale, può essere conveniente provvedere anche a immorsamenti intermedi.

Difesa delle scarpate e del piede dell’argine

Le scarpate a fiume possono essere erose anche dalle acque piovane creando nel terreno un insieme di incisioni. La difesa può ottenersi intercettando il deflusso: con un piccolo fosso di guardia; con un soprassoglio; e anche combinando i due modi (Fig. 10.23).

Gli argini possono non essere sempre esposti alla corrente: gli argini maestri, separati da golene, sono investiti solo in fase di piena. Per contro, gli argini in froldo sono esposti nella parte bassa quasi con continuità all’azione dell’acqua, così da richiedere talvolta la protezione del piede dell’argine.

Fig. 10.23 – Modi per intercettare il deflusso verso le scarpate.

In passato la difesa era affidata spesso a strutture legnose flessibili, vimini e salici, a formazione di berme con volpare di vimini e terra nella parte subacquea e da filari di vipere costituite da fasci di vimini o di salici intrecciati nella parte sopra il pelo dell’acqua. Questi sistemi offrono notevoli garanzie, ancorché desueti per i costi elevati.

La piantagione di alberi nel corpo arginale è da evitare; le radici, se essiccate, rappresentano una via preferenziale per l’acqua con pericolo di sifonamento. Il corpo arginale non può del pari essere attraversato da condotte, cunicoli, cavi etc.

I geotessuti e la tecnica del jet-grouting rappresentano oggi le uniche e rilevanti novità in materia di sistemazione di sponde o di rilevati fluviali. Non tutti i materiali godono oggi dello stesso favore del passato. I calcestruzzi, per esempio, semplici o armati, per la loro scarsa o nulla naturalezza: con l’imposizione, non infrequente, che, accertata la loro insostituibile funzione, si debba poi provvedere a rivestirli con materiali di più gradevole aspetto. Accettando, per contro, con nessuna attenzione ai problemi idraulici, che estese vegetazioni allignino in non poche strutture arginali.

10.2.7 – Ricalibratura degli alvei

Consiste nell’allargamento della sezione a spese dei terreni circostanti, in quanto questo sia possibile, senza intaccare e compromettere gli argini esistenti. Se invece comporta lo spostamento (rigelo) di un argine, i problemi riguardano gli aspetti idraulico, statico e costruttivo. È richiesta inoltre una continua e attenta manutenzione dell’alveo.

Per favorire il mantenimento della sezione ricalibrata e del profilo longitudinale, la parte bassa delle sponde è spesso limitata da un muro; trasversalmente possono essere realizzate, a opportuni intervalli, soglie per stabilizzare il fondo.

muri laterali sono indispensabili nell’attraversamento di centri abitati, possibilmente per tratti d’estensione limitata, fissando l’alveo nel tratto con soglie di fondo.

Il rivestimento del fondo del corso d’acqua in qualche tratto (se necessario) è da considerare con cautela, oneroso per costi, costruzione e manutenzione; può inoltre modificare il rapporto tra il fiume e le falde.

muri di sponda devono, di norma, essere fondati almeno 2 m sotto la linea di talweg prevista a sistemazione finita. Per bloccare l’erosione al piede si provvede talvolta a una gettata di massi o alla creazione di piccoli pennelli per allontanare il filone a più elevata velocità.

10.2.8 – Rettifiche fluviali

Un alveo sinuoso compreso tra due sezioni può essere rettificato con un tronco artificiale di pari sezione ma di minor lunghezza.

Le diverse caratteristiche del moto in morbida e in piena, rapportate ai materiali dell’alveo, possono fare temere una modifica della morfologia fluviale. Si deve provvedere alla stabilizzazione del fondo: con un salto di fondo nella sezione di monte; oppure con una serie di soglie tenendo ben presente che il nuovo assetto può influire anche a monte del tratto rettificato. La rettifica può comportare qualche cura per le sponde e la loro difesa.

I modi d’indagare intorno agli effetti della rettifica possono essere diversi: se si tratta, cioè, di interventi estesi a un significativo tratto fluviale oppure se localizzati in pochi punti. In questo caso i modelli matematici applicati a estesi tratti del fiume oltre ai modelli fisici utilizzati per trattare talune difficili situazione locale (confluenze, salti di fondo etc.) si rivelano strumenti di notevole utilità.

10.2.9 – Stabilizzazione degli alvei di magra

Nei corsi d’acqua aventi un’ampia sezione trasversale la corrente di magra è contenuta generalmente in una zona ristretta: detta alveo di magra. Le parti rimanenti (golene) sono impegnate per i deflussi di morbida o di piena: esse sono talvolta coltivate. L’alveo di magra per fiumi importanti può essere reso navigabile assegnandogli larghezze e profondità adeguate alla classe dell’idrovia; e inoltre stabilizzato per evitare divagazioni e per assicurare la navigabilità con le minime portate. Le opere sono: radenti e sporgenti.

10.2.9.1 – Opere radenti (dighe longitudinali)

Sono costruite, parallelamente alla corrente specie nelle sponde concave delle curve, con muri o rilevati rivestiti. Tra i quali si ricordano: lastre di conglomerato cementizio gettate in opera o prefabbricate; scogliere con blocchi naturali o artificiali; gabbioni. La diga che realizza la sponda dell’alveo di magra non è necessariamente addossata alla golena, ma può discostarsene per un certo tratto: la sommità essendo tracimabile già dalle morbide, la zona interclusa tra il bordo golenale e la nuova diga va nel tempo progressivamente colmandosi con i materiali trasportati in sospensione. Le tracimazioni

nella fase transitoria potrebbero però dare luogo a erosioni del piede verso golena, che è eventualmente da difendersi per assicurare la stabilità del rilevato. Quando la struttura è di gabbioni, e si temano azioni dinamiche per corpi trasportati o erosioni al piede, si deve provvedere a interventi protettivi per stabilizzare anche sul fondo la zona difesa dalle gabbionate.

Fig. 10.24 – Pennelli realizzati con gabbioni.

10.2.9.2 – Difese sporgenti (pennelli)

Sono ottenute con manufatti inclinati (discendenti o ascendenti) o normali rispetto alla corrente. I pennelli sono generalmente ad asta semplice, ma anche a L, a martello, a baionetta, a hockey etc. (→ § precedenti): essi sono usati per dirigere il flusso da una curva verso la successiva; oppure per modificare le curve troppo strette ampliandone il raggio di curvatura; per chiudere rami secondari e anche per concentrare il flusso in una zona prefissata. Gli elementi, radicati alla sponda, si protendono fino alla linea prevista per l’alveo di magra; i pennelli creano tra gli stessi e la sponda una zona morta, ove si deposita il materiale fino al suo interrimento.

Poiché la testa del pennello (specie se ascendente) e la parte più esposta alla corrente, il profilo del pennello è spesso discendente dalla sponda verso il filone della corrente.

I pennelli sono realizzati con blocchi naturali o artificiali con una sagoma trasversale trapezia, ma anche con un cassone di legname e pietrame, o, nei tratti di pianura dei corsi d’acqua, con terra protetta e rivestita di blocchi; la disposizione dei blocchi deve tener conto dell’erosione che si ha in corrispondenza della testa. La distanza tra i pennelli è 2 o più volte la sporgenza del pennello stesso. La Fig. 10.24 mostra una serie di pennelli realizzati con gabbioni variamente disposti e degradanti verso l’alveo. E’ da notare il tappeto antierosione in materassi, esteso sul contorno del pennello, ma con una maggiore protezione della testa; l’eventuale erosione determina l’adattamento della protezione al fondo senza danni.

10.2.10 – Scavo alla testa dei pennelli

Le modifiche che una serie di pennelli crea nel campo di moto possono dare origine nell’intorno delle loro teste a scavi, che possono comprometterne la stabilità.

La profondità ds dello scavo in un materiale incoerente dipende dalle caratteristiche: della corrente indisturbata (altezza y e velocità media v riferite alla portata massima); del materiale (massa di volume Qs diametro mediano d = d50 e deviazione standard σ); della geometria (sporgenza L, coefficiente di forma e di contrazione).

Per una compagine di materiali incoerenti, noto il diametro mediano d, e calcolata la velocità critica vcr, può ritenersi che il rapporto v/vcr dia una misura dell’attitudine della corrente (indisturbata) a provocare o non provocare il moto del materiale: lo scavo che può prodursi nell’intorno di un ostacolo (testa di un pennello, spalla di un ponte) procede variamente al variare del rapporto v/vcr. I rilievi sperimentali mostrano che il massimo scavo nell’intorno della testa si ha per la condizione d’incipiente movimento del materiale di fondo nella corrente indisturbata, cioè v/vcr = 1.

Fig. 10.25 – Andamento della massima profondità dello scavo in funzione della velocità della corrente indisturbata.

La Fig. 10.25 mostra, con alcuni risultati sperimentali, l’andamento dello scavo d, riferito alla sporgenza L del pennello al variare di v/vcr. Per ostacoli normali alla corrente Melville propone le seguenti formule:

I valori di K sono riportati nella Fig. 10.26. il valore di K* può essere dedotto dalla relazione:

E’ da osservare che il diametro del materiale di fondo non compare nelle formule.

Fig. 10.26 – Coefficienti K per diversi tipi di pannelli.

Alcuni ricercatori, analizzando risultati sperimentali, hanno dato (Figg. 10.27 e 10.28) alcune curve utili per la stima della massima profondità dello scavo per i pennelli della Fig. 10.26, al variare di ζv2/[(ζsζ)gd] e di L/d. Le relazioni possono essere usate per stabilire lo scavo al piede di manufatti che interessino l’alveo: per esempio per le spalle di un ponte.

Fig. 10.27 – Profondità dello scavo in corrispondenza di un pennello come in Fig. 10.26 per v ≤ vcr.

Fig. 10.28 – Profondità dello scavo in corrispondenza di un pennello come in Fig. 10.26 per v ≤ vcr.

10.2.11 – Laminazione delle piene

II controllo delle piene può farsi, in qualche caso, inserendo nel corso d’acqua, sull’asta principale o su qualche importante affluente, un’opera di ritenuta (diga), creando una capacità in grado di modificare, ritenendone una parte, i deflussi di piena da avviare verso valle. Queste capacità sono denominate serbatoi di piena: l’azione è detta laminazione della piena.

Un serbatoio di piena richiede buone condizioni geologiche e topografiche per la diga, per assicurare la capacità d’invaso; l’estensione del bacino sotteso deve essere significativa in rapporto a quella della parte alta e medio-alta del bacino stesso.

Per la parte media o bassa del corso d’acqua, gli invasi, se possibili, sono denominati: casse d’espansione, con manufatti e modalità di gestione che possono differire da quelli dei serbatoi di piena.

La progettazione, la costruzione e l’esercizio degli sbarramenti di ritenuta per la formazione di serbatoi sono disciplinati dalla normativa vigente.

10.2.11.1 – Serbatoi di piena

II primo problema riguarda la definizione dell’evento di piena cui fare riferimento, dandone l’andamento nel tempo, trattandosi di un processo a moto vario.

Fissato l’idrogramma di piena e il periodo di ritorno dell’evento di progetto, si deve verificare il comportamento del serbatoio anche per eventi meno intensi, ma con durata maggiore, che possono esaurire la capacità del serbatoio (Fig. 10.29).

In qualche caso può essere necessario spingere l’indagine anche considerando eventi con onde di piena successive.

Fig. 10.29 – Schema di serbatoio di piena.

Un serbatoio di piena deve essere dotato di una o più luci o scarichi sul fondo in grado di smaltire portate significative, ma non superiori alla massima tollerabile a valle; e anche di uno scarico di superficie in grado di evacuare da solo, senza il concorso dello scarico di fondo, il più gravoso evento di piena; e ciò nell’ipotesi, pur improbabile, che la capacità d’invaso  disponibile possa essere stata in parte esaurita da un evento idraulico precedente o da una frana; ma anche per fronteggiare qualche situazione d’emergenza.

Lo scarico di fondo dei serbatoi di piena può farsi in due modi : luci con paratoie o luci libere. Si ricorda che nel primo caso lo scarico viene tenuto aperto fino al momento in cui la portata affluente eccede la massima transitabile a valle; dopo viene parzializzato in modo graduale per mandare a valle una portata circa eguale alla massima. Il secondo modo comporta che, con il massimo carico nel serbatoio, possa scaricarsi la portata massima consentita a valle: deflusso a luce libera nella fase iniziale; successivamente, deflusso a battente.

Fig. 10.30 – Laminazione di una piena: portate affluente e defluente; curve integrali e di regolazione.

Gli andamenti della portata scaricata per le due soluzioni sono rappresentati nella Fig. 10.30; l’area compresa tra l’onda entrante e quella uscente corrisponde al volume da trattenere nel serbatoio e da restituire a partire dal momento in cui le due curve s’intersecano (portata entrante uguale a portata uscente).

La circostanza che il serbatoio di piena possa essere completamente impegnato mediamente una volta ogni 100 anni, o altro periodo di ritorno prefissato, può condurre a esaminare l’opportunità di un suo uso multiplo: in questa ipotesi gli scarichi devono essere presidiati; ed inoltre devono essere fissati rigidi criteri di gestione con una dettagliata convenzione tra gli utenti.

Un utilizzo multiplo può richiedere la creazione di un invaso alquanto superiore a quello richiesto per il solo uso di piena, ma con costi marginali che consentono di elevare significativamente la redditività dell’investimento.

10.2.11.2 – Processo idraulico

L’idraulica dei serbatoi è governata da leggi di notevole semplicità; essa richiede la conoscenza dell’area dello specchio liquido S(z) e del volume V(z) invasato a ogni quota z (Fig. 10.29): la prima si ottiene planimetrando le aree alle varie quote; la seconda, integrando numericamente la funzione S(z) (Fig. 10.31).

La regolazione della portata in uscita può farsi con paratoie manovrate in modo da avviare a valle una portata costante; oppure con una luce (o una serie di luci) libera.

Al primo modo corrisponde un volume di regolazione minore che nel secondo, ma con una maggiore esposizione ad accidenti che possano bloccare le paratoie: corpo estraneo; evento sismico; mancanza d’energia. Per questo si deve provvedere a una fonte d’energia di riserva e predisporre il dispositivo per la manovra manuale. Il rischio si riduce adottando più luci, con l’avvertenza però che non siano troppo piccole per contenere il rischio d’intasamento.

Fig. 10.31 – Curve delle superfici S e dei volumi V di un serbatoio.

Il fenomeno idraulico si descrive utilizzando l’equazione dei serbatoi associata a un’equazione del moto. Una prima descrizione riguarda il deflusso libero dalle luci fino all’istante t0 nel quale, realizzato un invaso, comincia il deflusso a battente; una seconda tratta del deflusso a battente.

Indicate con Qa(t) e Qe(t) rispettivamente (Fig. 10.30) le portate affluente e uscente e con z(t) la quota istantanea dello specchio liquido S contata dal fondo della luce d’area A, le equazioni sono:

dove V(z) è il volume invasato e C1 un coefficiente di portata.

Il caso in cui la luce sia regolata da paratoia (la sezione, tutta aperta, ha area A0) può cosi descriversi. Fino a t = t0 il deflusso dalla luce è a superficie libera. Poiché, generalmente, è Qe < Qa la differenza di portata determina un parziale invaso. Per t > t0 lo scarico avviene a battente, però con A = A0, fino all’istante t1, nel quale è Qe = Q*: la  massima portata che può transitare a valle senza danni.

Da t = t1 (l’invaso è a quota z1) inizia la regolazione dell’apertura riducendo gradualmente la sezione A in modo da scaricare, fino all’istante t = t*, una portata costante Qe = Q*. In sintesi, le equazioni sono:

La legge di chiusura A(t) è:

mentre la prima delle relazione, per t1 < t = t* dà:

essendo V1 il volume invasato per t = t1.

Quando sia t = t*, la relazione ultima dà il volume necessario per la richiesta laminazione.

Quando sia piccolo il volume corrispondente al carico z1 occorrente per far defluire, a paratoie aperte, la portata Q0(t1) = Q* si può porre V1 = 0.

Poiché sono note le funzioni V(z) e Qa(t), la relazione ultima è trattata per via numerica, ottenendo la z(t) che definisce la legge A(t) di chiusura data dalla prima relazione.

Nel caso in cui la luce sia libera, si ha per t > t0, costantemente, A = A0; la prima delle equazioni di base diventa:

da integrarsi solo per via numerica essendo nota la Qa(t).

In questo secondo caso, il massimo valore della portata 0, in uscita si ottiene nell’istante nel quale le curve Qa(t) e Qe(t) s’intersecano.

Un benefico effetto di laminazione può ottenersi, in qualche caso, anche quando il serbatoio sia immaginato invasato fino alla quota di regolazione, se il volume che può invasarsi al di sopra della quota di sfioro sia una frazione significativa del volume dell’onda di piena.

La seconda equazione iniziale diventa:

essendo C2 un coefficiente di deflusso (0.385 per la soglia in parete grossa e 0.48 per quella sagomata secondo il profilo Creager-Scimemi), L lo sviluppo efficace della soglia e h il carico su di essa. Il sistema iniziale si risolve per differenze finite con un passo Δt proporzionato alla durata del ramo crescente dell’onda di piena. La prima equazione diventa:

intendendo con QaQeS i valori medi di queste grandezze nel prefissato intervallo di tempo Δt; il procedimento prende principio dall’istante t = 0 quando è z = z0 e S = S0.

10.2.11.3 – Casse d’espansione

E’ talvolta possibile reperire nel tratto medio-basso del corso d’acqua zone laterali che, opportunamente sistemate e arginate, possono invasare volumi d’acqua anche rilevanti: questi invasi sono chiamati casse d’espansione. Poiché l’altezza utilizzabile per l’invaso è generalmente di pochi metri, la superficie da riservare all’invaso può essere molto estesa; è quindi necessario che il valore dei terreni sia basso per contenere i costi d’esproprio quando essi non siano già una pertinenza idraulica del fiume; é inoltre opportuno che l’area sia pianeggiante per contenere le altezze massime degli argini di conterminazione delle casse. E’ anche consigliabile frazionare il volume fra diverse casse disposte in serie collegate fra loro: con non pochi vantaggi nella gestione delle piene.

Le casse possono essere realizzate a cavallo del corso d’acqua di cui si vuole laminare la piena (casse di valle) o in derivazione dallo stesso (casse in derivazione): le casse di valle rappresentano la soluzione più semplice: per assenza dell’opera d’imbocco o di derivazione e dell’eventuale arginatura, con un unico manufatto all’uscita.

L’opera di sbocco, dotata di sfioratore, è realizzata con una traversa, mobile o fissa, posta nella sezione di chiusura. La traversa mobile è dotata di paratoie che regolano il deflusso, in grado pero, se aperte, di far defluire la portata di piena.

La traversa fissa è costituita da un manufatto di calcestruzzo con una o più luci di fondo presidiate o non presidiate; essa è dotata di scaricatore di superficie per la medesima portata del corso d’acqua. La traversa può anche essere costituita da una soglia delimitata lateralmente da due quinte, ancora di calcestruzzo radicate sulle sponde: un restringimento che istituisce una sezione critica di deflusso. La soglia può essere sporgente sul fondo alveo: creando a monte una zona umida. Essa è munita di scarico per l’esaurimento dell’invaso e per consentire il deflusso verso valle dei sedimenti.

Le luci di fondo non presidiate devono comunque, a norma di Regolamento dighe, essere panconabili per permettere il collaudo dell’opera.

Nel campo delle traverse con deflusso non regolato da paratoie trovano talvolta applicazione le traverse a maschera. Trattasi di una disposizione, con luci di fondo non presidiate, che ammette i due possibili modi di deflusso: dapprima a superficie libera eccessivamente a battente, contando sull’efficacia della contrazione che la maschera produce quando il suo bordo sia lambito dalla corrente. Ciò consente di mantenere relativamente costante la portata al variare della quota d’invaso senza adozione di organi mobili.

La Fig. 10.32 mostra una cassa d’espansione a cavallo di un fiume (cassa di valle), il cui invaso viene controllato dalla strettoia collocata all’uscita. L’alimentazione delle casse in derivazione può realizzarsi con una struttura fissa (soglia sfiorante) che consenta la derivazione della portata, una volta raggiunto un prefissato stato idrometrico nel fiume.

Poiché l’organo mobile da modo di mantenere nel fiume la portata desiderata, mentre la soglia fissa garantisce un’assoluta sicurezza di funzionamento, è sovente adottata la soluzione mista.

La necessità di derivare la parte della portata che ecceda il valore tollerabile a valle può comportare, in aggiunta alle opere di derivazione, l’ulteriore necessità di sostenere poco a valle il livello del corso d’acqua, specie se il deflusso avvenga in corrente veloce: il provvedimento rende agevole la derivazione verso la cassa d’espansione. Questo può farsi restringendo con un’opera fissa la sezione del corso d’acqua a un valore che dia modo alle massime portate (da avviare verso valle) di defluire in stato critico; oppure sostenendo il livello con paratoie che spicchino da una soglia posta sul fondo.

Fig. 10.32 – Schema d’espansione collocata nella valle di un corso d’acqua.

La creazione d’una traversa t’issa sfiorante sporgente dal fondo non è di norma consigliabile.

La cassa d’espansione o l’ultima di esse (se in serie) è munita di uno sfioratore di superficie per restituire all’alveo le portate che, esaurita la capacità disponibile, non dovessero essere contenute nella vasca e di uno scarico di fondo da aprirsi quando la portata in alveo scenda sotto il valore massimo tollerabile a valle. Lo scarico va aperto quanto prima possibile per rendere disponibili i volumi d’invaso per il controllo di una eventuale seconda onda.

La cassa (ciascuna cassa) deve essere dotata di uno sfioratore di superficie, di uno, scarico di fondo e di una rampa di discesa per l’accesso dei mezzi di manutenzione o riparazione. Le acque di piena sono generalmente assai torbide; il materiale in sospensione sedimenta specialmente nella prima cassa: potendosi così modificare la capacità (anche se in un periodo generalmente lungo), e il rapporto con la falda (impermeabilizzazione del fondo). Ciò può comportare periodici interventi di manutenzione e di (quasi) ripristino.

L’area da utilizzare per la creazione delle casse in derivazione è spesso area soggetta a naturali allagamenti periodici. La sua conterminazione per la creazione delle casse rende l’area allagabile con minore frequenza: con la conseguente possibilità di poter utilizzare le superfici interne delle casse stesse con ben maggiore sicurezza per coltivazioni stagionali o tali da non soffrire in maniera irreparabile se allagate per un numero di ore che corrisponda a quello presumibile di funzionamento delle casse durante una piena. La Fig. 10.33 illustra alcune casse d’espansione in fregio a un fiume e alcuni manufatti.

Il volume d’invaso è realizzato con più vasche in serie, utilizzando un’ampia superficie, con differenze di quota significative, e contenendo l’altezza degli argini: tra vasca e vasca sono previste una luce di fondo e una soglia sfiorante.

La luce di fondo ha una duplice funzione: preparare la vasca di valle parzialmente invasata, quando inizia lo sfioro, per facilitare la dissipazione e consentire il vuotamente della vasca a monte durante la fase calante dell’onda di piena.

Fig. 10.33 – Cassa in derivazione: disposizione planimetrica di casse in serie a sezione arginale.

I processi idraulici sono descritti dalle stesse equazioni che governano quelli dei serbatoi: con luci a stramazzo (sfioratori) e luci a battente (scarichi). Qualora le casse fossero disposte su aree permeabili (materassi alluvionali) e si ritenesse non trascurabile la frazione assorbita dalla falda, si deve aggiungere un termine all’equazione di continuità per rappresentare la portata d’infiltrazione e un’ulteriore equazione che colleghi il carico nella vasca con l’infiltrazione nel sottosuolo.

10.3 – Tutela naturale dal degrado dei versanti

10.3.1 – Caratteristiche biotecniche delle piante

Molte piante possiedono attitudini biotecniche utili negli interventi di salvaguardia dei versanti. Tali caratteristiche sono riferibili a particolari attitudini quali:

–       difesa dall’erosione, copertura del terreno e riduzione delle azioni provocate dalle precipitazioni;

–       miglioramento dei parametri geotecnici del suolo ad opera delle radici (coesione, angolo di attrito, resistenza al taglio;

–       regolazione del bilancio idrologico del terreno (controllo dell’evaporazione, della formazione e del miglioramento del suolo);

–       riduzione della velocità di scorrimento superficiale e della forza di trascinamento dell’acqua;

oltre a particolari proprietà biologiche e cioè:

–       capacità di rigenerazione;

–       capacità di adattamento all’ambiente;

–       resistenza alla sommersione anche per periodi prolungati: Salici, Populus alba (Pioppo bianco). Frassini, Alnus glutinosa (Ontano nero);

–       capacità di emettere radici avventizie: Ontani, Salici, Pioppi, Frassini, Acer pseudoplatanus (Acero montano), Corylus avellana (Nocciolo), Euonymus europaeus (Berretta da prete), Viburnum tinus (Lentiggine), etc;

–       capacità di riproduzione per via vegetativa, ovvero per talea: Tamerici, Salici, Pioppi, Laburnum anagyroides (Maggiociondolo), Ligustrum vulgare(Ligustro), Sambuco (Sambucus nigra), Phragmites australisArundo plinianaCorylus avellana (Nocciolo, talea radicale), etc.

Le piante con elevata valenza biotecnica, utilizzabili negli interventi di salvaguardia dei versanti e/o di territori in genere, devono quindi possedere le seguenti qualità specifiche:

10.3.2 – Capacità di consolidamento del terreno

La capacità di legare e consolidare il terreno mediante il sistema radicale della pianta deriva dalla forma della radice, dalla densità della radicazione e quindi dalla massa radicale che si traduce in un aumento della resistenza al taglio (e della coesione) del terreno. Tali qualità possono essere in parte affiancate da una corrispondente resistenza allo strappo; particolarmente importante è il rapporto fra il volume delle radici e il volume dei getti.

Nel caso delle piante mediterranee esiste una relazione tra le strategie di riproduzione e la struttura delle radici: le specie con capacità di ripresa vegetativa, infatti, possiedono un apparato radicale più profondo e sviluppato che garantisce un miglior consolidamento del suolo di quelle con rigenerazione da seme.

10.3.3 – Resistenza degli apparati radicali

Le specie a radicazione estensiva, dotate di un ampio sistema radicale strisciante e/o penetrante in profondità, formano sistemi orizzontali e verticali; suddivisi, nel caso d’individui adulti, in radici fittonanti e fascicolate secondo diverse forme di transizione.

Le piante legnose, moltiplicate agamicamente in situ, possono tuttavia essere difficilmente inquadrate in uno di questi schemi. Il gruppo delle specie a radicazione intensiva, con radici meno striscianti in profondità, molto ramificate e fittamente addensate, rappresenta il tipo delle graminacee. Nel caso delle leguminose, invece, è frequente il tipo a fittone.

Il consolidamento più efficace del terreno si ottiene, in ogni caso, quando la compenetrazione radicale nel corpo terroso avviene entro diversi strati del terreno, soprattutto con diverse tipologie radicali.

Affinché le radici delle piante impiegate per stabilizzare un terreno in movimento oppongano la giusta resistenza alle sollecitazioni meccaniche provocate dai movimenti del terreno è necessario che resistano agli sforzi di trazione e di taglio derivanti. Laboratori scientifici in vari paesi hanno studiato le proprietà meccaniche dei fusti e delle radici delle piante secondo le classiche prove per la resistenza dei materiali.

La resistenza alla rottura dell’apparato radicale è il prodotto dell’intensità di radicamento per la resistenza alla trazione delle singole radici. Per ciò che concerne la resistenza a trazione delle radici si fa riferimento, di norma, ai valori riportati in Tab. 10.1 ove sono riportati i valori medi relativamente alle piante più comuni ai sensi dei più recenti risultati della ricerca.

Tab. 10.1 – Valori di resistenza a trazione delle radici di alcune piante comuni.

Per quanto riguarda le resistenze al taglio le semine di graminacee e popolamenti misti di leguminose e graminacee offrono valori entro 30÷48 kN/m2.

La capacità di resistenza alle sollecitazioni meccaniche (Tab. 10.2) si presenta in terreni franosi e in caso di erosione; questa resistenza è richiesta anche nei sistemi di costruzione più stabili, dove nei primi anni occorre tener conto di limitati movimenti sulla superficie del terreno, della caduta di ciottoli e dell’abrasione da neve. La pianta è esposta a tali influenze anche quando è stata messa a dimora mediante gradonateviminate o fascinate sebbene essa goda, in tali casi, di una maggiore protezione.

Tab. 10.2 – Resistenza allo sradicamento di alcune piante comuni.

Studi in proposito hanno così evidenziato le modifiche dei parametri morfologici delle radici di Spartium junceum e Fraxinus ornus che crescono sulle scarpate, rispetto a individui che crescono in piano. Tali specie, sui pendii, rinforzano l’ancoraggio al suolo grazie ad uno sviluppo delle radici più ampio e più resistente nella parte superiore della scarpata con una risposta morfologica analoga a quella delle sollecitazioni del vento (Fig. 10.34).

Fig. 10.34 – Sviluppo dell’apparato radicale in pendio (sx) e in piano (dx) di Spartium junceum.

Vengono riportate di seguito una serie di raffigurazioni di apparati radicali di specie erbacee e legnose comuni che mettono in evidenza il volume di terreno coinvolto dalla stabilizzazione delle radici stesse.

Fig. 10.35 – Apparato radicale e arbusto emergente di Lollium perenne.

Resistenza contro la sommersione periodica o episodica. Le cosiddette brevi sommersioni (della durata da alcune ore fino a n giorni) possono verificarsi senza danni nelle associazioni riparali anche più volte all’anno; solamente poche specie arboree, Alnus glutinosa (ontano nero), Populus alba (pioppo bianco), Populus nigra (pioppo nero), Salix (salici), Fraxinus excelsior (frassino comune), sopportano un ristagno dell’acqua con durata da lunga fino a permanente. Una sommersione graduale, in generale, viene sopportata più facilmente di un improvviso ristagno per l’intera altezza.

In presenza di un ristagno artificiale permanente gli alberi dovrebbero venir schermati con pietrisco e ciottolame fin sopra lo specchio d’acqua, affinché si possano formare radici avventizie.

Fig. 10.36 – Apparato radicale e fusto emergente di Quercus robur.

Fig. 10.37 – Apparato radicale e arbusto emergente di Trifolium repens.

Per quanto riguarda la resistenza alla sommersione dei Salici si ammette che tutte le specie centro-europee sopportino senza danni una sommersione di alcuni giorni mentre la specie più sensibile alla sommersione risulta il Salicene (Salix caprea).

Per contro solo poche specie di salici sopportano una sommersione prolungata e perenne quale si può verificare come conseguenza della costruzione di bacini idroelettrici, di laminazione e/o funzione ausiliaria.

Fig. 10.38 – Apparato radicale e fusto emergente di Carpinus betulus.

    FAGGIO         OLMO            QUERCIA                FRASSINO-TIGLIO                    ONTANO

               FAGGIO                              FAGGIO sl                                             PIOPPO

Fig. 10.39 – Apparato radicali di varie specie arboree.

Da osservazioni sperimentali risulta che il Salice bianco (Salix alba), il Salice fragile (Salix fragilis) e il Salice odoroso (Salix pentandra) sopportano sommersioni prolungate e/o addirittura perenni.

L’altezza della sommersione, di norma, non deve superare i 2m e dipende, evidentemente, dall’altezza dell’albero al momento dell’inizio della sommersione.

10.3.4 – Capacità di emettere radici dai fusti interrati

Sulle scarpate in ambito mediterraneo, ove sono reali le difficoltà di uso di Salici in quanto poco coerenti dal punto di vista ecologico, va privilegiata la ricerca di specie termo-xerofile con capacità di sviluppo di radici avventizie dal fusto interrato da usare come piante radicate ma con la stessa funzione delle talee. Tale caratteristica biotecnica trova riscontro in natura nella resistenza all’inghiaiamento di alcune piante (Tab. 10.3).

Tab. 10.3 – Piante radicate con capacità di sviluppo di radici avventizie.

Un ricoprimento per sovralluvionamento provoca il deperimento progressivo della maggior parte delle specie; per contro molte piante legnose sopportano tali colmata senza perdere la vitalità: salici e pini, infatti, sono in grado di resistere ad inghiaiamenti entro 3,0 m (ossia fino al 30% dell’altezza dell’albero) senza danni evidenti.

Tab. 10.4 – Capacità di emettere radici avventizie da fusto interrato sperimentate tra ambiente alpino (sx) e appenninico (dx).

10.3.5 – La tipologia dei Salici

Data la prevalente distribuzione naturale dei salici nei biotopi umidi e, in genere, nei pressi dei corsi d’acqua, tali piante hanno costituito sin dai tempi più remoti, a causa della loro regolare e frequente presenza, un materiale da costruzione privilegiato per il consolidamento delle sponde.

Nelle applicazioni conservative i salici vengono utilizzati soprattutto perché hanno un’ottima attitudine biotecnica e una rapida propagazione vegetativa.

Nel dare esecuzione operativa alle sistemazioni secondo tali obiettivi, infatti, possono venire impiegate convenientemente solo quelle specie che hanno facoltà di propagazione agamica almeno nella misura del 70% dal momento che alcune radicano e ricacciano in modo insufficiente.

Dalle esperienze di vari ricercatori, è noto che la facoltà di propagazione dei salici dipende dal ritmo vegetativo interno, ossia dalla fase di sviluppo delle piante nel corso dell’anno. tale ritmo di vegetazione risulta specifico per la specie ed è rilevante per la data del taglio, non per il momento di messa a dimora. Per piante della stessa specie, tagliate a quote inferiori, infatti, il ritmo annuale è in genere più marcato rispetto a quelle situate a quote superiori.

Le curve annuali della propagazione agamica presentano, generalmente, un marcato picco durante il riposo vegetativo e due chiare depressioni fra fioritura-fruttificazione e durante l’alterazione cromatica autunnale delle foglie. Questo ritmo di vegetazione non influisce solo sul risultato della radicazione, ma si riflette, anche come effetto incrementale almeno nei primi tre anni di vita.

Di conseguenza, nell’eseguire opere di risanamento, il taglio va effettuato nel periodo più favorevole.

Il successo nella radicazione e nell’accrescimento dipende quindi da diversi fattori:

–       età dei getti;

–       volume della talea: la più lunga e grossa possiede, a causa di una maggiore riserva di rizocalina immagazzinata nelle cellule del cambio, una maggiore capacità d’accrescimento nei primi 3 anni di vita;

Tab. 10.5 – Capacità d’attecchimento, limiti d’impiego altitudinale e altezza dei fusti.

La provvista del materiale, inoltre, deve essere pianificata a tempo debito in quanto alle sistemazioni necessitano grandi quantità di ramaglia viva. In genere la maggior parte delle specie di salice è dotata di un sistema radicale espanso, vale a dire con radici che si estendono orizzontalmente, lunghe e resistenti allo strappo e che spesso si spingono anche molto in profondità nel terreno.

I salici,allo stesso modo, a differenza di specie vegetali più esigenti, hanno bisogno d’interventi colturali limitati, insediandosi senza eccezioni su suoli sterili.

Le singole specie di tale pianta hanno una distribuzione geografica molto diversa: alcune delle specie a distribuzione molto estesa (euriecie) sono:

Salix alba;

Salix aurita;

Salix caprea;

Salix cinerea;

Salix daphnoides;

Salix fragilis ;

Salix purpurea;

Salix repens;

Salix viminalis.

Alcune di queste sono attualmente più diffuse che in origine perché sono state impiegate di frequente anche al di fuori del loro effettivo areale come, ad es., Salix caprea e Salix viminalis.

10.3.6 – Fattori condizionanti l’intervento

La scelta della tipologia d’intervento strutturale per la stabilizzazione di un pendio è legata sia a fattori inerenti il problema specifico in oggetto che a fattori di carattere generale.

Tra questi ultimi fattori possono essere menzionati:

–       le condizioni di stabilità al presente del pendio in quanto possono influire notevolmente sulla possibilità o meno di poter eseguire talune lavorazioni in modo da garantire adeguate condizioni d’accessibilità, mobilità e sicurezza per gli operatori e le attrezzature;

–       la velocità del movimento franoso in quanto molteplici classificazioni proposte correlano la velocità del movimento col danno prodotto e la possibilità di realizzare interventi di stabilizzazione;

–       le dimensioni dell’ammasso di terreno instabile, a partire dalla geometria e, in particolare, dallo spessore, sono elementi che condizionano la possibilità d’impiegare opere di sostegno così come la tipologia di opera. Allo stesso modo l’inclinazione del pendio può condizionare l’impiego di tubi drenanti;

–       la natura e le caratteristiche dei terreni instabili;

–       l’incremento del margine di sicurezza richiesto;

–       la disponibilità e la convenienza economica.

10.3.7 – Interventi generali di risistemazione

I criteri utilizzabili per la stabilizzazione di un pendio ad uso agro-forestale sono indirizzati ai seguenti obiettivi:

–       riduzione delle forze squilibranti;

–       aumento delle forze resistenti.

A titolo indicativo, tra gli interventi tipici per la riduzione delle forze squilibranti, si ricordano lo scavo per l’alleggerimento in sommità del pendio, la riprofilatura (ad es. con sistemazione a gradoni) nonché il rinfianco al piede.

La modifica della geometria per movimento terra risulta, evidentemente, la soluzione ideale per gli effetti di scorrimento rotazionale, per i quali l’esecuzione di scavi d’alleggerimento nella zona del ciglio di distacco e i riporti nella zona del piede riducono il momento delle forze motrici aumentando il momento di quelle resistenti. Per i movimenti di traslazione su superficie piana, invece, l’effetto di stabilizzazione produce risultati efficaci solo se gli scavi e i riporti riducono l’inclinazione del pendio.

La modifica della geometria del pendio presenta, tuttavia, chiare controindicazioni: ad es. gli scavi di alleggerimento in corrispondenza del ciglio possono essere causa d’instabilità del versante a monte e i riporti, di regola ubicati al piede, possono modificare le condizioni di deflusso delle acque superficiali. Tra gli interventi per l’aumento delle forze resistenti si evidenziano quelli che prevedono la realizzazione di vere e proprie opere di sostegno quali palificate, muri di sostegno, paratie ma anche la sistemazione idraulica superficiale e/o profonda quindi il miglioramento delle caratteristiche meccaniche dei terreni (infissione di pali, addensamento, iniezioni etc.).

10.3.8 – Interventi sul pendio

Nella sistemazione di un pendio instabile, allo scopo di progettare il più efficace intervento di riadeguamento territoriale che preveda l’impiego della vegetazione, è indispensabile conoscere il tipo di fenomeno da contrastare, ossia individuare se trattasi di un fenomeno d’erosione del suolo, di un movimento di massa superficiale o profondo.

In generale, per la stabilizzazione dei pendii naturali o delle scarpate artificiali, non è ritenuta una buona pratica operativa il demandare alla vegetazione l’intero compito stabilizzante; di conseguenza risulta necessario dover fare ricorso all’utilizzo di elementi strutturali integrativi.

In termini del tutto indicativi gli interventi di sistemazione di un pendio possono essere distinti in:

– interventi strutturali con in quali si ottiene un incremento dell’attuale margine di sicurezza del pendio riducendo le forze squilibranti e/o aumentando quelle resistenti;

– interventi non strutturali con i quali si limita l’utilizzazione del pendio in base all’esistente margine di sicurezza;

– interventi di emergenza con i quali il pendio viene posto sotto osservazione (monitorato) e la sua utilizzazione viene regolata in base al suo comportamento nel tempo.

In genere gli interventi strutturali di consolidamento e stabilizzazione dei pendii sono caratterizzati dai seguenti aspetti:

– realizzazione di opere di significativo impegno, sia tecnico che economico;

– forze in gioco di notevole entità e spesso di difficile e non sicura valutazione;

– comportamento dell’insieme pendio-intervento alquanto complesso ed evolvente nel tempo.

Per conseguenza occorre verificare con attenzione la necessità dell’intervento strutturale delimitando precisamente le finalità dell’intervento per contenerne l’impegno tecnico ed economico.

Il classico intervento di stabilizzazione strutturale si realizza in genere per mezzo dell’inserimento di opere di sostegno al piede o all’interno dell’ammasso di terreno instabile.

In base alla posizione rispetto al pendio ed alla tipologia strutturale si possono realizzare differenti opere di sostegno quali palificate, gabbionate, muri, pozzi, palificate, setti e paratie.

Le strutture continue vengono disposte in genere al piede mentre quelle puntuali possono essere distribuite all’interno del volume di terreno instabile. Quest’ultime sono da preferire nei casi in cui la superficie (in particolare la lunghezza) sia rilevante, in quanto consentono di ottenere un incremento del margine di sicurezza diffuso e quindi effetti più uniformi della stabilizzazione.

La riduzione delle pressioni neutre all’interno dell’ammasso può essere realizzata, allo stesso modo, per mezzo di opportune opere di drenaggio e protezione.

Il drenaggio, a propria volta, può essere di tipo superficiale con trincee drenanti ed in profondità mediante pozzi, gallerie, setti drenanti e fori sub-orizzontali.

Le opere di drenaggio possono essere posizionate sia all’esterno del corpo in movimento (in genere a monte del ciglio di distacco) che al suo interno secondo disposizioni planimetriche opportune.

Il funzionamento dei sistemi di dreni è diverso a seconda della permeabilità dei terreni interessati: nei terreni permeabili la portata smaltita dai dreni è elevata per cui, se risulta maggiore di quella di alimentazione della falda, si determina un progressivo abbassamento della medesima fino al prosciugamento del terreno.

Se il terreno, per contro, ha permeabilità bassa, la portata che affluisce ai dreni è limitata,ma l’effetto stabilizzante dovuto alla diminuzione della pressione neutra risulta comunque sensibile.

Una riduzione indiretta delle pressioni neutre all’interno del corpo instabile può anche ottenersi per mezzo di opere di protezione superficiale o rivestimento: infatti queste consentono di contenere l’azione erosiva superficiale esercitata dalle acque meteoriche ma soprattutto possono limitare la percolazione delle stesse in profondità.

Gli interventi di protezione superficiale possono ottenersi per mezzo dell’impiego di tecniche utilizzanti materiali naturali oppure accoppiando materiali naturali con materiali artificiali quali i geosintetici.

Nelle rocce fratturate o nei terreni a grana grossa l’aumento delle pressioni effettive può ottenersi per mezzo del placcaggio della scarpata e con tiranti pretesi.

In casi particolari il miglioramento delle proprietà meccaniche dei terreni può realizzarsi con differenti procedimenti a seconda della natura dei terreni: iniezionidi opportune miscele cementizie nei terreni a grana grossa e nelle rocce fratturate; addensamento mediante vibrazione nei terreni a grana grossa; iniezioni di resine nei terreni a grana media nelle rocce con microfessurazione; elettrolisi e cottura nelle argille.

10.3.9 – L’impiego della vegetazione

La valutazione del contributo resistente offerto dalla vegetazione può risultare molto utile ai fini di una corretta analisi di stabilità e quindi, in ultima analisi, per un efficace dimensionamento dei possibili interventi di stabilizzazione di tipo non strutturale.

Nelle opere di sostegno vive la capacità biotecnica della vegetazione deve essere considerata anche nel dimensionamento, come illustrato nell’esempio relativo ad una palificata viva a parete doppia. Nelle opere con elementi infissi nel terreno (non necessariamente vivi) come una palizzata, si devono creare nel terreno, accumulatosi a monte, le condizioni per lo sviluppo di vegetazione spontanea che riduca le sollecitazioni sulla struttura stessa e migliori le condizioni di stabilità generale.

La stabilità di un pendio, in condizioni di geometria e sollecitazioni particolari, può essere ottenuta anche con terre rinforzate rinverdite.

Gli interventi di rivestimento mediante impiego prevalente di piante erbacee forniscono soprattutto una protezione del suolo nei confronti dell’erosione superficiale e possono contribuire ad una limitazione della percolazione delle acque meteoriche all’interno del terreno (riduzione di pressioni neutre).

In presenza di condizioni difficili d’inerbimento si può fare ricorso all’impiego di geosintetici opportuni quali le geostuoie, le georeti e le geocelle, in grado di proteggere il suolo nei confronti dell’azione erosiva degli agenti atmosferici prima che l’inerbimento si sia completato.

Rimandando alla bibliografia per i necessari approfondimenti, si può riportare che, in casi generali, è stato dimostrato che il rinforzo prodotto dalle radici nel terreno non dipende molto dal loro orientamento bensì dalla resistenza a trazione e densità che variano con la profondità.

Per quanto riguarda l’ipotesi di mobilitazione completa della resistenza a rottura delle radici, sperimentazioni appositamente condotte hanno evidenziato che le radici raggiungono la condizione di rottura in momenti diversi e, pertanto, è più prudente adottare un valore di resistenza a trazione inferiore a quello limite.

Infine, per quanto riguarda l’ipotesi che le radici siano ancorate al terreno e non possano essere estratte dalla zona di taglio, assumendo una distribuzione uniforme delle tensioni all’interfaccia tra terreno e radici se ne può valutare una lunghezza minima.

Osservazioni di campagna supportano altresì il fatto che la lunghezza delle radici, in genere, sia maggiore del valore minimo ottenuto in base a tale criterio.

Appare invece di più difficile valutazione la frazione di terreno occupata dalle radici (area radici /area radicata) essendo limitati i dati disponibili e considerando, inoltre, che essa varia anche in funzione della profondità; le profondità, infatti, entro cui il terreno risente dell’effetto di rinforzo dell’apparato radicale variano entro limiti abbastanza ampi in funzione essenzialmente del tipo di pianta.

Nel caso di vegetazione erbacea l’azione di rinforzo risulta molto diffusa ma limitata ai primi centimetri; nel caso di vegetazione arbustiva lo spessore si estende, in genere, a qualche decimetro fino al massimo ad una profondità di circa 1,5 m. Gli alberi producono invece effetti fino a strati più profondi potendo migliorare la resistenza del terreno entro un livello di 3m, o più, in funzione della morfologia dell’apparato radicale della specie.

La vegetazione arborea mostra, di norma, effetti positivi (in particolare per aumento di coesione dovuta alle radici) per la stabilizzazione rispetto al suolo nudo: il massimo effetto stabilizzante si rileva in presenza di fronti di saturazione (quindi in condizioni di stabilità ridotta) interessanti i primi 1÷1,5m del suolo. Per quanto attiene al peso della vegetazione è necessario studiare come il peso di un singolo albero si scarichi nel suolo mentre l’entità dell’effetto stabilizzante della vegetazione è strettamente connessa alla profondità raggiunta dall’apparato radicale (soglia di radicazione).

10.3.10 – I materiali

In funzione dei problemi da risolvere o dei miglioramenti da apportare ad un ecosistema paranaturale, le tecniche di geologia agraria utilizzano diversi materiali, seguendo il principio di associare materiali vivi (piante) e materiali inerti.

Attualmente, oltre ai materiali inerti naturali, il mercato offre una vasta gamma di materiali industriali perciò è opportuno suddividere i vari materiali disponibili in:

Materiali organici

vegetali vivi

inerti naturali

inerti industriali

Materiali inorganici

naturali

industriali

10.3.10.1 – Materiali vegetali vivi

Sono materiali provenienti dal mondo vegetale che hanno la capacità di rinnovarsi rapidamente rendendo più stabile il terreno:

–       sementi;

–       trapianti di specie arbustive o arboree;

–       talee di specie arbustive o arboree (la talea è un segmento di fusto separato dalla pianta madre capace di produrre radici avventizie e di rigenerare così un altro esemplare, a volte con sviluppi considerevoli ed in breve tempo (per es. salici, pioppi, noccioli).

Le talee possono presentarsi sotto diverse forme:

–       Culmo: stelo di graminacea, in genere elofita, che produce un tallo;

–       Talea piccola: fusto legnoso di 50÷100 cm di lunghezza ed un diametro < 12 cm.

–       Talea grossa: fusto legnoso di 1÷3 m di lunghezza ed un diametro di 25 cm;

–       Astone: fusto legnoso sino a 7m di lunghezza e un diametro di 4÷15 cm;

–       Ramaglia: rami dai quali non vengono eliminate le ramificazioni secondarie;

–       Rizomi e radici: parti di organi sotterranei di riserva, in prevalenza di elofite, capaci di produrre nuove piante;

–       Piote erbose (zolle): insieme compatto di radici e fusti erbacei, di origine naturale o prodotti in vivaio; vengono commercializzati in elementi di dimensioni variabili (0.3÷0.5×0.5÷2.5 m), hanno uno spessore di 1÷5 cm ed un peso di 20÷30 kg/m2.

Particolare attenzione deve essere posta per la salvaguardia della vegetazione arborea e arbustiva presente in loco in quanto, se compatibile coi lavori previsti, consente di ottenere, a costo praticamente nullo, un recupero ambientale, nonché idrogeologico, più immediato e sicuro.

Quando si opera con materiale vegetale vivente il grado di attecchimento richiesto può essere variabile a seconda che si utilizzino piantine a radice nuda o in contenitore. Esso varia anche in relazione alla densità di impianto.

Di seguito, si riportano alcuni valori ottimali considerando l’attecchimento uniformemente distribuito sul terreno.

Al collaudo:

Piantina a radice nuda: non < 90%;

Piantine in contenitore: non < 100%.

Alla fine del periodo di garanzia:

Piantina a radice nuda: non < 80%;

Piantine in contenitore: non < 90%.

Qualora si eseguano dei recuperi ambientali in zone soggette al pascolo di animali domestici o selvatici si suggerisce di realizzare opportune recinzioni per la protezione delle piantine.

L’uso di mezzi meccanici idonei consente di ridurre l’impatto anche nelle importanti fasi d’impianto del cantiere e di realizzazione dell’opera.

Sementi

I principali obiettivi raggiungibili con l’impiego di idonei miscugli di sementi di specie erbacee si rivelano di carattere idrogeologico (azione antierosiva), naturalistico e paesaggistico. I campi d’applicazione degli inerbimenti sono vari:

–       versanti franosi;

–       piste da sci;

–       argini fluviali;

–       ex cave;

–       discariche;

–       infrastrutture viarie o ferroviarie.

Particolare attenzione deve essere posta nell’adeguato modellamento del terreno, nella corretta scelta del periodo d’intervento ma, in particolar modo, nella selezione ottimale e armonica del miscuglio delle sementi da impiegare in funzione delle condizioni pedoclimatiche e della vegetazione presente nella località in cui s’intende intervenire.

Un buon miscuglio è composto da graminacee (ad azione radicale superficiale), leguminose (ad azione radicale profonda e con capacità d’arricchimento del terreno con Azoto) e, talora, da specie arbustive o arboree.

Un ottimo prodotto è considerato il fiorume ricavabile dai fienili, sebbene il suo reperimento risulti difficoltoso, in quanto la fienagione avviene in un determinato periodo della stagione (precisamente prima che il seme raggiunga la piena maturità: questo per ottenere un prodotto di grande nutrimento per gli animali). Il taglio precoce delle piante, pertanto, non permette di ottenere una grande quantità di seme maturo (le quantità richieste di fiorume sono comunque elevate 0.5÷2 kg/m2); se ne suggerisce di conseguenza l’uso solo su piccole superfici di notevole valore naturalistico e ad elevata qualità di semi che possono essere utilizzati per miscugli e idrosemine.

La semina del fiorume o del seme prodotto in vivaio, da effettuarsi preferibilmente durante il periodo vegetativo, può avvenire manualmente o meccanicamente ed appartenere alle seguenti diverse tipologie:

– Semina a spaglio;

– Idrosemina: le sementi di specie erbacee sono poste in soluzioni acquose contenenti concimi chimici o organici, sostanze miglioratrici del terreno, leganti, prodotti fito-ormonici, fibre vegetali, pasta di cellulosa; diverse sono le soluzioni possibili, in relazione alla tipologia ed alla quantità delle sostanze impiegate:

1idrosemina semplice: costituita da seme, fertilizzante e collante. Crea un letto di germinazione ottimale su terreni in cui è presente abbondante frazione fine e colloidale ma con inclinazioni non superiori a 20°.

2idrosemina con mulch: è come la 1) con l’aggiunta di mulch di fibre e di legno o di pasta di cellulosa. E’ adatta a terreni con le stesse caratteristiche della 1) ma con inclinazioni fino a 35° e con presenza di fenomeni erosivi di media intensità.

3idrosemina con mulch a fibre legate: è una idrosemina con mulch in fibre di legno di lunghezza controllata in quantità elevata e collante naturale ad elevata viscosità. E’ una idrosemina con un forte potere protettivo ed elevata capacità di ritenzione idrica. E’ adatta a terreni fortemente erodibili con inclinazione fino a 50°÷60° (1,2:11,7:1), mediamente poveri di materia organica e di frazione fine.

4idrosemina a spessore: è una idrosemina ricca di materiale organico (torba ed eventualmente compost) e mulch di fibre di legno. E’ adatta alle situazioni in cui il substrato è particolarmente povero di materiale organico, sassoso o roccioso. In condizioni difficili per la forte pendenza e sulle terre rinforzate si miscela della paglia triturata da aggiungere all’ultimo passaggio per la formazione di una copertura che dovrà avere uno spessore variabile entro 2÷4cm secondo la quantità di materiale organica.

– Semina con coltre protettiva di paglia (mulch): le sementi vengono distribuite sul terreno e poi ricoperte da materiale vegetale a funzione protettiva; è particolarmente idonea su superfici povere di humus;

– Semina con coltre protettiva di paglia e bitume: le sementi vengono coperte da sostanze vegetali (paglia) fissata da un’emulsione bituminosa a funzione protettiva.

In ogni caso é sempre suggerito l’inserimento di specie vegetali tipiche della zona, sebbene l’azione miglioratrice del terreno di particolari specie pioniere transitorie possa costituire un valido aiuto all’insediamento di quelle definitive più esigenti.

Semenzali

– Semenzali e trapianti di specie arbustive o arboree: si possono impiegare sulle rive dei corsi d’acqua (al piede delle sponde le piante elofite, nell’alveo le idrofile) o sulle pendici instabili, anche ad integrazione del consolidamento effettuato con talee.

Gli alberi e gli arbusti possono essere acquisiti a radice nuda (latifoglie), in fitocella o con pane di terra mentre l’apparato radicale deve essere proporzionato alle dimensioni della chioma; va, tuttavia, sottolineato il fatto che le piante a radice nuda non offrono le medesime garanzie d’attecchimento di quelle in fitocella o con pane di terra.

Per quanto attiene alla messa a dimora delle piantine, il periodo più idoneo è quello del riposo vegetativo. Particolare cura dovrà essere posta sia nell’acquisto del materiale vegetale, verificandone attentamente la provenienza, lo stato sanitario (assenza di malattie, parassiti, ferite etc.) e le dimensioni, sia durante il trasporto che la messa a dimora delle piante, al fine di evitare di procurare loro ferite, traumi, essiccamenti.

Talee e astoni

– Talea: diverse specie (Salix spp., Populus spp.) hanno la capacità di svilupparsi a partire da semplici rami o loro parti, denominate appunto talee (getti non ramificati, lignificati, della lunghezza da 25 a 60 cm) o astoni (getti diritti poco ramificati con una lunghezza lunghi 1÷3 m). Con esse si possono realizzare alcune tra le tipologie di consolidamento del terreno più importanti, quali:

– la viminata: talee intrecciate tra paletti;

– la fascinata: rami lunghi e raccolti a mazzi, di lunghezza > 1m (astoni); si possono così realizzare consolidamenti di pendici soggette ad erosione, nonché drenaggi;

– la difesa spondale con ramaglia (getti ramificati di almeno 60 cm di lunghezza e di differente spessore): fasci di rami stesi in una nicchia d’erosione di una sponda fluviale e trattenuti da pali di legno; l’effetto filtrante della struttura determina un deposito dei materiali fini trasportati in sospensione dalla corrente che aumenta la stabilità dell’opera, la quale protegge la sponda dall’azione erosiva dell’acqua;

– la copertura diffusa con astoni (3m): grosse talee disposte sulle sponde dei corsi d’acqua in modo da formare un rivestimento dell’intera superficie e svolgere così una funzione antierosiva;

– iI rinverdimento dei manufatti: le talee sono utilissime per poter rinverdire le opere di consolidamento, di sostegno o di difesa spondale quali: gabbioniscoglieremuri di sostegno o palificate.

L’epoca del taglio e dell’utilizzo delle talee è legata al periodo di riposo vegetativo delle diverse specie e, quindi, a quello autunnale – primaverile; tutte le talee per potere radicare e svilupparsi, devono essere dotate di gemme laterali.

Le talee poste orizzontalmente producono una maggiore massa di radici, a differenza di quelle poste in senso verticale. Particolare attenzione deve, infine, essere posta durante il trasporto e lo stoccaggio al fine d’evitarne l’essiccamento.

Mirando all’optimum si dovrebbero impiegare parti di piante legnose quanto più grosse e lunghe possibili, adattate di volta in volta al metodo di costruzione, poiché il successo della radicazione e della cacciata aumenta al crescere del volume dei rami; in base all’esperienza, i risultati migliori si ottengono con porzioni della grossezza di un dito fino a quella di un braccio. Verghe e rami sottili disseccano facilmente e quindi vengono per lo più impiegati solo in combinazione con parti vegetali più grosse. Per procacciarsi le quantità occorrenti di parti vegetali si hanno le seguenti possibilità a disposizione:

– Margotta: tecnica che consiste nel piegamento di un ramo o di un pollone e nel suo successivo interramento: in tali condizioni vengono emesse nuove radici e, una volta che il ramo viene separato dalla pianta madre,si ha un nuovo esemplare.

– Rizomi: si possono ottenere individui arborei o arbustivi anche utilizzando rizomi o loro pari.

– Piote o zolle erbose: servono a proteggere le sponde o i pendii sistemati di recente. La posa in opera delle zolle può avvenire in diversi modi: a scacchiera, a linee oblique, a cordoni orizzontaliin modo continuo o isolatamente; gli eventuali spazi vuoti verranno chiusi naturalmente dalla vegetazione spontanea con il passare del tempo, anche se, a volte si potranno verificare difficoltà in tal senso. In relazione agli elevati costi d’impianto, gli interventi che prevedono la copertura totale potranno essere effettuati solo su piccole superfici o in zone molto importanti da un punto di vista naturalistico laddove l’impiego di specie autoctone risulti essere indispensabile; va sottolineato il fatto che l’utilizzo di zolle provenienti da località limitrofe è una garanzia d’idoneità del materiale di propagazione utilizzato.

– Tappeto erboso: assolve alle medesime funzioni delle piote erbose naturali ma la sua produzione in vivaio offre alcuni vantaggi: maggiore disponibilità, maggiore uniformità e relativo migliore attecchimento.

10.3.10.2 – Materiali organici inerti naturali ed artificiali

I materiali di origine organica, ma senza capacità vegetativa, vengono detti inerti o morti; il loro uso può rendersi necessario quando sia richiesta un’efficacia immediata dell’intervento che non possa essere garantita dalle piante a causa dei tempi necessari al loro sviluppo.

10.3.10.2.1 – Materiali organici inerti naturali

– Legname: tronchi, ramaglia, sciaveri;

– Concimi organici: da impiegarsi qualora il substrato sia povero di sostanze nutritive.

– Ammendanti: sostanze miglioratrici del terreno: idonee su substrati poveri di sostanze nutritive o con una struttura ed una tessitura del terreno non ottimali.

– Stuoie o reti di jutafibra di cocco o di altri vegetali (es. paglia, sisalkenaf): sono strutture a maglie aperte realizzate mediante tessitura (o annodatura) di fibre vegetali;

– Biostuoie: sono materassini di fibre vegetali (legno, paglia, cocco), contenute in reticelle poliolefiniche o organiche (ad esempio juta): in commercio sono disponibili anche stuoie preseminate o preseminate e preconcimate;

– Mulch di legno, pasta di cellulosa vergine o riciclata per impieghi nelle miscele da idrosemina.

Legname

II legname viene impiegato con funzione di consolidamento temporaneo in attesa che la vegetazione subentri a tale compito. Si usano vari tipi di essenze: AbeteLariceCastagno sono i materiali più diffusi. Sovente, ai fini di aumentarne la durabilità, vengono scortecciati. Le dimensioni, sia lunghezza che diametro, variano a seconda degli impieghi: palificate vive, grate vive, palizzate vive, cordonate, copertura diffusa etc.

Stuoie, reti e biostuoie

Stuoie, reti e biostuoie possono essere impiegate in svariate condizioni, prevalentemente con funzione di controllo dell’erosione, nelle opere di:

–       consolidamento di versanti franosi;

–       consolidamento di dune costiere;

–       consolidamento di piste da sci;

–       recupero di ex cave;

–       consolidamento di rilevati artificiali (discariche, infrastrutture viarie e ferroviarie etc);

–       costruzione di barriere antirumore;

–       realizzazione di parchi urbani ed impianti sportivi.

questi materiali offrono svariati vantaggi:

– riduzione dell’erosione superficiale di origine idrica o eolica durante il delicato periodo post -intervento di sistemazione in attesa che la copertura vegetale si affermi; sono particolarmente utili in zone caratterizzate da notevoli avversità ambientali;

– condizionamento ottimale dell’inerbimento delle superfici interessate dall’intervento, sia grazie alla capacità di trattenuta delle particelle più fini utili allo sviluppo della vegetazione, sia per la costituzione di un supporto per le specie vegetali pioniere;

– riduzione dell’evaporazione idrica del terreno e capacità di conservazione di un certo grado di umidità del suolo: alcuni prodotti di origine naturale possono assorbire 2 3 l/m2 di acqua;

– formazione di un benefico effetto-serra con conseguente trattenuta di calore;

– capacità di drenaggio superficiale degli accumuli di acqua nel terreno;

– disponibilità di una vasta gamma di prodotti con trama, struttura e resistenze diverse che si prestano all’applicazione in diverse condizioni.

– competitività economica rispetto a soluzioni tradizionali, in relazione ai costi di produzione, di trasporto e di posa in opera.

– capacità di incrementare la fertilità del terreno in seguito alla loro decomposizione e conseguente apporto di sostanza organica; le stesse sono totalmente biodegradabili, in quanto costituite da cellulosa e lignina (si decompongono completamente in 16 anni) non risultando inoltre dannose per piante ed animali.

10.3.10.2.2 – Materiali organici e inorganici naturali

I materiali naturali usati tradizionalmente nella geologia agraria sono:

– terreno vegetale (organico);

– fertilizzanti, compost etc. (organici);

– pietrame e altri inerti (inorganici).

Terreno vegetale

In relazione al valore ecologico intrinseco del terreno vegetale, eventualmente presente, nell’area oggetto di un qualsiasi intervento sul territorio che prevede un successivo recupero ambientale, è consigliato provvedere alla rimozione ed allo stoccaggio del suddetto terreno che in seguito, potrà essere utilizzato in loco al fine di costituire un prezioso substrato per la messa a dimora di specie vegetali.

Il terreno vegetale eventualmente utilizzato e proveniente da altro sito dovrà rispondere a determinate caratteristiche, quali:

–       assenza di corpi estranei;

–       assenza di pietrame;

–       presenza di materiale inerte grossolano, avente diametro > 2 mm, in quantità inferiore al 25% del volume totale;

–       assenza di materiale legnoso (tronchi, rami, radici);

–       assenza di agenti patogeni della vegetazione;

–       assenza di sostanze tossiche;

–       presenza della parte organica (batteri, micorize, microfauna etc.)

A tale scopo l’analisi del suolo consente di evidenziare le caratteristiche fisico – chimiche del materiale. Allo stesso modo si rivela importante non eccedere nella quantità di terreno vegetale adoperato in quanto le radici delle piante tenderebbero a colonizzare lo strato fertile, ma incoerente, senza ancorarsi al substrato roccioso, con possibili conseguenze di smottamenti per sovraccarico; si suggerisce, quindi, di riportare uno strato di terreno ≤ 5÷10 cm di spessore.

Fertilizzanti e Compost (rete commerciale).

Pietrame

Viene impiegato spesso per opere di protezione, di consolidamento e, più raramente, di sostegno, nonché per la realizzazione di opere trasversali quali le rampe di risalita per pesci.

10.3.9.3 – Materiali inorganici industriali

Esistono diversi prodotti industriali che consentono di integrare efficacemente le tecniche biologiche e svolgere diverse funzioni in maniera permanente:

–       controllo dell’erosione superficiale dovuta agli agenti meteorici;

–       controllo dell’erosione in ambito fluviale;

–       contenimento e rinforzo per la realizzazione di opere di sostegno;

–       rinforzo del terreno: aumento della resistenza al taglio del terreno al fine di aumentarne la stabilità e di realizzare pendii e opere di sostegno;

–       drenaggio;

–       separazione e filtrazione;

–       impermeabilizzazione;

–       contenimento e rafforzamento superficiale;

–       funzioni accessorie (fissaggio e collegamento);

–       correzione ed integrazione delle proprietà chimico-fìsiche dei terreni.

Questi materiali sono realizzati con acciaio, polimeri e sostanze chimiche di varia natura:

Geogriglie: materiale polimerico, sia deformabile che non, conformato a forma di griglia realizzato connettendo tra di loro e fissando nelle giunzioni i materiali polimerici stessi.

Tipologie

–       estruse;

–       tessute;

–       a nastri sovrapposti e saldati.

Possono essere realizzate con poliestere, polipropilene, polietilene; possono essere dotate di rivestimento protettivo o meno. Sono materiali dotati di resistenze a trazione significative e di basse deformabilità, pertanto vengono usate prevalentemente nel rinforzo dei terreni (Opere di sostegno e pendii rinforzati) e per la ripartizione di carichi su terreni a bassa portanza.

Geotessuti: sono strutture piane e regolari formate dall’intreccio di due o più serie di fili costituiti da fibre sintetiche che consentono di ottenere aperture regolari e di piccole dimensioni. In relazione al telaio utilizzato si distinguono in tessuti: a trama e ordito , a maglia a catenella (warp knitted). Possono essere in poliestere o polipropilene (più raramente polietilene).

Vengono usati con funzione di rinforzo, filtrazione e separazione nelle opere idrauliche e stradali e di consolidamento.

Geotessili non tessuti: materiali costituiti da fibre polimeriche coesionate mediante agugliatura o termosaldatura. Ne esistono con caratteristiche idrauliche e meccaniche anche molto diverse e vengono usati con funzione di filtrazione e separazione nelle opere idrauliche, stradali e di consolidamento.

Reti metalliche a doppia torsione a maglie esagonali in filo d’acciaio: vengono realizzate mediante la tessitura di trafilato d’acciaio. Per aumentarne la durabilità il filo viene galvanizzato con lega di Zn-Al ed eventualmente plasticato. Possono offrire diverse resistenze a seconda delle combinazioni diametro-filo/tipo-maglia. Sono reti per uso ingegneristico dotate di elevata resistenza e caratterizzate dalla capacità di confinare localmente le eventuali rotture o strappi. Si utilizzano per molteplici applicazioni: realizzazione di elementi per rinforzo dei terreni, realizzazione di rivestimenti vegetativi (in abbinamento con biostuoie o geostuoie) per il controllo dell’erosione su scarpate ripide e realizzazione di gabbioni e materassi, da riempire con pietrame, utilizzati nelle difese fluviali e nelle opere di sostegno.

Geostuoie tridimensionali: sono costituite da filamenti di materiali sintetici (polietilene ad alta densità, poliammide, polipropilene o altro) aggrovigliati in modo da formare uno strato molto deformabile dello spessore di 10÷20 mm, caratterizzato da un indice dei vuoti molto elevato (> 90%). Possono essere saturate con materiali naturali (ghiaia, bitume) e sintetici (gomme) per applicazioni particolari. Le geostuoie possono venire rinforzate mediante reti metalliche a doppia torsione e geogriglie.

Geocompositi drenanti: sono costituiti dall’associazione (in produzione) di uno strato di georete (o di geostuoia) racchiuso tra uno o due strati di geotessile (o tra una membrana e un geotessile). Lo spessore complessivo del geocomposito può variare tra 5 e 30 mm. Svolgono funzione filtrante e arenante nelle trincee drenanti e nei dreni a tergo di opere di sostegno.

Geomembrane: svolgono la funzione di barriere idrauliche per impermeabilizzare bacini, argini, canalette etc. Possono essere ploiperiche (HDPE, PVC, PP) o bentonitiche (argilla bentonitica intrappolata tra due geotessili).

Tab. 10.6 – Quadro riassuntivo dei materiali utilizzati per interventi di risistemazione geologico-agrario-forestale.

10.3.11 – Applicazioni sul territorio

In prosieguo alle definizioni e alle caratteristiche dei materiali vengono di seguito proposte le applicazioni funzionali, unitamente alle specifiche tecniche e di montaggio, indirizzate alla risistemazione dei versanti in degrado, degli ambiti spondali in erosione e, più in generale, del territorio intero alla luce delle tecniche geologico-agrarie.

10.3.11.1 – Semina a spaglio

L’intervento consiste nello spargimento manuale di miscele di sementi su superfici destinate alla rivegetazione in accordo con le condizioni stazionali sia pedoclimatiche che biologiche. Laddove ne esista la necessità la semina è abbinata allo spargimento di concimanti organici e/o inorganici. Campi d’applicazione si rivelano le superfici piane o con pendenze < 30° e i rinverdimenti temporanei per evitare erosione da ruscellamento ed eolica e limitare l’essiccamento.

Vengono utilizzati sementi di specie erbacee in composizioni strettamente legate alla località ed al contesto ambientale (suolo, roccia, microclima, analisi vegetazionale e floristica) e in quantità variabili da 30 a 60 g/m2 unitamente a concimanti organici e/o inorganici

I limiti di applicabilità coincidono con pendenze eccessive, con ambiti sottoposti a forte rischio di ruscellamento e con substrati troppo poveri che richiedono apporto di nutrienti, fibra organica, concimanti etc.

Presentano una copertura rapida, di facile realizzazione, e bassi costi. Non sempre risulta necessaria la copertura con terreno vegetale. Se la semina viene effettuata con prevalenza di leguminose, si ottiene un arricchimento del terreno in Azoto e pertanto una preparazione del terreno. Per contro si riscontra un limitato effetto in profondità mentre la crescita rapida delle specie vegetali può compromettere lo sviluppo di eventuali specie arboree e arbustive, qualora la base delle stesse non sia protetta da dischi pacciamanti. Non esercita un’immediata azione di difesa sebbene comporti un effetto antierosivo superficiale attraverso il reticolo radicale approfondito nel terreno (10÷30 cm).

Il periodo di intervento migliore è quello relativo alle semine, da marzo a ottobre, con esclusione dei periodi di siccità.

10.3.11.2 – Idrosemina

Consiste in un rivestimento di superfici effettuato mediante spargimento con mezzo meccanico di una miscela di sementi e acqua. Lo spargimento avviene grazie all’impiego di un’idroseminatrice dotata di botte, nella quale vengono miscelati sementi, collanti, concimi, ammendanti e acqua. La miscela così composta viene sparsa sulla superficie mediante pompe con pressione adeguata al fine di non danneggiare le sementi stesse.

Campi di applicazione preferenziale sono le superfici caratterizzate da assenza o comunque scarsità di humus, superfici acclivi ed aree di notevole sviluppo superficiale.

Materiali impiegati sono: sementi (30÷60 g/m2 ), acqua, concimi, ammendanti, collanti, paglia, fieno o cellulosa.

E’ un intervento non conveniente per piccole superfici mentre invece è da adottare in ambito idraulico soprattutto in tratti canalizzati con sponde regolari

Presenta il vantaggio di generare un rapido e facile rinverdimento di superfici, così come consente il rinverdimento di superfici ripide o scarsamente accessibili, anche con scarso terreno vegetale.

Per contro l’azione antierosiva della superficie viene limitata a una profondità sino a 30 cm . Richiede manutenzione (sfalcio).

Determina un effetto antierosivo attraverso il reticolo radicale approfondito nel terreno (10-30 cm ) e una copertura a verde dell’intera superficie (ottenibile in tempo breve) mentre la presenza dei collanti garantisce la protezione delle sementi durante la prima fase della germinazione. Viene instaurato, nel breve periodo, un ambiente idoneo per la microfauna.

Il periodo d’intervento ideale é quello vegetativo, da marzo a ottobre, con esclusione dei periodi di siccità estiva.

10.3.11.3 – Stuoia in juta

E’ un materiale impiegato negli interventi antierosivi di rivestimento di scarpate soggette a erosione eolica e meteorica. La stuoia viene stesa e fissata al substrato mediante picchetti di varia forma.

Viene normalmente abbinata a semina e messa a dimora di talee e/o arbusti.

Campi di applicazione sono le sponde di corsi d’acqua a bassa pendenza e velocità della corrente, sponde lacustri su substrati denudati o di neoformazione anche irregolari possibilmente con substrato terroso in superficie.

I materiali impiegati sono: stuoie biodegradabili in juta (maglia minima 1 cm2, peso non < 250 g/m) staffe o picchetti in ferro acciaioso piegati a U (Ø 8÷12 mm, L = 20÷40 cm o in legno L =  50÷70 cm o talee di L minima 50 cm), miscela di sementi (40 g/m2), talee e arbusti autoctoni.

La stuoia in juta non è idonea all’impiego su scarpate a forte pendenza, substrati aridi e a eccessivo drenaggio, scarpate in roccia, sponde con forti sollecitazioni della corrente.

Offre una protezione immediata della superficie dall’erosione meteorica ed eolica unita ad una facilità di impiego così come di adattamento a superfici irregolari e completa degradazione della stuoia nel breve periodo.

L’acqua si infiltra, ma non ristagna e non erode. Per contro presenta scarsa durata (1 max 2 anni) e scarsa resistenza a sollecitazioni (idrauliche, caduta massi, debris flow).

Determina una protezione immediata della superficie; le maglie della stuoia consentono alle piante di crescere assicurando in tal modo la protezione della superficie anche una volta che la stuoia ha subito completa degradazione.

Il materiale terroso sottostante la stuoia viene trattenuto, impedendone così il trasporto verso valle. Le stuoie possono, in teoria, essere posizionate in qualsiasi periodo dell’anno. Poiché sono abbinate alle semine e piantagioni i periodi di riferimento sono quelli primaverili-autunnali. Sono da evitarsi i periodi di gelo invernale e di aridità estiva.

Fig. 10.40 – Stuoia in juta.

10.3.11.4 – Biostuoia in fibra vegetale (cocco, paglia, mista cocco e paglia)

E’ un materiale impiegato negli interventi antierosivi di rivestimento di scarpate soggette a erosione eolica e meteorica. La stuoia viene stesa e fissata al substrato mediante picchetti di varia forma. Viene normalmente abbinata a semina e messa a dimora di talee e/o arbusti.

Campi di applicazione sono le sponde di corsi d’acqua a bassa pendenza e velocità della corrente, su substrati denudati o di neoformazione.

Materiali impiegati sono: biostuoia biodegradabile in paglia, cocco o fibra mista paglia e cocco con grammatura minima 300 g/m2 abbinata a una rete foto-ossidabile biodegradabile, con maglia minima 1 cm2 (meglio 4 cm); oppure carta cucita con filo sintetico biodegradabile o con fibra vegetale, eventualmente preseminata, staffe o picchetti in ferro acciaioso piegati a U (Ø 8÷12 mm, L = 20÷40 cm o in legno L =  50÷70 cm o talee di L minima 50 cm), talee e arbusti autoctoni, miscela di sementi (40 g/m2, anche se la stuoia è preseminata) da spargere preferibilmente mediante idrosemina.

Limiti di applicabilità sono le sponde o scarpate a forte pendenza, i substrati aridi e a eccessivo drenaggio, sponde e scarpate in roccia, sponde con forti sollecitazioni della corrente, superfici di intervento molto irregolari.

La tecnica di esecuzione è rapida e semplice. Consente il rinverdimento di superfici acclivi, con terreni a scarsa dotazione fisico-organica, sulle quali non è possibile intervenire con piantagione o altro.

Protegge la scarpata dall’erosione meteorica ed eolica, migliora l’equilibrio idrico e termico al suolo, apporta sostanza organica al suolo. La durata è maggiore rispetto alla stuoia in juta: la fibra di cocco, in particolare, dura sino a 5÷6 anni. Per contro la stuoia, specie se di sola fibra di cocco, è molto drenante e non si presta in situazioni climatiche di forte aridità.

Offre una protezione immediata della superficie. Le fibre della stuoia consentono alle piante erbacee di crescere, assicurando in tal modo la protezione della superficie ed apportando fibra e sostanza organica man mano che la stuoia si degrada.

Il materiale terroso sottostante la stuoia viene trattenuto, impedendone così il trasporto verso valle. Periodo di intervento è quello relativo alle semine, primavera-autunno con esclusione dei periodi di siccità estiva e gelo invernale. In caso di applicazione fuori stagione la semina va comunque effettuata e ripetuta nel periodo più idoneo successivo.

L’eventuale messa a dimora di arbusti deve avvenire nel periodo di riposo vegetativo delle piante, specie qualora siano a radice nuda (tale modalità di trapianto è poco diffusa nell’Italia centro-meridionale per limitazioni climatiche).

Fig. 10.41 – Biostuoia mista.

Fig. 10.42 – Biotessile o stuoia in cocco..

10.3.11.5 – Biorete in cocco

Il materiale viene impiegato negli interventi di rivestimento di scarpate soggette a erosione eolica e meteorica. La biorete si differenzia dalla stuoia per essere annodata agli incroci e per la maglia larga (da 2×2 a 5×5 cm), viene stesa e fissata al substrato mediante picchetti di varia forma, di solito previa spargimento di fibra organica (paglia, fieno). Viene abbinata a semina, messa a dimora di talee e/o arbusti. Il materiale è attualmente poco diffuso in Italia e viene utilizzato come rete di contenimento dei rulli in fibra di cocco.

Campi di applicazione sono le superfici soggette a erosione superficiale e prive di copertura vegetale. Materiali impiegati: biorete in cocco con maglia da 2×2 a 5×5 cm, fibra organica (paglia, fieno), staffe o picchetti in ferro acciaioso piegati a U (Ø 8÷12 mm, L = 20÷40 cm o in legno L =  50÷70 cm, talee e miscela di sementi (40 g/m2)

Limiti di applicabilità sono le forti pendenze e la necessità di durata della rete. Consentono una protezione immediata della superficie; facilità di impiego; aderenza totale al substrato anche in presenza di buche, avvallamenti, sporgenze; possibile abbinamento con materiale derivante da sfalcio locale; massima permeabilità alla radicazione delle piante erbacee; completa degradazione finale della biorete. Per contro scarsa funzione antierosiva a causa della maglia molto larga, se non impiegata in abbinamento con altra fibra organica

Le maglie della biorete consentono alle piante di crescere, assicurando in tal modo la protezione della superficie anche una volta che la biorete ha subito completa degradazione. Il materiale sottostante la biorete viene trattenuto, impedendone così il rotolamento verso valle, specie se viene abbinata a stesura di fibra organica.

Le bioreti possono in teoria essere posizionate in qualsiasi periodo dell’anno. Qualora vi siano abbinate semine e piantagioni i periodi di riferimento sono quelli primaverili-autunnali. Sono da evitarsi i periodi di gelo invernale e aridità estiva.

Fig. 10.43 – Biorete in cocco (particolare).

10.3.11.6 – Geostuoia tridimensionale sintetica

Si tratta di un rivestimento spondale in stuoia tridimensionale costituita da filamenti sintetici aggrovigliati in modo da trattenere le particelle di materiale inerte terroso. Tale stuoia viene impiegata per il trattamento di sponde e versanti soggetti a erosione superficiale. La stuoia viene assicurata al terreno mediante l’infissione di picchetti e interrata in solchi appositamente approntati sia a monte che a valle del versante. La stuoia deve essere abbinata ad un intasamento con materiale inerte terroso e ad una semina o idrosemina. Possono essere messe a dimora anche talee ed arbusti autoctoni.

Campi di applicazione sono i rivestimento di sponde molto regolari in tratti in genere canalizzati.

Materiali impiegati: geostuoia sintetica tridimensionale in nylon, polipropilene, polietilene e polietilene ad alta densità di spessore min. 10 mm, annerita al nerofumo per attenuare l’aggressione da parte dei raggi UV; picchetti in ferro o staffe metalliche Ø min. 8 mm, inerte terroso, sementi (40 g/m2), arbusti o talee.

Limiti di applicabilità riguardano sponde e scarpate a substrato irregolare e con pendenza superiore ai 45°. Si attivano in rapida esecuzione con un immediato e duraturo effetto antierosivo superficiale.

Per contro si osserva una maggiore rigidità rispetto ad altre stuoie e quindi necessità di superfici più regolarizzate unitamente a una permanenza del materiale sintetico sul terreno ed una visibilità antiestetica della stuoia in caso di mancato sviluppo del cotico erboso; aggredibilità da parte dei raggi UV e dall’effetto gelo-disgelo, in particolare per le plastiche più scadenti e quindi scarsa durata nel tempo. Offre protezione immediata ma anche permanente della superficie. Il rapporto pieno-vuoto della stuoia consente alle piante erbacee di svilupparsi completando la funzione meccanica antierosiva della stuoia. II materiale terroso sottostante la stuoia viene trattenuto, impedendone così il trascinamento verso valle. Risulta particolarmente efficace l’azione di resistenza alle sottopressioni che si creano durante il riflusso delle piene, impedendo fenomeni erosivi e franamenti delle sponde.

Le stuoie possono essere posizionate in qualsiasi periodo dell’anno: qualora vi siano abbinate semine e piantagioni i periodi di riferimento sono quelli primaverili-autunnali. Sono da evitarsi i periodi di gelo invernale e aridità estiva.

Fig. 10.44 – Geostuoia tridimensionale sintetica.

10.3.11.7 – Geostuoia tridimensionale sintetica bitumata in opera a freddo

Viene utilizzata nel rivestimento spondale in stuoia tridimensionale costituita da filamenti sintetici aggrovigliati in modo da trattenere le particelle di materiale inerte terroso. In questa variante la stuoia (di spessore minimo 18 mm) viene intasata con ghiaino e bitumata a freddo in posto ed è impiegata per il rivestimento di sponde e la formazione di canaletto frequentemente a contatto con l’acqua corrente.

La stuoia viene assicurata al terreno mediante l’infissione di picchetti e interrata in solchi appositamente approntati sia a monte che a valle del versante. La stuoia deve essere anche abbinata ad una semina da effettuarsi sia prima della posa della stuoia che sopra il ghiaino, prima della bitumatura. Normalmente non vengono messe a dimora talee ed arbusti, almeno sulle superfici dove si prevede il libero scorrimento dell’acqua.

Campi di applicazione sono i rivestimento di sponde molto regolari in tratti in genere canalizzati a bassa pendenza e granulometria fine e soggetti a frequenti sommersioni, così come canaletti e fossi di sgrondo in genere.

Materiali impiegati: geostuoia tridimensionale in materiale sintetico: nylon, polipropilene, polietilene, polietilene ad alta densità, annerita al nero fumo per attenuare l’aggressione da parte dei raggi UV, di spessore minimo 18 mm, resistenza alla trazione non inferiore a 2.0 kN/m, grado di vuoto non inferiore al 90%; staffe metalliche Ø min. 8 mm; ghiaino per intasamento, emulsione idrobituminosa a freddo, miscela di sementi (40 g/m2).

Limiti di applicabilità sono un’eccessiva pendenza e velocità di scorrimento dell’acqua unitamente a periodi di sommersione troppo prolungati e tali da impedire la crescita e il perdurare del cotico erboso. L’intervento offre copertura immediata della superficie e mantenimento della sagoma nelle canaletto. Consente la realizzazione di cabalette di scorrimento ma anche di fossi di infiltrazione. La tecnica può essere in molti casi sostitutiva di analoghi rivestimenti in cls. Per contro esistono alti costi d’installazione, necessità di manutenzione periodica (sfalcio con decespugliatore a filo, pulizia in genere del sedimentato.

L’effetto funzionale antierosivo è immediato e duraturo senza impatto visivo in quanto struttura verde.

Stesura della geostuoia e bitumatura possono essere in teoria eseguite in qualsiasi periodo dell’anno. L’abbinamento obbligato con le semine vincola l’esecuzione al periodo autunno-primavera, con esclusione dei periodi di aridità estiva e di gelo invernale; l’eventuale messa a dimora di specie arbustive dovrà avvenire durante il periodo di riposo vegetativo con esclusione dei periodi di gelo invernale.

Fig. 10.45 – Geostuoia tridimensionale sintetica, bitumata in opera a freddo.

10.3.11.8 – Rivestimento vegetativo in rete metallica a doppia torsione e geostuoia tridimensionale

Si tratta di un rivestimento per sponde soggette a erosione effettuato mediante la stesura di una stuoia sintetica tridimensionale, spessore min. 10 mm, sormontata da una rete metallica a doppia torsione. Rete e geostuoia vengono fissate al terreno mediante picchetti che vengono legati a monte e a valle con una fune di acciaio. Il rivestimento viene abbinato a idrosemina a spessore e messa a dimora di arbusti autoctoni e di talee di specie con capacità di propagazione vegetativa.

L’intervento viene applicato generalmente a sponde in erosione soggette a frequenti sommersioni. Materiali impiegati nella sistemazione sono: geostuoia tridimensionale di min. 10 mm di spessore e massa areica minima pari a 750 g/m2, rete metallica a doppia torsione Ø 2.2 mm, maglia 6×8 cm zincata e, in ambienti chimici aggressivi, plastificata; picchetti metallici a forma di cambretta o a T, Ø 6 mm, L = 20 cm per il fissaggio preventivo della stuoia, picchetti di acciaio a T, Ø 12÷14 mm, L = 50 – 100 cm a per il fissaggio della rete, fune di acciaio, idrosemina a spessore, talee e arbusti.

Eventuali limiti di applicabilità s’incontrano su sponde molto irregolari e naturaliformi.

Il tipo di rivestimento è molto robusto e ad immediata e duratura funzione antierosiva. Presenta un’elevata permeabilità che impedisce l’insorgere di sottopressioni unitamente ad una decisiva capacità di stabilizzazione corticale della sponda in presenza di fenomeni di filtrazione diretta verso l’alveo. Per contro la presenza di reti metalliche sulla superficie spondale artificializza la struttura, con pericolo per la fauna, se non resa accuratamente aderente al substrato.

Si produce un immediato e robusto rivestimento antierosivo ad alta permeabilità all’acqua ed allo sviluppo di cotico erboso.

La stesura di reti e geostuoie può avvenire in qualsiasi momento dell’anno mentre le semine devono essere eseguite da ottobre a marzo e l’eventuale messa a dimora di talee e arbusti nel periodo di riposo vegetativo.

Fig. 10.46 – Rivestimento vegetativo in rete metallica.

10.3.11.9 – Messa a dimora di talee

L’intervento consiste nell’infissione nel terreno, o nelle fessure, tra massi di talee legnose e/o ramaglie di specie vegetali con capacità di propagazione vegetativa. E’ classico l’impiego dei salici ma anche di altre specie quali il Ligustro e nelle zone meridionali l’Oleandro e le Tamerici, specie quest’ultima resistente a condizioni alterne di forte aridità e presenza di sali nel terreno.

Campi di applicazione sono le scarpate a pendenza limitata, le sponde fluviali e lacustri, gli interstizi e le fessure di scogliere, muri e gabbionate; vengono utilizzati come picchetti vivi nella posa di reti, stuoie, fascinate e viminate.

Presenta una vasta applicabilità con esclusione di substrati litoidi e particolarmente xerici o, in ambito fluviale, di regimi torrentizi con correnti e trasporto solido particolarmente elevati.

Materiali impiegati: getti non ramificati, di 2 o più anni, Ø 1÷5 cm, = 0,5÷0,8 m, di piante legnose in genere arbustive con capacità di propagazione vegetativa (salici) da infiggere nel terreno; ramaglie vive di L 1÷5 m da inserire in fase di costruzione in strutture quali: palificate vive, scogliere, gabbionate, terre rinforzate; talee e ramaglie vive per la realizzazione di fascinate, viminate etc.

Per le Tamerici vengono usate di preferenza le ramaglie in fronda mentre la talea vera e propria ha minori capacità di rigetto;

Limiti di applicabilità sono legati all’altitudine e a condizioni pedoclimatiche limite relativamente alle specie impiegate. Le varie specie di salici, ad es., coprono una vasta gamma di ambienti dal livello del mare sino ai 2000 m ed oltre ma temono le condizioni di forte aridità dei climi stenomediterranei, la salinità del substrato (vicinanza al mare, terreni calanchivi), l’eccesso di ombreggiamento; TamericiOleandroAtriplex resistono a tali condizioni ma non sono impiegabili a quote superiori ai 300÷400 m. I vantaggi sono nella rivegetazione e stabilizzazione di superfici spondali di neoformazione a basso prezzo, di semplice realizzazione ed approvvigionamento, con azione puntuale inizialmente ma estesa e coprente dopo lo sviluppo (6 mesi, 1÷2 anni). Per contro la stabilità della scarpata e il consolidamento superficiale del terreno sono limitati sino allo sviluppo di un adeguato apparato radicale. Vanno eseguite saltuarie potature di irrobustimento e sfoltimento per evitare popolamenti monospecifici. La intrinseca difficoltà di ritornare su opere collaudate può essere efficacemente superata programmando successivi approvvigionamenti per altre opere, prelevando appunto talee mediante potatura in aree di precedenti interventi.

L’effetto più evidente è la copertura delle scarpate con cespugli. Più lunghe sono le talee conficcate nel terreno, maggiore l’effetto stabilizzante/consolidante in profondità.

L’effetto di drenaggio (i salici sono delle vere e proprie pompe dell’acqua) è dovuto ad assorbimento e traspirazione del materiale vivo impiegato. Il periodo d’intervento ottimale è quello di riposo vegetativo.

Fig. 10.47 – Messa a dimora di talee.

10.3.11.10 – Trapianto di rizomi e di cespi

E’ una tecnica utilizzata per la propagazione delle specie di difficile reperimento in commercio e di difficile propagazione per seme, come Phragmites australisTypha in zone palustri e Graminacee selvatiche di vari generi in zone montane. Dal selvatico vengono prelevati rizomi e cespi in pezzi di alcuni centimetri: questi vengono posti a dimora sul terreno e poi ricoperti con uno strato leggero di terreno onde evitarne il disseccamento.

Campi d’applicazione specifici sono le stazioni estreme di alta montagna dove il periodo vegetativo è più breve; quindi sponde fluviali, paludi costiere salmastre; aree caratterizzate da scarsa vegetazione e le cui sementi non sono reperibili in commercio e, infine, ambienti igrofili e substrati non drenanti.

Materiali impiegati: rizomi e pezzi di rizomi di lunghezza 10÷15 cm di specie vegetali adatte, prelevate dal selvatico (ad es. Phragmites australisPhalaris arundinacea); pani di terra di canneto di dimensioni 30×30 cm circa (Phragmites australis); cespi di erbe graminoidi e non, che sviluppano più cauli e quindi possono essere suddivise in più pezzi, in grado di riprodursi vegetativamente (ad es. Ampelodesmos mauritanicusOryzopsis miliaceaCarex penduta).

Limiti di applicabilità sono riferibili ad ambienti eccessivamente drenanti o viceversa con ristagni d’acqua per periodi eccessivamente lunghi. Presenta il vantaggio della possibile introduzione di specie rapidamente edificatrici e di difficile reperimento commerciale, insieme alla possibilità di sfruttare materiale reperibile nei pressi del luogo di intervento così come viene evitata la fase critica della germinazione tipica delle semine.

Per contro la radicazione non è così profonda come avviene per le specie nate da seme; in aggiunta v’è un elevato consumo di materiale accoppiato a operazioni lunghe e impegnative.

Determina una copertura del terreno rapida e più efficace rispetto a quella ottenibile con la semplice semina. Per quanto concerne il periodo di intervento, il trapianto deve avvenire all’inizio o al termine del periodo di riposo vegetativo.

Fig. 10.48 – Trapianto di rizomi e cespi.

10.3.11.11 – Copertura diffusa con ramaglia viva

Consiste nelle stesura sulla superficie di una sponda di ramaglia viva di specie vegetali con capacità di propagazione vegetativa (Salici, Tamerici etc.). La ramaglia ha disposizione perpendicolare alla direzione del flusso d’acqua ed è fissata al substrato mediante filo di ferro teso tra picchetti e paletti vivi e/o morti. La base della ramaglia viene conficcata nel terreno umido o a contatto con l’acqua.

Qualora siano presenti più file queste devono sormontarsi parzialmente. La ramaglia viene successivamente coperta con un sottile strato di terreno.

Campi d’applicazione preferenziali sono le sponde dei corsi d’acqua dove necessiti una protezione continua ed elastica della sponda.

Materiali impiegati: ramaglia viva, verghe o astoni di specie con capacità di propagazione vegetativa di lunghezza mai < 1,5 m e dal portamento dritto; picchetti in legno di castagno Ø 8÷12 cm, L = 80 cm; filo di ferro cotto Ø 2÷3 mm; terreno per la copertura.

Limiti di applicabilità riguardano corsi d’acqua con velocità della corrente e trasporto solido notevoli. L’intervento offre un’immediata protezione dall’erosione meccanica con successivo consolidamento in profondità mediante un fitto reticolo di radici con vegetazione cespugliosa rigogliosa elastica e duratura; per contro il materiale vivo da impiegare è molto e richiede tempi lunghi per la posa in opera. Nel tempo è necessaria la manutenzione con tagli di potatura e sfoltimento per evitare una crescita irregolare delle piante.

Gli strati di ramaglia coprono la superficie della sponda proteggendola, sin dalla messa in opera, dall’erosione esercitata dal movimento dell’acqua; la resistenza alle sollecitazioni aumenta progressivamente con lo sviluppo delle radici. Il periodo d’intervento ottimale è durante il riposo vegetativo.

Fig. 10.49 – Copertura diffusa con ramaglia viva.

10.3.11.12 – Viminata viva spondale

Consiste nell’intreccio di verghe di specie legnose con capacità di propagazione vegetativa, attorno a paletti in legno. Campo d’applicazione le sponde di corsi d’acqua a velocità della corrente medio- bassa e trasporto solido ridotto.

Materiali impiegati: verghe elastiche di specie legnose, adatte all’intreccio e con capacità di propagazione vegetativa (Salici, Tamerici), L min. 1,50 m e Ø alla base non inferiore ai 3÷4 cm, paletti in legno di resinosa o castagno Ø 8÷15 cm L = 1,00÷1,50 m, filo di ferro cotto.

Limiti di applicabilità riguardano la non utilizzabilità in corsi d’acqua ad elevata energia.

Consente una rapida stabilizzazione di piedi di sponda in erosione sino a 50 cm di altezza, un immediato contenimento del materiale mentre la tecnica adattabile alla morfologia della scarpata.

Per contro il lavoro richiede notevole mano d’opera; non sempre sono reperibili verghe lunghe ed elastiche da intrecciare in quantità sufficiente e la radicazione è modesta rispetto alle quantità di materiale utilizzato.

Comporta un consolidamento immediato degli strati superficiali di terreno che migliora quando le verghe emettono radici. Il piede della sponda viene protetto da erosioni e scalzamenti.

Il periodo d’intervento ottimale è durante il periodo di riposo vegetativo.

Fig. 10.50 – Viminata viva spondale.

10.3.11.13 – Fascinata spondale viva di specie legnose

L’intervento consiste nella messa a dimora, lungo sponde di corsi d’acqua, di fascine vive di specie legnose con capacità di riproduzione vegetativa. La base del solco che ospita la fascina può essere rivestita da ramaglia che sporge nell’acqua al di sotto della fascina stessa. La fascina viene assicurata mediante l’infissione di picchetti in legno con orientazione alternata, per rendere così la struttura più elastica e solidale in caso di piena.

Campi di applicazione riguardano i corsi d’acqua a energia media con portate e livello medio relativamente costanti.

Materiali impiegati: verghe di specie legnose con capacità di propagazione vegetativa (Salici, Tamerici) Ø min. 2 cm e L min. 2,00 m; pali di salice vivi Ø 4÷10 cm, L = 60÷100 cm e/o paletti di legno Ø 5 cm, picchetti in ferro 08÷14 mm L min. 60 cm; filo di ferro cotto Ø 2÷3 mm; terreno di riporto.

I limiti d’applicabilità sono legati al fatto che la realizzazione di fascine spondali determina un restringimento dell’alveo, è necessario quindi prevedere lo spazio necessario per il regolare deflusso delle acque.

La tecnica di realizzazione è semplice, veloce e di notevole efficacia stabilizzante; per contro, in caso di totale attecchimento, è necessario intervenire con manutenzioni di potatura periodiche. Il risultato è la stabilizzazione immediata della sponda, amplificato successivamente non appena le piante hanno emesso le radici.

Il periodo d’intervento ottimale è durante il riposo vegetativo.

Fig. 10.51 – Fascinata spondale viva di specie legnose.

10.3.11.14 – Fascinata spondale viva con culmi di canna

La struttura viene realizzata utilizzando fascine di giovani culmi di canna (Phragmites australis) disposte a file parallele e infossate nel limo di sponde a bassa pendenza.

Campi d’applicazione sono le sponde di neoformazione a bassa pendenza, su substrati limoso-sabbiosi; le sponde lacustri, le zone lagunari e le sponde di corpi idrici ad acqua stagnante, soggetta a moto ondoso di lieve entità.

Materiali impiegati: giovani culmi di canna (L = 80÷120); filo di ferro Ø 2÷3 mm; picchetti di legno Ø 8÷12, L = 80 cm.

Limiti di applicabilità sono dovuti al fatto che la propagazione delle canne mediante i culmi é limitata al periodo primaverile (marzo-maggio) ed è possibile solo in sponde con acque stagnanti o debolmente correnti. L’intervento è economico, di semplice esecuzione e consente il facile reperimento in loco del materiale vivo necessario; l’effetto è immediato: si forma un fitto reticolo di radici e rizomi con buona protezione del cingolo spondale a contatto con l’acqua.

Per contro, l’effetto protettivo è esclusivamente superficiale. Si ottiene un rapido consolidamento del piede di sponda e la costituzione della fascia di canneto spondale.

Il periodo d’intervento è esclusivamente primaverile (fioritura dei meli, da marzo a fine maggio a seconda della località).

10.3.11.15 – Graticciata di ramaglia

Tecnica impiegata per la ricostituzione di linee di sponda soggette a erosione. Con una fila di paletti in legno viene ricostruita la linea di sponda originaria mentre alle loro spalle vengono posti materiali di riempimento quali ramaglia, alberi morti, pietrame e quindi vengono messi a dimora rami vivi di salice, passanti attraverso la struttura così formata e ben infissi sul fondo, in modo tale da garantirne l’attecchimento.

Fig. 10.52 – Graticciata di ramaglia.

Campi d’applicazione sono il risanamento di anse in erosione e gli scalzamenti, anche per fiumi con velocità dell’acqua medio-alta e trasporto solido medio.

E’ possibile operare fino a profondità di 3 m (normalmente 0,50÷1 m).

Materiali impiegati: piloti o pali in legno Ø 5÷10 cm (o più), L = variabile ma tale che i 2/3 siano infissi nel terreno; filo di ferro cotto Ø 2÷3 mm; ramaglia viva e morta, alberi grezzi con tutte le ramificazioni; pietrame.

Limiti di applicabilità per anse d’erosione troppo estese o troppo profonde

L’intervento presenta effetto immediato di protezione spondale dall’erosione: la ramaglia forma numerose nicchie nelle quali possono insediarsi numerose specie acquatiche; per contro l’intervento assume un aspetto caotico e disordinato nella fase iniziale, richiedendo inoltre un impiego di grandi quantità di materiali vivi e morti.

L’acqua rallenta la sua velocità nell’attraversare la struttura al punto da consentire la deposizione del materiale trasportato entro gli spazi vuoti; nel frattempo i salici assicurano il consolidamento e il rinverdimento iniziale della sponda ricostituita.

Il periodo d’intervento è esteso a tutto l’anno per quanto riguarda il materiale di riempimento; i rami vivi devono essere inseriti durante il periodo di riposo vegetativo.

10.3.11.16 – Ribalta viva

L’intervento consiste nella messa in opera di strati alterni di fascine vive (fascinate), disposte longitudinalmente alla sponda, e ramaglia viva di salici (gradonate), disposta trasversalmente alla sponda, sopra il livello medio dell’acqua.

Tale modulo va ripetuto fino allo riempimento dell’erosione ed al raggiungimento dell’altezza desiderata.

Si completa a tergo delle fascine con riempimento di inerte.

Al di sotto del livello medio dell’acqua si pone materiale morto. Le fascine vengono fissate con paletti di legno e ferro, disposti con orientazione alternata.

Campi di applicazione riguardano solchi ed erosioni lungo sponde di corsi d’acqua; ripristino di sponde la cui pendenza non può essere ridotta e in corsi d’acqua a energia media.

Materiali impiegati; fascine vive di specie con capacità di propagazione vegetativa Ø 25÷30 cm; fascine morte Ø 60 cm; filo di ferro cotto Ø 2÷3 mm; talee e ramaglie di specie con capacità di propagazione vegetativa Ø 3÷5 cm; picchetti in ferro Ø 14 mm e/o picchetti in legno di castagno o di pino scortecciato Ø 5÷10 cm, L = 80÷120 cm; pietrame.

Fig. 10.53 – Ribalta viva.

Un limite d’applicabilità sta nel fatto che la realizzazione di fascine e gradonate spondali determina un restringimento dell’alveo ed è necessario, quindi, prevedere lo spazio necessario per il regolare deflusso delle acque.

L’intervento consente di ricostruire tratti di sponda franati senza ricorrere a strutture di sostegno o disporre d’inerti da riempimento; per contro richiede molto materiale vivo e lunghi tempi di realizzazione; lo sviluppo dei salici porta ad un restringimento dell’alveo; si creano troppe turbolenze a causa delle gradonate troppo sporgenti; in più si rischia il collasso nel primo periodo perché, in realtà, vi è un solo strato di rami vivi, il resto è inerte da riempimento che viene legato nel tempo dalla radicazione.

L’effetto comporta un’immediata protezione spondale. La ramaglia agisce in modo tale da rallentare la corrente dell’acqua.

Periodo di intervento consigliato è il periodo di riposo vegetativo.

10.3.11.17 – Grata viva

Si tratta di una struttura in fondame, ottenuta mediante la posa di tronchi verticali e orizzontali disposti perpendicolarmente tra loro. I tronchi orizzontali sono sovrapposti a quelli verticali e sono chiodati ad essi. All’interno delle camere così ottenute vengono poste in corso d’opera, talee di salici e il tutto viene ricoperto con inerte terroso locale.

Campi d’applicazione sono il sostegno di scarpate artificiali, versanti e parti alte di sponde in erosione con pendenza 40°-50° che non può essere ridotta, in genere al di sopra del livello di piena.

Materiali impiegati: tronchi di castagno o resinosa (escluso l’abete) Ø 15÷25 cm, L = 2,00÷5,00 m; picchetti in ferro Ø 14 mm, L min. 40÷100 cm; talee legnose di salici L min. 1.00 m; inerte; sementi idonee; arbusti autoctoni; rete elettrosaldata di contenimento dell’inerte tra le camere.

I limiti di applicabilità risiedono nelle dimensioni ed inclinazione della sponda in erosione.

Può essere realizzata solo nelle fasce spondali non a contatto con l’acqua.

Il primo effetto consiste in un’immediata stabilizzazione della sponda. Il livello di stabilizzazione aumenta una volta che le specie vegetali inserite hanno cominciato a radicare.

Le specie vegetali svolgono anche un’azione drenante in quanto assorbono l’acqua necessaria al loro sviluppo.

II legno, col tempo, marcisce per cui, oltre a buone chiodature, è necessario che le talee e le fascine inserite nella struttura siano vive e radichino in profondità, così da sostituire la funzione di sostegno e consolidamento della scarpata una volta che il legno ha perso le sue funzioni.

L’intervento prevede, altresì, lunghi tempi di realizzazione.

L’applicazione comporta un’immediata stabilizzazione ottenuta mediante l’armatura di legno della sponda e quindi una possibilità, per gli arbusti, di svilupparsi, oltre ad un effetto visuale notevole a breve scadenza.

Fig. 10.54 – Grata viva.

10.3.11.18 – Palificata spondale con palo verticale frontale

Struttura in legname tondo costituita da un’incastellatura di tronchi a formare camere frontali nelle quali vengono inserite fascine. Frontalmente è presente un palo verticale sul quale sono chiodati i tronchi correnti e quelli trasversi. L’opera, addossata alla sponda in erosione, è completata da riempimento con materiale terroso inerte e pietrame nella parte sotto il livello medio dell’acqua.

Campi di applicazione specifico sono le sponde fluviali soggette ad erosione su substrati non lapidei che consentano l’efficace infissione dei pali.

Fig. 10.55 – Palificata spondale con palo verticale frontale.

Materiali richiesti: tronchi e pali di castagno o resinosa scortecciati Ø 20÷25 cm, chiodature metalliche Ø 12÷14 mm, fascine vive di salice Ø 20÷30 cm, fascine morte Ø 25÷30 cm, inerte di riempimento e pietrame. Eventuali limiti d’applicabilità riguardano i substrati ghiaiosi a pezzatura grossolana o litoidi. Rapido e duraturo consolidamento della sponda, il metodo consente la ricostruzione di habitat per microfauna acquatica presentandosi come struttura alternativa ad opere murarie di vario genere.

Per contro, l’intervento esige lunghi tempi di realizzazione; in più il legno col tempo marcisce per cui, oltre a buone chiodature, è necessario che le talee e le fascine inserite nella struttura siano vive e radichino in profondità, così da sostituire la funzione di sostegno e consolidamento della scarpata una volta che il legno ha perso le sue funzioni.

Una volta cresciute, le piante esercitano un effetto drenante e di consolidamento della sponda attraverso il fitto intreccio di radici. L’aspetto visuale è gradevole anche nelle fasi iniziali di sviluppo degli arbusti e nei periodi invernali. Periodo d’intervento ideale è quello di riposo vegetativo.

10.3.11.19 – Palificata viva spondale

L’intervento consiste di una struttura costituita da un’incastellatura di tronchi a formare camere nelle quali vengono inserite fascine e talee di salici. L’opera, posta alla base della sponda, è completata da riempimento con materiale terroso inerte e pietrame nella parte sotto il livello medio. Il pietrame e le fascine, poste a chiudere le celle verso l’esterno, garantiscono la struttura dagli svuotamenti, le talee inserite in profondità sono necessarie per garantire l’attecchimento delle piante che negli ambienti mediterranei soffrono per le condizioni di aridità.

Campi d’applicazione specifici sono le sponde fluviali soggette ad erosione lungo corsi d’acqua ad energia medio-alta con trasporto solido anche di medie dimensioni. La variante a una parete è preferibile in situazioni di spazio o di possibilità di scavo limitati.

Materiali impiegati: tronchi di castagno o resinosa scortecciati Ø 20÷30 cm, chiodature metalliche Ø 12÷14 mm, fascine vive di salice Ø 20÷30 cm, talee e ramaglie (da abbinare alle fascine in ambiti mediterranei), fascine morte Ø 25÷30 cm, pietrame e inerte terroso. Limiti di applicabilità si verificano in caso velocità dell’acqua e trasporto solido superiori alla resistenza del castello in legname.

La struttura comporta un rapido e robusto consolidamento della sponda. Per contro subisce i medesimi svantaggi della precedente palificata con tempi lunghi di realizzazione e problemi per il marcamento del legno. II consolidamento della scarpata è immediato. La struttura a camere sovrapposte funge anche da microhabitat (riparo e tane per piccoli animali e pesci). L’effetto visuale è immediatamente gradevole e di grande effetto paesaggistico legato al rapido sviluppo delle ramaglie. Il periodo d’intervento consigliato è quello di riposo vegetativo.

Fig. 10.56 – Palificata viva spondale.

Fig. 10.57 –Palificata viva spondale “Roma” secondo Cornelini.

10.3.11.20 – Pennelli e repellenti vivi

L’intervento consiste di costruzioni in legname, pietrame e materiale vivo (fascine, ramaglia), poste in senso trasversale o longitudinale rispetto all’asse del corso d’acqua. Le costruzioni trasversali alla riva possono avere un’orientazione inclinante, declinante o ad angolo retto rispetto alla direzione del flusso, a seconda dell’effetto che si desidera ottenere.

Campi di applicazione specifici sono i corsi d’acqua nei quali è necessario deviare il flusso di corrente dell’acqua o modificare la sezione dell’alveo così come le ricostruzioni di linee di sponda di fiumi e ruscelli a seconda delle caratteristiche idrauliche del corso d’acqua.

Materiali impiegati: tronchi o pali di legno Ø 15÷30 cm, L = 100÷130 cm, alberi grezzi, ramaglia o fascine vive e morte, filo di ferro per legature, barre di ferro, materiale di riempimento (ghiaia e sassi), massi da scogliera. Limiti di applicabilità si rivelano in corsi d’acqua ad energia troppo elevata.

Fig. 10.58 – Pennelli e repellenti.

I pennelli vivi diventano parte integrante della sponda, in continuità anche con la vegetazione del fronte medesimo; la presenza di ramaglia rallenta la velocità dell’acqua e la rimescola. Si ottengono così delle modifiche nella morfologia del corso d’acqua in senso naturaliforme.

Per contro, a causa delle turbolenze e delle correnti trasversali che si vengono a generare, si possono avere erosioni in testa e al piede dei repellenti, nonché sulla sponda opposta se non correttamente dimensionati e posizionati; in più è necessario l’impiego di grandi quantità di materiale vivo.

Si ottiene così un abbassamento della velocità dell’acqua e un rimescolamento con riduzione della velocità di flusso che consente la deposizione di materiale solido. I pennelli costituiscono, inoltre, punti di rifugio per la fauna.

La realizzazione di pennelli vivi deve avvenire durante il periodo di riposo vegetativo mentre i repellenti morti possono essere realizzati in qualsiasi stagione.

10.3.11.21 – Rullo spondale con zolle (pani) di canne

Si tratta di un cilindro in rete metallica zincata e plastificata o in rete sintetica, ancorato con pali frontali e rivestito internamente con geostuoia sintetica o organica molto compatta, tipo feltro, e riempito nella parte inferiore con materiale ghiaioso e sabbioso, nella parte superiore con pani di canne e altre specie igrofile.

Campi d’applicazione specifica sono i canali in erosione, i corsi d’acqua a bassa pendenza nonché le sponde di laghi nei quali vi siano limitate oscillazioni del livello dell’acqua e il trasporto solido sia costituito da limi in sospensione. I substrati dovranno essere in prevalenza sabbioso-limosi debolmente ghiaiosi.

Materiali impiegati: pali di legno L = 120÷150 cm, Ø 8÷10 cm, telo in rete metallica zincata e plastificata, maglia 8×10 cm, larghezza 200 cm o rete sintetica in materiale plastico di idonea portata, tessuto sintetico o stuoia a feltro in fibra vegetale filtrante, materiale di riempimento sabbioso-limoso, pani di canne, giunchi o carici (Phragmites australis, Juncus sp.pl., Carex sp.pl., etc.), fascine o ramaglie di Salici o Tamerici.

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Fig. 10.59 – Rullo spondale con zolle di canne.

Limiti di applicabilità sono riferibili a impieghi in aree di foce e canali lagunari, sponde di laghi, zone paludose in genere e comunque con acque debolmente correnti.

La protezione della sponda è immediata. Le canne del rullo e i provvedimenti che in genere vengono abbinati sulla restante superficie della sponda (fascinate, rizomi, ecc.) garantiscono il consolidamento e la rapida rivegetazione delle sponde. Le canne hanno anche una funzione depurativa delle acque.

Per contro la lavorazione in presenza d’acqua richiede precauzioni particolari oltre a continua assistenza manuale. Si osserva un rapido effetto di consolidamento e rinaturalizzazione delle sponde e golene legato al rapido sviluppo del canneto. Nessuna parte strutturale rimane visibile pur trattandosi di materiali permanenti.

Periodo di intervento ottimale è quello durante il riposo vegetativo, di solito in primavera prima della germogliazione.

10.3.11.23 – Rullo con ramaglia viva

L’intervento consiste in nella realizzazione di un  cilindro in rete metallica zincata e plastificata o in rete sintetica, ancorato con pali frontali e rivestito internamente con ramaglia sia morta che viva. e riempito con materiale ghiaioso.

Campi d’applicazione tipici sono le sponde di corsi d’acqua con limitato trasporto solido e liquido, sia sotto che sopra il livello medio dell’acqua. Possono essere utilizzati sia come repellenti che come protezione al piede di sponde in erosione.

Materiali impiegati: barre in acciaio L = 1÷3 m Ø 16÷22 mm, paletti vivi di salice Ø 8÷15 cm, telo in rete metallica zincata e plastificata, maglia 8×10 cm, larghezza 200 cm o rete sintetica in materiale plastico di idonea portata, ramaglia sia viva che morta e materiale di riempimento.

Limiti di applicabilità riguardano tratti di corsi d’acqua con velocità della corrente sopra i 3 m/s e Ø del trasporto solido > 5 cm.

Si ottiene una realizzazione veloce con immediata protezione della sponda; la struttura elastica si adatta alla morfologia della sponda; può essere realizzata in diverse lunghezze a seconda delle necessità. Per contro la realizzazione può avvenire solo in luoghi dove sono presenti grandi quantità di ghiaia, mentre l’inserimento di materiale vivo può avvenire solo in fase di costruzione.

II consolidamento della sponda è immediato. La struttura funge anche da riparo e tana per piccoli animali e pesci. Il periodo di intervento ideale si ha durante il periodo di riposo vegetativo per rulli con materiale vivo; qualsiasi stagione, invece, per quelli sommersi (materiale morto).

Fig. 10.60 – Rullo con ramaglia viva.

10.3.11.24 – Rullo spondale in fibre di cocco

L’intervento consiste nell’applicazione di cilindri in rete di fibre di cocco o in fibra sintetica e/o metallica zincata e plastificata, riempiti con fibre di cocco a formare dei rulli di diametri da 20 a 60 cm e lunghezza da 3 a 6 m.

Campi di applicazione specifici sono: canali in erosione, corsi d’acqua a bassa pendenza, sponde di laghi e aree lagunari

Materiali impiegati: pali di legno di castagno o resinosa Ø 8÷10 cm e L 100÷150 cm per una fila di rulli e sponde di piccoli corsi d’acqua; sino a pali Ø 18÷25 cm e L 3÷5 m per rulli su più file e sponde di corsi d’acqua a profondità sino a 2÷3 m; eventuale gabbione cilindrico di fondazione Ø 65 cm riempito con ciottoli; rulli di cocco Ø 50 cm ( in genere moduli di 6 m di lunghezza) disposti su una o più file; feltro organico o a fibre miste (organiche/sintetiche), ramaglie e fascine vive di Salici o Tamerici da disporre a raccordo lato sponda; canne e carici.

Limiti di applicabilità nel caso di eccessiva velocità della corrente e diametro del trasporto solido (ghiaie). L’intervento assicura una protezione immediata della sponda dall’erosione; rapida esecuzione; poderosa azione filtrante adatta alla ricostruzione di sponde erose con materiale di dragaggio; per contro gode di durata limitata nel tempo, soprattutto in presenza di acqua salmastra. Diventa in tal caso obbligatorio l’impiego di reti sintetiche o addirittura metalliche plastificate di contenimento ( se sponde soggette a frequente moto ondoso) e l’abbinamento con ramaglie e fascine di tamerici.

Si realizza un buon effetto di consolidamento, drenaggio e rivegetazione grazie a un materiale di gradevole inserimento visuale e decadimento di medio periodo. Il periodo d’intervento si attiva durante il periodo di riposo vegetativo.

Fig. 10.61 – Rullo spondale con fibre di cocco.

10.3.11.25 – Gabbionata in rete metallica zincata rinverdita

Sono gabbie in rete metallica zincata a doppia torsione e maglia esagonale, riempite in loco con pietrisco di pezzatura minima 15 cm, disposte a file parallele sovrapposte. Talee di salice vengono inserite all’interno dei gabbioni con disposizione irregolare o a file nella prima maglia del gabbione superiore (non tra un gabbione e l’altro).

Campo d’applicazione preferenziale è la difesa longitudinale e/o trasversale di corsi d’acqua; piede di pendii umidi e instabili; versanti in erosione; briglie in golene allagate occasionalmente; sistemi di fitodepurazione; difesa e sostegno di sponde lacustri. Nel loro impiego combinato con piante vive si prestano a varie applicazioni impiantistiche suscettibili di ulteriori evoluzioni data l’adattabilità dei materiali.

Già il loro uso tradizionale presenta notevole plasticità dando adito, nel tempo, a processi di rinaturazione spontanea. Possono svolgere sia funzione di protezione rispetto all’erosione fluviale ed al contempo sostegno della sponda in caso di instabilità gravitativa.

Sono strutture permeabili che non ostacolano la filtrazione dell’acqua da e verso le sponde. Vanno utilizzate verificandone la stabilità rispetto alle tensioni di trascinamento dovute all’azione dell’acqua; la resistenza dipenderà dalla presenza della rete metallica e dalla pezzatura del materiale di riempimento. In genere se ne sconsiglia l’uso in presenza di trasporto solido intenso caratterizzato da materiale di grosse dimensioni.

Vengono impiegate per costruire strutture di sostegno a gravità caratterizzate da una elevata flessibilità e permeabilità. Vanno dimensionati come opere di sostegno eseguendo sia le verifiche di moto rigido che quelle di stabilità interna.

Limiti di applicabilità sono legati ad aste torrentizie con velocità della corrente superiore a 6 m/sec e/o piene frequenti con trasporto solido molto grossolano, oltre ad aste terminali su suoli limoso-sabbiosi. La tecnica di esecuzione è rapida e semplice, effetto contenitivo immediato, utilizzo di materiali locali, opera di sostegno permeabile all’acqua e flessibile; per contro, per un rinverdimento rapido, bisogna mettere a dimora le piante in corso d’opera, non si può intervenire successivamente; la realizzazione si basa sulla disponibilità in loco di idoneo materiale lapideo per riempimenti; l’uso di materiale litoide alloctono incrementa i costi e non è coerente con il principio dell’impiego di risorsa locale e l’effetto paesaggistico.

La struttura di sostegno è elastica, molto adatta per sistemazioni di sponde a forte pendenza in spazi limitati; l’uso dei ciottoli locali garantisce una coerenza visuale della struttura; nell’arco di 12 anni le radici dei salici aumentano la stabilità della struttura stessa che viene anche mascherata dallo sviluppo delle parti aeree. Il periodo d’intervento si attua, di solito,durante il riposo vegetativo.

Fig. 10.62 – Gabbionata in rete metallica zincata e rinverdita.

Fig. 10.63 – Gabbionata in rete metallica zincata e rinverdita (vista prospettica).

10.3.11.26 – Materasso spondale in rete metallica rinverdito

Sono moduli prefabbricati in rete metallica zincata, con spessore di minimo Ø 17 cm. Rivestiti nella parte superiore con geostuoia o biofeltri vengono riempiti con materiale inerte. I moduli e le parti dei moduli vengono assemblati con punti metallici in acciaio zincato, in modo tale da costituire una struttura monolitica. Alcuni moduli, non soggetti a sommersione, possono essere riempiti con terreno vegetale. Vengono effettuate sulla superficie semina e messa a dimora di talee, rizomi, cespi e arbusti radicati di specie autoctone, previo taglio di alcune maglie della rete nella parte che rimane al di fuori del livello medio di piena.

Campi di applicazione peculiari si rivelano le sponde di fiumi e canali con energia idraulica significativa: svolgono funzione di protezione rispetto all’erosione fluviale. Sono strutture permeabili che non ostacolano la filtrazione dell’acqua da e verso le sponde. Vanno utilizzate verificandone la stabilità rispetto alle tensioni di trascinamento dovute all’azione dell’acqua; la resistenza dipenderà dalla presenza della rete metallica e dalla pezzatura del materiale di riempimento. In genere se ne sconsiglia l’uso in presenza di trasporto solido intenso caratterizzato da materiale di grosse dimensioni. Accanto a questi in presenza di sponde in roccia con pendenze massime fino a 45-50° o quale rivestimento alvei di corsi d’acqua.

Materiali impiegati: moduli prefabbricati in rete metallica zincata con maglia tipo 6×8, filo Ø 2,2 mm, eventualmente plastificato. I moduli hanno larghezza minima 1 m e spessore minimo 0,17 cm: all’interno sono foderati con stuoie sintetiche o in fibra vegetale, con funzione di filtro e ritenzione ritentori di fini l’impiego di geotessili non tessuti sintetici, che non consentono la radicazione delle piante, va limitato alle parti sommerse; filo di ferro zincato Ø 2.0 mm o punti metallici meccanizzati in acciaio Ø 3.0 mm; materiale di riempimento: inerte misto a terreno vegetale.

Nelle applicazioni su pendio a forte inclinazione (40÷50°) si usano barre metalliche di lunghezza e diametro dipendenti dalla condizione del substrato per ancorare la struttura; geostuoia tridimensionale o biostuoia per il controllo dell’erosione superficiale; miscela di sementi per idrosemina; talee di Salici, Tamerici etc.

Limiti di applicabilità s’incontrano con aste torrentizie con velocità della corrente superiore a 6 m/sec e diametro di trasporto solido 20 cm, con aste terminali su suoli limoso-sabbiosi e lungo sponde con pendenza superiore a 60°.

I materassi hanno un’elevata durata temporale, si adattano alla morfologia di sponde, alvei, scarpate e vengono in tempi brevi rivegetati e riassorbiti nelle morfologie che diventano naturaliformi. Possono essere impiegati anche per il rinverdimento di scarpate sino a 45° di pendenza salvo opportune chiodature di fissaggio. Per contro il sistema risulta difficilmente piantabile una volta posto in opera inoltre la realizzazione si basa sulla disponibilità in loco di idoneo materiale lapideo per riempimenti; dato che l’uso di materiale litoide alloctono incrementa i costi e non è coerente con il principio dell’impiego di risorsa locale mentre l’effetto paesaggistico, in scarpate con pendenza > 45° l’apporto idrico da acque meteoriche risulta insufficiente, pertanto diviene necessario adottare un impianto di irrigazione, specialmente in zone caratterizzate da lunghi periodi di aridità. L’intervento raggiunge l’effetto di un immediato rivestimento di sponde e scarpate, rinverdibili nel breve tempo per la crescita delle talee e del cotico erboso. La raccolta e l’inserimento di materiale vegetale vivo deve avvenire durante il periodo di riposo vegetativo.

Fig. 10.64 – Materasso spondale in rete metallica rinverdito.

10.3.11.27 – Terra rinforzata rinverdita

Si tratta di un’opera di sostegno realizzata mediante l’abbinamento di materiali di rinforzo in reti sintetiche o metalliche plastificate, inerti di riempimento e rivestimento in stuoie sul fronte esterno, tali da consentire la crescita delle piante. La stabilità sotto il profilo statico della struttura, è garantita dal peso stesso del terreno consolidato internamente dai rinforzi; la stabilità superficiale dell’opera è assicurata dalle stuoie sul paramento e dalle piante.

Campi di applicazione specifici riguardano consolidamenti di sponde e argini, sostegni di scarpate in riporto, modellamenti e ricostruzioni di sponde e versanti nel caso di spazi limitati

Materiali impiegati: teli in reti sintetiche o metalliche zincate e plastificate, stuoie organiche o sintetiche, casseri in rete metallica elettrosaldata, punti metallici, materiali inerti di riempimento, terreno vegetale, talee vive di salice, arbusti radicati, idrosemine normali o a spessore.

Limiti di applicabilità riguardano il fatto che per garantire l’attecchimento e la crescita delle piante e del cotico erboso, i fronti possono avere pendenza massima 60° per consentire l’apporto di acque meteoriche; in più il solo cotico erboso deperisce nel tempo e non garantisce la funzione antierosiva del cuneo di terra vegetale che tende a dilavarsi quando le stuoie perdono la loro funzione: risulta pertanto indispensabile l’inserimento di talee e arbusti radicati.

I manufatti risultano avere un’elevata durata temporale; in più la costruzione per moduli consente di ottenere illimitate forme, adattate alle condizioni locali del terreno, qualificandosi anche come struttura artificiale a miglior resa per la rivegetazione. Per contro, essendo le strutture di grandi dimensioni caratterizzate da elevati ingombri, è necessario reperire materiale di riempimento con caratteristiche geotecniche idonee. Se questo dovesse risultare coesivo con contenuto d’acqua non idoneo è necessario usare rinforzi drenanti.

La struttura di sostegno è molto adatta per sistemazioni spondali a forte pendenza in spazi limitati o in vicinanza di infrastrutture viarie. La plasticità delle morfologie realizzabili e la totale rivegetabilità ne fanno una delle tecniche più facilmente reinseribili nel paesaggio a parità di funzionalità di consolidamento.

II materiale vivo dovrà essere inserito nel periodo di riposo vegetativo. La struttura delle terre rinforzate può essere realizzata in qualsiasi momento dell’anno anche se è raccomandabile l’inserimento delle talee e la piantagione di arbusti in fase di costruzione.

Fig. 10.65 – Terra rinforzata rinverdita.

10.3.11.28 – Rampa a blocchi

L’intervento consiste nel consolidamento del fondo dell’alveo di un fiume in pietrame di grosse dimensioni in sostituzione delle briglie in tratti di salto. Tale struttura risulta più funzionale anche alla risalita dei pesci. Può essere realizzata sia come by-pass laterale a una briglia, sia come fondazione alla base di una briglia, sia lungo l’alveo del corso d’acqua in alternativa ad una briglia.

Campi di applicazione specifica sono gli alvei di corsi d’acqua a pendenza medio-bassa e con fondo ghiaioso e sabbioso, così come alla base o a lato di briglie.

Materiali impiegati: massi Ø 0,4÷1,0 m, pali in legno Ø 25 cm L = 2,5 m, tondini in acciaio Ø 24 mm o putrelle di dimensioni tali da garantire il bloccaggio dei massi.

Limiti di applicabilità si riscontrano con dislivelli eccessivi che richiedono mezzi tecnici (scale di rimonta in cls). L’intervento consente il consolidamento immediato del fondo alveo rappresentando nel contempo una via funzionale alla risalita del corso d’acqua da parte della fauna ittica. Per contro necessita di una notevole quantità di massi di varia pezzatura.

Presenta un notevole effetto sia per la continuità di certi habitat che anche visuale; è realizzabile in qualsiasi periodo dell’anno.

Fig. 10.66 – Rampa a blocchi.

10.3.11.29 – Blocchi incatenati

Si tratta di una tecnica che prevede il posizionamento longitudinale di massi ciclopici alla base di sponde, al piede di palificate spondali e coperture diffuse (armate: i massi vengono legati tra loro con una fune d’acciaio assicurata a piloti in legno o ferro infissi nel fondo. E’ possibile impiegare la tecnica anche per la realizzazione di soglie armate trasversali al corso d’acqua o stramazzi a copertura di intere sezioni del fondo. Le soglie sono in genere costituite da due file di massi legati assicurati a travi a monte infisse nell’alveo e poste a interasse opportuno a garantire la stabilità dell’opera.

Campi di applicazione sono i corsi d’acqua con portate solide e liquide anche notevoli.

Materiali impiegati: massi ciclopici minimo 0,2 m3, funi di acciaio Ø 16 mm, tasselli o barre in acciaio muniti di occhiello o asola Ø 16÷20 mm, barre o putrelle in acciaio, L = 1,5÷2 m, morsetti serrafune, malta cementizia antiritiro.

Limiti di applicabilità, nessuno: si tratta di un’opera elastica che si adatta bene agli assestamenti dovuti al trasporto idrico e solido, di esecuzione semplice, immediata ed economica. Per contro, nel caso di strutture a stramazzo che ricoprano intere sezioni del fondo nei regimi torrentizi, non si riesce a garantire una sezione di minima (gavetta) con presenza costante d’acqua.

Il sistema offre un valido effetto sia di protezione che paesaggistico ed ecosistemico. La struttura si reinserisce rapidamente nelle morfologie spondali e di fondo ed è ricolonizzabile dalla vegetazione.

E’applicabile in qualsiasi periodo dell’anno.

Fig. 10.67 – Rampa a blocchi.

10.3.11.30 – Scogliera rinverdita

Si tratta di una difesa longitudinale per il consolidamento e contro l’erosione delle sponde, realizzata con l’impiego di grossi massi e di talee di salice inserite nelle fessure tra i massi stessi. Campi di applicazione specifica sono le sponde di corsi d’acqua con notevole trasporto solido e alta velocità della corrente.

Materiali impiegati: massi ciclopici Ø 0.5÷1 m, talee di salice L min. 1,0 m, inerte terroso per l’intasamento delle fughe.

Limiti di applicabilità, nessuno: si tratta di un’opera massiccia con effetto protettivo immediato. Una volta radicate le talee aumenteranno l’effetto ancorante i massi al terreno. Per contro, nei regimi torrentizi le scogliere sono soggette a sottoescavazioni in più con un’elevata % di fallanze nelle talee inserite a posteriori. Presenta l’effetto di una protezione immediata della sponda che va aumentando con lo svilupparsi dell’apparato radicale delle talee. L’aspetto coerente, tuttavia, si ha solo in morfologie rocciose montane, mentre è molto visibile in morfologie a litologie sciolte (ghiaie, argille, sabbie). Il periodo ideale d’applicazione di ha, in preferenza, durante il periodo di riposo vegetativo.

Fig. 10.68 – Rampa a blocchi.

10.3.11.31 – Palizzata viva in putrelle e traverse

L’intervento consiste nella realizzazione di una palizzata verticale di sostegno di sponda in erosione effettuata con putrelle a doppio T infisse verticalmente e traverse in legno disposte orizzontalmente dietro le putrelle. Le traverse sono distanziate per consentire l’infissione di talee di Salici, Tamerici etc. Campi di applicazione specifica sono le sponde in erosione di corsi d’acqua a litologie sciolte (ghiaie, argille, limi, ecc.) in tratti a sezione condizionata su altezze di 2÷3 m.

Materiali impiegati: putrelle in ferro a doppio T HEB 180, di lunghezza almeno doppia della parete spondale da consolidare, traverse ferroviarie o analogo materiale in legno impregnato, talee di Salici, Tamerici etc., eventuali tiranti in funi e barre in acciaio.

Limiti di applicabilità s’incontrano con substrati rocciosi che impediscono l’infissione delle putrelle. L’intervento consente il consolidamento permanente di sponde erose verticali senza sottrazione di spazio alla sezione di deflusso, a costi contenuti e con lavorabilità tramite normali mezzi meccanici. Può essere attuato anche in sezioni ristrette; per contro, a causa del mantenimento della verticalità si può verificare una sottrazione di habitat per la nidificazione di avifauna (ad es. Gruccione), oltre ad un eventuale condizionamento alla crescita della vegetazione.

L’effetto consolidante é buono con limitato reinserimento paesaggistico.

La parte strutturale può essere eseguita durante tutto l’anno. La messa a dimora delle talee è legata al periodo vegetativo.

Fig. 10.69 – Palizzata viva in putrelle e traverse.

10.3.11.32 – Graticciata in micropali, reti e stuoie sintetiche

L’intervento consiste nella realizzazione di una graticciata in micropali, reti, funi metalliche e stuoie sintetiche con funzioni di contenimento sia longitudinale che trasversale di impluvi e vallette fortemente incise a regime torrentizio su litologie sciolte granulari (marne, scaglia, tufi semilitoidi etc.) soggette a forte trasporto solido. La graticciata è riempita lato monte dallo stesso inerte derivante dall’erosione e viene piantata e seminata ma si rinverdisce comunque spontaneamente nel breve periodo.

Campi di applicazione specifica sono le parti periferiche di bacini torrentizi in sezioni ristrette a forte pendenza su litologie friabili e soggette a continua erosione e trasporto solido a valle (marne, scaglia, tufi semilitoidi, cenerini etc.).

Materiali impiegati: tubi in acciaio tipo CORTEN Ø 114 mm, spessore 4 mm, L = 4m, boiacca cementizia con additivi antiritiro, rete metallica zincata filo 2.2 mm, maglia 6×8, cavo in acciaio Ø min. 10 mm, stuoia sintetica tridimensionale Ø minimo 18 mm, talee di Ø 2÷5 cm, semina o idrosemina.

Limiti di applicabilità si hanno a causa della convenienza d’installazione solo in particolari morfologie a forra e litologie a sfaldamento superficiale (marne, scaglia, tufi semilitoidi etc.) che consentono al contempo la perforazione con perforatrice montata su mezzi fuoristrada; in più non è applicabile in presenza di trasporto solido grossolano.

L’intervento consente mantenimenti di lunga durata oltre ad un valida funzione di laminazione della portata solida e liquida in parti periferiche di bacini torrentizi su forti pendenze. Per contro i costi permangono ancora notevoli.

A distanza di pochi anni la parte strutturale viene completamente riassorbita dai dinamismi morfologici locali e mascherata dalla vegetazione. L’installazione è attivabile in qualunque periodo dell’anno.

Fig. 10.70 – Palizzata viva in putrelle e traverse.

10.4 – Sistemazioni idrauliche con tecniche geo-naturalistiche

10.4.1 – Introduzione

Gli eventi alluvionali catastrofici si ripetono annualmente e con sempre maggior frequenza in molte regioni per una serie di fattori, quali:

– precipitazioni eccezionali concentrate in brevi periodi;

– occupazione capillare del territorio da parte di infrastrutture non sempre pianificate adeguatamente;

– assenza o carenza di interventi manutentori nelle zone montane e collinari;

– abusivismo edilizio, discariche non controllate negli alvei etc.

– mancanza di adeguati termini di laminazione.

Gli interventi idraulici negli ultimi decenni sono stati inoltre quasi sempre caratterizzati da motivi d’urgenza o realizzati come sistemazioni puntuali invece di essere inseriti in una programmazione lungimirante come richiederebbero le problematiche varie e complesse del settore.

È ormai convinzione generale che solo l’analisi di tutte le componenti abiotiche e biotiche, a scala di bacino e con casistiche di lungo periodo, possa far comprendere le complesse dinamiche naturali idrologico-idrauliche ed ecologiche di un corso d’acqua.

10.4.2 – Condizioni e limiti di applicabilità

L’impiego delle tecniche geo-naturalistiche è legato al soddisfacimento di alcune condizioni:

–       individuazione e riproduzione di specie autoctone, soprattutto erbacee ed arbustive, con caratteristiche di radicazione adatte ai fini antierosivi e di consolidamento; in particolare di specie con possibilità di riproduzione vegetativa diretta nell’ambiente naturale e non in serra o vivaio;

–       disponibilità di materiali locali quali pietrame e legname;

–       disponibilità (scontata) di materiali commerciali quali geosintetici, stuoie, gabbioni, reti metalliche, etc;

–       disponibilità di mano d’opera specializzata e tecnicamente orientata;

–       disponibilità di normali macchine movimento terra, perforazione, taglio etc.

Vanno, di conseguenza, evitati alcuni errori quali:

–       prevalente impiego di materiali inerti e uso del verde non funzionale ma a solo scopo di mascheramento;

–       impiego di specie esotiche con problemi di contaminazione genetica e di infestazione;

–       errate applicazioni iniziali con fallimento funzionale e/o mancato sviluppo delle piante;

–       sopravvalutazione e superamento dei limiti delle possibilità biotecniche;

–       adozione di tecnologie costose legate alla commercializzazione di singoli materiali e non giustificate sul piano tecnico-biologico.

Le esperienze metodologiche, tecnologiche e biologiche già maturate possono garantire una rapida e vasta espansione delle tecniche geo-naturalistiche nei settori di impiego.

10.4.3 – Criteri di progettazione naturalistici

Gli interventi vanno visti nel quadro della rinaturazione dei corsi d’acqua che deve comprendere non solo interventi antierosivi con le specie vegetali vive ma anche azioni volte al massimo della diversità morfologica nel tracciato o nella sezione dell’alveo, per offrire nicchie specializzate alle comunità ittiche e bentoniche.

Va quindi valutata la possibilità di realizzare:

–       modifiche morfologiche al corso d’acqua, diminuendo la monotonia dei tratti canalizzati, recuperando ove possibile, vecchi meandri, ampliando le sezioni in area golenale o creando delle casse d’espansione arginate, con evidente beneficio idraulico complessivo;

–       interventi di sola rinaturazione a lato dei corsi d’acqua (creazione di biotopi umidi etc.) anche in tratti senza necessità di interventi idraulici;

–       provvedimenti di uso faunistico quali: rampe a blocchi, scale di risalita per pesci, tane, stagni per la riproduzione degli anfibi etc.

Gli interventi sull’asta fluviale vanno di conseguenza concepiti secondo il principio che la diversità morfologica si traduce in biodiversità, invertendo la tendenza alla riduzione delle aree di pertinenza del corso d’acqua ed alla rettificazione e cementificazione dell’alveo, non considerando la vegetazione igrofila come un ostacolo al rapido deflusso delle acque, ma come una risorsa non solo naturalistica, bensì d’interesse idraulico per la protezione flessibile dall’erosione.

L’analisi delle varie componenti ambientali e delle loro interazioni con le caratteristiche idrauliche dovrà quindi valutare, iniziando da monte, ove porre in atto i seguenti interventi di taglio geo-naturalistico:

–       interventi di rinverdimento per la protezione antierosiva dei versanti in erosione per consentire l’aumento del tempo di corrivazione delle acque e la diminuzione del trasporto solido a valle.

–       interventi sul corso d’acqua tesi a diminuirne l’energia cinetica tramite la riduzione della pendenza. Ove sia necessario ridurre la pendenza longitudinale dell’alveo al posto delle briglie in cemento; in molti casi si possono impiegare le briglie in legno e pietrame eventualmente combinate con elementi vivi quali le talee di salice; per garantire, poi, la continuità biologica all’ittiofauna, ove le caratteristiche morfologiche dell’alveo lo consentano, è possibile realizzare, al posto delle briglie, rampe in pietrame per la risalita dei pesci.

–       realizzazione di casse d’espansione, per laminare i volumi di piena riducendone i picchi, ottenendo aree da sistemare secondo principi che aumentano la biodiversità.

–       realizzazione di aree inondabili in corrispondenza dell’alveo, ampliando le sezioni idrauliche con la creazione di un alveo di magra con portata idraulica ed uno di piena allagato periodicamente.

–       interventi nei tratti di maggior pendenza per la realizzazione di sezioni a raschi con massi sul fondo alternati con pozze, per incrementare la variabilità morfologica.

–       realizzazione, ove possibile, di aree umide in corrispondenza delle immissioni dei canali di drenaggio o dei fossi affluenti;

–       interventi antierosivi e di consolidamento sull’asta fluviale concepiti anche invertendo la tendenza alla riduzione delle aree di pertinenza del corso d’acqua,

–       interventi tesi ad eliminare i tratti rettificati dell’alveo che possono comportare un aumento dell’erosione a monte e del deposito a valle, con conseguente pericolo di esondazione; favorire la meandrificazione del corso d’acqua nei tratti compatibili, con conseguente asimmetria della sezione idraulica significa riproporre la morfologia naturale aumentando le capacità depurative del corso d’acqua.

–       eliminazione dei tratti cementificati per spezzare l’isolamento tra l’acqua e il substrato, ricostituendo il rapporto con la falda e rendendo possibile la rivitalizzazione del corso d’acqua.

–       realizzazione soprattutto nelle aree di pianura ad agricoltura intensiva, di fasce tampone di circa 10 m a lato delle rive per intercettare i nutrienti percolati dalle aree agricole.

–       realizzazione, anche al di fuori dell’alveo di piena, di boschetti e cespuglieti, per una riqualificazione naturalistica del corso d’acqua, con contemporaneo effetto di ricostruzione di elementi della rete ecologica.

–       pianificazione degli interventi di manutenzione non considerando, ove possibile, la vegetazione igrofila un ostacolo al rapido deflusso delle acque, bensì una risorsa non solo naturalistica, ma anche di interesse idraulico per la protezione flessibile dall’erosione (DPR 14.04.93).

Nella Tab. 10.8 vengono riportati, a titolo di esempio, i benefici in termini di biodiversità derivanti da una gestione dei corsi d’acqua con l’approccio progettuale geo-naturalistico.

Tab. 10.8 – Ricadute ecologiche degli interventi idraulico-naturalistici.

10.4.4 – Scelta delle tipologie di intervento e limiti biotecnici d’impiego

Le sistemazioni idrauliche pongono alcuni problemi classici di potenziale interferenza tra la presenza di vegetazione sulle sponde ed il deflusso delle acque.

Tenere conto dei fattori biotici complica ulteriormente le già complesse interpretazioni del fenomeno idraulico localizzato, notoriamente collegato ai dinamismi a monte e a valle del corso d’acqua stesso. Da una parte la vegetazione migliora i parametri geomeccanici delle sponde nei confronti delle sollecitazioni idrauliche; dall’altra la vegetazione stessa riduce la sezione di deflusso con possibile interferenza negativa, specie nelle sezioni medio-piccole, per l’aumento del coefficiente di scabrezza; solo adottando una strategia di ampliamento delle sezioni e di riappropriazione degli spazi golenali sottratti all’agricoltura intensiva e alla realizzazione d’infrastrutture, infatti, è possibile intervenire efficacemente con tecniche di sistemazione naturalistica.

Va detto comunque che esistono dei limiti operativi d’impiego delle tecniche geo-naturalistiche e che la scelta e la collocazione degli interventi sono funzione di vari parametri tra cui i principali sono la velocità di deflusso (correlata con la pendenza del fondo) e il diametro del trasporto solido.

Nella Tab. 10.9 viene formulata una proposta esemplificativa (quindi non direttamente esportabile al caso di qualunque corso d’acqua) per la scelta delle tipologie d’intervento basata su valori indicativi di velocità della corrente e sul diametro del trasporto solido (per approfondimenti si rimanda alla parte in cui si tratta la stabilità degli alvei dove si osserva che portata, diametro dei sedimenti e pendenza dell’alveo sono legati fra loro nelle varie condizioni di capacità/trasporto solido).

Tab. 10.9 – Indicazioni di massima per le scelte tipologiche degli interventi geo-naturalistici nelle sezioni idrauliche.

Si può osservare, ad es., che oltre una certa velocità (6 m/sec) e diametro del trasporto solido (>20 cm) in zone montane sono possibili interventi solo con opere rigide o con massi (in certi casi con gabbionate). Sono invece sempre validi gli interventi di stabilizzazione dei versanti franosi in quanto l’applicazione sistematica su vasta scala di opere vive stabilizzanti (gradonate vive, fascinate vive etc,) o di opere combinate (palificate, grate vive etc.) produce benefici effetti a valle, diminuendo i tempi di corrivazione ed il trasporto solido.

Con la diminuzione dei parametri velocità e trasporto, aumenta progressivamente la gamma delle tecniche naturalistiche che sono comunque adottate solo nelle zone in erosione con problemi di rischio idraulico. Vale inoltre il principio della tecnica a minor impegno operativo e pari risultato. In ogni caso l’abbinamento con le piante vive (e prevalente uso di salici pionieri) va considerato il miglior mezzo per l’innesco di ecosistemi.

10.4.5 – Valutazione della scabrezza in presenza di vegetazione

Come anticipato, il problema operativo principale che si presenta nella valutazione della resistenza al moto in presenza di vegetazione è quello di calcolarne l’effetto in una sezione di deflusso a geometria composita e avente contorno costituito da materiali a scabrezza diversa.

Tab. 10.10 – Coefficiente di scabrezza ks per la formula di Manning (ks = 1/n per i canali).

Nelle Tabb. 10.10 e 10.11 vengono riportati alcuni valori del coefficiente di scabrezza ricavati da vari manuali di idraulica, da cui si può osservare la variabilità nei vari tipi di alveo.

Tab. 10.11 – Coefficiente di scabrezza ks per la formula di Manning (ks = 1/n per i corsi d’acqua naturali).

Sovente, infatti, negli alvei dei corsi d’acqua sono presenti situazioni di scabrezza fortemente eterogenee, caratterizzate dalla presenza di associazioni vegetali arbustive o arboree riparie, naturali o piantate, e di materiale ghiaioso nella zona centrale di alveo.

I metodi proposti, di norma, per il calcolo della scabrezza equivalente dell’intera sezione si riconducono sostanzialmente alla valutazione del coefficiente di scabrezza tramite una suddivisione della sezione trasversale in subaree e ad un’operazione di media pesata, con opportune potenze del perimetro bagnato, delle scabrezze caratteristiche di ciascuna subarea. Tali metodi si differenziano tra loro per i valori dell’esponente con cui pesare, nell’operazione di media, il coefficiente di scabrezza di ciascuna subarea; i valori dichiarati dai vari autori dipendono dalla legge di resistenza al moto considerata e dal criterio utilizzato nella procedura di suddivisione in subaree.

La possibilità di tener conto della variazione della resistenza al moto propone anche un diverso criterio di suddivisione delle aree caratterizzate dai diversi valori della scabrezza.

Tra i metodi più noti e diffusamente applicati sono il metodo di Einstein-Horton ed il metodo di Lotter.

Il primo si basa sulle ipotesi di suddivisione della sezione idrica in subaree compatte a medesima velocità media, attraverso le cui superfici di separazione non si esplicano sforzi tangenziali; tali assunti, tuttavia, sono stati confutati da diversi dati sperimentali evidenzianti una forte disomogeneità della distribuzione di velocità tra zone riparie e alveo centrale, e incompatibili col modello in ipotesi.

Il metodo di Lotter consiste nella suddivisione della sezione trasversale in N subaree, secondo ideali linee di separazione verticali, attraverso le quali non si esplicano sforzi d’attrito e dove, per ogni subarea, si considera uno specifico coefficiente di scabrezza n.

Il coefficiente di Manning dell’intera sezione, nC, può essere valutato secondo la formula di Lotter che assume la portata totale pari alla somma delle portate nelle subsezioni:

nC = PR5/3ΣNi=1 (PiRi5/3/ni)

con P perimetro bagnato dell’intera sezione [m].

Ulteriori misure condotte da Tsujimoto sulla distribuzione degli sforzi tangenziali trasversali in alvei parzialmente vegetati, evidenziano invece che l’effetto di resistenza offerto dalle zone laterali alla vena centrale non è trascurabile e che il suo massimo si esplica in una zona molto prossima all’ideale linea verticale di separazione tra zona vegetata ed alveo centrale.

Sviluppando il metodo di Petryk, Armanini et al. propongono un criterio alternativo, per il quale, nella suddivisione della sezione trasversale in subaree, l’effetto di resistenza al moto esercitato dalla porzione laterale, vegetata, sulla zona centrale, viene quantificato come una frazione non trascurabile (pari a circa 1/3) del coefficiente di scabrezza caratteristico della vegetazione

10.4.6 – Parametri idrologici da considerare nel calcolo delle opere

Ai fini della progettazione delle opere idrauliche risulta essenziale la stima di alcuni parametri idrologico-idraulici risultanti dal relativo studio ed in particolare, dal punto di vista idrologico, è opportuno osservare che avendo a disposizione serie storiche di misure di portate alla sezione idrica d’interesse (da misure dirette o ricostruite) è possibile determinare una curva di durata delle portate giornaliere (andamento delle portate che sono superate per una durata in giorni in funzione della durata stessa) e una curva di crescita delle portate massime annuali (andamento delle portate al colmo massime annuali in funzione del tempo di ritorno Tr). Ai diversi valori di portata può essere associato un livello idrico corrispondente nella sezione idrica d’interesse tramite la cosiddetta scala di deflusso. In particolare risultano di interesse le seguenti grandezze:

–       una portata di piena detta medio annuale da cui si ricava un corrispondente livello di piena medio annuale al di sopra del quale è possibile l’utilizzo di tecniche naturalistiche con piante vive che, anche in assenza di forti energie idrauliche, morirebbero per asfissia a causa della sommersione prolungata. Tale livello, oltre che da analisi di tipo idraulico che considerino incompatibile con la sopravvivenza delle piante periodi di sommersione > 7÷10 giorni consecutivi, possono essere ricavati da analisi di campagna sul pattern spaziale della vegetazione igrofila arbustiva presente in alveo; si tratta in tal caso di considerare nelle sezioni significative nei vari tratti di progetto, articolando, se del caso, le analisi nella parte alta, media ed inferiore del bacino, le specie arbustive igrofile come indicatore ecologico del livello di piena medio annuale. Tali specie, infatti, occupano uno spazio ecologico nella sezione dell’alveo subito al disopra di tale livello, in quanto non tolleranti periodi di sommersione > 7÷10 giorni, ma resistono alle sommersioni delle piene straordinarie che sono di breve durata. Di conseguenza la loro presenza in un punto della sezione idraulica indica che ivi hanno avuto il tempo di crescere senza troppo disturbo da parte delle piene e che sopra quel livello è possibile intervenire con le opere vive.

–       le portate di piena di riferimento per le opere di sistemazione idraulica da cui derivano le forze agenti sulle strutture. In funzione della portata di piena, della geometria dell’alveo e del tracciato longitudinale del corso d’acqua, si possono ricavare le massime tensioni agenti sulle strutture di progetto. I calcoli delle tensioni tangenziali massime agenti sulle opere possono essere effettuati secondo il metodo delle tensioni di trascinamento partendo dalla formula:

τW = γ R i

ove γ è il peso specifico dell’acqua, R il raggio idraulico, i la pendenza dell’alveo o, per sezioni con un rapporto tra larghezza e profondità > 30:

τW = γ h i

con h altezza del pelo libero, tenendo ovviamente conto dei coefficienti correttivi per l’aumento delle tensioni tangenziali nei tratti di asta in curva.

Tali valori vanno confrontati nei vari tratti dell’alveo con le massime tensioni tangenziali resistenti ammissibili per le strutture di progetto, verificando sempre che sia τr > τW.

Nella progettazione con le opere vive vanno tenute in conto 2 situazioni-limite:

–       la resistenza dell’opera a fine lavori con le piante non sviluppate e quindi non in grado di fornire il contributo della parte viva alla resistenza della struttura; tale situazione, d’altronde, nella verifica della q transitabile nella sezione è quella più favorevole ai fini della scabrezza.

–       la resistenza dell’opera dopo 2 anni con le piante sviluppate nelle radici e nella parte aerea, in grado di fornire il contributo della parte viva alla resistenza della struttura; tale situazione nella verifica della portata transitabile nella sezione è quella più sfavorevole per l’aumento della scabrezza indotto dalla presenza delle piante.

Per quanto riguarda i valori della massima resistenza al trascinamento τr delle opere si riportano i valori della Tab. 10.12, ricavati da dati bibliografici e sperimentazioni che, nel caso, rappresentano i massimi valori relativi sopportati in occasione di taluni eventi verificatisi e non i massimi assoluti sopportabili.

Tab. 10.12 – Resistenza all’erosione delle opere geo-naturalistiche.

10.4.7 – Difese di sponda e sistemazioni d’alveo

Gli interventi su un corso d’acqua possono essere suddivisi sinteticamente in interventi di regimazione ed interventi di sistemazione. I primi tendono a modificare il regime delle portate del corso d’acqua e comprendono le arginature, le dighe, le casse d’espansione, i diversivi e gli scolmatori. I secondi, per contro, tendono a modificare o a consolidare l’alveo per il raggiungimento di uno stabile assetto plano-altimetrico mediante le opere difesa delle sponde e di stabilizzazione dell’alveo, la risagomatura delle sezioni e la riprofilatura del tracciato planimetrico. Le opere di difesa di sponda si suddividono in opere di difesa longitudinali (o radenti), disposte nella direzione della corrente con trascurabile interferenza sulle condizioni del deflusso, e opere di difesa trasversali (o repellenti) che viceversa possono modificare sostanzialmente le condizioni del deflusso.

Le considerazioni che seguono sono limitate agli interventi di stabilizzazione delle sponde di tipo longitudinale. Da un punto di vista strutturale tali opere sono raggruppabili in cinque categorie:

–       rigide;

–       semirigide;

–       flessibili;

–       in materiale sciolto;

–       a tecnica geo-naturalistica.

Le strutture rigide comprendono le murature di pietrame con malta o in calcestruzzo, impiegate come muri di contenimento e/o di rivestimento spondale. Tali strutture, pur essendo molto resistenti alle sollecitazioni idrodinamiche, hanno lo svantaggio di essere sensibili ai cedimenti e agli assestamenti indotti dalla dinamica dell’alveo e del terreno (erosioni, movimenti franosi), e di offrire scarsa permeabilità agli scambi idrici falda-fiume.

Le strutture semirigide e flessibili non presentano tali svantaggi. Le prime fanno uso di elementi rigidi ai quali viene conferito un certo grado di deformabilità mediante connessioni di vario tipo, quali giunti, perni o funi metalliche. Le seconde comprendono le strutture a gabbioni, i materassi, i buzzoni, le fascinate. Le opere in materiale sciolto sono realizzate mediante massi naturali o artificiali di adeguate dimensioni disposti alla rinfusa oppure sistemati. Tali opere presentano una completa adattabilità alle deformazioni del terreno ma possono presentare inconvenienti legati all’instabilità degli elementi.

I criteri di progettazione delle opere in strutture rigide e semirigide seguono le usuali procedure di calcolo assumendo in generale lo schema di muro a gravità. Lo stesso vale per le strutture a gabbioni quando funzionano come opere di contenimento. Una particolare attenzione deve essere posta nella determinazione della quota di fondazione, tenendo conto dei fenomeni di dinamica d’alveo.

La progettazione delle opere in materiale sciolto consiste nel corretto dimensionamento della pezzatura media dell’ammasso da posizionare sulla sponda in modo da garantirne la stabilità. In tal caso risulta opportuno mettere in conto, oltre agli effetti della gravità, le azioni idrodinamiche prodotte dalla corrente come le azioni di trascinamento, i moti secondari, il moto ondoso. Considerando nel seguito la sola azione di trascinamento, espressa dalla tensione tangenziale τ, questa risulta diretta nel senso della corrente e d’intensità variabile lungo il contorno bagnato. Non risultano disponibili schemi consolidati per la determinazione dei valori locali della tensione tangenziale; alcuni studi su sezioni regolari trapezio e rettangolari indicano che il valore massimo della tensione media sulla sponda è pari a circa il 75% del valore massimo al fondo.

Considerando i valori della tensione tangenziale ricavati dai risultati della teoria del regime per un alveo idealmente in equilibrio sotto diverse condizioni di portata e dimensione dei sedimenti, si rileva la notevole influenza della granulometria sui valori della tensione tangenziale: per alvei con sedimenti fini, tipicamente di pianura, la coesistenza di basse pendenze e velocità, insieme a bassi valori del rapporto di forma b/h, appare limitare l’incremento della tensione al crescere della portata. Viceversa, per alvei in materiale grossolano, caratterizzati da pendenze e velocità maggiori, l’azione tangenziale appare considerevolmente più elevata e crescente con il valore della portata dominante. In presenza di correnti supercritiche le tensioni tangenziali risulterebbero ancora maggiori di quelle in condizione di corrente lenta.

All’azione tangenziale indotta dalla corrente si contrappone la resistenza al trascinamento dell’opera di difesa anch’essa variabile notevolmente in funzione della tipologia, dei criteri costruttivi nonché delle condizioni generali di stabilità delle sponde.

Le opere geo-naturalistiche, come visto, utilizzano materiale vegetale vivo (talee, arbusti, piante erbacee) in associazione a materiale morto (vegetale o artificiale) per ottenere strutture funzionali dal punto di vista idraulico e nei riguardi del ripristino, della valorizzazione e della conservazione ambientale.

Per quanto riguarda gli interventi, nel grafico in Fig. 10.71, è riportato l’andamento nel tempo della tensione tangenziale sviluppabile da diversi tipi di rivestimento spondale: è da notare che la resistenza asintotica delle varie tipologie di opere può raggiungere valori anche considerevoli, dell’ordine dei 200÷300 N/m2, in tempi dell’ordine dei 2 anni dalla fine dei lavori. Durante tale periodo può rendersi necessario un intervento complementare (ad es. scogliera, materassi, graticciate etc.) che garantisca la resistenza di sponda e lo stesso sviluppo della copertura.

Fig. 10.71 – variazione nel tempo della resistenza all’azione di trascinamento per vari tipi di copertura spondale.

Intendendo porre un confronto, si consideri che per i materassi il campo delle tensioni oscilla tra 50 e 250 N/m2, in funzione dello spessore di rivestimento adottato (15÷50 cm) oltre, naturalmente, alle caratteristiche di stabilità della sponda. Per le opere in materiali sciolti, la tensione sviluppabile dipende essenzialmente dalla pezzatura del materiale, oltre che dall’ angolo d’attrito e dall’ inclinazione della sponda. A titolo esemplificativo, utilizzando il criterio di Shields per le condizioni di stabilità del materiale, si perviene al calcolo della tensione massima sostenibile, τW, mediante l’espressione:

τw = D(γs – γ) cos θ √1-tg θ2/ tg φ2

ove, oltre ai simboli già noti, θ rappresenta l’inclinazione della sponda rispetto all’orizzontale, e φ è l’angolo di attrito del materiale.

Altro fattore da considerare per certi tipi di copertura è la durata della sollecitazione idrodinamica. Il manto erboso, per esempio, non sembra essere in grado di resistere per tempi superiori a 10÷15 ore con velocità media della corrente dell’ordine dei 3 m/s.

Dagli elementi disponibili si deduce che gli interventi di protezione spondale attuati con le tecniche naturalistiche risultano applicabili in un ampio campo delle correnti lente sebbene si ritengano consigliabili ulteriori verifiche sperimentali in particolar modo in relazione all’entità e al tempo di permanenza della sollecitazione idrodinamica.

Gli interventi di sistemazione dell’alveo tendono, in generale, a ridurre la capacità erosiva del corso d’acqua che, attraverso l’abbassamento del fondo, potrebbe indurre instabilità delle sponde, dei versanti e delle strutture connesse (strade, ponti, argini etc.); così come appare intuibile che lo stesso processo erosivo faccia parte del fenomeno di automodellamento tendente a portare il corso d’acqua verso una configurazione di equilibrio tra capacità di trasporto e materiale solido in arrivo dai tronchi a monte. Tuttavia tale processo può estendersi su periodi anche molto lunghi (diverse decine di anni).

Una corretta sistemazione del corso d’acqua, di conseguenza, ha lo scopo di accelerare tale dinamica evolutiva per il raggiungimento della condizione finale di equilibrio in tempi molto più brevi. La sistemazione altimetrica del corso d’acqua si basa pertanto su:

–       una corretta identificazione dell’attuale dinamica evolutiva del corso d’acqua;

–       la valutazione della condizione di equilibrio alla quale tende il corso d’acqua;

–       la progettazione di interventi finalizzati al raggiungimento della condizione di equilibrio;

–       la verifica degli effetti indotti dagli interventi previsti.

10.4.8 – Note conclusive

Da quanto sopra illustrato è comunque opportuno tener presente che gli interventi di difesa spondale e/o di sistemazione spondale possono indurre modifiche anche rilevanti sul preesistente assetto dei corsi d’acqua.

La previsione e la quantificazione di tali effetti, di conseguenza, deve essere adeguatamente valutata nella fase progettuale dell’intervento tenendo conto che la complessità dei fenomeni coinvolti e le loro mutue interazioni impongono il ricorso ad approcci di taglio multidisciplinare finalizzati ad una corretta interpretazione della realtà fisica in esame.

La qualità dei risultati è comunque subordinata al livello di conoscenza dei parametri fisici di base e, quindi, alla disponibilità di dati e di misure per il corso d’acqua considerato.

Di particolare importanza, soprattutto negli interventi geo-naturalistici, appare la quantificazione delle sollecitazioni indotte dalla corrente da porre a confronto con la resistenza offerta dal tipo di applicazione prevista.

Intendendo riassumere quanto trattato in precedenza, si possono elencare i seguenti aspetti:

–       nel caso di alvei stretti, appare importante l’approfondimento dell’analisi della resistenza al moto offerta dai vari tipi di sistemazione spondale in relazione agli effetti sulle condizioni del deflusso di piena.

–       l’aumento della profondità del flusso può portare a valori e distribuzioni di velocità tali da estirpare la vegetazione, con rischio d’erosione della sponda.

–       la resistenza alla tensione tangenziale varia, nelle varie fasi vegetative, in base alle particolari condizioni ecologiche da studiare caso per caso evitando d’avvalersi di dati ricavati in contesti differenti.

–       la presenza di piante isolate costituisce un punto di discontinuità per il deflusso, motivo per cui,  generalmente, crea problemi di erosione dell’alveo piuttosto che costituirne una protezione.

–       l’eventuale sradicamento e trascinamento delle piante può creare occlusioni e/o parzializzazioni della sezione idraulica, specie nei punti di discontinuità creati dalle opere idrauliche (particolare problema ancora poco affrontato in letteratura)

–       la vegetazione comporta un aumento del deposito (rallentamento della corrente e intrappolamento).

–       un’indiscriminata e generalizzata azione volta ad aumentare la capacità di convogliamento dei corsi d’acqua porterebbe ad un accorciamento dei tempi di concentrazione delle piene con conseguenze ancor più gravi di quelle derivanti dalle esondazioni o erosioni localizzate.

–       necessità, per valutare gli effetti e programmare gli interventi, di analisi conoscitiva, monitoraggio e modellistica idrologico-idraulica di dettaglio.

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