1 – Le strade ordinarie

Viene definita strada ordinaria la struttura, funzionalmente dimensionata e inserita nel territorio, poggiante sul terreno sia direttamente che per mezzo di opere sussidiarie (rilevati opere d’arte), in grado di consentire la circolazione di veicoli con ruote gommate. Esistono numerose classificazioni che prendono in considerazione diversi parametri:

Dal punto di vista amministrativo si suddividono in:

–       autostrade (classe I)

–       strade statali (classe II)

–       strade provinciali (classe III)

–       strade comunali (classe IV)

–       strade consorziali, di bonifica e vicinali (classe V)

Fig. 1.1 – Definizione in base alle caratteristiche costruttive.

Dal punto di vista operativo si distinguono in:

–       strade d’interesse nazionale per grandi capacità di traffico e alte velocità di percorrenza;

–       strade d’interesse regionale per traffico più limitato;

–       strade d’interesse locale per traffico minore.

In base al traffico si differenziano in:

–       strade a limitata intensità di traffico (< 600 veicoli/h);

–       strade a media intensità di traffico (< 1200 veicoli/h);

–       strade ad elevata intensità di traffico (> 1200 veicoli/h).

Dal punto di vista geomorfologico si diversificano in:

– strade di pianura;

– strade di montagna, suddivise in: – strade in cresta;

– strade a mezzacosta;

– strade di fondovalle.

In base alle caratteristiche costruttive (Fig. 1.1) si caratterizzano in:

–       strade in rilevato, la cui piattaforma si trova totalmente al di sopra del piano di campagna, limitata lateralmente da 2 scarpate ad inclinazione variabile;

–       strade in trincea, la cui piattaforma si trova totalmente al di sotto del piano di campagna, limitata lateralmente da 2 scarpate ad inclinazione variabile;

–       strade a mezzacosta, la cui piattaforma è situata in parte sopra e in parte sotto al piano di campagna;

–       strade in artificiale, la cui piattaforma è munita di strutture portanti quali ponti e viadotti;

–       strade in galleria artificiale o naturale, la cui piattaforma è inserita entro uno scavo in roccia.

1.1 – Definizioni

Ai fini del prosieguo della trattazione si rivela opportuno, a questo punto, introdurre una corretta terminologia in relazione i diversi elementi che compongono una strada (Figg. 1.2 – 1.5).

Sottofondo: si tratta del il terreno sul quale viene poggiata la sovrastruttura; è il più direttamente interessato dall’azione dei carichi esterni da questa trasmessi; può essere costituito da terreno naturale o di riporto oppure può aver subito un processo di miglioramento funzionale. La superficie che delimita superiormente il terreno di sottofondo costituisce il piano di posa della sovrastruttura. Qualora non fosse in qualche modo specificato col termine generico di sottofondo s’intende uno spessore di terreno entro 0.5÷1.0 m.

Fig. 1.2 – Sottofondo e sovrastruttura.

Sovrastruttura: si tratta della struttura, sovrapposta al sottofondo, destinata a consentire il regolare movimento dei veicoli distribuendo sul sottofondo i carichi da questi trasmessi ed a proteggerlo dagli agenti atmosferici (pioggia, gelo etc.). E’ solitamente costituita da più strati:

– fondazione: la parte della sovrastruttura che ha, principalmente la funzione di distribuire i carichi sul sottofondo. Può essere costituita da uno o più strati: lo strato più profondo viene chiamato primo strato di fondazione e può anche essere destinato a proteggere il sottofondo dall’azione del gelo e ad intercettare la risalita dell’acqua. Lo strato più superficiale viene chiamato ultimo strato di fondazione o strato di base.

 – strato di collegamento (binder): determina lo strato di conglomerato bituminoso interposto, nelle pavimentazioni a bitume, tra lo strato d’usura e lo strato di base.

– strato d’usura (tappeto d’usura): definisce la parte della pavimentazione a diretto contatto con i veicoli; è costituito da materiale inerte fine legato con bitume.

– manto: l’insieme dello strato d’usura e di collegamento nelle pavimentazioni bituminose è detto manto. Nelle pavimentazioni in calcestruzzo il termine viene usato per indicare la lastra portante. Presenta porosità accentuata per ostacolare la formazione di veli d’acqua.

Fig. 1.3 – Sovrastruttura e cordonatura.

Solido stradale: si tratta della figura geometrica delimitata dal piano campagna, dalla superficie del sottofondo e dalle scarpate del rilevato o dalla trincea.

Piattaforma stradale (o sede stradale): definisce l’insieme delle carreggiate, delle banchine, dei marciapiedi e delle piste ciclabili.

Cigli stradali: rappresentano le linee di delimitazione delle banchine o dei marciapiedi o delle piste ciclabili.

Cordonature: sono formate per lo più da prefabbricati in cls, disposti in modo da mettere in evidenza spartitraffico e le isole direzionali.

Fossi di guardia: sono le opere idrauliche che vengono realizzate per la raccolta delle acque provenienti da monte e per il loro convogliamento verso i tombini.

Cunette: costituiscono le opere idrauliche per lo smaltimento delle acque di carreggiata.

Muri di controripadi sottoscarpa: si tratta dei muri di contenimento costruiti nel caso di trincee profonde o di alti rilevati per limitare le scarpate e conferire maggiore stabilità alle opere in terra.

Carreggiata: definisce quella parte della piattaforma stradale destinata alla circolazione dei veicoli: viene suddivisa in corsie (2, 3, 4 o più) le cui dimensioni dipendono dal tipo di traffico, dai veicoli previsti e dalla velocità di progetto; in generale la larghezza è compresa tra 3.25 m e 4 m.

Qualora la carreggiata fosse in galleria occorre prevedere la costruzione dei marciapiedi sui due lati eventualmente protetti da barriere di sicurezza; si rivela inoltre opportuno, in presenza di gallerie lunghe, predisporre piazzali di sosta, provvedere all’illuminazione artificiale graduata nonché alla costruzione di adeguate opere di drenaggio (cunicoli).

Nel caso di strade con almeno 4 corsie di carreggiate separate, si preferisce, di norma, costruire 2 gallerie separale; questo col doppio scopo di ridurre le sezioni di scavo (quindi le spinte sui rivestimenti) e d’evitare i problemi di abbagliamento tra i veicoli.

Normalmente la carreggiata è costruita con un profilo convesso (a forma di diedro con spigolo coincidente con l’asse stradale, o ad arco di circonferenza, oppure ad arco di parabola a seconda delle condizioni) per favorire lo scolo dell’acqua di carreggiata verso le cunette, senza, comunque, creare ostacolo alla circolazione, soprattutto in fase di sorpasso.

Fig. 1.4 – Banchine e carreggiata.

Corsia spartitraffico: definisce una corsia variamente predisposta (guard-rail, vegetazione, etc.) che ha lo scopo di separare le due carreggiate e le due correnti di traffico nelle strade a 4 o più corsie.

Banchine: definiscono gli elementi della piattaforma stradale che possono avere un duplice scopo:

–       consentire la sosta di emergenza dei veicoli (in questo caso devono avere una larghezza di almeno 2.5 – 3.0 m e devono essere pavimentate);

–       distanziare la carreggiata dalle opere di scolo laterali (in questo caso sono solitamente in terra ed hanno una larghezza di 1.0 – 1.5 m).

Fig. 1.5 – Fossi di guardia e cunette.

Lateralmente alle banchine di sosta possono venire realizzate anche le banchine erbose, della larghezza di 0.50÷0.75 m; nel caso di strade in rilevato, vengono usate per l’installazione di segnaletica verticale e/o di barriere di sicurezza.

Tab. 1.1 – Conformazione del solido stradale.

Pavimentazione: può essere naturale (Macadam non protetto o protetto), in conglomerato (o manto) bituminoso oppure in lastre di calcestruzzo (Tab. 1.1 e Fig. 1.6):

Fig. 1.6 – Sovrastruttura flessibile per strade ad elevato traffico.

–       la pavimentazione in Macadam non protetto viene utilizzata in strade di classe V in quanto molto polverosa e poco difesa dall’azione delle acque superficiali;

–       la pavimentazione in Macadam protetto si realizza stendendo uno strato di bitume misto a graniglia (con diametri compresi entro 2÷10 mm);

–       la pavimentazione in conglomerato bituminoso è costituita da uno strato di usura (3÷4 cm di spessore) sovrapposto ad uno strato di collegamento (sovente di 4÷8 cm di spessore) che ha lo scopo di migliorare il collegamento con la base;

–       la pavimentazione rigida è costituita da lastre di calcestruzzo poggianti su uno strato di base in misto cementato.

Fig. 1.7 – Pavimentazione in conglomerato bituminoso.

1.2 – Fasi realizzative di una strada

La realizzazione di una strada, come di ogni altra struttura, comporta le attività di progettazione e di costruzione dell’opera; ognuna di queste attività viene condotta attraverso diverse fasi operative.

1.2.1. Progettazione

La progettazione di un’opera stradale, per divenire esecutiva, passa attraverso 3 fasi successive:

Progetto preliminare o di fattibilità

Il progetto di fattibilità consiste in uno studio nel quale si prende in considerazione l’ipotesi di realizzazione di un’opera dal punto di vista tecnico-economico; tale elaborato (nel caso della strada) fornisce unicamente un’indicazione di massima del tracciato con la scelta di un corridoio, cioè di una fascia ampia qualche chilometro, in cui possono essere prospettate più soluzioni da vagliare nelle fasi successive.

Il progetto preliminare è costituito, tra i vari elaborati, da:

–       relazione tecnico-economica contenente notizie generali sulla natura e le condizioni geologiche e geotecniche dei terreni attraversati comprese le valutazioni di convenienza dell’opera in base al tipo di traffico previsto;

–       corografia generale, ossia uno studio, dal punto di vista fisico e antropico, di una regione redatto sulla base di carte con scala compresa tra 1:100.000 e 1:25.000 nelle quali si segnalano le principali localizzazioni industriali, agricole, turistiche ed i livelli altimetrici.

–       un profilo longitudinale, decisivo per porre in evidenza le zone in cui s’intende ricorrere all’esecuzione di opere d’arte.

Progetto di massima

Col progetto di massima si realizza uno studio sistematico nel quale vengono messe a confronto le diverse soluzioni di tracciato proposte nella fase precedente al fine di stabilire il percorso più opportuno. In tale studio, inoltre, si cerca di stabilire, con buona approssimazione, il rapporto costi/benefici di una strada. Gli allegati consistono, tra l’altro, di:

–       relazione di rilievo territoriale dettagliata comprendente un inquadramento geologico oltre ad un eventuale profilo geognostico;

–       planimetria in scala 1:10.000 o 1:5000;

–       profilo longitudinale in scala adeguata (in genere la scala delle ascisse è uguale a quella della planimetria, mentre in ordinate si usa una scala 10 volte più grande), eseguito sulla base di levate topografiche tracciate appositamente;

–       sezioni trasversali in scala 1:200 – 1:100;

–       disegni e descrizioni delle principali opere d’arte;

–       calcolo delle quantità e dei costi in base ai movimenti terra prevedibili, alla possibilità di riutilizzo dei materiali di scavo, alla possibilità di ricorrere o meno a tecniche particolari (rippaggio, preminaggio etc.).

In tale fase si iniziano a prendere in considerazione problemi pratici fondamentali quali la reperibilità d’acqua per i cantieri, la qualità della medesima, la necessità di pozzi, l’ubicazione delle cave di prestito etc.

Progetto esecutivo

Il progetto esecutivo consiste di uno studio nel quale devono essere prodotti tutti gli elaborati necessari all’esecuzione pratica dell’opera in ogni suo particolare ed anche tutti i documenti che regolamentano i rapporti tra ente appaltante e impresa appaltatrice. Il progetto esecutivo consta di:

– relazione descrittiva e illustrativa delle principali caratteristiche dell’opera e delle norme tecniche da applicare:

– relazione geologica e geotecnica generale e relazioni di dettaglio per le diverse opere d’arte e i diversi tratti di strada;

– serie di disegni comprendenti sostanzialmente una planimetria in genere in scala 1:2.000; un profilo longitudinale in genere in scala 1:2.000 – 1:200 delle sezioni trasversali, in genere in scala 1:100 – 1:200, i disegni delle opere d’arte;

– computo metrico nel quale siano previste le quantità relative ai movimenti terra necessari all’occupazione dei terreni, ai materiali da costruzione per le diverse opere d’arte previste nei differenti interventi ed agli espropri.

– computo estimativo comprendente i prezzi elementari, la stima dei lavori e degli espropri e quindi il costo di realizzazione dell’opera;

– capitolati (capitolato generale dello Stato, capitolato della Provincia o del Comune a seconda si tratti di una strada provinciale o comunale, capitolato speciale dell’opera in appalto).

– programma di lavori con previsione dei tempi di esecuzione delle diverse fasi operative e della loro sequenza.

– offerta economica per la costruzione della strada.

1.2.2 – Costruzione

Anche la costruzione vera e propria dell’opera stradale passa attraverso più fasi realizzative successive;

–       individuazione sul terreno del tracciato di progetto (topografia e palinatura);

–       preparazione del terreno: in questa prima fase si provvede ad eliminare tutti gli eventuali ostacoli naturali e/o artificiali situati sul tracciato (ad es. alberi, siepi, fabbricati etc.) e ad asportare lo strato superficiale di terreno vegetale mediante l’azione di macchine quali apripista e scarificatori;

–       movimento terra: tale fase di lavoro, una volta preparato il terreno, consiste nello scavo che, nel caso di tratti in trincea o a mezzacosta, si estende in profondità, mentre nel caso di tratti in rilevato viene limitato all’asportazione di un piccolo strato (scorticamento). In questa fase sono compresi, sia per le strade in trincea, che in rilevato, che a mezzacosta, gli scavi dei fossi di drenaggio, delle fondazioni per i manufatti e la preparazione di eventuali cave di prestito. A seconda dell’organizzazione di cantiere e delle esigenze possono operare macchine da scavo (martelli demolitori, escavatori) macchine per scavo e spostamento (apripista, pale), macchine per scavo e trasporto (ruspe), macchine per trasporto (autocarri, dumper, nastri trasportatori, decauville); in caso si operi in terreni rocciosi, oppure notevolmente compatti, comunque difficilmente scavabili, diventa generalmente necessario ricorrere ad altre macchine con lo scopo di rompere preliminarmente il terreno (rippers o perforatrici per la posa di esplosivo). Qualora lo scavo venga eseguito sino ad una certa profondità, secondo quelle che sono le dimensioni dello scavo, il tipo di strada, le caratteristiche del terreno, la disponibilità delle macchine, si può optare tra differenti tecniche d’attacco (laterale, di testa, di profondità, a gradoni, a strati, a tutta la sezione);

–       preparazione del sottofondo: in questa terza fase si opera per migliorare le caratteristiche del sottofondo, prima fra tutte la portanza. In pratica le operazioni eseguibili si riassumono in: stabilizzazione, umidificazione, costipamento (utilizzando per la stabilizzazione: polverizzatori, miscelatori, dosatori; per l’umidificazione: cisterne, irroratori; per il costipamento: rulli vibranti, piastre vibranti);

–       costruzione delle opere d’arte e delle opere di difesa della strada: in questa fase si procede alla costruzione di ponti e viadotti, nonché alla costruzione di canalette, fossi di scarico, tombini, muri di contenimento, opere di drenaggio;

–       costruzione della sovrastruttura e della pavimentazione; in quest’ultima fase si procede alla costruzione, strato per strato, della sovrastruttura secondo le modalità previste dal progetto.

–       opere di rifinitura e di mitigazione dell’impatto visivo;

–       collaudi per controllare la rispondenza tra capitolato d’appalto e manufatto e per verificare l’effettiva capacità della strada a sopportare carichi (prove di carichi in situ).

1.3 – Indagine geologico-tecnica

Dal punto di vista geologico-tecnico i problemi relativi alla costruzione di una strada possono essere così riassunti:

1.3.1 – Fase preliminare

Nella fase di studio preliminare, ossia nella fase in cui si valuta la possibilità tecnica ed economica di realizzazione di una strada e si avanzano possibili soluzioni per quello che riguarda il tracciato, il compito dell’operatore è quello di eseguire uno studio di massima che contribuisca alla scelta di un corridoio, comprendente:

–       esame delle carte geologiche e della bibliografia esistente;

–       esame delle foto aeree;

–       esame geomorfologico basato sulla distinzione delle unità geomorfologiche, sulla loro dinamica sull’acclività, sulla copertura vegetale, sulla distribuzione delle precipitazioni etc.; tale analisi si pone la finalità di suggerire la scelta del tracciato di massima ottimale riducendo i costi di realizzazione dell’opera ed evitando determinate problematiche.

1.3.2 – Fase di progetto

Nella progettazione di massima ed esecutiva, ossia nelle fasi in cui vengono stabilite tutte le modalità secondo le quali la strada viene costruita, il compito dell’operatore è quello di occuparsi delle condizioni del tracciato, delle condizioni idrogeologiche, dei problemi relativi alle opere d’arte e dei materiali da costruzione.

Lo studio delle condizioni del tracciato comprende:

–       indagine sulla morfologia generale del terreno e sulla della topografia eseguito in particolare mediante foto aeree (eventualmente lo studio della topografia può richiedere l’esecuzione di apposite levate topografiche), il cui scopo è quello di valutare altitudini, dislivelli e forme del terreno;

–       indagine geologica che consta di uno studio litologico (eseguito mediante il rilievo geologico classico tendendo, però, ad enfatizzare il ruolo dei depositi superficiali segnalandone soprattutto la granulometria per avere indicazioni sul tipo di macchine per movimento terra da scegliere e sulla necessità di stabilizzazione), uno studio tettonico ed uno studio geomorfologico indirizzato quest’ultimo soprattutto alla dinamica geomorfologica e dei versanti. Lo studio geologico è solitamente esteso ad una fascia di circa 1 km a cavallo dell’asse stradale e, comunque, sempre sufficiente ad illustrare i problemi della zona, per cui può venire allargata nelle aree in cui sono prevedibili, ad es., problemi di stabilità. Lo studio litologico ha come obiettivo quello di classificare i terreni attraversati dalla strada in base alle classificazioni tecniche usate nella progettazione stradale.

–       analisi della stabilità dei versanti attraversati con eventuale preparazione di una carta della pericolosità; scopo dello studio è quello di suggerire eventuali modifiche al tracciato o alle opere d’arte.

–       analisi dei problemi relativi alla sede stradale prendente in considerazione i problemi del terreno di sottofondo (valutandone l’idoneità), i problemi della sovrastruttura, i problemi di conservazione dell’opera (stabilità delle scarpate a medio-lungo termine) con l’ausilio d’indagini in situ e prove di laboratorio.

Lo studio delle condizioni idrogeologiche comprende:

– studio dell’idrografia superficiale sia per quanto riguarda i corsi d’acqua (alveo di piena e di magra) che, per quanto riguarda le zone paludose proponendo le opere di difesa più opportune ed i piani di bonifica;

– studio della falda di cui si ricerca posizione ed alimentazione (soggiacenza della falda e dell’eventuale frangia capillare) eventualmente costruendo una carta delle isopieze prendendo in esame la possibilità di eventuali interferenze con la strada, nel qua! caso si predispongono opere di drenaggio e l’utilizzo di materiali speciali ad evitare la possibile saturazione della sovrastruttura.

Lo studio dei problemi relativi alla costruzione delle opere d’arte riguarda problemi di costruzione e problemi di stabilità di manufatti quali ponti, viadotti, gallerie, sovrappassi, sottopassi, attraversamenti, piazzole, muri di sostegno, opere di difesa da frane e valanghe, drenaggi, cunette, tombini etc.

Lo studio dei materiali da costruzione ha lo scopo di valutare la possibilità di riutilizzo del materiale scavato o di una parte di questo, e comunque, di predisporre il reperimento di determinate quantità di pietre inerti, pietrisco, ghiaie e sabbie; (in alcuni casi sono utilizzabili materiali di discarica di miniere eventualmente miscelati con materiali clastici in altri casi può risultare conveniente predisporre centri di frantumazione (con lo scopo di riutilizzare, previa triturazione, materiali grossolani normalmente inutilizzati); in altri casi ancora occorre procedere con uno studio per l’ubicazione delle cave di prestito.

1.3.3 – Fase esecutiva

Nella fase esecutiva dei lavori il compito dell’operatore è quello essenzialmente di far fronte ad eventuali imprevisti e di controllare che le caratteristiche costitutive della strada corrispondano a quelle previste nei Capitolati.

1.4 – Studio del tracciato stradale

Come osservato in precedenza esistono numerosi tipi di strade che trasmettono con modalità differenti i carichi che a loro competono e che pongono problemi diversi. Si distinguono, innanzi tutto, le strade di pianura e le strade di montagna.

Le strade di pianura implicano unicamente sforzi di compressione con conseguenti:

–       problemi legati agli attraversamenti di abitati, corsi d’acqua, vie di comunicazione etc., in genere superati mediante opere d’arte. Le tecniche di scavo utilizzabili sono funzione dell’urbanizzazione e della presenza di sovraccarichi sul terreno (ad es. il minaggio nei centri abitati viene evitato; la presenza di edifici condiziona i lavori di scavo);

–       problemi legati alla presenza di litotipi sfavorevoli alla realizzazione di sottofondi stabili (soprattutto le torbe e i terreni organici);

–       problemi legati a possibili marcate oscillazioni della falda e della frangia capillare, rendendo necessari interventi di impermeabilizzazione e drenaggio;

–       problemi legati alla difficoltà di reperimento di materiali per le sovrastrutture;

–       problemi legati a possibili esondazioni o erosioni da parte di corsi d’acqua.

Le strade di montagna sono rappresentate da 3 diverse tipologie, ossia:

Strade di fondovalle, che implicano unicamente sforzi di compressione con differenti ordini di problemi, cioè:

–       problemi già elencati per le strade di pianura a parte, in genere, problemi di reperimento del materiale;

–       problemi legati al pericolo di frane e di valanghe;

–       problemi legati alla necessità di ricorrere frequentemente ad opere d’arte per superare i corsi d’acqua ed a gallerie per rettificare il tracciato.

Strade a mezzacosta, che implicano sia sforzi di compressione che di taglio legati strettamente all’inclinazione del pendio con:

–       problemi legati alla stabilità del versante;

–       problemi legati alla stabilità della sovrastruttura;

–       problemi di carattere idrogeologico e legati all’azione delle acque non incanalate;

–       problemi legati al pericolo di valanghe.

Strade in cresta che implicano solo sforzi di compressione con problemi legati a fenomeni di erosione accelerata, di carattere idrogeologico e climatici (ventosità).

Lo studio del tracciato si esegue, nella fase di progetto esecutivo, prendendo in considerazione i seguenti punti:

–       valutazione del tipo e del volume di traffico che la strada deve presumibilmente assorbire e suo possibile incremento in tempi futuri;

–       scelta del tipo di strada da costruire con relativa determinazione della larghezza, pendenza, raggio di curvatura, grado di sicurezza e velocità media di percorrenza;

–       esame della carta topografica con individuazione delle zone meno acclivi;

–       disegno del tracciolino (o linea guida);

–       tracciamento della poligonale d’asse;

–       tracciamento dell’asse stradale.

Il tracciolino è una spezzata in cui ciascun segmento s’appoggia a 2 curve di livello successive in base ad un valore di pendenza prescelto che non deve superare quello massimo prefissato nelle caratteristiche generali della strada e che è condizionato dalle condizioni orografiche.

Nello studio di un tracciato stradale è comunque, opportuno tener conto delle seguenti osservazioni generali:

–       sono da evitare le curve e le contro-curve senza interposizione di un rettifilo di opportuna lunghezza;

–       è opportuno seguire per quanto possibile l’andamento del terreno cercando di adattarsi ad esso;

–       le curve devono essere sviluppate nelle zone a minor pendenza  trasversale del terreno in modo da ridurre i movimenti di terra (questo vale soprattutto per i tornanti che implicano, in genere, notevoli volumi di sterro e di riporto);

–       gli attraversamenti dei corsi d’acqua devono essere effettuati in rettilineo e possibilmente normalmente all’ostacolo;

–       gli incroci tra due strade devono, per quanto possibile, avvenire a 90° in modo da facilitare i raccordi e ridurre l’area di occupazione.

Per poter eseguire un computo, sia pur approssimativo, dell’entità degli sterri e dei riporti e stabilire le successive livellette (tratti a pendenza uniforme) da assegnare alla strada, occorre procedere al disegno ed all’esame del profilo longitudinale.

Un intero tronco può essere, o meno, ad unica pendenza; nei progetti di strade di limitata importanza, sempre che sia possibile utilizzare i materiali di scavo per il riporto di rilevati, l’andamento altimetrico si sceglie in modo che i movimenti di materiale siano ridotti al minimo possibile e che il volume degli scassi si avvicini a quello dei riporti.

In ogni caso, per la conoscenza esatta della quantità di materiale da scavare e da riportare non è sufficiente il profilo longitudinale, ma ci si deve rifare anche ad una serie di sezioni trasversali.

1.5 – Classificazione del terreno nella geotecnica stradale

Un terreno può essere classificato in base alle sue caratteristiche granulometriche e ai limiti di consistenza distinguendo ciottoli, ghiaie, sabbie, limi e argille secondo quanto esposto in precedenza (1° vol.).

In Geotecnica stradale si fa spesso riferimento anche a classificazioni specifiche come quella che va sotto il nome di Indice di Gruppo o di quella nota come Classificazione H.R.B..

1.5.1 – Indice di Gruppo

L’Indice di Gruppo si può definire come un coefficiente di qualità di una terra espresso dalla seguente relazione:

IG = 0.2 a + 0.005 ac + 0.01 bd

dove a è la % di passante al setaccio 0.075 UNI 2332 meno 35: se tale % > 75 si indica sempre con 75, se < 35 si indica con 35; b la % di passante al setaccio 0.075 UNI 2332 meno 15: se tale % > 55 si indica sempre con 55, se < 15, si indica con 15; c il valore del Limite Liquido meno 40: se tale valore è > 60 lo si indica sempre con 60, se < 40 lo si indica con 40; d il valore dell’Indice Plastico meno 10: se tale valore è > 30 lo si indica sempre con 30, se < 10 lo si indica con 10.

I valori dell’Indice di Gruppo vengono approssimati all’intero più vicino; tali valori sono ricavabili anche per via grafica dai diagrammi di Fig. 1.8

Nel diagramma di destra si riporta in ascisse la percentuale di passante al setaccio 0.075 UNI 2332 e si conduce una verticale fino al valore del Limite Liquido posseduto dalla terra, leggendo il valore dell’ordinata corrispondente.

Nel diagramma di sinistra si riporta in ascisse la % di passante al setaccio 0.075 UNI 2332 e si traccia una verticale fino al valore dell’Indice Plastico della terra leggendo il valore del l’ordinata corrispondente.

La somma dei 2 valori fornisce l’Indice di Gruppo della terra, compreso entro valori 0÷20.

1.5.2. Classificazione H.R.B.

Ancora più significativa è la classificazione americana dell’Highway Research Board (H.R.B.) ufficialmente adottata in Italia dal C.N.R.. Tale valore deriva da una preventiva analisi granulometrica con determinazione dei Limiti di Atterberg per la frazione limoso-argillosa.

Fig. 1.8 – Determinazione dell’Indice di Gruppo.

Si assumono 8 gruppi di terre come fondamentali e si indicano con la lettera A e con un indice numerico da 1 a 8 (Fig. 1.9).

Ai primi 3 gruppi (A1, A2, A3, appartengono le terre ghiaioso-sabbiose individuate dall’avere una % passante allo staccio 0.075 UNI 2332 ≤ 35%.

Ai gruppi da A4 ad A7 appartengono le terre limo-argillose, che hanno una % passante allo staccio 0.075 UNI 2332 > 35%.

All’ultimo gruppo, infine, appartengono le torbe e le terre organiche (A8) facilmente riconoscibili per la loro struttura fibrosa, per il colore e l’odore caratteristico.

Alcuni gruppi si suddividono, a loro volta, in sottogruppi individuati dall’aggiunta di un secondo indice costituito da una lettera o da un numero; è opportuno, inoltre, per le terre contenenti argilla, far seguire un numero tra parentesi che rappresenta l’Indice di Gruppo variabile, come visto da 0 a 20: ad es. A7.6(12).

L’individuazione del gruppo e del sottogruppo di appartenenza di una terra viene effettuata mediante semplici prove consistenti in una analisi granulometrica eseguita sui setacci 2, 0.4 e 0.075 UNI 2332 e nella determinazione del limite dello stato liquido (LL) e dell’indice di plasticità (IP) di una terra.

1.5.2.1 – Descrizione dei Gruppi e Sottogruppi (Tabb. 1.2 e 1.3)

a) Terre Ghiaioso-Sabbiose (% di passante al setaccio 0.075 UNI ≤ 35%)

Gruppo A1

Costituiscono questo gruppo le ghiaie, le brecce e le ghiaie e le brecce sabbiose, i detriti di cava provenienti dalla frantumazione di pietrame, le sabbie grosse, le pomici e le ceneri vulcaniche (pozzolane) aventi una granulometria più o meno assortita, talora con materiale fine legante (passante, cioè allo staccio 0.075 UNI 2332) in quantità ≤ 24% in peso del totale e di natura prevalentemente limosa, in quanto l’Indice di Plasticità non deve essere > 6.

Sottogruppi A1a e A1b

A1a si distingue per un notevole contenuto di materiale grosso (trattenuto allo staccio 2 UNI 2332) e per un contenuto di materiale fine (passante allo staccio 0.075 UNI 2332) < 15%.

A1b è costituito prevalentemente da sabbia grossa con un passante allo staccio 0.075 UNI 2332 < 25%.

Gruppo A3

Tipica del gruppo è la sabbia fine, costituita per oltre il 50% da grani di dimensioni < 0.40 mm con una % di Limo < 10%. Il materiale è plastico.

Gruppo A2

Costituiscono questo gruppo le terre dei due gruppi precedenti contenenti quantitativi maggiori (ma non > 35%) di Limo ed Argilla, appartenenti ai gruppi A4A5A6 e A7 che seguono nella classificazione e che possono conferire all’insieme caratteristiche di plasticità anche elevate.

Sottogruppi A2-4 ed A2-5

Comprendono le terre in cui il materiale fine (passante allo staccio 0.075 UNI 2332) è costituito in prevalenza da Limo appartenente rispettivamente ai gruppi A4 ed A5.

Sottogruppi A2-6 ed A2-7

Comprendono le terre in cui il materiale fine è costituito in prevalenza da Argille appartenenti ai gruppi A6 ed A7.

b) Terre Limo-Argillose (% di passante allo staccio 0.075 UNI 2332 > 35%)

Gruppo A4

Tipico del gruppo è il Limo non plastico o di ridotta plasticità, poco compressibile. Ne fanno parte anche i Limi sabbiosi, i Limi ghiaiosi o i Limi con sabbia e sabbia che si differenziano, però, dai terreni simili del tipo A2-4 per la maggior % di passante allo staccio 0.075 UNI 2332. La % di sabbia e ghiaia influenza l’Indice di Gruppo il cui valore può giungere fino a 8.

Gruppo A5

Tipico è il Limo fortemente compressibile (come indicato dall’elevato LL) spesso contenente mica. Fanno parte del gruppo i Limi anzidetti contenenti quantità variabili di sabbia e ghiaia, in % < 65,. il che li differenzia dalle terre A2-5. L’Indice di Gruppo è influenzato dal contenuto di sabbia e ghiaia ed il suo valore può giungere fino a 12.

Gruppo A6

Tipiche sono le Argille di limitata compressibilità (come indicato dal LL ridotto). Vi appartengono anche le Argille limose contenenti sabbia e ghiaia in quantità < 65%, il che li differenzia dalle terre A2-6. L’Indice di Gruppo può raggiungere valori fino a 16 ed è influenzato dalla plasticità del materiale e dalla percentuale di ghiaia e sabbia contenute.

Gruppo A7

Caratterizzato da Argille ad elevato Limite Liquido e quindi fortemente compressibili che rigonfiano notevolmente a contatto con l’acqua. Possono contenere anche notevoli quantità di sabbia e ghiaia (< 65%) che le avvicina alle terre del sottogruppo A2-7. L’Indice di Gruppo può assumere valori fino a 20 ed è influenzato dalla plasticità del materiale e dalla % di ghiaia e sabbia contenuta. Questo gruppo si suddivide in 2 sottogruppi:

A7-5 che possiede un Indice di Plasticità modesto rispetto al Limite Liquido [IP ≤ (LL-30)]; sono terre fortemente elastiche e compressibili, soggette a rigonfiare notevolmente a contatto con l’acqua.

A7-6, che possiede un Indice di Plasticità più elevato rispetto al Limite Liquido [IP > (LL-30)]; sono terre soggette a plasticizzarsi ed a subire notevoli rigonfiamenti a contatto con l’acqua (meno elastiche e

compressibile delle precedenti).

c) Torbe e Terre organiche palustri

Gruppo A8

E’ caratterizzato da torbe e terre organiche fortemente compressibili. Sono terre con contenuto d’acqua naturale elevatissimo (> 100%) che rivelano, sia alla vista che all’odore, la struttura fibrosa ed il contenuto di materia organica. Sono decisamente da scartare quali terreni d’appoggio di sovrastrutture o di rilevati.

Tab. 1.2 – Gruppi e Sottogruppi per HRB sabbioso-ghiaiose.

Tab. 1.3 – Gruppi e Sottogruppi per HRB limo-argillose.

La prova di scuotimento (*) è un test di cantiere che serve a distinguere i Limi dalle Argille. Si esegue scuotendo nel palmo della mano un campione di terra bagnata, comprimendolo successivamente fra le dita. La terra reagisce se, dopo lo scuotimento, appare sulla superficie un velo d’acqua libera che scompare comprimendo il campione fra le dita.

1.6 – Portanza dei sottofondi e delle sovrastrutture stradali

Lo studio sulla natura e la composizione di un terreno, ossia la determinazione delle sue caratteristiche fisiche e meccaniche, come s’è già visto, assume una significativa importanza al fine di stabilire il comportamento dell’opera stradale.

Un particolare problema, poi, s’incontra tutte le volte che, dovendo poggiare sul piano di sottofondo (di una trincea o di un rilevato) la soprastruttura che permetta il transito di veicoli, è necessario adeguare questa alle condizioni di portanza del sottofondo stesso.

Si suole indicare come portanza o capacità portante di un sottofondo il carico specifico, ricavabile con un dato tipo di prova e con modalità ben definite/’ che determina un prestabilito cedimento.

Da questa definizione è deducibile come risulti sufficiente cambiare solo qualche modalità di prova per ottenere risultati non più confrontabili.

Come sottolineato in precedenza, si ricava un giudizio sintetico su un dato terreno seguendo una opportuna classificazione. Questa, in base al riscontro di numerose prove sperimentali basate sul comportamento di soprastrutture esistenti, può rivelarsi in grado di fornire anche elementi di valutazione dello spessore da assegnare ad una data soprastruttura.

Di questo tipo è la classificazione dell’IG (Indice di Gruppo) o del F.A.A. (→) la quale ultima, come osservabile, presenta anche il vantaggio di tener conto del gelo e delle possibilità di drenaggio del terreno.

Tali metodi, tuttavia, sono fondati, quasi esclusivamente, sulla conoscenza delle sole caratteristiche fisiche del terreno d’appoggio della pavimentazione e non tengono conto delle condizioni proprie del sottofondo, dell’andamento degli strati, della presenza di una falda freatica più o meno profonda, della situazione geomorfologica dei terreni sottostanti etc; tali considerazioni hanno stimolato lo studio e il perfezionamento di criteri basati su prove dirette, consistenti nell’applicare direttamente i carichi al piano di sottofondo per determinarne, in modo opportuno, la portanza.

In base a questa si calcola, in seguito, lo spessore della soprastruttura; con criterio a posteriori questi stessi metodi sono applicabili alla pavimentazione già costruita per definire la portanza di questa (prova di controllo).

Si nota, altresì, facilmente come un carico applicato sul piano di sottofondo o ad una soprastruttura stradale, ad es. per mezzo di una piastra, produca un determinato cedimento e come, aumentando tale carico, i cedimenti si accrescano seguendo una legge non sempre facilmente individuabile.

Di conseguenza, allora, per definire la portanza del terreno a partire dal predetto piano, occorre fissare gli elementi e le modalità della prova ed in particolare:

–       forma e superficie della piastra di carico;

–       modalità di applicazione dei carichi;

–       cedimento limite (o ammissibile).

Le diverse ricerche per tali prove assumono deformazioni massime, per strade ed aeroporti, variabili da 0.25 a 0.5 cm rispettivamente; infatti esperimenti pratici hanno dimostrato che fino a deformazioni dell’ordine di 0.5 cm le pavimentazioni flessibili non mostrano segni di instabilità o fessurazioni.

Tenuto, tuttavia, conto che in realtà i carichi applicati consistono in carichi ripetuti, si ritiene consigliabile considerare, al fine della determinazione della capacità portante, valori ≤ 0.25 cm; si é anche soliti definire una portanza di rottura, usata in special modo per le pavimentazioni rigide (conglomerato di cemento) come quel carico unitario limite che determina la rottura della lastra di calcestruzzo.

Da tempo, comunque, si sono diffuse prove ottenute sollecitando il terreno o la soprastruttura a carichi ripetuti; in tal caso la portanza viene definita come quel carico unitario (N/m2che, dopo un certo numero di ripetizioni (carico e scarico), determina un prestabilito cedimento.

Sicuramente le prove a cicli ripetuti si rivelano più significative di quelle a ciclo unico, poiché si avvicinano, in certo senso, alle effettive sollecitazioni indotte dal traffico e consentono, mediante il confronto delle deformazioni elastiche e plastiche del primo ciclo con quelle dei cicli successivi, di formulare un giudizio sulla stabilità della struttura ai carichi effettivi e sul più probabile comportamento del terreno stesso.

In ogni caso, tuttavia, non sono trascurabili le condizioni ambientali nelle quali si esegue la prova; su questa influiscono principalmente l’umidità e la densità del terreno di sottofondo; anche la temperatura della pavimentazione, inoltre, risulta opportuno venga presa in considerazione qualora si operi per stabilire la portanza di essa.

La variazione di umidità del terreno di sottofondo, infatti, può produrre una notevole variazione della portanza e, con questa, dello spessore da assegnare alla soprastruttura; occorre, quindi, scegliere, in maniera opportuna, oltre che il tipo di prova, anche il periodo climatico nel quale eseguirla, in modo da trovarsi nelle più sfavorevoli condizioni sebbene tutto questo non sia sempre di semplice attuazione.

Spesso, infatti, si deve progettare una strada nel periodo estivo e non è facile eseguire la determinazione della portanza imbibendo il terreno d’acqua in modo che il grado di umidità corrisponda a quello ottenibile nel periodo invernale.

E’ da notare, inoltre, che la conoscenza della portanza non risolve totalmente il problema della determinazione dello spessore da assegnare alla pavimentazione, per la soluzione del quale, una volta trovata la portanza, occorre far ricorso a nuove ipotesi ed a criteri più o meno empirici.

Una diversa soluzione è stata usata dagli operatori USA che hanno elaborato un metodo che consiste nella determinazione di un Indice di portanza (Indice C.B.R.), che permette di assegnare lo spessore di una data pavimentazione, per un dato traffico, in base a dei diagrammi ottenuti sulla scorta di controlli sperimentali eseguiti in tale funzione.

Quest’ultimo criterio trova, ancor oggi, larga diffusione sia perché fornisce molto facilmente lo spessore, sia perché dà la possibilità di operare in situ o in laboratorio, ed in quest’ultimo caso anche nelle condizioni desiderate di costipamento e di umidità.

Riassumendo, allora, la portanza di un terreno, al fine del calcolo della pavimentazione, può essere stabilita:

–       mediante l’Indice di gruppo (IG) in base alle caratteristiche fisiche del terreno di sottofondo;

–       con la Classificazione F.A.A. che, come la precedente, si basa sulle caratteristiche fisiche del terreno ma tiene anche conto delle condizioni di gelo e di drenaggio;

–       con le Prove con piastra a ciclo unico dove la portanza è il carico unitario che determina un dato cedimento;

–       mediante le Prove con piastra a cicli di carico e scarico dove la portanza è il carico unitario che, dopo un determinato numero di cicli, definisce un dato cedimento;

–       mediante l’Indice C.B.R. che definisce un termine in base al quale si può risalire allo spessore conveniente da assegnare alla pavimentazione; sotto taluni aspetti anche l’Indice C.B.R. è funzione delle caratteristiche fisiche e meccaniche del terreno di sottofondo.

Su tutti questi metodi sono state avanzate critiche e proposte modifiche ma, in effetti, ancora oggi non ci si trova completamente orientati; a parte l’unificazione normativa, infatti, alcuni Paesi preferiscono un sistema, altri un altro, trattandosi comunque di prove convenzionali i cui risultati devono essere opportunamente valutati, confrontati ed interpretati.

1.6.1 – Prove di carico con piastra

Una piastra d’acciaio di forma circolare viene posta sul piano di posa in posizione orizzontale e su di essa si adatta un martinetto idraulico che contrasta con un carico fisso. Questo può essere rappresentato da un rimorchio opportunamente zavorrato o più semplicemente da una piattaforma su cui è stato posto il carico.

Azionando il martinetto si carica la piastra e quindi il piano di prova.

Il carico può essere determinato in base alla pressione raggiunta dal fluido nel martinetto, oppure, per mezzo di un anello dinamometrico. I cedimenti, invece, sono letti direttamente su comparatori, fissati con prolunghe su una traversa, abbastanza rigida, poggiata al terreno in modo che i suoi punti di appoggio non siano influenzati dalle deformazioni del terreno sotto carico (Fig. 1.9).

Fig. 1.9 – Apparecchiatura di carico con piastra.

Le piastre usate normalmente hanno forma circolare (Ø 16, 30, 50 e 76 cm). Dalle esperienze eseguite risulta che, a parità di freccia totale o di freccia elastica, la pressione sopportabile da un terreno è notevolmente influenzata dalla superficie della piastra di carico. Come si nota dalla Fig. 1.10, in cui sono segnate le isobare della piastra piccola e quelle relative alle esperienze con piastra maggiore, le linee di pressione si allargano di molto nel caso della piastra più grande, interessando, a parità di pressione applicata nei due casi, spessori diversi del terreno di sottofondo.

Fig. 1.10 – Esperienza di Kögler-Scheidig a mezzo piastre quadrate di lato d1 e d2: le isobare a sinistra si riferiscono alla piastra piccola, quelle a destra alla piastra più grande.

Di conseguenza, se il terreno risulta costituito da più strati di diversa natura (ad es., ad uno strato superficiale di sabbia compatta segue un secondo di argilla plastica) quando si prova con una piastra di piccola estensione si può ottenere un determinato risultato, poiché la isobara relativa ad una data pressione interessa soltanto lo strato resistente di sabbia, mentre con una piastra più grande la medesima isobara interessa anche lo strato di argilla plastica, con risultato completamente diverso dal precedente.

Con queste condizioni si possono incontrare, in sede esecutiva, risultati non rispondenti, in quanto i dati forniti dalle prove di carico, per particolari situazioni dell’ammasso, non sono estensibili. Si rivela quindi consigliabile, tutte le volte che si vuole effettuare un lavoro diligente e preciso, eseguire, unitamente alle prove, anche dei saggi in profondità mediante trivellazioni o per mezzo di pozzi d’ispezione; ancora, occorre tener presente che i terreni devono considerarsi come solidi elasto-plasto-viscosi in cui assume notevole influenza anche il fattore tempo; tale aspetto del problema, sovente, risulta poco noto e spesso non sufficientemente valutato secondo la misura richiesta.

Il fattore tempo, infatti, assume influenza per quanto riguarda la velocità d’applicazione dei carichi (gradiente di carico); risulta quindi conveniente che, in ogni esperienza, tale velocità sia ben stabilita così come é anche necessario uniformare le letture ai sensori in fase di taratura.

È, altresì, opportuno fermare il carico quando si è raggiunto un prestabilito valore di pressione, attendendo, poi, l’arresto del display per leggere il cedimento. Dopo tali operazioni si riprende subito il carico usufruendo sempre del medesimo gradiente.

In genere la lettura della deformazione si esegue quando, raggiunto il carico di prova, il display indica una deformazione < 0.02 mm al minuto.

Le prove ripetute possono eseguirsi anche a cadenza rapida, applicando e rimovendo il carico in termini veloci, senza attendere, per le letture, lo stabilizzarsi della deformazione.

Eseguendo una prova di carico con piastra di diametro d fino a raggiungere un valore p1 di pressione sul terreno, la funzione pressioni-cedimenti è una curva del tipo di Fig. 1.11 in cui il ramo AB è relativo al carico e quello BC allo scarico. E’ da osservare che, allo scarico, si rileva una parziale restituzione ma che rimane una certa deformazione residua (AC = fp).

Fig. 1.11 – Curva pressioni-cedimenti di una prova di carico a ciclo unico.

Si chiama deformazione totale del ciclo (ft) quella relativa al punto Bdeformazione plastica (fp) quella del punto Cdeformazione elastica (fe) la differenza (ft – fp).

1.6.2 – Portanza mediante prova a cicli ripetuti

Eseguendo delle prove a cicli ripetuti (carico e scarico), in modo che nella fase di carico venga raggiunto sempre il medesimo valore di pressione massima, si ottengono delle curve pressioni-cedimenti del tipo di Fig. 1.12: da queste si nota che il cedimento plastico di ogni ciclo si va riducendo all’aumentare del numero di ripetizioni del carico mentre il cedimento elastico, differenza tra quello totale e quello plastico, si può ritenere permanga costante. Secondo McLeod, per un dato valore di pressione massima, è plausibile ammettere fe costante e ft = f1 + K log n, dove f1 è il cedimento totale (o freccia) relativo al primo carico, n il numero di ripetizioni e K una costante.

Fig. 1.12 – Curva pressioni-cedimenti di una prova di carico a cicli ripetuti per lo stesso valore di pressione massima.

Tali leggi risultano valevoli per qualunque valore della pressione massima raggiunta in ciascuna serie di cicli; al variare della pressione massima variano i valori di fef1 e K. In un diagramma semilogaritmico, avente come ascissa il logaritmo del numero delle ripetizioni di carico e come ordinata le frecce (Fig. 1.13), le relazioni di McLeod si rappresentano con 2 rette parallele, il cui intervallo misurato sulla verticale è la freccia elastica; la retta inferiore fornisce i valori totali della freccia plastica (Σfp) ossia la sommatoria delle frecce plastiche dei vari cicli allo scarico; la retta superiore, invece, i relativi valori della freccia totale (ft).

Fig. 1.13 – Andamento delle frecce totali e delle frecce plastiche in funzione del numero delle ripetizioni del carico (in scala logaritmica).

Circa la validità di tale legge, soprattutto per elevati valori del numero di ripetizioni del carico, si avanzano ancora dubbi non risultando sempre possibile l’estrapolazione dei risultati ottenuti operando in un ristretto campo di numero di cicli.

1.6.2.1 – Highway Research Board Method

L’Highway Research Board, partendo da tali premesse, ha elaborato un metodo per la determinazione della portanza consistente nell’esecuzione di almeno 3 prove a cicli ripetuti in un medesimo punto, ossia senza spostamento della piastra. In ciascuna prova si raggiunge un prestabilito valore di pressione massima prendendo nota delle frecce totali e delle frecce plastiche ottenute in ciascun ciclo; solo raramente si eseguono misure di cedimenti per valori intermedi.

Di norma non si superano i 6 cicli ma, tenute presenti le relazioni di McLeod, è possibile l’estrapolazione a 10, 102 e 103 ripetizioni di carico.

Nel calcolare i cedimenti ammissibili si deve fare astrazione da quello plastico dovuto alla applicazione del carico per l’assestamento iniziale relativo a ciascuna serie di cicli.

In sostanza, in un medesimo punto opportunamente scelto, si eseguono almeno 3 prove di carico secondo quanto esposto, raggiungendo rispettivamente i valori di pressione massima p1maxp2max e p3max (Fig. 1.14) notando le frecce totali ft e le frecce residue fp.

Riportati tali valori in un diagramma semilogaritmico avente per ascisse log n e per ordinate i cedimenti, è possibile ricavare, per estrapolazione, i valori ft ed fpper qualsiasi valore di n ed in particolare per n = 10, 102, 103 ripetizioni (Fig. 1.15).

Fig. 1.14 – Andamento delle frecce in funzione delle pressioni in una prova a cicli ripetuti per 3 diversi valori di pressione massima.

Fig. 1.15 – Diagramma delle frecce totali – ripetizioni del carico (log) per 3 diversi valori di pressione massima. Le frecce, determinate a 4 ripetizioni, sono state estrapolate.

Mediante questi valori si ottiene un ulteriore diagramma (Fig. 1.16) avente in ascissa le frecce ed in ordinata i valori delle pressioni applicate. Supponendo,quindi, che il cedimento, dopo un prestabilito numero di cicli, debba risultare f *, basta riportare tale valore sull’asse delle ascisse (cedimenti totali) a partire dall’origine e tracciare la verticale; l’ordinata del punto d’incontro di questa verticale con la curva, in genere una linea spezzata corrispondente al numero di cicli prefissato, definisce la portanza del terreno in esame.

Fig. 1.16 – Diagramma pressioni – frecce totali al variare del numero delle ripetizioni del carico, per la determinazione della portanza.

L’Highway Research Board per la determinazione della portanza stabilisce quanto segue:

–       prova a cicli ripetuti a cadenza lenta eseguendo da 4 a 6 ripetizioni per ogni incremento di carico, con piastra circolare Ø 76 cm; la prova viene condotta nel medesimo punto, senza spostare la piastra ogni volta che si cambia la pressione massima raggiungibile; estrapolazione a 10, 102, 103 e 104 cicli;

–       cedimento totale pari a 5 mm, dedotto il cedimento iniziale relativo a ciascuna serie;

–       10 ripetizioni di carico per strade a scarso traffico;

–       103 oppure 104 ripetizioni per piste aeroportuali di circolazione o per strade ad intenso traffico.

Il metodo è applicato anche per definire il carico massimo sopportabile da una sovrastruttura aeroportuale di tipo flessibile (→ cap. 2)

1.6.3 – Studio della portanza in base alla prova C.B.R. (California Bearing Ratio).

Al fine di determinare la portanza del terreno, oltre ai metodi esposti ne sono stati proposti altri: alcuni basati su concetti esclusivamente teorici, altri su criteri semiempirici. Fra questi ha assunto particolare importanza il metodo C.B.R., sia per la relativa facilità di esecuzione, sia perché consente di dimensionare una pavimentazione a mezzo di appositi diagrammi ricavati dalla esperienza attraverso uno studio statistico del comportamento di numerose pavimentazioni esistenti.

Il metodo consiste nel sottoporre un campione del terreno (preparato entro una fustella cilindrica) ad una prova di penetrazione effettuata a mezzo di un apposito pistone o ago di dimensioni prestabilite (Ø 50 mm – superficie 19,4 cm2) come in Fig. 1.17, ricavando il carico corrispondente a valori di affondamento di 2.5 e 5.0 mm, come precisato in seguito. Tali carichi vengono successivamente riferiti ad analoghi altri ottenuti su un terreno prestabilito; il relativo rapporto % rappresenta l’Indice C.B.R.

Fig. 1.17 – Dispositivo per la determinazione dell’Indice CBR (Controls).

Poiché si tratta di una prova convenzionale occorre rispettare le modalità d’esecuzione; molta attenzione altresì va posta nella preparazione dei campioni affinché vengano riprodotte le condizioni in cui potrà venirsi a trovare il terreno, e ciò non è sempre facile, specialmente per quanto riguarda le condizioni di densità e di umidità; a questo proposito, al fine di operare a favore della sicurezza, in particolare se si tratta di esaminare terreni di trincea che costituiscono il piano di posa della soprastruttura e che possono essere parzialmente o totalmente imbibiti d’acqua, è consigliabile sottoporre a prova il campione, preventivamente compattato all’umidità ottima, in condizione dì saturazione. Questo si ottiene in laboratorio immergendo in acqua il campione, già preparato e caricato con un certo numero di pesi costituiti da anelli in piombo (rappresentanti il peso della soprastante pavimentazione) per 4 giorni, ritenendo tale durata sufficiente a che la terra sia completamente satura d’acqua. Sotto tali condizioni è opportuno rilevare anche il rigonfiamento del campione medesimo, durante e alla fine dell’imbibizione in acqua, a mezzo di un comparatore elettronico.

La preparazione dei provini deve essere eseguita in modo opportuno secondo la particolare condizione del sottofondo su cui si dovrà poggiare la pavimentazione. Nel caso di rilevato, quasi sempre, il provino viene approntato alla umidità ottimale, onde conseguire la densità massima (del secco) di costipamento. La ricerca dell’indice si esegue su tale provino ed, eventualmente, su altro, preparato in modo analogo, e poi portato a saturazione.

Per i terreni di sottofondo di trincea, è opportuno operare con uno dei seguenti criteri:

–       su provini indisturbati, prelevati servendosi di attrezzature idonee;

–       con provini ricostituiti in laboratorio aventi medesima densità e umidità del terreno dell’ammasso;

con provini ricostituiti in laboratorio all’umidità ottima di costipamento (AASHTO T193, EN 13286-47, CNR UNI 10009), a condizione che in situ si raggiungano la medesime condizioni di densità mediante idonea compattazione del sottofondo. Con quest’ultimo criterio la prova si può effettuare a saturazione. In ogni caso occorre ricorrere alla prova a saturazione qualora si tema che il terreno in sito possa trovarsi in particolari condizioni d’imbibizione (ad es., causa risalita d’acqua per capillarità).

Per i provini da confezionare in laboratorio si utilizza la frazione del terreno passante al crivello da 25 mm sempre che la frazione trattenuta non superi il 35% in peso del totale.

Il terreno, così vagliato e umidificato alla % d’acqua prescelta secondo i criteri esposti, viene posto entro un apposito contenitore di forma cilindrica (Ø 152 mm, altezza 178 mm) provvisto di una base perforata e di una prolunga cilindrica, entrambi amovibili. Sul fondo del cilindro si pone un disco spaziatore, d’acciaio, dello spessore di 51 mm; quindi il terreno va compattato entro il suddetto contenitore in cinque strati per mezzo di un pestello del diametro di 50,8 rum e del peso di 4,5 kg, che si fa cadere da un’altezza di 45,7 cm. Di norma il costipamento si esegue applicando 55 colpi per strato (energia di costipamento uguale a quella della prova standard AASHTO). Terminato il costipamento si toglie la prolunga e si taglia la parte di terra in esubero; in queste condizioni il provino cilindrico presenta un’altezza di mm 127. Prima di eseguire il costipamento del primo e dell’ultimo strato si prelevano piccole quantità di terra sulle quali si misura il contenuto d’acqua. Si determina, inoltre, il peso del campione costipato dal quale si sottrae il peso noto del contenitore cilindrico e dell’acqua, cosi da ricavare, molto agevolmente, la densità secca.

   

Fig. 1.18 – Dispositivo per la misura del rigonfiamento prima di una prova CBR a saturazione.

Infine, si dispone una base perforata nella parte superiore (interpo­nendo un foglio di carta da filtro), si rivolta il campione e si rimuove il disco spaziatore; perciò la superficie che durante la preparazione era in basso diventa quella su cui si dovrà eseguire la penetrazione; in tal modo il provino è pronto per la prova.

Se si ricerca l’indice a saturazione occorre lasciare il campione, così preparato, immerso in acqua per quattro giorni, come avanti specificato. Si ricorda che prima della prova si pongono sulla superficie del campione dei dischi di piombo forati, in modo da permettere il passaggio del pistone. Per la prova si fa penetrare verticalmente sulla superficie del campione il pistone con velocità costante (1 mm ogni 50 s) e s’effettuano le letture al display nel momento in cui si verificano i successivi affondamenti (0.5 – 1.0 – 1.5 – 2.0 – 2.5 – 3.0 – 4.0 – 5.0 – 6.0 – 7.0 – 8.0 mm). Si traccia, così, un diagramma come in Fig. 1.19 rilevando i valori dei carichi unitari sul pistone in corrispondenza degli affondamenti di 2.5 e 5.0 mm. Si riferiscono poi detti carichi a quelli che, per i medesimi affondamenti, sono stati trovati per il terreno campione e precisamente 70 kg/cm2 per l’affondamento di 2.5 mm e 105 kg/cm2 per 5.0 mm.

Fig. 1.19 – Curve pressioni-affondamenti ottenute con prove CBR per 2 diversi terreni; per il terreno B si è applicata la relativa correzione.

Per detto terreno l’Indice CBR risulta:

–       a 2.5 mm I2.5 = (p2.5 100/70)

–       a 5.0 mm I5.0 = (p5.0 100/105)

assumendo come valore Indice del terreno il maggiore dei due purché non differiscano molto fra loro; in caso contrario si rivela consigliabile ripetere la prova.

Qualora la curva affondamenti-pressioni dovesse presentare all’inizio un flesso, si provvede alla correzione della medesima (Fig. 1.19, curva B) spostando l’origine delle letture da 0 in 0′; leggendo in tal caso il carico unitario relativo all’affondamento di 2.5 mm in corrispondenza di M’ e non di M; il valore dell’Indice così ottenuto si definisce Indice C.B.R. corretto.

Per rendere manifesto il comportamento del terreno sotto l’azione del pistone e comprendere, quindi, il significato della prevista correzione, è necessario a questo punto esaminare più attentamente il fenomeno.

L’andamento della curva pressioni-affondamenti è determinata da due diverse cause:

–       compressibilità del terreno: l’ago si abbassa senza che si verifichino rifluimenti laterali ma per semplice addensamento dei granuli;

–       plasticizzazione: i cedimenti sono dovuti a rifluimento laterale essendo stato superato il carico critico.

Nel primo caso la curva pressioni-affondamenti presenta il classico andamento di una prova edometrica (ad espansione laterale impedita, Fig. 1.20a), mentre nell’altro mostra, all’inizio, un breve tratto rettilineo (comportamento elastico) cui segue un secondo curvilineo (comportamento plastico).

Fig. 1.20 – Andamento delle curve pressioni-affondamenti (prova CBR) in 2 terreni: a) terreno granulare; 6) terreno limo-argilloso plastico.

Operativamente i 2 fenomeni si presentano in contemporanea, per quanto con diversa entità determinandosi, eventualmente, in maggior misura il primo all’inizio ed insorgendo, poi, il secondo. Il diverso andamento della curva degli affondamenti è da imputare alla maggiore o minore attitudine del terreno alla compressibilità istantanea ed al valore dell’attrito interno. Curve del tipo a si osservano nei materiali granulari mentre quelle del tipo b si riscontrano nei terreni fini.

Nei terreni granulari si osserva, dapprima, un certo addensamento (concavità della curva verso l’asse delle pressioni) cui segue un andamento quasi rettilineo fino al raggiungimento della fase plastica con elevati valori di pressione.

La plasticizzazione, viceversa, prende avvio per valori modesti dell’affondamento nei terreni fini (in particolare se la prova viene eseguita dopo saturazione) a motivo della loro bassa attitudine all’addensamento e per il minimo valore dell’attrito interno.

La determinazione del C.B.R. può eseguirsi anche sul terreno in sito servendosi di un’apposita apparecchiatura detta C.B.R. di campagna. Tali valori sono generalmente inferiori a quelli ottenuti, per il medesimo terreno, in prove di laboratorio; le variazioni sono da attribuire, oltre alla possibilità che le caratteristiche del terreno in sito siano diverse da quelle del materiale usato in laboratorio ed alla particolare modalità d’addensamento, soprattutto all’effetto di contenimento delle pareti della fustella che si determina nella prova di laboratorio: le differenze più elevate, infatti, si osservano quando si opera su terreni incoerenti o con scarsa coesione.

E’ ancora da notare che l’Indice C.B.R. di laboratorio, a parità di energia di costipamento, dipende dal tenore d’acqua usato nella preparazione del campione; ciò anche quando si operi dopo saturazione.

La legge di variazione dell’indice C.B.R. col contenuto d’acqua viene espressa graficamente da una curva a campana (presentante un massimo per un determinato w) del tutto analoga a quella del costipamento cui s’è accennato (Fig. 1.21).

Il valore massimo di densità del secco ed il valore massimo dell’indice C.B.R. non si rilevano, di norma, in corrispondenza del medesimo contenuto d’acqua, e possono discostarsi molto.

La conoscenza, per un determinato terreno, delle leggi che indicano la variazione dei valori dell’indice C.B.R. (mantenendo costante l’energia di costipamento) e del peso secco di volume γs col contenuto d’acqua w permette di determinare il valore dell’indice da attribuire per dato valore della densità riscontrata in sito nelle condizioni di saturazione e non saturazione.

È interessante notare, infine, che la prova C.B.R. oltre a fornire un dato sulla capacità portante del terreno, può dare un’idea sulle sue caratteristiche meccaniche, motivo per cui, insieme alle altre prove, può servire ad una più completa conoscenza delle relative proprietà.

Qualora non fosse possibile eseguire la prova C.B.R., Peltier pone di calcolare il valore approssimato col cosiddetto Fattore di portanza (F), ricavato dal limite di liquidità LL e dall’indice di plasticità IP della terra mediante la relazione:

F = 4500/LL IP ≈ I

indicato con I l’Indice C.B.R.

La relazione è valida per i terreni plastici perdendo di significato per IP = 0.

Fig .1.21 – Raffronto fra i valori dell’Indice C.B.R. e quelli del peso specifico del secco al variare del contenuto di acqua e dell’energia di costipamento. In entrambi i casi l’aumento dell’energia di costipamento determina un innalzamento dei valori i cui massimi corrispondenti sì discostano fra loro.

Per i terreni non plastici (ad es. sabbie) Peltier consiglia di assumere F = 20. Questi valori di F devono risultare vicini al corrispondente indice C.B.R.; in mancanza di questo possono servire ad usare i diagrammi con i quali si calcola lo spessore delle pavimentazioni in base al C.B.R..

1.7 – Modulo di reazione e di compressibilità

Stabilito, come si è visto, il valore di portanza di un terreno come pressione corrispondente ad un prestabilito cedimento, rimane definito anche il modulo dì reazione K, rapporto fra la sopraddetta pressione p ed il relativo cedimento f:

K = p/f

se p è misurato in kg/cm2 ed f in cm, K risulta espresso in kg/cm3; quanto più elevato è il valore di K, tanto migliori sono da ritenersi le proprietà portanti del terreno.

Westergaard, per il calcolo delle pavimentazioni rigide (in calcestruzzo) ha definito convenientemente un modulo K (detto appunto modulo di Westergaard) quale rapporto fra la pressione che, in una prova a ciclo semplice, con piastra circolare Ø 76 cm, fornisce un abbassamento di 0,05″ e il cedimento stesso.

Misurando la pressione p in libbre per pollice quadrato (lb/sq inch) ed il cedimento in pollici (inch) risulta:

K = p/1/20 = 20 p

Quindi, si ha K = 100 se la pressione di 5 libbre per pollice quadrato determina il cedimento di 0,05 pollici alla piastra rigida da 76 cm di diametro. Usando le unità di misura metriche si ottiene:

K = p/0.125 = 8p (kg/cm3)

per cui K = 10 si ha allorché, applicando alla piastra una pressione di 1.250 kg/cm2, il cedimento risulta pari a 0.125cm.

Orientativamente, terreni granulari del tipo A1 ed A3 forniscono valori di K compresi entro 9÷20 kg/cm3, terreni A2 valori entro 5÷15, mentre per terreni A4 , A5A6 ed A7 i valori di K sono molto inferiori (K = 1.5÷6 kg/cm3) e variabili in relazione alle condizioni dell’ammasso.

Al fine di normalizzare una prova sufficientemente semplice da utilizzare per stabilire un parametro per l’accettazione di determinate strutture in terra, l’Association Suisse de Normalization ha studiato un criterio di portanza basato su una prova a ciclo unico.

Tale prova viene ottenuta con una piastra da 16 o 30 cm di diametro (per i terreni di sottofondo la prima, per gli strati della soprastruttura la seconda) e consistente nel rilevare la curva pressioni-cedimenti.

Si definisce, così, modulo di compressibilità (Me) il rapporto fra un certo intervallo di pressione Δp (variabile in relazione alla struttura in esame) ed il relativo intervallo di freccia Δf, moltiplicato per il diametro d della piastra (Fig. 1.22):

Me = dΔp/Δf (kg/cm2)

Assumendo Δf = 1, il campo di variabilità può scegliersi entro i seguenti limiti:

–       1.5÷2.5 kg/cm2 per terreni di sottofondo;

–       2.5÷3.5 kg/cm2 per terreni di fondazione;

–       3.5÷4.5 kg/cm2 per strati di base.

Valori accettabili del modulo si ritengono:

–       per strati di base Me ≥ 1000 kg/cm2;

–       per strati di fondazione Me ≥ 800 kg/cm2;

–       per terreni di sottofondo Me ≥ 150÷300 kg/cm2.

Fig. 1.22 – Diagramma pressioni- cedimenti per la determinazione del modulo di compressibilità.

1.8 – Distribuzione dei carichi nell’ammasso

Ogni qual volta si ricerca la portanza di un ammasso in relazione a determinati carichi è opportuno tener presente il modo con cui le tensioni indotte da detti carichi si distribuiscono nel terreno. Tali studi, in merito ai quali si sono sviluppate numerose teorie, prendono le mosse dalla estensione della Teoria dell’elasticità ai problemi geotecnici. Questa teoria, come è noto, è applicabile ai corpi elastici, isotropi ed omogenei. In particolare le ipotesi di partenza riguardano:

–       la continuità dell’ammasso considerato;

–       la piccolezza delle componenti dello spostamento, cosi da ritenere trascurabili i loro prodotti e le loro potenze;

–       la perfetta elasticità del corpo, in modo da considerare ammissibile la proporzionalità fra tensioni e deformazioni (legge di Hooke) ed un unico valore del modulo di elasticità a trazione ed a compressione;

–       omogeneità ed isotropia in tutte le direzioni.

Boussinesq considera ancora il terreno incompressibile (coefficiente di Poisson μ = 0,5) e, supponendo che l’ammasso sia rappresentato da un semispazio elastico, isotropo ed omogeneo delimitato da un piano orizzontale, fornisce le tensioni interne all’ammasso medesimo dovute ad un carico P verticale, concentrato, agente sul detto piano limite (Fig. 1.23).

Fig. 1.23 – Tensioni interne ad un ammasso  rappresentato da un semispazio elastico, omogeneo ed isotropo generato da un carico P verticale.

In particolare la tensione radiale σr risulta data da:

mentre la tensione verticale agente su un elementino orizzontale (x,y,z) è data da:

e la tensione orizzontale è data dalla:

Se l’elementino si considera normalmente alla verticale del carico alla profondità z (ossia per z = r e cos υ = 1, si ha:

Frölich perviene ad una relazione più generale, funzione di un parametro n, che deve essere di volta in volta determinato in relazione alle caratteristiche meccaniche del terreno che si considera. La tensione radiale è fornita dalla espressione:

quella verticale da:

e quella orizzontale:

Le espressioni iniziali, per μ = 0.5, ossia le ultime, una volta fissato il valore di n, permettono di ricavare le 3 tensioni, radiale, verticale ed orizzontale, in ogni punto dell’ammasso.

Nella Fig. 1.24 viene riportata la distribuzione delle tensioni verticali σv in un piano z = cost, per n = 3, 4 e 6; nelle Figg. 1.25 e 1.26, viceversa, è rappresentata la tensione σv in punti x2 + y2 = cost e la σ0 su un piano z = cost, rispettivamente.

E’ inoltre possibile determinare le isobare per un dato n (Fig. 1.27); in Fig. 1.28, invece, sono indicate le isobare relative ad una medesima profondità z al variare del parametro n.

Fig. 1.24 – Andamento delle tensioni a in un ammasso, su un piano z = cost, per diversi valori di n (Frölich).

Fig. 1.25 – Variazione della tensione σv per i punti x = cost.

Fig. 1.26 – Variazioni della tensione orizzontale σ0 nel piano z = cost.

Fig. 1.27 – Determinazione delle isobare per un dato n.

Fig. 1.28 – Determinazione delle isobare al variare della profondità per un dato n.

Dalle esposte relazioni relative allo stato tensionale nell’ammasso per il carico P verticale concentrato, posto sul piano limite, sono ricavabili quelle corrispondenti a condizioni di carico più complesse applicando il principio della sovrapposizione degli effetti.

Così per il carico di intensità p, uniformemente distribuito, lungo una linea di lunghezza l, si ricava la tensione verticale (Fig. 1.29):

La tensione σv su un piano, alla stessa profondità z, ma spostato di nella direzione y, può ricavarsi considerando dapprima la tensione per un carico lineare di lunghezza (l+y1) e togliendo dal valore così ottenuto quello della tensione relativa al carico lineare di lunghezza y1.

Fig. 1.29 – Determinazione della tensione verticale.

Per le considerazioni svolte sul calcolo delle pavimentazioni è interessante determinare la tensione verticale entro un ammasso nel caso di carico sulla superficie limite costituito da un carico uniformemente ripartito p su una superficie circolare di raggio a (Fig. 1.30).

Sempre con le ipotesi di partenza, per i punti corrispondenti alla verticale passante per il centro della detta superficie circolare, si ha:

essendo β un coefficiente funzione del rapporto a/z (Tab. 1.4).

La tensione orizzontale, alla profondità z, invece, è data da:

Tab. 1.4 – Valori di β in funzione di a/z (carico uniformemente distribuito su un’area circolare).

II massimo sforzo di taglio, poiché σv e σ0 le tensioni principali, è:

τmax = (σv – σ0)/2

Nel caso di piastra rigida di raggio a, detto E il modulo di elasticità del terreno, Boussinesq ha calcolato il cedimento f al centro della piastra:

L’ultima espressione, per μ = 0.5 vale, semplicemente:

f = 1.19 pa/E

II modulo E può venire ricavato, quindi, da una prova con piastra, in base alla conoscenza del cedimento f, una volta fissati p ed a:

E = 1.19 pa/E

Non sempre, tuttavia, l’ammasso può supporsi vicino alle condizioni di elasticità, isotropia ed omogeneità motivo per cui l’interpretazione del modulo E con la relazione va usata con opportune cautele.

Numerose verifiche sperimentali confermano la possibilità di applicare ai terreni le teorie della distribuzione delle tensioni delle quali si è data una sintetica esposizione; fra queste si ricordano le esperienze di Kögler & Scheidig, ottenute operando su terreni sabbiosi con carico trasmesso all’ammasso da un disco rigido del diametro di 45 cm. La distribuzione delle pressioni alle varie profondità è simile a quella riportata in Fig. 1.30.

Fig. 1.30 – Distribuzione delle pressioni a varie profondità (esperienze di Kögler & Scheidig).

1.9 – La preparazione del sottofondo

Si è già definito come sottofondo il terreno naturale sul quale poggia il rilevato o, in assenza di questo, il pavimento o sovrastruttura.

Il trattamento del sottofondo per renderlo idoneo a sopportare i carichi previsti varia con la natura e lo spessore del sovrastante rilevato:

–       se si tratta di massicciata stradale (la cui larghezza ben raramente supera quella della sovrastruttura prevista) e il rilevato non supera i 60 cm d’altezza, la si scarifica, omogeneizzando l’intera superficie interessata compattando poi secondo norma. Nel caso la sovrastruttura poggi direttamente su questa e la portanza sia sufficiente possono bastare ripristini di quota con rappezzi in conglomerato bituminoso economico;

–       qualora fosse prevista la costruzione del pavimento direttamente su un letto roccioso, questo va preventivamente scarificato (se la roccia è da mina i fori vanno spinti per 20÷25 cm oltre il piano di scavo previsto usando poi un rullo a griglia per sminuzzare i detriti) e quindi costipato; l’operazione è necessaria per regolarizzare la superficie e portarla alla quota prevista prima di ricevere il primo strato del pavimento;

–       per le terre in generale, comunque, è necessario individuarne prima la natura meccanica attraverso le prove di caratterizzazione e costipamento, la granulometria, i Limiti di Atterberg, il tenore di umidità naturale, la prova edometrica nel caso di terre argillose, la prova Proctor std o modificata e, nel caso di sospetta compressibilità accentuata, le prove penetrometriche; ancora, si richiede a volte la determinazione della capacità portante espressa dal modulo di deformazione Md (ricavato con prove di carico applicando la piastra da 30 cm e calcolato al primo ciclo di carico nell’intervallo compreso tra gli incrementi di carico fra 0.5 ed 1.5 kg/cm2); questa prova, tuttavia, assume carattere di controllo sul piano di posa già trattato mentre il modulo Md deve risultare > 150 kg/cm2per rilevati con h < 4 m.

Tab. 1.5 – Portanza media dei materiali naturali in kg/m2.

Il terreno vergine, se appartenente ai gruppi A1A2A3 di cui alla Tab. 1.6, sia nella sezione in scavo che al piano di campagna (previa asportazione eventuale della coltre di terra vegetale) deve essere scarificato per uno spessore di 30 cm, portato all’umidità ottimale e compattato al 90÷95 % della densità ottenuta con la prova Proctor.

Se appartenente agli altri gruppi può, a seconda del gruppo, essere migliorato con la stabilizzazione, con i metodi descritti nel vol. 2° oppure deve essere sostituito. Come pratica indicativa ci si deve preoccupare che il materiale di sottofondo abbia un OMC (ottimale di umidità per la compattazione) < LR (limite del ritiro).

Si rivela altresì molto utile, in ambiente umido, conferire al piano di posa una pendenza del 3-4 % al dine d’evitare pericolosi ristagni di acque che porterebbero ad aumentare lo spessore della sovrastruttura ai bordo dove più sono sentiti gli effetti del traffico.

La resistenza di un sottofondo,  può cambiare durante la vita della strada; molto frequentemente, infatti, si verifica una riduzione di tale resistenza detta regressione del subgrade (o del sottofondo) e nel progetto della struttura si deve tener conto di tale eventualità. Le forme attraverso le quali tale cambiamento si esplica sono:

– assestamento del materiale per espulsione dell’aria e conseguente riduzione di volume;

– cedimenti più o meno localizzati per l’esistenza di strati poveri (torbe, argille plastiche etc.);

– rigonfiamenti delle superfici in sterro per la diminuita pressione a seguito della rimozione del materiale sovrastante;

– assestamenti stagionali dovuti a modifiche del contenuto di umidità;

– cedimenti per instabilità delle scarpate.

Tab. 1.6 – Classificazione delle Terre (UNI CNR 1006).

Tab. 1.7 – Misure da prendersi in presenza di sottofondi poveri.

Calcolati gli sforzi cui il terreno di sottofondo è sottoposto per effetto dei carichi statici (rilevato e sovrastruttura) e dinamici (traffico), adottando le procedure illustrate e sulla base delle prove di controllo accennate, la non idoneità momentanea o per futura regressione può essere superata ricorrendo ad una o più delle seguenti procedure:

– col costipamento meccanico, ottenuto eventualmente anche con l’infissione di pali (molto efficaci se la falda è bassa);

– con la stabilizzazione meccanica o chimica riservata sopratutto alle terre argillose e limose oppure quando il rilevato sovrastante è limitato ai 2÷3 m di altezza;

– con formazione di drenaggi trasversali intervallati di 4÷6 m riempiti di materiale granulare oppure di strati drenanti di sabbia per evitare la saturazione del sottofondo facilitando lo scolamento delle acque;

– con altre forme di drenaggio quali cunette, fossi di guardia, pozzi etc. intese ad abbassare il livello della falda;

– con la impermeabilizzazione o l’interposizione di strati fibrosi tra il sottofondo e la sovrastruttura o tra il sottofondo trattato e quello sottostante;

– col rafforzamento indiretto interponendo una sottobase più o meno consistente in appoggio agli strati di base;

– prevenendo fenomeni erosivi, frane e cedimenti;

– mediante la tecnica del sovraccarico e dei pali di sabbia;

– limitando, viceversa, l’altezza del rilevato;

– rimuovendo per la profondità necessaria il materiale scadente per sostituirlo con altro idoneo.

1.9.1 – Impermeabilizzazione del piano d’appoggio del rilevato o della sottobase e impiego di strati fibrosi

L’interposizione di fogli di plastica o di uno strato di materiale bituminoso che impedisca la risalita delle acque del sottosuolo viene trattata in  L’interposizione di uno strato fibroso, utilizzando fascine di legna, graspe d’uva, erbe di palude e simili quando siano disponibili in quantità ed a basso prezzo è una tecnica economica che si avvale della proprietà delle fibre legnose di conservarsi a lungo se tenute lontane dall’aria e quindi dai batteri aerobi che ne provocano la decomposizione. Lo scopo è di proteggere il sovrastante rilevato dalla risalita dell’umidità ed è applicabile sopratutto su fondazioni sabbiose; i risultati sono proporzionati all’economia del sistema.

Più moderni ed efficaci risultano i feltri di materiale polimerico (ad es. polipropilene) le cui fibre vengono fuse tra loro termicamente senza perdere le caratteristiche che conferiscono al tessuto notevole resistenza allo strappo, agli agenti chimici, sia allo stato secco che bagnato, e notevoli proprietà filtranti.

Si distinguono i seguenti tipi:

–       a filamenti fini orientali senza ordine e saldati ai loro punti di contatto;

–       idem incollati a caldo o mediante un legante;

–       tessuti.

Le differenti utilizzazioni possibili riguardano:

– qualora sottoposti ad uno strato di terra aumentano notevolmente la portanza di una pista o di un qualsiasi altro percorso consentendo il transito di veicoli di cantiere che altrimenti sprofonderebbero.

– qualora posti tra sottofondo e rilevato o sottofondo e pavimento:

–       consentono una notevole riduzione del rilevato (quando lo scopo sia il rafforzamento della portanza del sottofondo) con una funzione analoga a quella del ferro nel cemento armato;

–       evitano l’inquinamento degli strati portanti da parte del materiale povero sottostante e l’affondamento, per effetto dell’azione dinamica e ripetitiva del traffico, del materiale granulare con conseguente deperimento della struttura;

–       agiscono quali strati drenanti o alternativamente impermeabili a seconda del tipo scelto quando appunto si voglia facilitare il flusso dell’acqua trattenendo il solido oppure impedire gli effetti deleteri dell’umidità.

– qualora interposti tra strati del rilevato ne aumentano la portanza e la resistenza alle frane e consentono di aumentare l’inclinazione della scarpata.

– qualora stesi sulle scarpate evitano la loro erosione e facilitano l’attecchimento della cotica erbosa.

– qualora interposti tra tappeti bituminosi ne aumentano notevolmente la portata; risulta molto efficace la loro interposizione tra un vecchio tappeto fessurato ed un nuovo manto bituminoso utilizzando però poliesteri con temperatura di fusione > 256°C.

In ogni caso, in presenza di terre molto povere e con falda freatica alta possono costituire una economica alternativa ai pali.

Fig. 1.31 – Utilizzazione come sottobase di una terra limo-argillosa in regioni piovose.

1.9.2 – Assestamento del sottofondo con drenaggi – Pali di sabbia

II progressivo assestamento di un terreno è dovuto in parte alla compressione elastica conseguente al peso del rilevato e sopratutto alla consolidazione per effetto della riduzione dei vuoti ed è più accentuato quando si tratta di terre compressibili sature.

Di conseguenza maggiore risulta l’altezza del rilevato e più alto si rivela il valore dell’assestamento. La tecnica dell’assestamento accelerato mediante sovraccarico è applicabile vantaggiosamente quando il sottofondo povero è difficile da rimuovere anche se, ad es., i depositi torbosi delle paludi,  adatti all’applicazione di tale tecnica, sovente non si assestano in modo uniforme.

Ancora, si può applicare il sovraccarico sui rilevati aggiungendo ulteriore materiale di riporto (da rimuovere, poi, almeno dopo 1 anno) sopratutto nei tratti a ridosso delle spalle dei ponti dove altri sistemi, quali la compattazione, si rivelano di costosa applicazione.

Si può ridurre a tempi brevi l’assestamento di un terreno compressibile saturo ricorrendo a drenaggi verticali di sabbia spinti fino a raggiungere lo strato solido sottostante sempre che a profondità accessibile.

Coi drenaggi di sabbia si alleggerisce la pressione idrodinamica che si sviluppa proporzionalmente al crescere dello spessore del rilevato: l’acqua, che affluisce anche dal terreno circostante, tende a portarsi in superficie per effetto del sovraccarico e attraverso il filtro costituito dalla sabbia; drenaggi trasversali o strati filtranti posti sulle colonne di sabbia portano in seguito l’acqua fuori dell’area interessata.

Il procedimento costruttivo dei drenaggi verticali è schematizzato in Fig. 1.32.

Le colonne vengono normalmente spaziate a 2÷4 metri il loro diametro usuale è di 30-80 cm anche se in certi casi si arriva a diametri di alcuni metri.

La perforazione del terreno può essere effettuata o con tubi ad acqua ed aria compressa oppure con pali cavi a punta staccabile od apribile; raggiunto lo strato solido il tubo è riempito di sabbia e quindi estratto.

Fig. 1.32 – Le successive fasi di costruzione dei drenaggi di sabbia verticali.

Ad evitare interruzioni della colonna di sabbia si inietta aria compressa dalla testata man mano che il tubo è sollevato col duplice scopo di facilitarne l’estrazione e di spingere la sabbia verso il fondo dove i vuoti sarebbero altrimenti riempiti dalla fanghiglia.

Recenti esperienze hanno convalidato un metodo di consolidamento delle terre argillose deboli consistente nella perforazione fino a 5 m. sotto il piano campagna con tecnica analoga alla precedente sostituendo poi alla colonna di sabbia uno stoppino di tessuto poliestere resistente al gelo ed agli agenti chimici e che, essendo costituito per 20% da materia solida col restante 80% da aria) è dotato di elevata capillarità.

Disponendo i fori secondo un reticolo di 2 m di lato è possibile ottenere un consolidamento del suolo fino all’80% del totale entro i primi mesi dalla costruzione del sovrastante rilevato. Un terzo metodo, impiegato in alcuni paesi del nord-Europa, consiste nell’iniettare, man mano che il tubo infisso nel terreno argilloso viene ritirato, della calce viva (in quantità 6-9% del peso secco del terreno cui viene mescolata) all’argilla per effetto della rotazione del tubo (75 giri/60”) durante l’estrazione: con Ø di 50 cm si possono realizzare ~300 m di colonne in 8 ore.

Fig. 1.33 – Ricostruzione schematica dei drenaggi verticali di sabbia e curve di consolidamento senza drenaggi.

1.9.4 – La tecnica dell’addensamento mediante compattazione dinamica in profondità

La tecnica dell’addensamento per compattazione dinamica profonda può sostituire in alcuni casi i pali con notevole risparmio e, oltre ad aumentare la capacità portante del terreno, accelerarne l’assestamento (effetto importante in caso di previsione di costruzione di strutture pesanti, installazione di macchinari etc.) migliorandone anche il comportamento dinamico (zone sismiche) e riducendone la permeabilità.

Fig. 1.34 – Compattazione dinamica di profondità (metodo per impatto).

I materiali trattabili con successo sono quelli granulari allo stato naturale sciolto, le terre cedevoli in genere, i rilevati non coesivi includenti anche rottami, strati poggianti su formazioni di calcare (che tende a disgregarli) ed anche alcune terre coesive.

Le 2 tecniche usate, per vibrazione o per impatto, sono efficaci anche fino a 30 m di profondità.

–       nel primo caso, si utilizzano vibratori a poker cioè aste pesanti di acciaio munite di alette lunghe da 2 a 5 m portate da una gru laddove un motore ausiliario, posto dietro al braccio di questa, fornisce l’energia ad un vibratore elettrico o idraulico applicato all’asta. II livello del terreno che si abbassa per effetto dell’addensamento viene continuamente ripristinato con sabbia. L’operazione può essere condotta per strati partendo da quello inferiore e passando al successivo una volta raggiunta la densità voluta da accertare mediante SPT. La densità dei centri di compattazione è dettata dalle esigenze del caso: in presenza di sabbie permeabili le alette delle aste sono più spaziate e più piccole mentre il processo di vibrazione è svolto velocemente per evitare il bloccaggio dell’apparato nel terreno; viceversa, se la sabbia è fine, le alette sono più larghe e più fitte. Nelle terre coesive (limi e argille) dove la vibrazione ha poco effetto pur usando lo stesso macchinario, s’introduce della ghiaia nel foro aperto dal vibratore che viene costipata successivamente. L’intervallo delle colonne di ghiaiaè previsto entro 1.2÷3.0 m mentre la portata di ognuna è tra 10÷40 t. La quantità di ghiaia introdotta è un indice dell’efficacia del trattamento.

–       il metodo per impatto (Fig. 1.34) consiste nel far cadere un peso (fino a 40 t ) da grande altezza (fino a 40 m) risultando anch’esso è efficace per terre granulari o depositi artificiali di materiale; con tale tecnica, maggiore è lo spessore dello strato da compattare, più elevati sono il peso e l’altezza di caduta. Dopo ogni passata il terreno è livellato con una ruspa che riempie così i vuoti prodotti dai successivi impatti. I controlli della densità vengono eseguiti tramite Pressiometri, prove CPT oppure a mezzo di rilevamenti topografici che consentano di misurare la diminuzione dell’altezza del corpo terroso e quindi del suo volume.

1.9.5 – La stabilizzazione con Pali di sale

Alcune argille di particolare natura (e in particolari condizioni ambientali) non sono in grado di sopportare una struttura stradale che, stimolata dalle vibrazioni causate dal traffico, tende a sprofondare mentre eventuali ricarichi d’inerti hanno solo effetto temporaneo.

Si tratta di argille che, oltre ad una componente notevole d’inerte molto fine, contengono anche minerali detti sialliti (caolinite, illite, vermiculite, clorite. montmorillonite) i quali, in presenza d’acqua, conferiscono alla massa argillosa comportamenti diversi, a volte contrastanti, quali il rigonfiamento oppure il collasso anche improvviso, motivo per cui il sovraccarico, ossia il corpo stradale, all’accentuarsi dei fenomeni, viene inghiottito come si trattasse di sabbie mobili.

Tuttavia, se in queste argille ed anche in certi limi argillosi si diffondono particolari sali, la loro microtessitura, responsabile di tale comportamento, muta radicalmente aumentando notevolmente la coesione in modo irreversibile.

Il sale che, sotto vari profili, risulta più idoneo per questo mutamento è il KCl (cloruro di potassio) che deve essere diffuso abbastanza velocemente ed omogeneamente nel terreno fino alla profondità desiderata.

Le operazioni hanno inizio con sondaggi a carotaggio continuo fino a profondità max di 10÷15 m e comunque fino all’eventuale strato portante (quasi sempre sabbioso) per sottoporre poi i campioni alle analisi (soprattutto al diffrattometro a raggi x ) che individuano il tipo di argilla.

Si tratta, quindi, di infiggere dei pali di KCl (Ø 100÷150 mm) secondo un reticolo a maglie quadre di 1.0÷1.3 m di lato, che raggiungano lo strato portante. Il trattamento viene esteso a 2 strisce parallele alla piattaforma stradale, larghe 3 m ognuna, allo scopo di ottenere un blocco omogeneo ed isotopo che, se dello spessore di 8÷10 m, sarà in grado di sopportare qualsiasi carico statico e dinamico. L’esecuzione del palo di sale può avvenire:

–       mediante perforazione elicoidale, ossia un intervento rapido, non richiedente attrezzatura pesante; è tuttavia sconsigliabile nel caso di strade esistenti quando, cioè, si deve anche attraversare la massicciata stradale oppure si teme la chiusura del foro in profondità per la presenza di limi o argille sature;

–       mediante perforazione con circolazione d’acqua e messa in opera di una colonna provvisoria di rivestimento; la tecnica è efficace ma lenta e costosa ed inoltre come nel  primo caso, usualmente si estrae materiale in misura superiore al volume del foro eseguito con conseguente diminuzione della densità dello strato;

–       mediante camicia provvisoria per vibro-infissione utilizzando un vibratore da 4 t ed una gru cingolata; è il metodo che richiede le attrezzature più complesse ma permette l’immissione del sale attraverso il tubo vibro-infisso senza evacuazione di materiale aumentando, quindi, la densità essendo il sale costipato dalla vibrazione.

I migliori risultati ottenuti sinora con tale tecnica sono stati individuati su terre poco plastiche e poco sensitive (s = 2÷4) ed in particolare su limi argillosi ed argille tenere omogenee.

1.9.6 – La sostituzione del materiale inadeguato

E’ la soluzione più adottata in presenza di terre organiche miste ad argille e torbe, in zone paludose e quando la profondità dello strato povero è dell’ordine di qualche metro.

La scelta del macchinario di scavo è molto importante; si preferiscono i mezzi cingolati, con scarpe di tipo largo mentre il peso della macchina deve essere il minimo compatibilmente con la potenza richiesta. L’escavatore più usato è quello a benna trascinata, dove il largo raggio d’azione del suo braccio consente di operare a distanza sia per caricare la benna che per depositare il materiale prelevato nel luogo stabilito senza doppi passaggi.

Per strappare la fitta vegetazione di palude è altrettanto utile la benna mordente (o a stella) applicata al medesimo braccio dell’escavatore e che può afferrare tronchi, radici, erbe senza trascinarle verso la piattaforma di operazione; la sua resa però e nettamente inferiore e richiede maggiore energia meccanica del dragline. L’eccesso d’acqua nel terreno rende comunque lo scavo poco redditizio sia per effetto del risucchio del liquido sulla benna quando viene sollevata che per la caduta di materiale dalla medesima per eccessiva fluidità.

La tecnica di scavo varia con la consistenza del terreno da rimuovere: nel caso di materiali troppo soffici o fangosi che non sopportano il peso della macchina cingolata, si ricorre a zattere in legno o metalliche che riducono la pressione unitaria; in zone ricche di legname di poco pregio, l’impiego di tronchi (Ø 10÷25 cm) è spesso il sistema più economico; diversamente si utilizzano piattaforma ad elementi sganciabili o semplicemente accostati da spostare con l’escavatore stesso che permettono di operare con sicurezza e rapidità.

     

Fig. 1. 35 – Tecnica dello scavo in palude.

Un’altra tecnica è illustrata in Fig. 1.35; l’escavatore (1) asporta prima il materiale su una metà dell’intero scavo previsto per poi spostarsi nell’altra metà (2) mentre il vuoto creato viene di continuo riempito da una ruspa che vi sospinge il materiale di riporto; il ciclo si ripete avanzando con l’escavatore in zona (3) mentre la ruspa opera in zona (2) e così via.

Anziché asportare il materiale povero è a volte preferibile spostarlo lateralmente col vantaggio di una accresciuta densità delle 2 strisce fiancheggianti la piattaforma formata col materiale di riporto. Allo scopo è possibile effettuare iniezioni d’acqua (jetting) oppure ricorrere all’esplosivo. Il primo sistema è attuabile in assenza di trovanti o blocchi di argilla compatta e consiste nel fluidificare il materiale da spostare affondandovi dei tubi d’acciaio Ø 1″ (2.5 cm) lungo i quali s’inietta acqua a pressione (2÷15 kg/cm2).

Le iniezioni sono spaziate tra loro valutando all’inizio, tramite prove, la capacità d’assorbimento della terra e i tubi vengono introdotti rapidamente fino al fondo e quindi ritirati lentamente mentre l’acqua è iniettata; una volta raggiunta la necessaria fluidità si avanza col materiale di riporto, spinto dalla ruspa che, essendo più pesante, prende agevolmente il posto del materiale fluido.

Fig. 1.36 – Schema di volata esplosiva per rimozione di materiale non adeguato.

L’esplosivo, viceversa, può essere usato:

– in trincea, in depositi torbosi non più spessi di 5÷6 m: le cariche sono disposte come in Fig. 1.36 ad una distanza pari ad 1/2÷1/3 dello spessore dello strato soffice; quelle centrali vengono esplose con 1 o 2 s di ritardo rispetto alle laterali. Si richiedono da 0.1 a 1.5 kg di esplosivo per m3 da spostare (Fig. 1.37);

Fig. 1.37 – Procedimento per cariche successive alla base dell’avanzante rilevato.

 – per volate sotto al rilevato, quando lo strato torboso è molto spesso (> 9÷10 m); il consumo di esplosivo varia tra 0.8÷1.5 kg per ogni 10 m3 di materiale da spostare (Fig. 1.38).

Fig. 1.38 – Applicazioni di volate sotto al rilevato.

Fig. 1.39 – Attraversamento di zona paludosa con strato drenante di riporto: (S) sabbia passante al setaccio n. 20 e trattenuta al setaccio n. 200 ASTM; (C) strato anticapillare di spessore 40 cm e pezzatura entro 2÷50 mm; (M) rilevato: per h = 4÷5 m → (C+M) = 2÷5 m.

1.10 – Miglioramento delle proprietà delle terre per costruzioni stradali

I procedimenti atti a migliorare le caratteristiche delle terre da utilizzabili per costruzioni stradali sono raggruppabili nelle seguenti attività:

– costipamento (o compattazione);

– stabilizzazione chimica;

– grading o miglioramento della granulometria (stabilizzazione meccanica);

– drenaggio.

1.10.1 – II costipamento

S’intende col termine costipamento l’operazione meccanica con la quale si comprime la terra per espellerne l’aria e portare così i grani ad intimo contatto nel raggio d’azione delle reciproche forze d’attrazione molecolare e di attrito; aumenta pertanto la densità e quindi la resistenza del materiale riducendone la compressibilità e quindi l’assestamento; inoltre si rende più difficile l’infiltrazione dell’ acqua che, come noto, altera le caratteristiche delle terre fini.

Fig. 1.40 – Il meccanismo del costipamento: relazione tra densità e umidità.

Ricordando che per contenuto d’umidità di un terreno s’intende il peso dell’acqua che contiene rapportato al suo peso secco, quando si compattano in modo identico dei campioni di una stessa terra a diversi tenori d’acqua, le densità secche ottenute variano: col progressivo aumento dell’umidità si ottiene prima un aumento e successivamente una diminuzione della densità.

Esiste dunque una % ottimale d’acqua, cui corrisponde la massima densità, usualmente indicata con la sigla OMC (optimum moisture content). Di conseguenza ogniqualvolta si vuole aumentare la densità naturale di un terreno si corregge il suo contenuto d’acqua applicando quindi dei costipatori meccanici.

Il terreno di sottofondo (sub-grade), quando la sezione è in riporto, non richiede usualmente il costipamento in quanto il macchinario da trasporto (scrapersetc.), specie se dirottato di frequente su percorsi diversi, è sufficiente ad elevare la densità del materiale sopra al minimo richiesto: ciò vale anche per la parte inferiore del rilevato se questo possiede una buona altezza; fa eccezione lo strato superiore (~15 cm) della fondazione in taglio che richiede normalmente uno sforzo di costipamento maggiore.

Alcune terre ricche di micro-organismi che, moltiplicandosi, assorbono grandi quantità d’acqua eliminabili solo con la loro morte, vanno tuttavia soggette a forti assestamenti così che il costipamento effettuato con tali mezzi non sempre viene ad offrire risultati validi; è allora consigliabile, disponendo dell’applicazione, che la medesima venga utilizzata solo alla base di rilevati di grande altezza.

La presenza di tali micro-organismi è facilmente rilevabile con la prova Proctor effettuando la medesima prima e dopo l’essiccazione del campione a 130°C comparando i 2 risultati.

Il sub-grade, come detto, raggiunge sovente la densità richiesta grazie al traffico delle macchine per il movimento terra se il sovrastante rilevato è costruito in strati di 20÷30 cm di spessore ed il grado di umidità è prossimo all’ottimale.

Si parla quindi di compattazione sopratutto dei rilevati e degli strati componenti il pavimento della strada, le cui densità richieste devono risultare maggiori man mano che ci si avvicina allo strato di usura.

1.10.2 – Fattori influenzanti il costipamento

L’aumento della densità di una terra ottenuto meccanicamente dipende, come visto, dal contenuto di umidità e dall’energia applicata e per un valore fisso di quest’ultima esiste un OMC diverso per ogni terra (Tab. 1.8) al quale corrisponde la massima densità ottenibile. Analogamente, per un determinato contenuto d’acqua, è possibile  ridurre ulteriormente vuoti d’aria. aumentando lo sforzo compressivo.

Tab. 1.8 – Normalizzazioni nelle Prove Proctor.

Ogni terra possiede una propria densità secca massima variante tra i 1400÷2100 kg/m3 e l’ottimale di umidità è, grosso modo, inversamente proporzionale alla densità; in altre parole, i materiali stradali di buona qualità quali le ghiaie, le sabbie, i prodotti di frantoio, con densità max > 2000 kg/m3 richiedono un OMC del 5-8% mentre le argille richiedono % d’acqua molto superiori (12÷16% e fino al 28%).

1.10.3 – Misura del costipamento delle terre

La misura della compattezza ottenibile in una terra la si può conoscere attraverso prove standard con le quali un campione viene compresso entro un determinato volume con uno sforzo compressivo fisso ed aumentando gradualmente la % d’acqua fino ad ottenere la massima densità secca alla quale si riferirà, in %, la densità ottenuta in campagna.

Aumentando ulteriormente il tenore in acqua si arriva alla saturazione del materiale e l’acqua rifluisce in superficie o è altrimenti eliminata se si tratta di materiale granulare mentre nelle terre fini essa si distribuisce uniformemente nel contenitore facendo aumentare il volume e diminuendo quindi la compattezza della terra per cui la curva della densità (Fig. 1.40) si dispone parallelamente alla linea di saturazione ad una distanza che rappresenta il vuoto d’aria residuo.

Nella figura, l’intervallo E rappresenta la tolleranza della percentuale di acqua ammesso in campagna per ottenere la densità minima richiesta (D).

Le prove più comuni sono la Proctor standard (o AASTHO) e la Proctor modificata (modified AASTHO); quest’ultima, contraddistinta con la sigla T 180-74, fornisce una densità maggiore della prima di un valore pari al 3% con terre incoerenti e fino a un valore pari al 15% con terre argillose. Tali prove, pur universalmente adottate dalle routines operative, risultano poco simili (per quanto attiene al meccanismo della compattazione) a quanto avviene in campagna dove l’operazione è meno dinamica; da qualche tempo, infatti, prendono sempre più piede prove considerate più realistiche rispetto al processo di campagna quali l’Harvard Test o la prove del rigonfiamento del (Californian Road Lab)

A titolo indicativo, in campagna, si richiede usualmente che la compattazione della fondazione e del rilevato raggiunga l’86-92% della densità ottenuta col la prova Proctor mod.; il 90-95% per lo strato superiore (20÷30 cm ) del taglio o del rilevato; il 96÷102% per gli strati di sottobase e di base. Queste ultime %, trattandosi di materiali granulari, sono facilmente raggiungibili disponendo del macchinario adatto mentre sarebbe molto più difficile raggiungerle nel rilevato costruito con terre argillose.

Fig. 1.41 – La fustella ed il pistone per la prova Proctor.

1.10.4 – Le prove Proctor standard (o normale) e modificata: (PS e PM)

In entrambe le prove (→ vol. 1°) si utilizza un cilindro o fustella con sovrastante collare, fissabile ad un basamento ed un pistone scorrevole in una guida che gli consente una corsa verticale di valore fisso. Servono inoltre: un estrattore per togliere dalla fustella il campione costipato, stufa, bilance e capsule.

La fustella più piccola si usa per le terre contenenti elementi ≤ 5 mm (o passanti al setaccio n. 4 ASTM); la più grande è quella utilizzata nella prova C.B.R. per le terre più grossolane nel qual caso, però, il ritenuto al setaccio da 2″ (50 mm ) va scartato e la frazione compresa tra 3/4″ (19 mm) e 2″ è sostituita nella medesima proporzione in peso con passante il 3/4″ e ritenuto al n. 4 (4.76 mm). Nella fustella grande va preventivamente introdotto un disco spaziatore da 1″ se alla prova è fatta seguire quella C.B.R.

Il campione è preventivamente essiccato a 105°C salvo in presenza di troppi micro-organismi viventi la cui distruzione altererebbe le caratteristiche della terra in esame (nel qual caso il campione si essicca all’aria); ne servono circa 2.7 kg per la fustella piccola e 5.5 per la grande riducendo gli eventuali grumi col pestello.

Acquisita la necessaria esperienza è possibile iniziare la prova partendo con una umidità < 4÷5 % rispetto a quella ottimale per poi aumentarla progressivamente con 4 aggiunte d’acqua spaziate di ~ 2 punti ognuna facendo in modo che il liquido si mescoli alla terra in modo uniforme (se la terra è

argillosa si devono attendere alcune ore).

Si compatta quindi ogni strato (3 nella prova PS e 5 nella PM) nella fustella munita di collare il cui compito è solo quello di consentire un uniforme costipamento della terra nel cilindro.

Tolto il collare si elimina l’eccesso di materiale oltre il bordo e si pesa ottenendo, noto il volume del cilindro e la tara, la densità umida del campione.

Si prelevano poi ~100 g di terra che si pesano subito e nuovamente dopo essiccamento in forno a 110°C. Il contenuto in peso dell’acqua è dato dalla relazione:

pw = peso umido + contenitore – peso secco + contenitore

da cui la % di umidità:

w (%) = peso acqua rimossa 100/peso campione secco

Si ripete la prova su di un altro provino aggiungendo circa il 2% d’acqua e quindi ancora 3 prove con successivi incrementi del 2% fino a che non si riscontra una decrescita o nessun cambiamento nel peso specifico della terra umida. I successivi risultati si riportano su un diagramma (Fig.1.42) tracciando poi la curva che congiunge i punti relativi alle diverse prove. Da tale curva è poi possibile dedurre il valore della densità massima e l’OMC per ottenerla.

La densità secca si computa con la formula:

densità secca = peso unitario umido 100/(umidità+100)

Fig. 1.42 – Esempio di Prova Proctor.

1.10.5 – Considerazioni sulle prove Proctor e sul costipamento in genere

Nelle terre fini esistono tra i grani forze d’attrazione che, se predominanti, conferiscono una struttura flocculata e forze di repulsione le quali, al contrario, tendono a disporre i medesimi parallelamente tra loro secondo una struttura regolare. La pressione esercitata dai mezzi compattivi favorisce il secondo fenomeno aumentando la densità e riducendo la permeabilità. L’orientamento dei grani è favorito da un contenuto d’acqua leggermente superiore all’OMC che, per contro, aumenta la permeabilità.

Il problema, in ogni caso, é quello di mantenere nel tempo le caratteristiche ottenute con la compattazione; le argille, infatti, con la variazione del grado di saturazione, danno luogo ai noti fenomeni del rigonfiamento e del ritiro mentre per le terre non coesive questo problema non si pone.

L’umidità ottimale richiesta per costipare un terreno alla densità richiesta dipende, in campagna, dal tipo di dispositivo impiegato il che significa che il tasso ottimale può risultare leggermente diverso di quello ricavabile in laboratorio. Aumentando lo sforzo compressivo di un valore superiore a quello della prova Proctor, I’OMC è minore e la densità è maggiore (Fig. 1.43); al contrario, in presenza di un eccesso di umidità, ogni ulteriore sforzo di compressione è inutile.

Fig. 1.43 – Tipologie risultanti da Prove Proctor.

Esaminando ancora le 3 curve della stessa figura, si può osservare che qualora l’energia impiegata in campagna non raggiunga quella di laboratorio (caso frequente) e nello stesso tempo l’OMC sia quello richiesto, la densità ottenuta è molto bassa (punto A) e potrà essere aumentata aggiungendo acqua.

Ne deriva che in pratica, qualora si dubiti della efficienza del macchinario di costipamento è buona norma aumentare di qualche unità la % d’acqua indicata dalla Proctor; con l’eccezione delle terre argillose si può dire che questa norma sia valida comunque.

Nel costipamento, causa la presenza dell’aria, risultano trascurabili le pressioni dei fluidi e le sollecitazioni si trasmettono direttamente ai granuli; è quindi necessario vincere le resistenze di attrito tra di essi applicando gli sforzi dei costipatori con direzione ed intensità mutevoli; da ciò discende l’importanza di una tecnica della compattazione facilitata dall’impiego di rulli vibranti.

Per quanto riguarda la prova Proctor:

–       nelle terre coerenti l’OMC è di poco inferiore al limite plastico;

–       la necessità di ottenere un’umidificazione omogenea del campione richiede un accurato sminuzzamento che, se è facile per i materiali incoerenti, non lo è sopratutto per le argille che devono essere pertanto essiccate ricorrendo a pestelli, frantumatori meccanici etc.

Tab. 1.9 – Valori indicativi delle densità secche max e relativi per alcune terre.

L’umidificazione viene poi effettuata con spruzzatori interponendo alcune ore tra l’applicazione ed il costipamento.

Le prove Proctor, comunque, forniscono risultati di validità generica; di conseguenza, qualora esistano difficoltà a raggiungere le densità richieste, si devono eseguire prove in campagna, alla scala naturale e col medesimo equipaggiamento che viene usato durante il corso dei lavori salvo modificarlo se leggere variazioni dell’OMC non danno esito positivo.

1.10.6 – Determinazione della densità relativa

Per le terre incoerenti per cui la compattazione ad impatto non riesce a fornire una curva ben definita del rapporto umidità/densità e per le quali la densità massima ottenuta con metodi ad impatto è inferiore a quella ottenuta con quelli a vibrazione, l’ASTM consiglia la prova della densità relativa (ASTM D 2049) applicabile alle terre che presentano un massimo del 12% di passante al setaccio n. 200 (75 μm).

Questo metodo utilizza la compattazione per vibrazione per ricavare la densità massima ed il travaso per ottenere quella minima.

La densità relativa (Yr) rispetto agli stati più densi e più sciolti ottenuti con la prova è espressa dalla differenza (tra l’Indice dei pori allo stato più sciolto ed allo stato attuale) sulla differenza (tra l’Indice dei pori allo stato più sciolto ed allo stato più denso).

Fig. 1.44 – Importanza del corretto contenuto di umidità nel costipamento.

L’apparecchiatura consiste in un tavolo vibrante (60 Hz), una fustella cilindrica in alluminio da 2830 cm3 con piastra per sovraccarico ed una seconda fustella da 14160 cm3 pure con piastra; un comparatore con una corsa di 2″ ed una graduazione a 0.025

1.11 – La realizzazione operativa del sottofondo

II terreno di sottofondo ha sovente un comportamento meccanico di difficile valutazione per le variazioni del tenore d’acqua, per il grado di costipamento e per l’influenza che esercita la sua natura. Con le prove di laboratorio, di conseguenza, si rischia di non poter tener conto dello stato effettivo del suolo e per questa ragione è opportuno variare i principali parametri (grado di umidità, energia di costipamento) su diversi campioni al fine conoscere con sicurezza il comportamento della terra in esame.

Anche le prove in situ possono risultare poco rappresentative, soprattutto quando, ad es., il sottofondo da esaminare si trovi a diversi metri di profondità laddove è prevista una trincea stradale. I metodi di dimensionamento del pavimento si avvalgono soprattutto di prove di portanza e penetrometriche effettuate sul sottofondo e nelle quali la misura delle deformazioni in rapporto alle sollecitazioni definisce valori convenzionali (Modulo di Westergaard .modulo svizzero Me, Indice di portanza CBR) coi quali si possono utilizzare, per scelte speditive, i nomogrammi riportati di seguito. Per alcuni casi, tuttavia, risulta necessaria anche la conoscenza del modulo dinamico di deformazione elastica.

Il modulo di elasticità statico (Es) come visto, si basa sulla teoria di Boussinesq relativa alla deformazione del semispazio omogeneo:

Es = (1.57 p r) (1 – μ2)/δ

dove p è la pressione uniforme; r il raggio della piastra; δ l’affondamento o deformazione elastica (differenza tra deformazione totale e deformazione plastica); μ il coefficiente di Poisson variante entro 0.3÷0.5. Es viene espresso in kg/cm2 e si ricava dalla prova statica con piastra rigida che, per sottofondi, è usualmente quella a Ø 76 cm. Valori indicativi del modulo statico sono riportati in Tab. 1.10 ricavata in zone molto umide (I), a umidità variabile (II), asciutte (III) ed aride (IV)su rilevati (R) e trincee od al piano di campagna (S), le cui variazioni anche durante l’anno sono notevoli.

Tab. 1.10 – Valori indicativi del modulo statico.

Il modulo di elasticità dinamico (Ed) è quello più usato nel calcolo dello spessore del pavimento a causa del comportamento elasto-viscoso dei sottofondi e viene misurato sperimentalmente con piastre vibranti oppure col deflettometro a maglio entro una fascia di frequenze comprese tra 5 e 200 Hertz. Il valore di Ed, sempre > Es, é infatti deducibile secondo la relazione di Baum:

Ed = Es + 700 kg/cm2

Valori indicativi di Ed possono ritenersi: 100÷200 kg/cm2 per le argille plastiche e fino a 1500÷2000 kg/cm2 per le ghiaie di buona qualità. Rapportato, inoltre al valore CBR è Ed = 65÷100 CBR ed al modulo svizzero Me è Ed = 2÷2.5 Me.

Sono detti metodi del gruppo A quelli che si basano sulle esperienze fornite da strade esistenti aventi carichi di ruota e sottofondi analoghi al caso considerato; sono detti del gruppo B quelli che  si basano .sulla comparazione di prove di resistenza effettuate sul sottofondo e dei risultati ottenuti con pavimenti costruiti su fondazioni di resistenza analoga.

Entrambi i suddetti metodi sono applicati ai pavimenti flessibili. Per quelli rigidi si applicano teorie semplificate basate su risultati di prove di resistenza agli sforzi normali o di taglio effettuate sul sottofondo (Metodi del gruppo C).

1.11.1 – Metodi di calcolo per pavimenti flessibili

II metodo dell’Indice di gruppo appartiene al gruppo A: col termine s’intende una quantità empirica riferita al sottofondo di cui tanto più alto è il valore quanto più bassa è la resistenza. Tale indice lo si ottiene, oltre che dalla formula indicata al cap. 2, anche dai diagrammi di Fig. 1.45, qui riportati per praticità.

Fig. 1.45 – Diagrammi per Indice di Gruppo.

Nei diagrammi, come visto, si entra con la % di passante al vaglio n. 200 serie USA unitamente ai valori IP ed LL.  L’Indice di gruppo é dato dalla somma delle 2 letture sull’ordinata dei 2 diagrammi.

Volendo applicare il calcolo ad un esempio, sia un campione classificato A6 con il 65% di passante al vaglio n. 200; LL = 32; IP = 13. Impiegando la formula si ottiene:

IG = 0.2a + 0.005 ac + 0.01 bd

in cui a = 65 – 35 = 30 ; b = 55 – 15 = 40; c = 0 (essendo LL < 40); d = 13 – 10 = 3 e pertanto (0.2 x 30) + (0.005 x 30 x 0) + (0.01 x 40 x 3) = ~ 7.

Impiegando, viceversa, i diagrammi di Fig. 1.45 si perviene al risultato di 7.3 (5.8 + 1.5.

Ottenuto l’indice di gruppo gli spessori della base e della sottobase eventuale si ricavano dal diagramma di Steele (Fig. 1.46) fondato sull’assunto che:

-il costipamento della fondazione non sia < 95% e della base non < 100% delle rispettive densità secche ottenute con la prova Proctor normalizzata;

– le condizioni di drenaggio siano buone; nel caso di rilevato, il massimo livello dell’acqua libera sia ad almeno 1 m sotto la superficie stradale. Il metodo dell’Indice di gruppo, per l’esiguità dei dati sui quali si fonda, è da ritenersi di valore indicativo, utile per fattibilità e studi di massima.

Fig. 1.46 – Diagramma di Steele.

La Fig. 1.46 mostra 2 esempi:

1) sottofondo argilloso tipo A6 con IG = 12; traffico medio: le porzioni a e b rappresentano 2 alternative ricavate dal diagramma di Steele;

2) sottofondo A1a con IG = 0 e traffico leggero: la soluzione è rappresentata dalla porzione c.

Requisiti dei materiali per sottobasi, basi e strati superficiali secondo le norme AASTHO M 147-65

I requisiti si riferiscono a materiali di peso specifico normale con valori medi di assorbimento e gradazione. Qualora si utilizzassero materiali diversi si devono porre limiti appropriati al loro impiego.

Materiale grosso

II ritenuto al vaglio da 2mm (n. 10) consiste di elementi duri e durevoli provenienti da roccia frantumata, ghiaia o scorie (loppa). Materiali che si rompono quando congelati e scongelati o bagnati ed essiccati non possono essere utilizzati. La % di abrasione con la prova Los Angeles (AASTHO T 96) non dovrà superare il valore 50.

Materiale fine

Il passante al vaglio da 2 mm consiste di sabbia naturale o prodotta dal frantoio ed altre particelle minerali passanti il vaglio da 0.075 mm (n. 200). La frazione passante il vaglio da 0.075 mm non deve superare i 2/3 della frazione passante il vaglio da 0.425 mm (n. 40). La frazione passante il vaglio da 0.425 mm deve avere 25 < LL ≤ 6 ed un IP ≤ 6.

Ogni materiale deve essere esente da sostanze vegetali e grumi di argilla e conforme alla granulometria specificata nella Tab. 1.11.

Tab. 1.11 – Valori Norma AASHTO T96.

Materiale per sottobase

Tale materiale deve essere conforme alle gradazioni A, B, C, D, E o F della Tab. 1.11. Laddove tuttavia l’esperienza locale abbia confermato la necessità di utilizzare minori % di passante al vaglio 0.075 mm per prevenire i danni del gelo, si rivela opportuno riferirsi  tale valore.

Materiale per base

Tale materiale deve essere conforme alle gradazioni A, B, C, D, E o F della Tab. 1.11., valendo le medesime possibilità di scelta che per le sottobasi.

Materiale per strati superficiali

Tale materiale deve essere conforme alle gradazioni C, D, E, o F: qualora si preveda che il materiale impiegato nello strato superficiale debba restare per alcuni anni senza trattamento bituminoso od altro impermeabilizzante, la Direzione Lavori deve specificare un minimo dell’8% passante al vaglio da 0.075 mm in luogo delle % inferiori previste dalla Tab. 1.11; deve inoltre essere specificato un LLmax 35% ed un IP compreso entro 4÷9 anziché il valore specificato in precedenza.

Contenuto d’umidità

Tutti i materiali devono contenere acqua in % pari o leggermente inferiore all’ottimale .

I metodi del gruppo B, come si è detto, si basano su prove di resistenza effettuale sul sottofondo; molto usata la prova C.B.R. (Califomia Bearing Ratio) descritta in precedenza con la quale, assieme ai dati sul traffico, si risale allo spessore della sovrastruttura.

La prova è condotta su campioni disturbati con diversi contenuti di umidità nelle apposite fustelle, costipati secondo la procedura Proctor normale e dopo immersione in acqua per 4 giorni.

Il diagramma AASHO di Fig. 1.47 fornisce lo spessore della sovrastruttura in funzione del CBR.

Analogamente il diagramma del Road Research Laboratory inglese  di Fig. 1.48 si basa sul valore del C.B.R. e sul traffico previsto.

Questi metodi sono utili a fornire valori indicativi in fase di progettazione per raffrontare varie soluzioni.

Fig. 1.47 – Diagramma AASHO relativo a rapporti tra CBR e spessore sovrastruttura.

Fig. 1.48 – Diagramma RRL relativo a rapporti tra CBR e traffico previsto.

Tab. 1.12 – Spessori raccomandati dall’Highway Research Board USA per carichi assiali di 8000 kg.

La Shell suggerisce un metodo più elaborato e che parte dal presupposto che gli sforzi critici si sviluppano:

–       sugli strati superficiali del pavimento che tendono a screpolare per effetto dei carichi dinamici ed in cui l’inizio della deformazione é governato dagli sforzi di trazione sulla parte inferiore del pavimento stesso;

–       sul sottofondo che nella sua possibile deformazione sotto il carico trasmessogli coinvolge gli strati superiori.

Il metodo Shell si sviluppa, di conseguenza, attraverso 4 fasi:

–       studio del sottofondo per determinare il valore del modulo elastico dinamico Ed. Praticamente tale valore lo si ricava dalla prova C.B.R. effettuata preferibilmente col contenuto di umidità che si suppone abbia la fondazione a manufatto ultimato e che si riscontra a ~ 1 m di profondità; oppure, temendo il gelo, eseguendo la prova in condizioni di saturazione. Il diagramma 1 della Fig. 1.49 permette di conoscere E noto il CBR – E (kg/cm2) risulta, in effetti, pari a 100 la % di CBR.

–        – studio del totale di carichi assiali per corsia previsti nella vita della strada e loro frequenza ignorando i carichi leggeri (automobili). A scopo di progettazione il traffico è espresso dal numero N equivalente ai carichi assiali da 10 t. Nel diagramma 2 si calcola il coefficiente LDF (fattore di distribuzione del carico) e col diagramma 3 si ottiene N. Se LDF fosse di difficile determinazione lo si può assumere = 5 per le autostrade od altre arterie aventi la corsia lenta e = 2÷3 per le strade a due o tre corsie ed infine = 1 per le secondarie.

–       noti E ed N lo spessore del pavimento è ottenuto da uno dei diagrammi n. 4 – 5 – 6 e 7. Lo spessore degli strati granulari (base e sottobase) è ricavato sull’ordinata principale di ciascun diagramma mentre quello degli strati bituminosi sull’ascissa. Per ogni curva del diagramma (eventualmente interpolata) l’idoneo spessore dell’intera struttura è quindi fornito dalle due coordinate di un qualsiasi punto della curva stessa.

–       i diagrammi riportano delle linee tratteggiate indicanti i CBR minimi richiesti per gli strati di base; trovata la curva rispondente ai valori di E ed N un punto qualsiasi di tale curva fornisce, attraverso la sua ordinata ed ascissa, un’idonea combinazione degli spessori di superficie e di base nonché, per questi ultimi, il CBR minimo.

Nella procedura indicata è opportuno ricordare:

–       nei climi temperati gli spessori ottenuti sono in genere in eccesso;

–       se si prevede una base in conglomerato bituminoso, occorre utilizzare una sottobase granulare di almeno 10 cm di spessore;

–       il tappeto di usura in cc. asfaltico deve essere previsto di almeno 5 cm e fino a 10 cm di spessore se N > 106; tale spessore è incluso in quello totale che i diagrammi forniscono;

–       lo strato di base in cc. bituminoso deve consistere di un aggregato di base con elementi, per il 40% o più, > 3 mm, % dei vuoti < 10 e bitume (pen 40/100) per non meno del 3.5% in peso;

–       lo strato di usura deve essere steso dopo qualche mese per dar luogo al traffico di localizzare eventuali cedimenti della base;

Fig. 1.49 – Metodologia Shell: diagrammi 1-3.

Fig. 1.50 – Metodologia Shell: diagrammi 4-7.

Peltier suggerisce un fattore correttivo (c) per cui moltiplicare lo spessore trovato e che è funzione di T (= somma dei pesi in t dei veicoli annuali diviso la larghezza della carreggiata).

Tab. 1.13 – Tabella T/c di Peltier (LCPC).

Esempio di progetto di pavimento con la procedura illustrata (Fig. 1.51)

Dati:

–       CBR fondazione: 5;

–       traffico previsto sulla corsia lenta (la più sollecitata): 10.000 carichi assiali/giorno;

–       vita prevista della strada:15 anni;

–       distribuzione prevista dei carichi assiali sulla corsia: meno di 3500 kg = 75; 3500÷7250 kg = 20; 7250÷9000 kg = 4; 9000÷12000 kg = 1.

Dal diagramma 1 per CBR = 5 E = 500 kg/cm2;

Dal diagramma 2, entrando con le indicate % dei carichi assiali sulle rispettive diagonali si hanno i valori parziali del LDF e cioè 0.4 per i carichi < 3500 kg e per i successivi 1.7 – 1.7 – 0.9 per un totale LDF = 4.7;

Dal diagramma 3, noti LDF, il numero di carichi/giorno e la vita della strada, N = 2.5 x 106.

Dal diagramma 5 per E = 500 e la curva interpolata per N si possono scegliere varie alternative indicate sul diagramma coi numeri 1, 2, 3. 4:

Osservando ora l’alternativa n. 4 lo spessore del pavimento potrebbe essere così costituito:

– strato d’usura in cc. bituminoso                    cm 4

– strato di base in cc. bituminoso                    cm 8

– aggregato sottobase CBR > 80                    cm 15*

– aggregato sottobase CBR > 30                    cm 24*

totale        cm 51                        (*) dalle linee tratteggiate.

Fig. 1.51 – Raffronto dei risultati ottenuti nel dimensionamento di un pavimento seguendo diverse procedure.

L’alternativa n. 2 offre invece una tipica costruzione in conglomerato bituminoso:

– strato di usura + collegamento                         cm 8

– base in cc. bituminoso                                      cm 15

– sottobase in aggregato CBR < 20                    cm 16

Fig. 1.52 – relazione tra CBR e IG: nomogramma per la determinazione dello spessore del pavimento in funzione delle precipitazioni annue, del traffico e del CBR della fondazione (pavimenti flessibili).

1.11.2 – Metodi di calcolo AASHO e dell’Asphalt Institute of Massachusetts

L’AASHO Test Road ha portato ad un metodo di dimensionamento basato su numerose prove effettuale e pertanto tra i più attendibili. La procedura è la seguente:

–       si determina il valore di S (valore di portanza del sottofondo o strato superiore del rilevato ricavandolo dal nomogramma di Fig. 1.53a noto il valore Rricavato allo stabilometro, o l’indice CBR od anche l’indice di gruppo, tracciando una orizzontale.

–       si calcola il numero di carichi equivalenti da 18000 lbs, asse singolo, giornalieri usando la Tab. in Fig. 1.53b: tali carichi si ottengono moltiplicando i carichi assiali previsti al giorno in una direzione per il corrispondente fattore fornito dalla tabella. Si dovrà procedere per tentativi in quanto il valore SN (numero strutturale pesato) necessario per entrare nella tabella è anche la soluzione cercata.

–       noti S e i carichi equivalenti giornalieri da 18000 Ibs, dal nomogramma di Fig. 1.53c si ricava il numero strutturale SN;

–       si stabilisce il valore regionale in base alle indicazioni date dal medesimo nomogramma: tale fattore tiene conto che, durante il disgelo, e comunque quando il terreno é saturo, un carico dinamico ha un maggior effetto di quando il terreno è gelato; esso inoltre può essere utilizzato per tener conto della falda freatica alta o di altri elementi dannosi. Stabilito r, la retta passante per questo punto e l’SN ricavato in precedenza, individua l’SN finale.

–       si formula la combinazione desiderata di spessori dei vari strati del pavimento a mezzo della equazione di Fig. 1.53d.

Fig. 1.53 – Metodo AASHO di dimensionamento della sovrastruttura.

Il metodo dell’Asphalt Institute si fonda anch’esso sul valore dell’indice CBR del sottofondo ed è particolarmente adatto nei casi in cui questo indice è elevato come, ad es., nelle strade di montagna in cui il sottofondo è roccioso, per cui si prevede un solo strato di base in conglomerato bituminoso. La procedura è la seguente:

–       si suddivide la strada in tronchi omogenei per quanto riguarda l’indice CBR (questa operazione  è comune a tutti i metodi);

–       in base ai necessari rilevamenti si prevede il traffico giornaliero futuro, ossia quando la strada in progetto si troverà in esercizio, nonché la sua composizione; il volume previsto è definito col termine IDT (Initial Daily Traffic).

–       a mezzo del nomogramma di Fig. 1.54a si entra coi valori C e D per ottenere un punto sulla pivot line che, congiunto al valore di E individua l’ITN (Initial Traffic Number) sulla scala A.

–       si moltiplica il valore ITN trovato per il fattore della Tab. 1.54b prevista della strada e della crescila annua del traffico che si è valutata; il risultato è il DTN(Design Traffic Number) che assieme all’indice CBR del sottofondo (o, alternativamente, al valore portante ottenuto con la piastra rigida) fornisce lo spessore totale (strati di superficie inclusi) del pavimento in conglomerato bituminoso a mezzo del nomogramma in Fig. 1.54c.

Fig. 1.54 – Dimensionamento della sovrastruttura col metodo Asphalt Institute of Massachusetts.

Per concludere sui metodi di calcolo dei pavimenti flessibili si riporta in Fig. 1.55 il diagramma B.O.H. del Kentucky Institute anch’esso basato sul valore del CBR del sottofondo.

Il diagramma propone 2 scelte: calcestruzzo bituminoso per il 33% dello spessore totale, oppure per l’intero spessore ed inoltre 3 curve (rispettivamente per CBR = 2÷6÷15) per ottenere lo spessore totale quando il calcestruzzo bituminoso ne rappresenti il 66%.

Fig. 1.55 – Dimensionamento del pavimento secondo il B.O.H. del Kentucky.

1.11.3 – Metodi del Gruppo C – pavimenti rigidi

I più noti si basano sulle formule di Westergaard e successive modifiche. Anche i nomogrammi di Pickett e Ray si basano sulle medesime formule. Tali relazioni, che consentono il calcolo degli sforzi all’interno della soletta dovuti ai carichi di ruota, non tengono tuttavia conto delle sollecitazioni secondarie dovute alla temperatura, all’umidità e ad altri fattori che in certi casi possono essere più severe di quelle originate dal traffico.

Nel merito, comunque, è bene ricordare che le formule e i nomogrammi da esse ricavati, sia nel caso di pavimenti rigidi che flessibili, risultano sempre approssimativi avendo un senso se i materiali e la loro posa in opera sono della qualità prevista.

Un caso tipico è quello di un materiale granulare stabilizzato con cemento la cui resistenza a trazione si dimezza se il tenore d’acqua si scarta troppo dall’ottimale oppure se la granulometria non è quella prevista (è sufficiente, ad es., che il passante al vaglio da 5 mm risulti ~50% anziché ~30%).

Di conseguenza, si rivela più sicuro ricorrere a valori empirici, classificabili (a rigore) nel gruppo B, ad es. utilizzando il modulo di reazione K, per il quale, secondo Markwick, si avrebbero gli spessori della soletta e della sotto-base indicati dalla Tab. 1.13:

Tab. 1.13 – Tabella di Marwick per spessori soletta e sottobase/K.

II modulo K, espresso in lbs/inch2 è ottenuto sperimentalmente con la prova del piatto (Plate Bearing Test) effettuata sulla fondazione che,per contenuto di umidità e per densità, deve rispecchiare il più possibile le condizioni di relativo equilibrio in cui viene a trovarsi dopo la costruzione del pavimento. Il carico applicato (15 lbs/inch2) è mantenuto fino a che il cedimento della fondazione risulta < 0.002 inch/min, se il materiale è argilloso.

Il valore di K è dato dalla formula:

K = 10/d

dove d è il cedimento in pollici.

1.12 – II rafforzamento di sovrastrutture esistenti (upgrading)

Il problema della rimessa in efficienza di vecchie massicciate, la cui resistenza meccanica é divenuta insufficiente per le esigenze del traffico attuale, si pone in tutti i Paesi e ad ogni livello territoriale; per la totalità della casistica, tuttavia, le domande cui occorre dare risposta riguardano:

– quando rafforzare sulla base di considerazioni economiche e tecniche;

– quale metodologia adottare.

I criteri di scelta, per quanto riguarda la prima domanda, si rivelano numerosi; in questa sede vengono citati :

– l’importanza del traffico sulla strada considerata;

– lo stato della superficie e la meccanica del pavimento della stessa;

– la resistenza al gelo (per le regioni interessate al fenomeno).

Di principio si può dire che l’intervento risulta necessario quando la degradazione del pavimento ha raggiunto certi limiti definiti, ad es., col sistema PSI (Present Serviceability Index o indice di viabilità) messo a punto dall’AASHO dopo anni di studi sulla evoluzione delle degradazioni degli strati dei pavimenti sia flessibili che rigidi.

Su un terreno A6 argilloso, infatti, sono state costruite numerose sezioni-prova di pavimentazione con spessori variabili di sottobasi, basi in misto granulare e in conglomerato bituminoso sottoposte a carichi assiali singoli varianti da 2.000 a 30.000 lbs nonché tandems da 24.000 a 48.000 libbre. Le accurate analisi rivolte alle deformazioni delle strutture portanti e alle deteriorazioni delle superfici hanno portato ad un’equazione valida per pavimenti flessibili in cui il valore del PSI citalo è funzione di 3 parametri:

– variazione di pendenza delle superfici rilevate col profilografo;

– valore medio della profondità delle ormaie procurate dalle ruote;

– percentuale di superficie screpolata o rappezzata.

PSI = 5.03 – 1.91 log (1+SV) – 1.38 RD2 – 0.01 √(C+P)

dove SV rappresenta le variazioni di pendenza lungo la linea seguita dalla mola; RD la profondità del solco in inches misurata con una riga lunga 4 feetC la superficie screpolata (in inches2) su 1000 inches2 di superficie esaminata e P la superficie rappezzata (in inches2) su 1000 inches2 di superficie esaminata).

I valori dell’indice di servizio variano da 0 a 5. Dalle prove suddette è risultato che un PSI 4.2 è normale in un pavimento flessibile mentre un valore riscontrato di 2.5 per strade importanti e di 2.0 per strade ordinarie richiede lavori di ripristino. Valori di 1.5 indicano la necessità di un rifacimento integrale di più strati.

1.12.1 – Metodologia

Schematicamente, lo sviluppo del rafforzamento si sviluppa nel modo seguente:

–       misura preliminare delle deflessioni a mezzo di profilografo o deflettografo possibilmente in condizioni di clima avverse (ad es. nel periodo de! Disgelo, se esiste, oppure con forte piovosità). Un dispositivo di profilo, normalmente, rileva una deflessione al bordo ed una in asse ogni 3 m con una velocità di avanzamento di alcuni km/h; i risultati vanno presi e confrontati con cautela se ottenuti in modi diversi o in diverse condizioni climatiche. Con ottimi risultati si usa anche il radar; l’apparato, montato su un automezzo, ha una antenna monostatica che illumina un’area di circa 103 cm2 raggiungendo una profondità di 75 cm, mettendo in evidenza laminazioni, fessurazioni e piccoli vuoti; velocità operativa ~25 km/h;

–       ricerca di informazioni supplementari quali i dati climatici, soprattutto sul gelo, il traffico (veicoli pesanti, periodi di punta etc.), la geologia di superficie (tipi di terreni attraversati);

–       analisi dei dati ed esame visuale della pavimentazione per decidere quali misure complementari adottare e consistenti in:

–       sondaggi nel corpo stradale e nella fondazione per riscontrare anche a quale profondità si trovano i primi materiali gelivi;

–       rilievo dei profili trasversali, dei raggi di curvatura delle deformazioni ed accerta­mento del grado di regolarità della superficie;

–       eventuale auscultazione dinamica a mezzo di vibratore;

–       localizzate le deflessioni ed individuati i motivi si divide la strada in zone omogenee per origine dei difetti (che sono quasi sempre da ricercare nell’eccessivo tenore in acqua della fondazione per drenaggio difettoso), ponendo in evidenza i punti singolari aventi deflessioni molto marcate; i passaggi sterro-riporto ad es., sono sovente difettosi;

–       definizione della soluzione più appropriata.

Il rilievo dei profili trasversali è importante per accertare la necessità di una risagomatura preventiva della vecchia massicciata qualora il rinforzo venga effettuato con miscele bituminose, oppure di un sovra-spessore se il rinforzo previsto è in aggregato naturale; questo ad evitare pericolose riduzioni dello spessore del rinforzo medesimo.

li prodotto R x d (raggio di curvatura x massimo valore della deflessione) è indicativo della rigidità relativa tra 2 strati contigui del pavimento: se i due strati, non legati tra loro, sono di buona qualità il prodotto R x d è praticamente costante comunque sia il valore della deflessione (dell’ordine di 5000-7000 essendo R in m e d in 1/100 di mm ).

Un R x d basso, ad es. < 4500, significa spessore inadeguato del pavimento o materiale mediocre; se invece alto (> 10.000) può indicare la presenza di uno strato trattato più o meno mediocre; valori > 15000 rivelano invece strali trattati di buona qualità.

L’auscultazione dinamica è un’operazione complessa riservata allo studio di singoli strati aventi elevato spessore.

1.12.2 – Soluzioni operative

Si distinguono i 2 casi: non esistono problemi dovuti al gelo oppure il contrario. Nel primo caso:

–       si stabiliscono le zone meccanicamente omogenee e per ognuna di esse si definisce lo spessore del rinforzo (aggregato naturale o miscela bituminosa) in funzione delle deflessioni ottenute nel periodo climaticamente più sfavorevole facilmente rilevabili appunto per la mancanza di gelo nonché dei prodotti R x d;

–       si valutano gli eventuali sovra-spessori o ri-profilature;

–       -si sceglie il tipo di rinforzo che, tenendo conto delle disponibilità economiche, deve adeguarsi alle condizioni esistenti. Al momento, comunque, si ricorre soprattutto a materiali polimerici (geotessili) sia del tipo non tessuto a bassa rigidità che ai reticolali (grids) ad elevata resistenza a trazione, che consentono un notevole risparmio del materiale di ricarico sia a livello di sottobase che di base nonché a feltri antistrappo, della stessa natura, che impediscono la screpolatura dei manti d’usura.

Esistendo, viceversa, il problema del gelo si valuta, da un lato, lo spessore del rinforzo in assenza di gelo come in precedenza e, dall’altro, lo spessore del rinforzo così che lo spessore totale degli strati non gelivi risulti superiore ad almeno 0.8 volte la profondità raggiungibile dal gelo prendendo poi, quale spessore definitivo, il maggiore dei 2 valori ottenuti.

1.12.3 – Considerazioni

I principi enunciati sono sopratutto validi per il rafforzamento di vecchie massicciate in cui sono presenti o meno strati in conglomeralo bituminoso.

II problema si complica in presenza di basi trattate con leganti idraulici ed, ancor più, di vecchie solette in calcestruzzo di cemento in cui sono difficilmente prevedibili le rotture dovute a modifiche degli appoggi e dove la tenuta del rinforzo è condizionata sopratutto dalle deformazioni localizzale dovute allo spostamento dei carichi dinamici o a variazioni di temperatura per cui si hanno movimenti relativi tra i bordi di due lastre contigue (pumping); si aggiunga che l’inconveniente è difficilmente eliminabile anche con iniezioni di malta di cemento tra le fessure.

In questi casi si viene quindi indotti a prevedere spessori di rinforzo elevati (20÷25 cm) senza le garanzie di una buona riuscita, motivo per cui torna preferibile ricorrere a nuove solette in calcestruzzo, anche non armato, sempre che le oscillazioni tra i bordi non siano molto forti.

Appare superfluo ricordare come nei rafforzamenti, ancor più che nei pavimenti nuovi, giochino ruoli importanti la qualità dei materiali, il costipamento, il drenaggio ed il carattere della esecuzione in generale.

A tale proposito sono da menzionare gli allargamenti: la loro realizzazione richiede spesso Io scavo di un cassonetto poco accessibile al macchinario e difficile da drenare. Ne consegue una fondazione mal costipata ed inadatta a ricevere gli strati del pavimento, sicuramente soggetti a cedimenti o rapide degradazioni.

E’ quindi consigliabile, qualora si preveda tale situazione, stabilizzare la fondazione con cemento oppure ricorrere ad un getto di calcestruzzo magro.

Qualora con l’allargamento fosse previsto il rafforzamento generale della massicciata con uno strato, ad es., di 20 cm di materiale trattato, uno spessore supplementare del medesimo materiale di 30 cm nelle strisce di allargamento rientrerebbe nella normalità.

1.11.3- Strati non trattati

1.11.3.1 – Pavimenti in sabbia-argilla (Sand-Clay-roads/Betons d’argile)

Rappresentano una versione economica delle basi in misto granulare. Si ritengono ottimali le miscele che in laboratorio danno i seguenti risultati:

–       una quantità variabile di materiale granulare fine che costituisce l’ossatura;

–       moderate quantità di limo e sabbia fine per le difficoltà di drenaggio;

–       un livello sufficiente in argilla da cementare sabbia e limo quando la superficie è secca ma non in quantità tale da rendere plastica la miscela bagnata. In mancanza di laboratorio, è possibile stabilire l’idoneità di una miscela con le seguenti prove dirette effettuate su campione umido cui sono stati tolti gli elementi > 5 mm;

–       il materiale deve presentarsi ruvido;

–       deve assumere una forma definita quando stretto nella mano, forma che deve mantenere quando essiccato;

–       deve sporcare poco la mano;

–       dopo compressione non deve essere facilmente penetrato dal rovescio di una matita;

–       se compresso in un recipiente non deve ritirarsi eccessivamente con l’essiccazione.

I metodi costruttivi sono quelli indicati per i misti granulari; il costipamento viene effettuato con rullo a piede di montone seguito da gommato su spessore ≥ 15 cm. Baulatura al 2% o meno.

Se protetti da un trattamento bituminoso di superficie, la degradazione della struttura nel tempo non è maggiore di quella eseguita a macadam.

1.11.3.2 – Massicciate o strati di base in pietrisco

Si è già detto che i tradizionali macadam all’acqua sono in disuso. I macadam a secco invece sono tuttora utilizzati sopratutto nel rafforzamento di vecchie strutture ammalorate, richiedendo sempre uno strato superiore di protezione in conglomerato bituminoso. Si distinguono due tipi usati alternativamente a seconda delle disponibilità del materiale nella zona:

–       macadam a strato sottile (minimum dei francesi) che viene steso per uno spessore compatto di (D+1) cm (essendo D il massimo diametro dell’aggregato) utilizzando materiale ottimale, a granulometria controllata, in cui la qualità supplisce allo spessore. E’ la regolarità dei grani che permette una stesa corretta, normalmente a mezzo motorgrader e rullata con rullo a cilindri lisci. La granulometria è molto serrata: 40/60, 50/70 o 60/80 mm con tolleranza 0 per la dimensione massima mentre per la minima si accetta una variabilità entro valori 5÷10%. Quanto alla forma dei grani si richiedono elementi cubici (può valere al riguardo la regola per cui la somma della lunghezza e della larghezza deve risultare inferiore al quadruplo dello spessore) mentre per la durezza si richiede un coefficiente Deval di 15÷16 per strade a forte traffico ed un minimo di 9÷10 per le altre.

–       macadam a granulometria distesa: alla più larga tolleranza granulometrica si supplisce con spessori più consistenti. Sono impiegati in alternativa ai precedenti quando i costi di trasporto incidono meno. La granulometria si distribuisce entro 20/70 mm÷20/80 mm dove il vantaggio di questi macadam risiede nella loro pienezza che riduce le deformazioni dovute a riempimenti dei vuoti ed a frantumazione sotto il rullo; si possono così usare elementi semi-teneri (coefficiente Deval 8÷12) e pertanto la granulometria iniziale si modifica notevolmente col costipamento con forte formazione di fine.

Lo spessore dello strato è normalmente > 15 cm. Una tecnica impiegata sovente consiste nella stesa di 2 strali: una sotto-base in macadam a granulometria distesa o, al limite, un tout-venant di cava con sopra un macadam sottile. Di conseguenza il confine coi misti granulari di cui al paragrafo successivo è indefinito. Per il costipamento s’impiegano rulli vibranti o a cilindri da 6÷7 t su sottofondi nuovi e da 12 t su vecchie strade cominciando sempre dai bordi; dopo alcuni passaggi si spande, se é il caso, la frazione fine (passante il setaccio da 15 mm al 90÷100%, nonché passante il setaccio da 0.15 mm tra 0÷30%) facendola penetrare con scope meccaniche.

1.11.3.3 – Basi e sotto-basi in misto granulare

Il termine è più descrittivo che specifico intendendosi l’utilizzo, oggi predominante nelle costruzioni stradali, di miscele naturali o artificiali (stabilizzati) di pietrisco, ghiaia, sabbia e argilla (quest’ultima in misura minima) per la formazione degli strati di sotto-base e di base sui quali sono poi stesi gli strati bituminosi.

I materiali provengono da cave opportunamente scelte, passati eventualmente ai frantoi ed ai vagli o, ancora, stabilizzali meccanicamente quando la loro granulometria non risponde ai requisiti richiesti per formare miscele atte a consolidarsi per costipamento.

II materiale di fiume è in genere di buona qualità anche se sovente il contenuto d’argilla è insufficiente. Il materiale reperibile nei depositi alluvionali, specie se si presenta come un aggregato cementato, è spesso eccellente. I requisiti richiesti sono quelli riportati in Tab. 1.14 (norme AASHTO) e comunque:

– maggiore è l’angolosità degli elementi e migliore è la legatura; il materiale di frantoio è quindi desiderabile ed una % di esso deve essere sempre presente nella miscela. Ogni cava contenente almeno il 20÷25% di elementi eccedenti la pezzatura massima ammessa giustifica l’installazione di un impianto di frantumazione; in caso diverso vanno tolti mediante il vaglio ed utilizzati diversamente (nei vespai, per murature etc.). Se tuttavia è accettabile per una sottobase un indice

Tab. 1.14 – Norme AASHTO per sottobasi granulari tipo C.

–       di frantumazione (o % di granuli frantumati perché eccedenti la pezzatura ammessa) relativamente basso, per una base deve sempre essere > 60.

–       per quanto concerne durezza, non gelività e resistenza chimica il materiale deve presentare una resistenza alla frammentazione (valori della prova Los Angeles < 30 per sottobasi e < 20 per basi) ed all’usura specie in presenza di acqua (valori della prova Deval umida > 5 e > 7 rispettivamente per sottobasi e basi);

–       per quanto attiene alla purezza con riferimento al contenuto d’argilla, l’Indice di plasticità non deve essere misurabile e l’equivalente in sabbia della relativa prova deve essere > 40 sia per una base che per una sottobase qualora si tratti di una strada importante. Ed appunto in base a questa valutazione, sovente i Capitolati dividono i misti granulari in classi:

–       la classe A per sottobasi, la più utilizzata, ammette elementi fino a 75 mm con un livello entro 35÷70% passante al setaccio da 5 mm ed un livello entro 0÷15% di fine; la classe C, la migliore, richiede i requisiti di cui alla Tab. 1.14;

–       per le basi, i requisiti della classe sono riportati in Tab. 1.15. Le classi B e C sono miscele stabilizzate meccanicamente con tolleranze più strette.

Tab. 1.15 – Requisiti dei granuli di materiale per base classe A.

Per le basi si richiede inoltre :

–       alla prova del solfato di sodio perdila max 10%;

–       alla prova del solfato di magnesio perdita max1 2%;

–       alla prova all’abrasione perdita max 40%;

–       elementi oblunghi max 5%; particelle friabili max 0.25%.

Il Road Research Lab. (Tab. 1.16) richiede che il passante al setaccio n. 36 abbia un LL ≤ 25 ed un IP ≤ 9.

Tab. 1.16 – Requisiti dei granuli di base secondo RRL.

La Società Italiana Autostrade per la fondazione o sottobase prescrive:

–       dimensione max aggregato 71 mm; esclusa la forma appiattita, allungata o lenticolare;

–       granulometria compresa nel fuso di cui alla Tab. 1.17;

–       rapporto tra il materiale passante al vaglio 0.075 mm ed il passante a 0.4 mm < 2/3;

–       perdita di peso alla prova Los Angeles eseguita sulle singole pezzature, < 30%;

–       equivalente di sabbia misurato sulla frazione passante al n. 4 ASTM entro 25÷65 con richiesta di verifica CBR se il valore è < 35;

–       indice CBR a 4 giorni di imbibizione, eseguito sul passante al crivello 25 ≥ 50 (norma AASHTO 180-57 metodo D);

–       valore del modulo di deformazione (Md), misurato con la piastra da 300 mm sullo strato costipato, nell’intervallo 1.5÷2.5 kg/cm2 non deve risultare < 800 kg/cm.

Tab. 1.17 – Fuso richiesto dalla SIA per materiale granulare di sottobase.

1.12 – Stabilizzazione delle terre

Il suolo é fisicamente costituito da 5 elementi combinali tra di loro in varie proporzioni: ghiaia, sabbia, limo, argilla e materiale organico. Le proporzioni di questi elementi definiscono il carattere del suolo mentre l’acqua, sempre presente, può alterarne il comportamento.

Escludendo i materiali organici, i cui effetti sono sempre negativi, le terre coesive presentano resistenza decrescente con l’aumento del contenuto d’acqua e, pertanto, in campo stradale, sono tollerale in % ridotte; tutte !e terre, comunque, raggiungono la massima densità e stabilità se compattate con una quantità ottimale d’acqua.

La stabilizzazione è il processo di trattamento del suolo per cui:

–       s’impedisce che le sue proprietà siano alterate eccessivamente dall’acqua;

–       se ne migliorano le caratteristiche di portanza;

Si deve quindi parlare di 2 diverse azioni, per quanto non chiaramente separate, tendenti, la prima, a preservare l’umidità ottimale mediante:

–       l’addensamento dei grani mediante compattazione;

–       la protezione della superficie mediante un manto impermeabile (ad es. bitume); oppure, contemporaneamente:

–       interponendo una membrana isolante a separazione dello strato sottostante da quello trattato;

–       assicurando il drenaggio;

–       addizionando al materiale sostanze che ne limitino l’assorbimento dell’acqua e che agiscano nel contempo da legante;

–       applicando al terreno differenze di potenziale elettrico a mezzo di elettrodi metallici (usato solo in casi particolari).

La seconda azione tende ad aumentare la consistenza del suolo modificandone la composizione granulometrica (stabilizzazione meccanica o granulometrica) oppure mediante l’addizione di uno stabilizzante di natura chimica così da elevare l’attrito interno o la coesione.

Le caratteristiche dello stabilizzante ideale da addizionare ad una terra sono:

– adattabilità a tutti i tipi di terra, con ogni temperatura e condizioni ambientali;

– economicità, facili reperibilità, stoccaggio e trasporto;

– efficacia in piccole quantità, senza catalizzatori o attivatori;

– buona lavorabilità che consenta il costipamento dello strato trattato prima di reagire.

Nessuno degli stabilizzanti conosciuti possiede tutte queste caratteristiche:

–       dei leganti idraulici ed aerei (le norme CNR indicano adatti per questo tipo di stabilizzazione le terre A2-6A2-7A6 e A7) il cemento richiede alte %, produce un agglomerato privo d’elasticità, richiede un’accurata messa in opera ed è deteriorabile; la calce si addice solo alle terre argillose ed ha compiti limitati; le loppe non sono sempre economicamente reperibili;

–       il bitume non è adatto per le terre argillose ed è economicamente svantaggioso;

–       i prodotti chimici (nitrati e solfati) hanno anch’essi dei limiti d’impiego, sono costosi e d’efficacia non ancora accertata nel tempo.

1.12.1 – Preliminari per stabilizzazione di uno strato della struttura; metodi costruttivi

La stabilizzazione può essere estesa a qualunque strato della struttura stradale dal sottofondo alla base ed anche a più strati quando la situazione lo richieda. I metodi per realizzarla sono tre:

– miscelazione in sito (mix-in-place);

– impianto mobile (travelling plant);

– impianto fisso o centrale (centrai plant).

Alle operazioni preliminari necessarie, qualunque sia il metodo adottato, vanno aggiunte quelle specifiche. Appartengono alle prime:

– l’analisi delle terre da stabilizzare per identificarne caratteristiche e difetti;

– la scelta dello stabilizzante più adatto, della sua quantità percentuale, del metodo di stabilizzazione tenendo conto della sua disponibilità in situ (distanza d’approvvigionamento, quantità etc.) e delle condizioni ambientali;

– la determinazione dello spessore dello strato da trattare e dell’umidità ottimale per il costipamento;

– il controllo topografico delle quote in asse ed ai bordi ;

– l’esame delle condizioni dì traffico (specie se trattasi di strada esistente) e delle possibili deviazioni durante i lavori;

– lo studio delle modalità d’esecuzione in base ai programma generale dei lavori, ai mezzi disponibili nel periodo scelto alla stagione etc.

E nel caso di miscelazione in situ:

– la verifica del grado di preparazione del materiale da stabilizzare: eventuale segregazione, grado di polverizzazione del fine, contenuto di umidità esistente.

Mentre negli altri due casi è necessario:

– approvvigionare l’aggregato per almeno il 50% del totale prima di iniziare i lavori assicurandosi della efficienza degli impianti di cava;

– curare la posizione e le dimensioni delle aree di stoccaggio, la protezione dello stabilizzante dalle intemperie, le piste di accesso;

– nel caso di una strada esistente, riportare il livello delle banchine alla quota della superficie finita della base costipando le stesse dopo avere eventualmente ripristinato l’efficienza dei drenaggi.

1.12.2 – Metodo della miscelazione in situ

Utilizzando tale procedura viene impiegato un treno di macchine in successione e le operazioni si svolgono come segue:

– preparazione dello strato livellando e sagomando con l’aiuto di picchetti in quota ogni 15÷25 m ai lati della formazione e, nel caso di sottofondo rimuovendo prima sassi, radici, cespugli etc;

– scarificazione e polverizzazione operando sempre dai lati verso il centro e risagomando con la livellatrice (grader);

– spandimento dello stabilizzante: preventivamente disposto, se in polvere, ai Iati della strada; l’operazione viene eseguita a mano utilizzando invece un distributore mobile se liquido;

– mescolamento con attrezzi a dischi e a pale; se lo stabilizzante é in polvere lo si mescola alla terra a secco continuando quindi con l’aggiunta d’acqua fino a che la miscela assume un colore uniforme; la provvista dell’acqua deve esser assicurata in modo da evitare interruzioni;

– costipamento impiegando rullo dei tipo e peso adatti e senza eccedere nei passaggi; per le terre sabbiose si raccomandano i rulli vibranti;

– stendimento del manto di protezione; nel caso di stabilizzazione con cemento la prima mano di bitume va applicata subito per mantenere l’umidità ed evitare il riscaldamento del legante;

– l’impiego del grader è richiesto durante le seguenti fasi:

–       preparazione iniziale della superficie;

–       dopo la scarificazione e polverizzazione;

–       durante la miscelazione per mantenere le quote;

–       alla fine del rullaggio.

1.12.3 – Metodo dell’impianto mobile

Le operazioni sono simili alle precedenti con l’eccezione che il materiale è polverizzalo e mescolato con lo stabilizzante e con l’acqua in una macchina semovente il cui schema è riportato in Fig. 1.56 e che deposita la miscela pronta per lo spandimento ed il costipamento.

Fig. 1.56 – Schema d’impianto mobile per la stabilizzazione.

Presenta il pregio, rispetto al metodo precedente, di una miscelazione più uniforme, più rapida e più controllata nella dosatura; per contro si rivela più costoso e, nel caso di guasto alla macchina, viene arrestata l’intera operazione.

1.12.4 – Metodo dell’impianto fisso

E’ oggi il metodo più usato e più razionale per la stabilizzazione di sottobasi e di basi nei grandi lavori stradali. La miscela è preparata in un impianto centrale a produzione continua e quindi trasportata sul luogo d’impiego con autocarri per i successivi spandimento e compattazione.

Fig. 1.57 – Schema d’impianto di centrale continua per stabilizzazione con leganti idraulici.

Uno schema di centrale continua è riportato in Fig. 1.57 e comprende:

–       un insieme di tramogge di dosaggio (3 o 4), una per ogni taglia di aggregato ad es. 0/4; 4/10; 10/20 approvvigionate da pale caricatrici gommate (A); i materiali ne sono estratti coi nastri (N); che ne assicurano il corretto dosaggio con le diverse velocità. Il dosaggio è pertanto volumetrico ma con controllo ponderale che assicura uno scarto massimo entro 3÷5%.

–       2 silos (ciascuno contenente il consumo giornaliero) per il cemento od altro stabilizzante polverulento (S); nel caso invece di materiale granulare si utilizza una delle tramogge (A). (D) è il distributore alveolare.

–       un’apparecchiatura per il dosaggio dell’acqua comprendente un serbatoio (B), una pompa (P) ed un dosatore (G).

–       un miscelatore (M) del tipo a 2 alberi ed a pale posto in basso per una manutenzione più facile.

–       una tramoggia di carico (U).

La produzione è in genere regolata sulle 300 t/h. L’organizzazione dei trasporti dalla centrale alla strada è molto importarne. Ad evitare interruzioni e opportuno impiegare una flotta omogenea di ribaltabili il cui numero deve eccedere di almeno una unità quello necessario, programmando i tempi di arresto con le esigenze di fabbricazione e posa. l! tempo di trasporto, nel caso dì stabilizzazione con cemento, non dovrebbe eccedere mediamente i 30 minuti con temperature medie. Lo spandimento dei cumuli, che vanno opportunamente disposti in base allo spessore dello strato, è usualmente eseguito col grader.

1.12.5 – La stabilizzazione meccanica delle terre

Premesso che uno strato di materiale è meccanicamente stabile quando sotto il carico previsto resiste allo spostamento laterale, la miscela di terre più rispondente a tale requisito è quella composta da: ghiaia o pietrisco di diverse pezzature a sufficiente resistenza alla frantumazione, sabbia, limo e argilla.

Il tutto correttamente proporzionalo e costipato. Con la stabilizzazione granulometrica o meccanica si tende così a portare i vari componenti la miscela nelle giuste proporzioni rimediando alle eventuali mancanze. La sua principale applicazione è negli strati di base. Le corrette proporzioni per i vari tipi di basi e sottobasi sono riportate nel precedente paragrafo mentre le procedure per ottenerle sono illustrate nel Vol. 2°.

Come illustrato in Fig. 1.58 per la stabilizzazione chimica è necessario che il materiale abbia una determinata granulometria; se quello disponibile non rientra nel fuso di prescrizione si può ricorrere prima alla stabilizzazione meccanica mediante vagliature e miscele.

Fig. 1.58 – Tipo di stabilizzazione più idoneo in base alla plasticità della terra ed al passante al setaccio n. 200 (0.075).

1.12.6 – Stabilizzazione con cemento

II cemento esercita sul materiale da stabilizzare 2 azioni:

– azione correttiva di natura fisico-chimica che si esplica sulle terre coesive riducendone gli inconvenienti provocati dall’eccesso di acqua ed in particolare diminuendo la plasticità;

– azione legante che si manifesta su tutte le terre trattale.

In teoria, tutte le terre polverizzabili possono essere stabilizzate con cemento; i migliori risultati si hanno tuttavia sulle terre poco. argillose, sui limi, sulle sabbie e soprattutto sui misti granulari ottenendo i cosiddetti misti cementati che per la loro elevata coesione si avvicinano ai calcestruzzi magri. Sono da escludere le terre ricche di sali, soprattutto solfati, e quelle contenenti più del 3% di sostanze organiche (che peraltro possono essere in parte neutralizzate con l’aggiunta di una % pari a 0.5÷1% di CaCl.

aCaratteristiche delle terre stabilizzabili

I limiti entro i quali una terra può essere economicamente stabilizzata sono, secondo il Road Research Laboratory:

massima pezzatura dei grani                           78 cm

passante il setaccio da 5 mm                           > 50%

passante al setaccio n. 36 BS                          >15%

passante al setaccio n. 200 BS                        < 50%

Limite liquido                                                    < 40%

Indice di plasticità                                             < 18%

Per uno strato di base e traffico pesante i LCPC prescrivono :

– massima pezzatura grani……..                      20 mm

– curva granulometrica compresa nel fuso in Fig. 1.59

– Indice di frantumazione                                 > 40%

– Coefficiente Deval umido                              > 3

– Coefficiente Los Angeles                              < 30

– Equivalente di sabbia                                    > 30

– Indice di plasticità                                         misurabile

– materie organiche                                         < 3%

Fig. 1.59 – Fuso granulometrico secondo le prescrizioni LCPC.

bQualità del cemento e dell’acqua

Si può usare qualsiasi tipo di cemento che soddisfi alle norme sui leganti idraulici con preferenza per il tipo normale 325 ed escludendo i cementi ad alta resistenza o a presa rapida per i minori tempi di lavorabilità che consentono. L’acqua deve risultare esente da sostanze organiche, argille e sali che possono alterare la presa del legante.

cAnalisi di laboratorio necessarie

– Identificazione della terra: analisi granulometrica, limiti di Atterberg; gravità specifica, % di materia organica e di solfati; da queste prove si può stabilire se la terra è adatta alla stabilizza­zione ed ottenere un orientamento sulle modalità esecutive.

– Prove di costipamento: per analizzare il comportamento della terra con diverse percentuali di cemento e definire densità max ed ottimale di umidità (OMC); si adotta la prova Proctor modificata, dove un campione della terra previamente pesato (15÷20 kg) e passato al setaccio da 25 mm, viene essiccato all’aria e poi ripesato per ricavare la % d’acqua perduta. Si divide poi il campione in 8 parti ed ognuna di esse è bagnata con diversi quantitativi d’acqua con scarti di 1.5÷2 punti tra due successivi provini così da includere il probabile ottimale. I provini vengono quindi posti in recipienti ermetici per 24 ore onde consentire un’uniforme distribuzione dell’umidità. Si aggiunge il cemento in % diverse nel campo ottimale per quel tipo di terra (Tab. 1.18) mescolando uniformemente e quindi costipando secondo le modalità della prova Proctor modificata per ricavare la densità max e l’OMC. In campagna, la densità da raggiungere non deve essere < 95% di quella ottenuta nella prova suddetta.

– Prove di compressione, % di cemento: contrariamente alla stabilizzazione con bitumi, non esiste un ottimale del legante oltre il quale si ottiene un peggioramento delle caratteristiche della miscela; ad un aumento del % di cemento corrisponde, entro certi limiti, un aumento della resistenza meccanica e sono pertanto le considerazioni economiche che limitano tale %.

Tab. 1.18 – Quantità usuali di cemento per i diversi tipi di terre.

Pertanto, sulla base della Tab. 1.19, si dà la preferenza a quel minimo di cemento indispensabile per raggiungere gli scopi richiesti, e cioé:

–       attitudine dello strato trattato a sopportare e distribuire i carichi previsti senza deformarsi e fessurarsi;

–       durata nel tempo sotto l’effetto dei carichi ripetuti e delle variazioni di clima.

L’eccesso di cemento, peraltro, accentua il fenomeno del ritiro provocando fessura/ioni accentuati1, che indeboliscono lo strato (quelle capillari, anche se diffuse,non sono dannose).

La quantità di cemento è determinala misurando la resistenza a compressione di campioni preparati con diverse %

Dopo aver dosalo gli inerti conformemente alla curva granulometrica scelta, eliminando il ritenuto al setaccio da 25 mm, si preparano 4 provini per ciascun impasto contenente la medesima % di cemento e d’acqua; sulla base del tipo di terra si preparano vari impasti con diverse % di cemento e d’acqua.

Fig. 1.60 – Risultati prove Proctor.

La forma dei provini e le modalità dì compattazione variano per i diversi Paesi; le norme CNR prescrivono l’uso delle fustelle CBR in cui la miscela è compattata in 5 strati con 85 colpi per strato dell’apposito pestello. Determinato il peso umido dei provini al netto della fustella, il peso di volume secco è:

γd (dm3) = Pw/V[1+ (w/100)]

dove Pw è il peso del provino umido (kg); V il volume dello stampo (3.24 dm3); w è la % d’acqua.

I provini sono poi conservati nelle fustelle in ambiente umido per 24 h e quindi estratti per farli stagionare nel medesimo ambiente per 6 giorni.

Segue quindi la prova a rottura per compressione applicando il carico normalmente alle due facce in ragione di 10 kg/cm2/s. Si assume come carico di rottura la media dei valori ottenuti nei 4 provini se le differenze non superano il 20%; in caso contrario si scarta quello anomalo o si ripetono le prove se le differenze oltre il 20% interessano più di un provino.

Le norme CNR prescrivono quindi controlli in corso d’opera su campioni di miscela prelevata subito dopo la stesa interrompendo la presa del legante con alcool etilico.

Sia Pt il peso del campione essiccato sul quale è effettuata l’analisi granulometrica per via umida; il peso totale degli inerti Pi cui riferire il peso delle frazioni del passante ai vari setacci è dato da:

Pi = Pt/(1+c/100) in g

dove c rappresenta la % di cemento con cui si è eseguito l’impasto.

La densità secca della miscela costipata in situ non dovrà essere inferiore, come già detto, al 95% di quella determinata in laboratorio con la Proctor modificata.

– Prove di durevolezza (Prove AASHTO T 135/70 e T 136/70) non prescritte da! CNR: si tratta di prove d’imbibizione-prosciugamento e gelo-disgelo che vengono eseguite sullo stabilizzato che appartiene ai 5 cm superficiali dello strale e comunque quando si teme l’azione dell’acqua e del gelo. Si utilizzano 4 provini cilindrici per ognuno dei contenuti di cemento più significativi costipati con l’OMC a coppie per ciascuna prova. Per la prova d’imbibizione i provini, dopo 7 giorni di stagionatura in ambiente umido, sono immersi in acqua per 5 ore.

Misurati e pesati sono poi messi in forno a 70° per 42 ore.

Di ogni coppia eguale, il primo provino è misurato e pesato, il secondo, dopo pesatura è spazzolato con una particolare procedura (la spazzola è di ferro) quindi pesato nuovamente.

L’operazione è ripetuta dopo 12 cicli di immersione in acqua ed essiccazione.

Per la prova gelo-disgelo, i campioni sono prima tenuti in frigorifero a -23°C per 22 ore ed altrettante a temperatura normale in ambiente umido. Si procede poi come nella prova precedente.

II dosaggio minimo del cemento da applicare è quello che:

a) dia perdite di peso della miscela rispetto ai peso iniziale, dopo 12 cicli di imbibizione-essiccamento e dopo 12 cicli di gelo-disgelo inferiori a:

per terre A1a, A1b, A3, A2-4, A2-5                             max   14%

per terre A2-6, A2-7, A4, A5                                     max   10%

per terre A6, A7-5, A7-6                                          max     7%

b) nelle prove precedenti, la variazione di volume dei provini non superi il 2%;

c) dia contenuti di umidità, durante le prove (a) non superiori alle quantità che possono riempire tutti i vuoti dei provini all’atto della confezione e fornisca una resistenza alla compressione crescente col trascorrere del tempo e col l’aumento del dosaggio del cemento, nei limiti dei dosaggi di cui ai punti (a), (b) e (c) precedenti.

d) Resistenze richieste: iI valore della resistenza a compressione dei provini dopo 7 gg di stagionatura se si tratta di uno strato isolalo dagli effetti dell’acqua e del gelo deve essere compreso tra 20÷70 kg/cm2; se invece soggetto agli effetti dell’acqua ma non del gelo 35÷90 kg/cm2. (Le norme CNR fissano i limiti 30÷70 kg/cm2 per entrambe i tipi A1 ed A2).

e) Posa in opera della miscela: si è già detto della poca idoneità delle terre argillose alla stabilizzazione con cemento sebbene in USA e UK si siano ottenuti risultati relativamente soddisfacenti. In ogni caso le stesse devono essere preventivamente essiccate e frantumate per poter mescolare il cemento in modo omogeneo; a tale scopo può risultare conveniente lo spandimento iniziale di circa il 2% di calce viva facilitante lo sbriciolamento. La tecnica, nel caso di miscelazione in situ, è quella riportata in precedenza ricordando che la densità da raggiungere deve essere pari al 97÷100% della densità Proctor modificata a seconda dell’importanza dello strato.

f) stabilizzazione delle sabbie limose: la sempre minor disponibilità di giacimenti di ghiaia in natura e comunque appartenenti ai gruppi A1A2-4 A2-5 A3 e per contro l’esistenza di notevoli depositi di sabbie con Ø < 2 mm e di limi appartenenti al gruppo A4 porta sempre più all’utilizzo di questi ultimi nella costruzione di rilevati e di sottobasi ricorrendo alla loro stabilizzazione con cemento. I materiali sabbioso-limosi debbono comunque rispondere a requisiti minimi quali un Limite Liquido ≤ 25 ed un Limite Plastico non determinabile, pertanto con IP = 0.

L’equivalente in sabbia che caratterizza la quantità e qualità del fine non deve risultare < 11÷12, valore che già ammette particelle finissime. L’umidità ottimale ricavata alla prova Proctor modificata di questi materiali è dell’ordine dell’11÷12% con una curva molto acuta il che richiede in campagna un accurato controllo dell’umidità in fase di costipamento. L’indice CBR pre-saturazione è abbastanza elevato (30-40%) e post-saturazione varia dal 3÷4% al 15% con umidità ottimale, effetto che dimostra come queste sabbie, se non stabilizzate, abbiano limiti d’applicazione assai ristretti durante l’anno in quanto molto suscettibili all’acqua. Lo stabilizzante più idoneo risulta il cemento 325 nella proporzione del 6÷9 % in peso dell’inerte. Risultano significativi i carichi di rottura di campioni stabilizzati con diverse % di cemento (valori medi).

g) la terra-cemento (soil-cement): per quanto il termine sia generalmente attribuito ad una terra stabilizzata con cemento, più propriamente s’intende una miscela contenente mediamente il 10% di cemento usata con buoni risultati nella costruzione dei rilevati stradali, degli argini, delle dighe in terra etc. dove è utilizzata quale strato protettivo esterno con spessori minimi di cm 60 in sostituzione di altre più costose strutture (rivestimenti in ghiaia, calcestruzzo etc.). La miscela, in cui gli inerti debbono, possibilmente, godere di una granulometria varia, è preparala in cantiere centrale e posta in opera in parallelo alla stesura degli strati della terra comune non trattata; e questo per facilitarne il costipamento.

h) prescrizioni sulla stabilizzazione con cemento:

– compattare con leggero eccesso d’acqua rispetto all’OMC; nei caso di sabbia a granulometria uniforme (richiedente sempre un’elevata quantità di cemento) l’impiego di rulli vibranti porta ad un abbassamento dell’OMC rispetto a quello di laboratorio; risultano necessarie, pertanto, delle prove in situ prima di dar corso ai lavori, prove che, peraltro, è sempre opportuno eseguire anche in presenza di altre terre, in quanto il cemento non è riutilizzabile nel caso che. non raggiungendo la densità prescritta, sia richiesto di ripetere le operazioni;

– compattare il più presto possibile e comunque prima dell’inizio della presa usando la macchina adatta per il tipo di terra controllando continuamente densità ed umidità possibilmente con nucleo-densimetri che forniscano risultati immediati; si richiedono, poi, 7 giorni di stagionatura con le medesime avvertenze applicate per i calcestruzzi. Il traffico di cantiere è ammesso dopo 2÷3 gg solo per i veicoli gommati e se la superficie è stata ricoperta da uno strato di emulsione;

– la resistenza della terra stabilizzata é sempre inferiore a quella ottenuta in laboratorio; differenze del 10÷40% sono nella norma mentre l’entità dello scarto dipende dall’esperienza del personale e dall’idoneità del macchinario; pertanto, temendo carenze in tal senso, è opportuno aumentare la % di cemento suggerita dalle prove;

– la resistenza della miscela aumenta col tempo; mentre con basse % di cemento l’aumento è costante durante i primi 28 gg, se la % è alta (8÷10%) si perviene al 60÷70% del totale nei primi 7 giorni;

– stabilizzare con temperatura ambiente ≥ 0°C e ≤ 25°C; se la temperatura è elevata risulta opportuno bagnare il piano di posa;

– non operare sotto la pioggia;

– il tempo intercorrente tra due strisce affiancate non deve superare le 2÷4 ore a seconda della temperatura ambiente;

– il comportamento di una terra stabilizzata non è sempre tanto migliore quanto più la resistenza a trazione risulta elevata; essendo, infatti, sempre possibili delle fessurazioni dello strato, queste si rivelano più marcate nel materiale più resistente con maggiori rischi di una futura degradazione;

– le ghiaie ad elementi molto arrotondati e le sabbie pulite, presso che incompattabili allo stato naturale, traggono giovamento in tal senso dall’aggiunta di cemento sempre che si proceda al costipamento dopo qualche ora dalla stesa;

– dopo il costipamento lo stabilizzato conserva un 15÷17% di vuoti (contro il 22÷24% se lo stabilizzante è calce o loppa d’altoforno) che in parte contengono acqua necessaria per la presa del legante.

1.12.7 – Stabilizzazione con loppe d’altoforno (laitier)

Le loppe, provenienti direttamente dagli altiforni, sono costituite principalmente da calce, silice, allumina ed ossidi di ferro mentre la granulazione è ottenuta con getti d’acqua sulle scorie fuse. La loro utilizzazione in campo stradale è dovuta all’azione legante che si sviluppa quando vengono poste a contatto, in presenza d’acqua, di un catalizzatore (normalmente calce) in grado di creare un ambiente basico. Vengono pertanto aggiunte agli usuali misti granulari (indicativamente: Pietrisco 25÷30% – Graniglia 3/15 50% e sabbia 20%) anche se si possono ottenere risultati soddisfacenti utilizzando solamente sabbie, grosse e fini, aventi, tuttavia, un buon coefficiente Los Angeles (> 35) ammettendo anche una % di limo purché la frazione fine, nel complesso, abbia un Indice plastico < 15.

Le loppe vanno aggiunte in una % variabile entro 12÷25% e con tali percentuali si raggiunge una resistenza a compressione ed a trazione della miscela < 20% rispetto alla miscela aggiunta di cemento al 4÷5%. Il ritiro dovuto alla presa idraulica è ininfluente mentre quello termico ha luogo con scarti di temperatura superiori ai 12°C.

Il catalizzatore entra nel processo in % minima (1%) e se si tratta di calce idrata deve avere finezza Blaine pari a 7000 cm2/g ed un tenore di calce libera > 50%. Maggiore è la frantumazione della loppa (la cui granulometria è normalmente compresa tra 0 e 5 mm) più intensa si rivela l’energia di legamento. La preparazione della miscela, assieme all’aggiunta d’acqua (50-60 l/m3) deve avvenire in centrale ed una volta in silo il prodotto si comporta come un buon misto granulare non legato; col tempo, poi, assume una certa rigidità sebbene la deformabilità a rottura sia buona. Lo spargimento della miscela, per uno spessore usuale di 30÷40 cm sciolti, deve essere effettuato preferibilmente col motorgrader ed il costipamento con rullo vibrante (a media vibrazione) da 8÷10 t ha luogo dopo 2 ore dallo spandimento, effettuando 3÷4 passate cui è opportuno far seguire un rullo statico da 12 t, preferibilmente gommato, le cui passale sono più numerose.

L’ottimale di umidità per il costipamento, da accertare comunque con la prova Proctor, assume valori ~6÷7% elevabili fino al 12% se si sono utilizzate sabbie quale inerte.

E’ sempre consigliabile il riposo dello strato costipato; anche per qualche settimana, se possibile; se, al contrario, si dovesse aprire il manufatto subito al traffico (in ogni caso dovrà limitato ai veicoli leggeri per primi 15÷25 giorni) si rivela opportuna la stesa di un velo d’emulsione bituminosa basica al 55% (1.5 kg/m2) saturata con sabbia, al fine di evitare il disgregamento dello strato superficiale. Un’alternativa alla stesa del bitume può essere rappresentata dal mantenimento per qualche giorno dell’umidità ottimale, sebbene un eventuale eccesso di acqua, come ad es. in presenza di pioggia, non sia dannoso.

La presa lenta delle loppe d’alto forno, oltre a consentire tempi lunghi nella messa in opera, consente inoltre, come avviene con la calce, di scarificare e ricompattare eventualmente lo strato che non ha raggiunto la densità richiesta.

Uno spessore compattato di 25 cm in un pavimento stradale sostituisce vantaggiosamente una sottobase convenzionale di 30 cm, consentendo inoltre una riduzione dello spessore del conglomerato bituminoso di base dai 10÷14 cm usuali a 6÷8 cm.

E’ richiesto, tuttavia, un buon sottofondo o, nel caso di un rilevato, dell’ultimo strato di 30 cm che deve essere costituito da materiale non inferiore alla classificazione A2aA2 e con modulo minimo di deformazione E = 500 kg/cm2 da accertare con la prova della piastra.

In ogni caso, caratteristiche qualitative inferiori del sottofondo possono essere eventualmente rimediate conferendo maggior spessore allo strato stabilizzato.

1.12.8 – Stabilizzazione con calce

Nei cantieri italiani la stabilizzazione con calce viene regolata dalle norme CNR che, per la bisogna, sono tuttavia spesso giudicate troppo parziali e limitate. La calce viva o spenta (più frequentemente la seconda per ragioni di sicurezza e praticità) vengono usate per stabilizzare terre molto plastiche (IP >18÷20) ottenendo su esse i seguenti effetti:

–       diminuzione della plasticità per flocculazione delle particelle d’argilla cui deriva una certa friabilità del materiale che diventa, così, più lavorabile mentre il Limite liquido varia di poco, aumentando per contro quello plastico con conseguente riduzione dell’Indice di plasticità (fino al 40%) se l’IP è dell’ordine di 30÷40.

–       diminuzione dell’attitudine della terra a modificare il suo volume;

–       aumento del limite del ritiro;

–       aumento dell’ottimale d’acqua (OMC) per compattare il che consente questa operazione con terre molto umide come è il caso delle argille (anche 10% in più); ad esso fa riscontro una diminuzione della densità massima;

–       appiattimento della curva Proctor, effetto che facilita il costipamento in quanto s’allarga la fascia dell’OMC; il fenomeno si riscontra solo con IP > 10, in caso contrario la tendenza è opposta;

–       aumento della resistenza della terra per l’azione cementante della calce.

Questi effetti richiedono per manifestarsi un tempo variabile dai 3 ai 14 giorni, è invece necessario qualche mese per l’ultimo elencato.

La calce è economica, non è di difficile lavorazione; lo strato trattato che non abbia raggiunto la densità voluta può essere scarificato e costipato nuovamente senza aggiunta di altra calce (contrariamente al cemento); non risente degli aumenti dì umidità.

E’ tuttavia sconsigliabile per le terre incoerenti a meno che non sia addizionata a ceneri, pozzolane o argilla in quanto l’azione cementante dipende dal contenuto nella miscela di silice ed allumina. In presenza di terre molto argillose è preferibile la calce viva (CaO) che, prodotta in zolle, viene polverizzata per l’uso; il problema infatti per le argille è spesso l’eccesso di umidità che viene così corretto, oltre che con l’apporto di materiale secco, col calore sviluppato dalla combinazione della calce viva con l’acqua del terreno per formare la calce idrata Ca(OH)2.

Fig. 1.61a – II fuso di Walter Brand che definisce le terre stabilizzabili con la Calce ed altri leganti.

Ottimi risultati si ottengono con le terre pozzolaniche che con la calce acquisiscono notevoli proprietà meccaniche e refrattarietà all’acqua dopo costipamento (miscela consigliata: 80% pozzolana, 20% inerte calcareo 5/18 mm, 2÷4% calce); evitare la stagionatura con clima secco per la forte caduta di resistenza che si verifica. Anche le ghiaie, cosiddette sporche (per il forte contenuto d’argilla), migliorano notevolmente con l’aggiunta di calce.

a) Caratteristiche delle terre da stabilizzare: le norme UNI-CNR, come s’è detto poco soddisfacenti, affinché una terra risulti adatta alla stabilizzazione con calce prescrivono debba essere di tipo limo-argilloso con IP > 10 (terre del tipo A6A7) e forniscono un fuso granulometrico ampio e poco definito.

Altrettanto superficiale si rivela l’indicazione dei dosaggi mentre altri Stati, in particolare USA e UK, danno indicazioni più particolareggiate e significative (Fig. 1.61a).

A volte, alla stabilizzazione con calce si chiede una azione a breve termine o di bonifica nel caso, ad es., di strade di servizio; evidentemente non è più necessario attenersi alle norme citate essendo il rapporto spesa/beneficio impostato su basi diverse.

Al riguardo, è da notare che dopo 48 ore dalla stabilizzazione con l’1% di calce si ottiene, in una terra limo-argillosa, una caduta dell’Indice di plasticità di 3÷5 punti che aumentano di qualche unità con l’incremento fino al 5% del legante.

b) Qualità della calce e dell’acqua: come s’è detto i tipi di calce utilizzabili sono:

–       la calce idrata in polvere;

–       la calce viva macinata.

In Italia si richiede la conformità ai requisiti indicati nel R.D. 2231 del 16.10.39 e nella legge n. 595 del 26.5.65; altrettanto per le calci aeree in zolle che debbono, tra l’altro presentare, un  residuo al setaccio da 0.2 mm < 5%.

Le norme AASHO sono riportate in Fig. 1.61b. L’acqua deve essere esente da impurità dannose (acidi) e da materie organiche.

Fig. 1.61b – Caratteristiche della Calce (Norme AASHO).

c) Calcolo delta miscela di progetto. Prove di laboratorio: le % tipiche della calce sono:

–       per strati di sottobase e base: 3÷8% (calce viva); 4÷10% ( calce idrata)

–       per fondazioni e bonifiche: 1÷3% ( calce viva); 1÷4% ( calce idrata)

E’ da notare come la % di calce sia sempre riferita al fine; così, nel caso di ghiaie sporche, si esclude dal calcolo il peso della ghiaia.

La terra deve essere prima classificata così come si è detto per la stabilizzazione a cemento e si perviene poi a stabilire il % ottimale di calce e di acqua attraverso le prove di costipamento (Proctor mod.), CBR e di compressione ad espansione laterale libera condotte su almeno 3 miscele sperimentali con diversi tenori di calce; con queste prove si può stabilire come variano i valori massimi dell’indice CBR, della densità secca e dell’OMC nonché della resistenza a compressione.

Si rivela utile anche la prova edometrica per ricavare l’Indice di compressibilità sebbene la teoria della consolidazione di Terzaghi (che consente di prevedere entro 24 h quale sarà l’assestamento totale dello strato che avrà luogo in tempi lunghi) sia scarsamente applicabile sulle miscele terra-calce.

d) Caratteristiche di idoneità della miscela: tali caratteristiche variano a seconda degli scopi: se si richiede alla calce un’azione di bonifica e per rendere più lavorabile una terra, oppure si vuole anche modificare sostanzialmente le proprietà meccaniche (azione a lungo termine).

Per quanto riguarda l’indice CBR:

– nel primo caso, dopo 2 ore di stagionatura e senza imbibizione:        CBR ≥ 10;

– nel caso di azione a lungo termine su strati di fondazione:                 CBR ≥ 20;

– su strati di base:                                                                                   CBR ≥ 50;

(dopo 7 gg di stagionatura e 4 gg d’imbibizione). Per la resistenza a compressione:

– nel primo caso, dopo stagionatura di 7 e 28 gg rispettivamente 3 e 6 kg/cm2;

– nel secondo, rispettivamente, 5 e 10 kg/cm2.

(su provini confezionati in fustelle CBR sformati dopo almeno 48 h).

Come accennato, risulta sovente utile l’addizione di % di pozzolana e scorie d’altoforno alla miscela terra/calce.

e) Procedura col metodo della miscelazione in situ:

primo giorno

– scarificazione con erpice a dischi dello strato nel caso di umidità eccedente o, alternativamente, bagnare ed attendere per circa un’ora;

– ripetere eventualmente la bagnatura e spandere quindi la coltre di calce sul terreno leggermente al disotto dell’OMC; per l’operazione si usa lo spandicalcesemovente con tramoggia chiusa portante una coclea al suo fondo avente la funzione di distribuire regolarmente; nel caso di umidità eccedente può convenire uno spandimento iniziale limitato (1÷2%) per favorire l’essiccazione per poi completarlo nella giornata;

– bagnare la calce due volte: la quantità d’acqua richiesta col 3.5 % di calce è di ~25 103 l/km per strada a due corsie; se si usa calce viva occorre, per spegnerla, il 32% d’acqua del peso di CaO o, in pratica ,il 17÷20% in peso della calce; si attende qualche ora per permettere l’idratazione da ritenersi raggiunta quando la calce si presenta secca;

– nel tardo pomeriggio miscelare la calce alla terra con mescolatore a rotore (pulvimixer) da almeno 400 HP che operi sulla larghezza di una corsia (a velocità di rotazione variabile tra 500 e 1500 giri/m da scegliere in base alla situazione contingente); evidentemente, nel caso di due spandimenti successivi quando la terra è troppo umida, seguono due mescolamenti;

– portare il tenore d’acqua al disopra dell’OMC di 1÷2 punti nella fase finale del mescolamento; secondo giorno o più tardi

– assicurarsi che il tenore di acqua sia leggermente al disotto dell’ottimale;

– costipare alla densità richiesta e coprire subito, se il clima è caldo e secco o col materiale dello strato seguente o con altri metodi (non esclusa una mano di bitume) o, ancora, mantenere bagnata la superficie per 5÷6 gg.

Il mezzo compattivo più idoneo resta sempre il rullo a piede di montone seguito, per la finitura, da quello gommato sempre che non si tratti di ghiaie sporche (contenenti cioè un 15÷30% di limo-argilla) nel qual caso il primo è da escludere e, in via indicativa, un solo tipo di rullo risulta adatto, ossia quello vibrante.

Fig. 1.62 – Variazioni dei Limiti Liquido e Plastico in funzione del % di calce nella miscela.

f) controlli in corso d’opera e su strato finito: i controlli in corso d’opera interessano soprattutto l’Impresa esecutrice che dovrà accertarsi se l’umidità nella compattazione è quella ottimale e se i risultati, per quanto riguarda la densità prescritta, sono buoni.

Le norme CNR prescrivono che quando la dimensione massima degli elementi lapidei è tale da non consentire prove di densità in sito e in laboratorio (è il caso delle ghiaie sporche), si determina il corretto costipamento dello strato eseguendo, appena ultimato, prove di carico con la piastra 30 cm per determinare il modulo di deformazione Md i cui valori minimi consentiti sono:

–       Md = 150 kg/cm2 quando si tratti di bonifiche di terre;

–       Md = 400 kg/cm2 nel caso di miglioramento di sottofondi;

–       Md = 800 kg/cm2 negli strati del pavimento.

Fig. 1.63 – Aumento nel tempo della resistenza a compressione con diverse % di Calce.

Sullo strato finito si effettuano prove di densità ed eventualmente dell’Indice CBR i cui valori non devono risultare inferiori a quelli ottenuti con la miscela di progetto.

g) Commenti alla stabilizzazione con calce: per quanto s’è detto, questo tipo di stabilizzazione è particolarmente idoneo:

–       a migliorare il piano di posa di un rilevato ed il corpo stesso del rilevato se di natura troppo argillosa;

–       a rendere accettabile uno strato di sottobase fatto con ghiaia in natura molto sporca;

–       a facilitare la lavorabilità di una terra in genere;

–       a migliorare rapidamente la viabilità di cantiere, le strade di servizio etc. cui si abbia predominanza di terre plastiche con elevata umidità.

La resistenza al gelo di uno strato stabilizzato a calce è generalmente buona in presenza d’acqua: la terra, infatti, gela solo intorno ai -20°C.

E’ tuttavia necessario stabilizzare almeno un mese prima del previsto inizio dei geli per dar tempo alla calce di entrare in azione.

La presa lenta della calce consente l’apertura al traffico non appena finito i! costipamento, per contro, rispetto al cemento, è più lunga nel tempo la vulnerabilità dello strato sottoposto agli sforzi di taglio od ai cedimenti di quello sottostante.

E’ opportuno notare come le norme CNR richiedano la resistenza a compressione solo quando si stabilizzino terre reattive, ossia quelle in cui la calce provoca, oltre alla variazione quasi immediata dei limiti di consistenza e del CBR, l’avvio di processo di reazioni chimiche cui segue, nel tempo, un considerevole aumento della resistenza meccanica.

Fig. 1.64 – Andamento delle curve pressione/abbassamento nella prova CBR dopo 28 gg di stagionatura e 4 giorni immersione di campioni di terra tipo A6 (linea continua) ed A4 (linea tratteggiata) stabilizzati con calce e non; é da sottolineare come variazioni dal 2% all’8% della calce non influiscano eccessivamente sulle curve.

1.12.9 – Considerazioni sulla stabilizzazione con leganti idraulici in genere

Oltre al tipo di terra che determina la scelta del legante, i fattori influenzanti la riuscita sia sono il profilo tecnico che economico sono:

– la quantità del legante: col cemento la resistenza della miscela aumenta all’incirca proporzionalmente con la quantità; con la calce l’incremento è meno sensibile.

– la quantità d’acqua di costipamento che non solo influenza la densità raggiungibile ma anche la resistenza a rottura che è maggiore quando l’umidità è < 2% all’OMC della prova Proctor modificata.

Fig. 1.65 – Risultato di prova edometrica su argilla naturale e stabilizzata con calce.

Scarseggiare in acqua è opportuno anche quando si compatta uno strato poggiarne su materiale suscettibile all’acqua o impermeabile; in queste evenienze infatti si verifica l’effetto gomma per cui il mezzo compattivo non produce l’effetto desiderato se non riducendo l’umidità; ancora, le terre argillose contenenti un 3÷4% di acqua superiore all’ottimale sono spesso non compattabili;

– l’uniformità della miscela;

– il tasso di costipamento: la sua importanza é decisiva per ogni tipo di terra influendo in modo  determinante sulle sue proprietà meccaniche; maggiore è infatti la quantità dei vuoti, minore la resistenza dello strato; si aggiunga la migliore polverizzazione dei granuli di calce e delle loppe che aumenta la superficie specifica del legante e quindi la sua efficacia.

Questi effetti sono dimostrati dal fatto che passare da un 100% al 95% della prova Proctor modificata la resistenza meccanica di una terra stabilizzata diminuisce del 35÷50%.

Fig. 1.66 – Risultati della prova Proctor modificata su terra tipo A6 (LL = 32%; lp = 14.5) dai quali si può notare l’aumento dell’OMC con l’aumentare del % di calce e la contemporanea diminuzione della densità massima.

Risultati soddisfacenti si ottengono normalmente su miscele granulari con 3÷5 passi del rullo vibrante con peso statico di almeno 8 t e 10÷18 passi del gommato da 20÷35 t con pressione di gonfiaggio entro 3÷10 bar;

– la programmazione delle operazioni: oltre quanto si è detto in precedenza nel caso di preparazione della miscela in impianto centrale è essenziale la organizzazione dei mezzi di trasporto tenendo conto degli itinerari che possono variare in corso dei lavori e quindi anche i tempi e delle cadenze di fabbricazione. Il cantiere viene suddiviso in tratte di opportuna lunghezza sulle quali operare in tempi alterni (particolarmente con la miscelazione in sito della calce) ad evitare tempi morti alle maestranze ed alle macchine che, per esigenze costruttive, non possono completare una tratta alla volta.

1.12.10 – Stabilizzazione chimica con gel di terre limo-sabbiose

Terreni classificabili A4 quali miscele limo-sabbia anche con presenza di argilla, non plastici, con Limite liquido tra 20÷30%, da utilizzare nei rilevati stradali qualora ne venga aumentata la coesione, possono migliorare notevolmente sotto questo aspetto con l’impiego di composti chimici. S’è già detto al riguardo che per questo tipo di terre gli stabilizzanti aerei ed idraulici non sono adatti. Tale aumento di coesione è richiesto se si tiene conto che l’angolo di attrito Φ è dell’ordine di 28÷32° e la scarpata usuale del rilevato di 1 su 1.5 (pari a 33°40′) non regge.

Esistono oggi in commercio dei composti allo stato solido (polvere cristallina) che combinati tra loro in soluzione acquosa e nelle opportune proporzioni reagiscono dando luogo ad un gel con forti proprietà collanti.

Tra i più usati sono il Nitrato d’ammonio (NH4NO3) ed il Solfato di calcio idrato (o gesso alabastrino) (CaSO4 n H2O) combinati in soluzione acquosa di silicato di sodio (Na4SiO4). Mediamente la composizione ottimale, ovviamente variabile da terra a terra, è di 15÷25 cm3 di silicato e 35 cm3 di Nitrato d’ammonio oppure di Solfato di calcio per ogni 5 kg di terra secca.

Per quanto riguarda le operazioni di campagna è importante il controllo del contenuto di umidità il cui valore ottimale è ~13%.

Sui cumuli del materiale da stabilizzare si spande prima il Nitrato, che si presentii in polvere, in ragione di circa 10 kg/m3 e quindi il Silicato di sodio che é semi liquido (5.5 l/m3).

Si stende quindi la terra trattata col grader formando uno strato ≤ 50 cm da costipare con rullo vibrante del peso minimo di 7 t.

La superficie della scarpata del rilevato va opportunamente protetta dalla possibile erosione iniziale mediante lo spandimento di una miscela di sostanza collante (ad es. cellulosa o bentonite), concime granulare per favorire l’inerbimento ed acqua; alternativamente si può coprire con emulsione bituminosa in ragione di 12 q/h corrispondenti ad una leggera spruzzatura.

1.12.11 – Stabilizzazione con sostanze bituminose

II bitume ha i! duplice compilo di fornire la coesione alle terre incoerenti, alle sabbie fini alle miscele sabbia-ghiaia oltre che di rendere meno accessibile all’acqua le terre coesive in veste di impermeabilizzante.

Le stabilizzazioni, con bitumi liquidi ed emulsioni, sono impiegate con successo nei paesi caldi ed aridi dove prevale la sabbia; l’eccesso di umidità nelle regioni fredde ed in presenza di argille sconsiglia l’impiego dì stabilizzanti liquidi che tendono ad aumentare la plasticità e diminuire quindi la resistenza.

Si impiegano a seconda del clima e condizioni del suolo oli stradali (bitumi mollo liquidi), bitumi MC ed RC a bassa viscosità, emulsioni iperstabilizzate che non rompono anche in presenza di terra mollo polverosa e comunque quei prodotti che meglio si mescolano alla terra con l’avvertenza che mai si debbono riempire lutti i vuoti a compattazione avvenuta.

L’aggiunta di kerosene facilita quando è il caso, la penetrazione; l’aggiunta di solventi poco volatili se da un lato rende la miscela più lavorabile e consente più tempo a disposizione, dall’altro Io strato costipato resta a lungo plastico impedendo quindi una rapida apertura al traffico; l’inconveniente è accentuato con la stesa del tappeto di usura che rallenta il processo di essiccazione o la rottura dell’emulsione.

Nel confronto tra miscele a caldo con bitumi liquidi o emulsioni si può dire che nel primo caso, la preparazione in impianto centrale fornisce un prodotto molto più consistente ed omogeneo; nel secondo caso si ha il vantaggio di eseguire la stabilizzazione in sito (l’impianto centrale non è sempre disponibile) per contro è richiesta una notevole esperienza e macchinario adatto.

a) Idoneità delle terre da stabilizzare e quantità di legante: secondo l’Highway Research Board (USA) le terre più adatte alla stabilizzazione con materie bituminose sono quelle aventi le seguenti caratteristiche:

– dimensione max elementi non superiore ad 1/3 dello spessore trattato;

– passante il vaglio da 5 mm > 50%; al n. 36 BS (0.425) 35÷100%; n. 200 (0,075) 10÷50%.

– Limite liquido del passante al n. 40 (0.42 mm) inferiore a 35 ed Ip < 10;

– l’umidità naturale ≤ 4%.

Il legante deve mescolarsi bene alla terra ricorrendo eventualmente ad un attivante se l’aggregato è di natura siliceo-acida:

– i tipi RC1 ed RC2 sono i più adatti per le terre argillose e comunque viscosità alte per le terre inerti il passante al n. 200 é basso con minimi leggeri per le terre fini. In climi umidi l’emulsione può essere addizionata al cemento (5-8% di emulsione e 3-5% di cemento); quest’ultimo va aggiunto dopo che l’emulsione è già stata me scolata alla terra per evitare una rottura prematura.

La percentuale di bitume va da un 2% per le sabbie ed i misti granulari, con eventuale aggiunta di cemento come filler, ad un max del 4% del peso secco; quantità maggiori sono inutili se non dannose e comunque non si debbono riempire completamente i pori alla densità stabilita.

Si arriva alla percentuale ottimale confezionando provini contenenti quantità crescenti di legante e sottoponendoli alla prova Marshall effettuata a temperatura ambiente oppure a quella Hubbard Field (in cui si richiede un valore della stabilità superiore a 550 kg) su provini asciutti od ancora alla CBR (minimo 80%); in Gran Bretagna è comune la prova del cono nella quale la resistenza deve superare i 20 kg/cm2.

b) La tecnica costruttiva non si discosta molto da quelle impiegale nelle altre stabilizzazioni; l’emulsione sostituisce semplicemente l’acqua salvo diluirla se l’umidità è scarsa.

Evitare un eccessivo rimescolamento della miscela che potrebbe condurre ad una minore stabilità; la sabbia deve inoltre essere preventivamente inumidita ad evitare che l’emulsione “rompa” prima che la miscela sia omogenea.

Un notevole miglioramento della resistenza a compressione di una miscela sabbia-bitume sopratutto in climi caldi, lo si ottiene con l’aggiunta di zolfo in polvere fino ad un 10÷15% del peso totale della miscela.

Buoni i risultati in tal senso si sono ottenuti nella stabilizzazione di dune nel deserto e l’aggiunta dì zolfo ha permesso una diminuzione del % di bitume dal 6.5 al 5.

lì macchinano per la polverizzazione della terra, l’applicazione del legante, il costipamento e le finiture è di norma costituito da:

– macchina stabilizzatrice del tipo che scarifica, polverizza il terreno e io miscela in un’unica passala col legante bituminoso, lasciando la miscela depositata dietro di sé e pronta per le successive operazioni di aerazione, livellamento e costipamento; dovrà assicurare una distribuzione del legame con una precisione dello 0.5% sulla quantità stabilita;

– attrezzature sussidiarie quali: .serbatoi mobili per il legante, autobotti per acqua, graders, frangizolle o altre macchine adatte per l’aerazione della miscela, terne di rulli a piede di montone, carrelli pigiatori gommali, rulli lisci e spazzolatrici.

Il laboratorio da campo dovrà essere attrezzalo in modo da poter effettuare le seguenti prove:

–       determinazione della % d’acqua nella emulsione bituminosa;

–       determinazione della % di bitume nella miscela terra-bitume;

–       determinazione della stabilità della miscela terra-bitume (Hubbard Field o similare);

–       determinazione della viscosità Engler.

Prima dell’aggiunta del legante, il materiale deve contenere un’umidità inferiore al 4% in peso della densità secca e sarà polverizzato in modo che almeno l’85% passi al setaccio da 3/8″ (9.5 mm).

E’ altresì opportuno evitare la stabilizzazione con clima freddo (meno di +10°C) o molto umido. Dopo 48 h dall’ultimazione dello strato se ne protegge la superficie con l’applicazione di un velo (0.5 kg/m2) del medesimo legante bituminoso usato nella miscela.

c) Trattamenti protettivi superficiali: quando si voglia stabilizzare lo strato superiore (~5 cm) ad es. di una base si può procedere con:

–       l’asportare con la lama del grader lo strato da stabilizzare ammucchiandolo ai lati sulle banchine;

–       il costipare e livellare la superficie della base;

–       l’applicare l’emulsione (diluita con acqua: nelle proporzioni di 60% acqua ed emulsione) con 4 passaggi in tutta larghezza e portando sulla formazione, dopo ogni passaggio, 1/4 circa del materiale precedentemente ammucchiato in banchina. Dopo il terzo spandimento, mescolare inumidendo la miscela se tendesse ad essiccare troppo:

–       il livellare e sagomare;

–       il costipare con rullo gommato o vibrante.

1.12.12 – Stabilizzazione con silicato di soda

La stabilizzazione con Silicato di Soda viene applicata nelle massicciate in pietrisco calcareo allo scopo d’indurire gli elementi troppo teneri se umidi e quindi ridurre la formazione di polvere, rivelandosi un metodo economico adatto per le cosiddette strade bianche, ossia non protette da manti bituminosi. Si richiede un alto tenore di silice che favorisca l’indurimento con un rapporto SiO2/Na2O il più possibile prossimo a 3.5.

Se il calcare è molto tenero si può preventivamente passare il pietrisco in betoniera col silicato a 24° Bomé in ragione di 40 l/m3 di pietrisco; quindi, dopo spandimento e cilindratura a secco, con rullo da 10÷12 t si sparge ancora il silicato di soda a 35° Bomé in ragione di 3÷4 l/m3 sulla massicciata secca. Si stende poi un velo di pietrischetto e si rulla con leggera annaffiatura.

Il silicato va nuovamente somministrato dopo che la strada è rimasta aperta al traffico per due settimane (2÷3 litri per m2).

1.12.13 – Stabilizzazione con cloruro di calcio

Come è noto il CaCI2 è un sale igroscopico che ha la prerogativa di impedire l’evaporazione dell’acqua ed abbassare il suo punto di congelamento; inoltre,in quanto igroscopico, tende ad assorbire acqua dall’atmosfera quando l’umidità ambiente è elevata. E’ pertanto utilizzato con compiti antipolvere nei paesi aridi su strade bianche a traffico leggero.

Riduce inoltre l’OMC di compattazione facendo quindi risparmiare acqua minimizzando i rigonfiamenti causati dal gelo nelle terre fini.

La soluzione usuale è: CaCI2 al 73.5%; NaCl all’1.5%; H2O al 25%.

La migliore granulometria della terra da stabilizzare è :

aggregato grosso 45÷60%; sabbia 25÷30% ; limo-argilla 15÷20%.

La quantità di stabilizzante si aggira sul kg/m2 interessando uno spesso di 3÷5 cm.

La soluzione va sparsa possibilmente con clima umido ma non piovoso o freddo impiegando una comune spanditrice. A volte l’eccesso di cloruro di calcio può dare origine ad una leggera fanghiglia pericolosa per il traffico; è opportuno, in tal caso, consentire alla soluzione di penetrare in profondità il che si verifica in 12÷24 ore.

1.12.14 – Stabilizzazione con cloruro di sodio (sale marino o salgemma)

L’NaCl ha compiti analoghi al cloruro di calcio; è da usare preferibilmente su terre del tipo A2-4. Col trattamento aumenta la densità della terra che col 5% di salgemma può arrivare ad un +6% mentre l’indice CBR a 7+4 gg. raddoppia abbastanza agevolmente.

1.13 – Pavimenti in calcestruzzo di cemento

Le prime costruzioni risalgono all’inizi del secolo; consistono nel getto di una soletta di calcestruzzo di cemento con eventuale armatura di ferro e che riassume i compili della sottobase (non sempre), della base e degli strali di superficie.

I vantaggi di tale struttura sono:

–       particolare idoneità per fondazioni poco resistenti;

–       eccezionale durala (fino a 40÷50 anni);

–       ottima tenuta ai traffici intensi e pesanti;

–       minima resistenza al rotolamento e buona adesione delle ruote;

–       levata resistenza alle variazioni di temperatura ambiente (da -30°a+60°C};

–       buona visibilità per il traffico dovuta alla superficie chiara;

–       minima spesa di manutenzione.

1.13.2 – Spessore e forma della soletta – Tecniche costruttive

Si adotta più frequentemente una soletta di spessore uniforme con sagoma trasversale a tetto (Fig. 1.67a) con pendenza dell’1.5÷2%.

Meno adottati gli spessori variabili e cioè più consistenti ai bordi (Fig. 1.67b,c,d) a rigore più razionali, per le difficoltà costruttive che troppo incidono sui costi; abbastan­za frequente tuttavia per le autostrade, la sezione trapezoidale (fino a 40 cm sul bordo) per ovviare alle maggiori sollecitazioni nella corsia riservata al traffico pesante.

Fig. 1.67 – Tipi di sagomatura della soletta in calcestruzzo di cemento.

Di norma si costruisce la soletta in un solo getto. L’usanza dei due strati (portante e di usura) con l’impiego nel primo di inerte più grosso e meno cemento, comporta la necessità di alternare continuamente i dosaggi agli impianti con costi alla fine più elevati e maggiori probabilità di contrattempi.

La tecnica è pertanto riservata ai casi in cui si interpone l’armatura in ferro. A ridurre gli effetti delle tensioni interne dovute ai cambiamenti di temperatura e umidità, la soletta è costruita in lastre separale longitudinalmente e trasversalmente da giunti di contrazione e dilatazione.

L’importanza di questi ultimi è tuttavia diminuita in questi ultimi anni e la loro mancanza almeno per i climi europei, non porta ad inconvenienti; il contrario invece dove gli sbalzi di temperatura sono estremi.

La larghezza di ogni lastra, che determina il numero dei giunti longitudinali, è dettata dalla larghezza della carreggiata e dalla capacità delle macchine finitrici-vibratrici; corrisponde comun­que a quella di corsia per evitare il giunto dove più frequentemente corrono le ruote e quindi una strada a due corsie ha un solo giunto longitudinale per cui la soletta è gettata in due metà omettendo, per le strade urbane, le cunette laterali che ragioni tecniche consigliano di costruire successivamente; le strade a 3 o più corsie portano invece due o più giunti che delimitano ciascuna corsia. E’ altresì da notare inoltre l’esistenza dei giunti trasversali di costruzione corrispondenti all’arresto del getto al termine della giornata lavorativa.

1.13.3 – La fondazione

La fondazione di un pavimento in calcestruzzo di cemento ha vari compiti:

–       al momento del getto della soletta deve sopportare il traffico del macchinario senza deformarsi o deteriorarsi;

–       successivamente viene sottoposta agli effetti dell’acqua che circola in superficie sotto la soletta ed agli sforzi provocati dal passaggio dei carichi, specie agli angoli delle lastre nella corsia lenta;

–       deve inoltre partecipare alla distribuzione dei carichi in corrispondenza dei giunti.

Ne consegue che essa non deve essere sensibile all’acqua oltre che resistente all’erosione; in più, essendo l’elemento determinante dello spessore della soletta, è sempre importante stabilire la convenienza, o meno, all’interposizione di una sottobase di ~15 cm di spessore di materiale selezionato (preferibilmente stabilizzato con calce o cemento); questo trattamento è sempre utile quando si teme il noto fenomeno del pumping sotto le lastre di calcestruzzo. Il materiale, in ogni caso, deve avere un Indice CBR di almeno 25 oltre ad un Ip nullo.

Inoltre è richiesto un drenaggio efficace insieme ad un grado di costipamento elevato; l’acqua, infatti, può penetrare nella fondazione o per infiltrazioni laterali o attraverso i giunti della soletta o, ancora, per capillarità dal sottosuolo ed il maggior danno, in questo caso, viene causato dai rigonfiamenti conseguenti al gelo quando questo fenomeno è possibile. Altrettanto temibile è un eccessivo ritiro della terra di fondazione ai margini della soletta per cui questa, priva di supporto, cede alle sollecitazioni del traffico. Prima del getto si devono verificare le condizioni della fondazione o dell’eventuale sottobase di riporto:

– sotto il profilo topografico: rispetto alle quote di progetto tolleranze di 10÷12 mm ed avvallamenti sotto il regolo di 3 m non superiori ai >-o mm;

Requisiti del materiale d’appoggio alla soletta in cc. per limitare il pumping della stessa. (AASHO)

– massima pezzatura ≤ 1/3 spessore strato;

– passante il 0.075 mm 15 % massimo;

– indice di plasticità 6 % massimo;

– limite liquido 25 % massimo;

– sotto l’aspetto della portanza nei confronti del macchinario di trasporto-posa del calcestruzzo l’eventuale impiego del deflettografo permette di verificare la omogeneità della fondazione e la sua attitudine al riguardo.

Se le caratteristiche geometriche dello strato sono leggermente carenti si può rimediare riprofilando gli avvallamenti con miscele fini bitumate. Al contrario, l’esistenza di forti deflessioni che condurrebbero allo sgretolamento della superficie da parte degli autocarri, allo scivolamento dei cingoli delle finitrici e ad un cattivo profilo finit,o per parlare dei soli inconvenienti immediati, richiedono che le zone difettose siano scarificate e rifatte. In clima caldo, la fondazione va bagnata 24 h prima del getto della soletta e subito prima del getto stesso ad evitare assorbimento di acqua dalla miscela; alternativamente sì posso stendere fogli di plastica.

1.13.4 – La composizione del calcestruzzo

Gli inerti, oltre a fornire buone resistenze meccaniche al calcestruzzo, devono assicurare una superficie finita accettabile. Molto spesso gli inerti sono approvvigionati in 3 frazioni (in mm, maglia quadra del setaccio):

–       sabbia 0/5: pulita (ES >75) contenente meno del 30% di elementi calcarei, con una importante proporzione di silice che fornisce una superficie resistente e poco levigabile; é opportuno che la sabbia contenga una quantità sufficiente di fine e che la sua curva si situi nel mezzo del fuso, nella sua parte bassa;

–       ghiaie 5/20 e 20/40: devono presentare un coefficiente Los Angeles < 35 che consente di impiegare dei buoni calcari i quali hanno i seguenti vantaggi su materiali più duri :

–       I’eccellente adesività del cemento al calcare che porta ad elevate resistenze meccaniche;

–       il basso coefficiente di dilatazione termica e la riserva d’acqua nei pori del materiale riducono la fessurazione;

–       la bassa abrasività e minor durezza rendono meno costosa la segatura dei giunti; per contro è da rilevare che l’impiego dei chiodi nei pneumatici può portare ad una rapida usura superficiale se il coefficiente Los Angeles è >20;

–       cemento: si richiede elevata resistenza a trazione e flessione, basso modulo elastico, limitato ritiro, presa lenta; adatti pertanto i cementi Portland, i Portland con loppe o con ceneri volanti o ancora pozzolanici; il tempo di presa deve essere superiore a 3 h a 20°C e a 2 h a 30°C per non creare problemi anche nel caso di trasporti lunghi; occorre evitare la mescolanza di cementi di marche diverse; per quanto riguarda la resistenza la classe richiesta è la 325;

–       additivi: è spesso reso obbligatorio nei capitolati l’impiego di resine tipo Vinsol neutralizzate, o similari col compito di trattenere aria nel calcestruzzo (3÷6% in volume) per proteggerlo dagli effetti del gelo e dei sali antigelo; frequente è l’uso di plastificanti per ridurre l’acqua (sulfonati di calcio), più raro quello di acceleranti o ritardanti la presa.

–       I procedimenti per la composizione dei calcestruzzi stradali sono diversi; lo scopo è comunque quello di ottenere una miscela continua, compatta, lavorabile che sia adatta al clima ed economica.

Fig. 1.68 – Curve limite per l’inerte secondo le norme italiane.

II calcestruzzo deve presentare le seguenti caratteristiche:

–       tenore d’aria contenuta: 3÷6%;

–       abbassamento al cono (prova di consistenza): 2÷5 cm a seconda del tipo di macchina per la messa in opera;

–       resistenza convenzionale a flessione a 28 giorni: 45 bar (norme francesi); (la resistenza convenzionale è quella per cui si ha il 90% di probabilità che il 90% dei risultati della prova siano superiori).

Negli USA si prescrive un abbassamento al cono compreso tra 25 e 75 mm con variazioni non superiori a 25 mm tra due miscele successive ed inoltre, nel caso del doppio strato (di base e di usura) si prescrive per il primo un minimo di 5.25 sacchi di cemento da 50 kg e 24.6 litri d’acqua max per m3 e per il secondo, rispettivamente 7.25 sacchi e 28,4 litri.

In Francia, per il progetto della miscela si suggerisce il metodo seguente: chiamati SCKC ed A i rispettivi dosaggi (kg/m3) della sabbia 0/5, del ghiaietto 5/20, della ghiaia 20/40 , del cemento e dell’acqua (Fig. 1.69):

–       si inizia lo studio con un dosaggio di cemento di 330 (kg/m3); (il dosaggio minimo è comunque 300 kg/ m3);

–       il rapporto A/C deve restare < 0.5; la composizione viene definita quando si conosce G/K e S/G + K, dovendo la somma dei costituenti rappresentare 1 m3di calcestruzzo in silo;

–       il rapporto G/K, che ha poca influenza sulle caratteristiche del calcestruzzo, può essere assunto pari a 0.6 (circa il punto medio del fuso per un cc. da 40);

–       si ricerca la massima lavorabilità del calcestruzzo, a dosi costanti di cemento ed acqua variando il rapporto S/G + K;

–       fissato così lo scheletro, si modifica il tenore in acqua per ottenere la consistenza e lavorabilità voluti e si regola la quantità di additivo per un 5% di vuoti;

–       si preparano 60 provette (14x14x56) per la resistenza a flessione da utilizzare a 7 e 28 giorni;

–       si completa lo studio accertando le conseguenze sulla consistenza, lavorabilità e resistenza dovute a variazioni del % di acqua e del rapporto S/G + K. Qualora si utilizzi anche un plastificante, si procede fino al punto (e) come se questo non ci fosse e quindi, dopo la sua aggiunta, aggiustando opportunamente il tenore in acqua.

Una miscela tipica per calcestruzzo stradale è comunque la seguente: (1 m3 di calcestruzzo)

–       – pietrisco 25/60                                           m3 0.60

–       – pietrischetto 10/25                                     m3 0.30

–       – sabbia                                                        m3 0.40

–       – cemento Portland normale                         kg  350

–       – acqua compreso il contenuto umido dell’aggregato   l 120÷140

Fig. 1.69 – Schema di sintesi per uno studio di calcestruzzo per pavimentazione stradale.

Quanto alla granulometria dell’aggregato in Germania si suggerisce :

– passante il setaccio da 50 mm      100%

– passante il setaccio da 15 mm   65÷75%

– passante il setaccio da  7 mm    50÷60%

– passante il setaccio da   3 mm   32÷45%

– passante il setaccio da   1 mm   18÷30%

– passante il setaccio da 0.2 mm      3÷7% (percentuali riferite al peso)

Non è necessario che nella miscela siano presenti tutte le pezzature; recenti prove hanno dimostrato, infatti, che la mancanza di alcune di esse non compromette le qualità del calcestruzzo.

Fig. 1.70 – Schema di pavimentazione rigida in un’autostrada in Germania.

1.13.5 – Confezione e posa in opera del calcestruzzo

La confezione è sempre meccanica; il calcestruzzo è preparato in impianti fissi (centrali di betonaggio) analoghi a quello illustrato, e trasportato in situ con ribaltabili se le distanze sono brevi. Alternativamente si utilizzano autobetoniere che completano la confezione del calcestruzzo durante il trasporto dopo aver ricevuto i vari componenti da un impianto di distribuzione (centrale di dosaggio) che rifornisce anche (terzo sistema) i pavers o betoniere mobili su cingoli.

La produzione di una centrale di betonaggio è dell’ordine di 200÷250 m3/h ma può raggiungere valori molto più alti.

Il dosaggio dei costituenti è realizzato a peso con la eccezione degli additivi e, a volte, dell’acqua (volumetrico) secondo una sequenza comandata.

La messa in opera del calcestruzzo entro casserature metalli che fisse trova oggi sempre meno consensi essendo molto più convenienti le macchine a casseri mobili (coffrages glissants) guidate in quota mediante fili tesi lateralmente oppure col laser.

Pur variando nei tipi, esse adottano il principio di eseguire le varie operazioni dallo spandimento alla finitura, in pochi metri corrispondenti alla lunghezza dei casseri mentre la macchina é in continuo movimento ed il calcestruzzo é disarmato appena finita l’ultima operazione.

Per le macchine guidate i supporti vanno intervallati di m 10 (m 5 in curva) e la tensione dei fili va realizzata con cura; per quelle libere è determinante la regolarità del piano d’appoggio in quanto attraverso i cingoli si riproducono sulla superficie della soletta più o meno le irregolarità della fondazione.

Le pavimentatrici, a seconda dei tipi, possono effettuare più operazioni, dalla confezione del calcestruzzo (con gli ingredienti già dosati dalla centrale di betonaggio) allo spandimento, vibratura e finitura; ma più frequentemente la prima operazione è esclusa.

Il complesso vibratrice-finitrice si compone sostanzialmente di una barra di spandimento posta ad un livello leggermente superiore a quello della superficie finita e che spinge avanti l’eccesso di calcestruzzo,cui segue la barra vibratrice (3000 vibrazioni/min) che lo compatta al livello stabilito.

La vibrazione, indispensabile, consente un rapporto A/C mollo basso ed una conseguente maggior resistenza del conglomerato.

L’eccesso tuttavia può essere dannoso in quanto facilita la segregazione dell’inerte e pertanto l’operazione va arrestata quando lo strato appare chiuso, senza interruzioni e la malta affiora lievemente in superficie.

Ultima componente della macchina è la finitrice per la finitura della superficie de! getto.

Il rendimento giornaliero di una pavimentatrice è dell’ordine di 500÷800 m su m 7.50 di larghezza lenendo conio delle possibili interruzioni causate quasi sempre dalla irregolarità degli arrivi degli automezzi di rifornimento.

Con una produzione in centrale di 200 m3/h ed uno spessore di soletta di 18 cm la velocità di avanzamento della macchina su carreggiata a due corsie è regolalo su circa 2.5 m/min.

1.13.6 – Finitura e caratteristiche della superficie

Per rendere la superficie ruvida ed aumentarne quindi l’aderenza quando è bagnata, 3 sono i metodi applicati:

a) formare delle striature trasversali (righe larghe circa 6 mm e profonde 3, spaziate 25 mm) ottenute con uno speciale rastrello;

b) spandere uniformemente del pietrisco, pezzatura 20÷30 mm in ragione di 6÷8 kg/m2 sul calcestruzzo appena gettato. Allo scopo, alla pavimentatrice è applicata una speciale tramoggia dalla quale, a mezzo di un tamburo rotante, esce in modo regolare il pietrisco la cui penetrazione nel manto fresco è regolata da una barra trasversale. Può risultare opportuno spandere prima un ritardante sulla superficie del cls ed il giorno seguente, quando la massa è già indurita, spazzolare vigorosamente con scopa metallica;

c) irrorare la superficie all’inizio della presa con acqua e quindi rimuovere il fine superficiale per esporre gli elementi del pietrisco; per questa operazione si utilizza un apposito spazzolone rotante. d) passare al momento opportuno, durante la presa, uno straccio di juta con lo stesso scopo del precedente; il metodo è frequentemente usato per le strade urbane. Quando per la temperatura ambiente è da temere una rapida evaporazione dell’acqua si spandono speciali resine in polvere o liquide (norma AASHO M 148) sulla superficie ancora umida ma senza acqua libera, che formano una membrana protettiva. Se il prodotto e liquido ne occorrono circa 0.25 I/m2 e per grandi superfici si impiegano spanditrici meccaniche che regolano automaticamente la quantità di resina spruzzala variando la velocità di avanzamento. Per superfici limitate si può ricorrere a teli di juta mantenuti bagnati per almeno 24 ore per poi sostituirli con uno strato di sabbia o ancora un velo di bitume (0.2 l/m2) da applicare a freddo dopo 24 h dal getto.

1.13.7 – Giunti

aGiunti di costruzione: finito il getto della giornata, la soletta è contenuta trasversalmente da una tavola in modo da ottenere un bordo netto, verticale e perpendicolare all’asse stradale; ad intervalli di 70÷80 cm nei fori preventivamente applicati sulla tavola s’infilano degli spezzoni Φ = 20÷30 mm lunghi 60 cm; i giunti longitudinali che separano 2 getti contigui non vanno di norma armali e si preferisce un incastro del tipo indicato in Fig. 1.71d.

bGiunti di dilatazione: si è già detto della loro ridotta importanza. Si formano soprattutto a ridosso di opere d’arte od altri punti particolari. Una larghezza di 30 mm da riempire con l’apposito mastice, è usualmente sufficiente e vanno spezzonali (Fig. 1.71e). Occorre comunque tener conto che per un’escursione termica giornaliera di 5°C si ha un movimento della soletta di ~2 mm su 10 m.

c) Giunti di contrazione-flessione: le solette non armate, con giunti trasversali spaziali a circa 4,5 m senza spezzoni sono adottali per strade a traffico leggero od urbane od ancora per strade a grande traffico in cui la sottobase è stabilizzata con cemento. Poiché il loro compito è di localizzare in modo netto le possibili fessurazioni (dummy jointsjoints aveugles) la tendenza è quella di angolarli (1 su 6) per minimizzare l’impatto dei carichi pesanti e per ridurre l’effetto del saltoquando le due solette non combaciano più verticalmente

Si ricavano col taglio a disco targo 3.1÷6.3 mm per la profondità cui arriva il disco (diamantato se l’aggregato e duro, al carborundum per il calcare e le arenarje), da effettuare naturalmente prima che la soletta si fessuri ma col calcestruzzo abbastanza duro

Fig. 1.71 – Tipi di giunti trasversali nelle solette in calcestruzzo.

così da ottenere un solco senza sbavature; alternativamente i giunti si ottengono interponendo un sottile listello, da togliere a presa iniziata, che penetri per 1/4÷1/5 dello spessore della soletta.

L’intervallo tra i giunti deve essere varialo secondo una determinala sequenza (ad es. m 4.00÷3.65÷5.80÷5.50) per evitare effetti di risonanza sui veicoli; se la soletta e armata l’intervallo può arrivare a 10 m.

I giunti longitudinali, necessari ad ogni limite di corsia (e quindi uno per una carreggiata a 2 vie, 2 se a 3 corsie etc.) e comunque a non più di m 3.8, si ottengono allo stesso modo di quelli trasversali (il taglio va però eseguito da 24 a 72 h dopo) e vanno di norma spezzonati. I giunti sono riempiti con prodotti adesivi, impermeabili all’acqua quali:

–       prodotti a base di bitume o catrame colati a caldo nel giunto;

–       prodotti a base di polimeri a 1 o 2 componenti colati a freddo;

–       giunti prefabbricati in neoprene inseriti a pressione.

Questi materiali debbono comunque durare nel tempo senza alterarsi, resistere alle intem­perie, ai carburanti e agli oli, debbono essere insensibili agli sbalzi di temperatura ed aderire efficacemente al calcestruzzo di cui seguono i movimenti.

1.13.8 -Armamento della soletta

L’armamento della soletta è, di norma, limitato ai casi in cui un sottofondo povero richiederebbe una più costosa sottobase ed un notevole spessore della soletta; é invece frequente l’inserimento di spezzoni longitudinali, come si è visto, nonché trasversali per impedire movimenti reciproci delle corsie; questi ultimi non vanno oliati o bitumati per metà come si usa fare coi primi (Fig. 1.71b).

Le armature reticolari su tutta la superficie della soletta, nel caso di cedimento della fondazione, riducono le inevitabili fessure mantenendo uniti gli elementi del mosaico di rottura.

La quantità di ferro si aggira sui 2÷3 kg/m2 e si impiegano reti saldate con filo da 4÷6 mm, e maglia rettangolare 150 x 300; per traffico pesante il peso può giungere tuttavia a 7÷8 kg/m2.

La rete, disposta su un primo strato di cls deve risultare inserita a 5÷7 cm sotto il piano finito.

1.13.9 – Controlli del getto

Come in ogni altra struttura, non è possibile basare i controlli unicamente su prove eseguite a posteriori. Anche limitando le verifiche di resistenza a 7 giorni e non a 28 non si conoscono che i risultati dei getti effettuati oltre i 4÷5 km a monte della finitrice e sono pertanto necessari controlli avanti e durante l’esecuzione.

I controlli avanti riguardano:

amacchinario: la centrale di produzione del cls deve trovarsi in buono stato di funzionamento, in particolare gli apparati di pesatura e gli automatismi in genere; altrettanto dicasi per il macchinario di cantiere;

bquote topografiche e allineamenti materializzati lungo il tracciato che devono guidare il macchinario in azione;

cmateriali: un controllo della produzione in cava dell’inerte è più efficace di quello effettuato sugli stocks; vanno verificate le precauzioni intese ad evitare la segregazione e l’inquinamento delle miscele; per il cemento si richiede al produttore di garantire una continuità della qualità e quantità prodotta e di far conoscere i risultati delle analisi da esso effettuale periodicamente mentre in cantiere si eseguono prove a ritmo settimanale oltre a quelle più immediate al ricevimento del legante, per accertarne la omogeneità (esame al microscopio, tempo di presa, finezza Blaine, lavorabilità);

dcomposizione del calcestruzzo: va analizzata continuamente anche per verificare l’ammissibilità di possibili variazioni riscontrate nel tempo;

e0funzionamento dell’apparato di cantiere, ricorrendo all’inizio, soprattutto se l’opera da eseguire è notevole, al getto di strisce di prova per mettere in luce eventuali carenze. I controlli durante riguardano i seguenti punti:

e1parametri di fabbricazione (dosaggi e mescolamento) che devono conservarsi inalterati durante il corso dei lavori;

e2caratteristiche del cls fresco: consistenza e tenore d’aria inclusa da verificare ogni 200 m3 di miscela;

e3spandimento ed operazioni connesse: spessore della soletta, aspetto della striatura, regolarità della presa, tempi di taglio dei giunti.

I controlli dopo l’esecuzione concernono sopratutto la resistenza del calcestruzzo, da accertare su provini prismatici (14x14x56 cm), alla flessione dopo / giorni previo conservazione in acqua a 20°C. Se i risultati non sono accettabili si procede a carotaggi. La regolarità della superficie finita si controlla col regolo da 3m (entro 24 h dal getto), per correggere subito i difetti della spanditrice-finitrice, e col profilografo.

1.13.10 – Deterioramento della soletta

Una soletta in cls di cemento, se ben costruita, ha una evoluzione molto lenta. Se non armala e senza spezzoni ai giunti, la fatica comincia a manifestarsi con uno spostamento in quota della lastra a monte rispetto a quella a valle, causato da un accumulo di fine sotto la prima proveniente dal sottofondo inadeguato o dai lati.

A questo fenomeno segue la disgregazione della fondazione soprattutto al bordo della corsia esterna con eiezione di materiali dai giunti e dal bordo stesso per effetto del pumping o pompaggio causato dal veicolo che giungendo al bordo della lastra a monte la inflette progressivamente spingendo l’acqua (che entra così in pressione) sotto il bordo della lastra a valle; al passaggio del veicolo su quest’ultima si produce il movimento opposto.

Col tempo segue la rottura della soletta. L’inconveniente può essere rallentalo sia restaurando la impermeabilità dei giunti che bloccando il fine con iniezioni di emulsione di bitume.

Incidono inoltre sul degrado de] calcestruzzo: la non corretta proporzione dell’inerte con alta proporzione di vuoti e conseguente minor resistenza alla compressione; il maggior valore del rapporto acqua/cemento e quindi maggiore fessurabilità; le condizioni di getto della soletta (organizzazione dell’impresa, clima etc.).

L’invecchiamento della soletta comporta la perdita della ruvidezza superficiale con aumento della scivolosità; si rimedia ripristinando la striatura trasversale con attrezzi al carburo di tungsteno.

Analogamente si possono ridurre gli scalini tra lastra e lastra con levigatrici al diamante mentre le smagliature localizzate si riparano con malte contenenti resine epossidiche (come il Crylcon, polimero metacrilato DuPont) sulle quali può essere aperto il traffico 2 h dopo la riparazione.

Le lastre che non possono essere riparate, localizzate saltuariamente sulla carreggiata, vanno demolite e ricostruite impiegando calcestruzzo di cemento alluminoso che resiste al traffico a sole 6÷9 h dal getto.

Se la portanza della soletta è sufficiente ed è richiesto solo il miglioramento della sua superficie, si può ricorrere al getto di un nuovo strato sottile di calcestruzzo i cui giunti dovranno, ovviamente, coincidere con quelli sottostanti. La vecchia superficie deve essere preventivamente scarificata usando apposito macchinario che provvede poi, con getti d’acqua o sabbia a pressione, a rimuovere i detriti; si spande quindi, mediante scope meccaniche, una boiacca di cemento e sabbia e prima che possa far presa stendendo la soletta (spessore 5÷7.5 cm) con la finitrice.

Quanto al rifacimento di pavimentazioni in cls di cemento ormai inutilizzabili si può ricorrere ad una delle seguenti tecniche:

–       rottura delle lastre in pezzi sufficientemente piccoli da poterli stabilizzare col rullo e servire da fondazione ad una nuova soletta;

–       stabilizzazione della vecchia pavimentazione con iniezioni, spandimento di un strato di 3-4 cm di pietrisco bitumato e getto della nuova soletta preferibilmente del tipo continuo (la tecnica consiste nell’armare longitudinalmente la soletta con un minimo del 0.7% in sezione così che la fessurazione al ritiro è del tipo cemento armato, cioè fessure di 1/10 mm ogni 30 cm, con giunti ai soli punti che particolarmente li richiedono;

–       stesa sulla vecchia soletta di una base ≥16÷18 cm di calcestruzzo bituminoso (è da notare che buoni risultati si sono ottenuti col procedimento opposto e cioè vecchie pavimentazioni bituminose, molto screpolate, sono state ripristinate col getto di una soletta in cls di cemento sulla quale sono stati poi segati giunti obliqui ad un intervallo di 4÷5 m);

–       riciclaggio della vecchia pavimentazione.

1.14 – Trattamenti bituminosi superficiali

Si comprendono col termine i rivestimenti ottenuti con l’applicazione di una o più mani di legante seguite o meno da spandimento di aggregato allo scopo di:

– impregnare di bitume uno spessore variabile della base e provvedere una pellicola di legante che faciliti l’adesione di un trattamento successivo (applicazioni dì aderenza o di attacco);

– costituire un manto superficiale di limitato .spessore alto a sopportare il traffico (trattamenti superficiali propriamente detti); in questo caso l’aggregato (pietrischetto o sabbione) serve da strato d’usura procurando una superficie ruvida per le ruote dei veicoli mentre il legante, oltre ad ancorare l’aggregato, impermeabilizza la superficie trattata.

Si distinguono in singoli e multipli.

L’applicazione di un prodotto bituminoso su di una superficie stradale richiede che questa sia ben drenata, corretta nei profili e costipata. Non può essere effettuata su di una superficie sciolta, poco consistente, polverosa oppure ad elevato contenuto di argilla od ancora che ondeggi sotto il rullo. Prima del trattamento la superficie va liberata dalla polvere, dai detriti ed altri corpi estranei spazzandola o lavandola con getti a pressione.

Le spazzatrici oggi in uso sono del tipo trainato oppure portato; sono preferibili queste ultime per il minor ingombro e l’altezza regolabile delle scope che evita una eccessiva pressione sulla superficie fresca. I tipi aspiranti sono ancora poco comuni. Particolare attenzione va prestata alla eventuale esistenza su superfici costipate del cosiddetto biscottino, o sottile strato duro e friabile, che può formarsi sotto il rullo e che nella successiva rullatura del pietrischetto, sparso sul bitume, si stacca e con esso lo strato bituminoso. La penetrazione del legante è facilitata se l’aggregato è leggermente umido; il trattamento va tuttavia fatto possibilmente con clima secco e mai durante la pioggia.

Si possono impiegare bitumi, catrami o emulsioni: i primi possono essere fluidificati con dei solventi che evaporano più o meno rapidamente restituendo il bitume di base, oppure flussati (ossia con aggiunta ad un bitume di base di olio di catrame che lo rende più coesivo ed adesivo) che sono meno suscettibili alla temperatura dei precedenti.

bitumi sono di più difficile impiego, richiedono climi caldi e asciutti e, soprattutto, una corretta temperatura d’applicazione: non tanto bassa da impedire il deflusso del liquido attraverso gli ugelli e non tanto alta da alterarne le proprietà.

catrami, puri o modificati con l’aggiunta di cloruro di polivinile per renderli meno sensibili ai cambiamenti di clima e più coesivi, non richiedono alte temperature di applicazione, sono meno esigenti e più economici dei bitumi, hanno maggior penetrazione e legano col pietrischetto anche dopo il raffreddamento; non hanno però la durata dei bitumi.

Le emulsioni ammettono condizioni ambientali relativamente sfavorevoli, si impiegano a freddo, hanno ottima penetrazione e non richiedono speciali apparecchiature per lo spandimento.

La superficie da trattare deve essere molto umida ed il pietrischetto di copertura deve essere steso prima della rottura dell’emulsione. Risultano, comunque, meno resistenti dei bitumi e dei catrami. Oggi, diversamente che in passato, si usano emulsioni cationiche, più adesive di quelle anioniche (purché il pietrischetto sia pulito) e meno sensibili al clima per quanto, con temperature elevate, tendano a trasudare.

Hanno molta importanza la viscosità dell’emulsione e la velocità di rottura; un’emulsione troppo fluida tende a colare, se troppo densa rende difficile lo spandimento e quindi il dosaggio; la rottura deve essere netta e rapida e dopo Io spandimento il bitume di base deve restare solo per incollare i granuli dell’aggregalo nel minor tempo possibile.

1.14.1 – Spandimento del legante

Si effettua a mezzo di lance a pressione alimentate da caldaie mobili e, per grandi superfici, meccanicamente con le autospanditrici. Nel primo caso é necessaria una notevole esperienza da parte del personale; un cattivo spandimento, infatti, porta, ad una superficie trattata in modo irregolare in cui strisce trasversali, nelle quali il legante è scarso ed il pietrischetto tende di conseguenza a staccarsi, si alternano ad altre in cui il legante, trasudando, trattiene una maggior quantità di aggregato. Lo spandimento meccanico si effettua con autobotti nelle quali il materiale bituminoso è riscaldato alla corretta temperatura, immesso a pressione in una rampa sporgente posteriormente e munita di ugelli dai quali il legante è spruzzato a ventaglio sulla superficie stradale.

Tab. 1.19 – Caratteristiche dell’aggregato nei trattamenti superficiali secondo le norme francesi. (LA, prova Los Angeles; DH, prova Deval umida; A, coefficiente d’appiattimento; P, % di elementi < 1mm; CPA, coefficiente di levigazione accelerata).

L’operatore è munito di una tabella che fornisce la velocità del veicolo in rapporto alla quantità di legante richiesta. La disposizione degli ugelli permette che ogni punto della superficie sia raggiunto da più di un getto; l’irregolare funzionamento degli ugelli ripete l’inconveniente già accennato nello spandimento a mano con effetti però meno dannosi correndo le strisce longitudinalmente;

Nelle spanditrici meccaniche è essenziale per un buon funzionamento che le diverse parti: pompa, tubo flessibile, caldaia e rampa, siano mantenute pulite. Il riempimento della caldaia, usando cut-baks di buona fluidità, s’effettua senza preventivo riscaldamento degli stessi il che è invece richiesto per i prodotti viscosi; in tal caso è sufficiente un piccolo braciere sul quale si tiene il fusto per il tempo occorrente a renderli fluidi.

I bitumi puri che sono praticamente solidi a temperatura normale, vanno disciolti oppure tagliati a pezzi e quindi introdotti nella caldaia.

II riscaldatore va acceso poco prima dell’inizio dello spandimento evitando di surriscaldare il legante (ogni tipo ha la sua corretta temperatura impiegando il minimo prescritto se la temperatura ambiente è elevata e l’aggregato è secco).

Se lo spargimento é effettuato con lo spruzzatore a mano questo va tenuto con un angolo costante rispetto alla superficie stradale e ad una altezza di 20÷45 cm da essa a seconda dello spessore dello strato richiesto; eventuali zone omesse vanno chiuse con uno spazzolone senza tornarci sopra con lo spruzzatore che va azionalo ad arco il cui raggio e la lunghezza del tubo flessibile.

La pulizia della macchina, a caldaia vuota ed impianto raffreddato, si effettua con nafta che, introdotta nella caldaia, viene pompata in circuito chiuso facendola ritornare, attraverso lo spruzzatore, alla caldaia stessa.

Fig. 1.72 – Corretta quantità di legante: a) il legante è scarso e il pietrischetto si stacca specie durante la stagione fredda; b) la quantità è eccessiva: è antieconomico e si verifica il trasudamento; c) quantità corretta.

1.14.2 -Quantità e qualità del legante e dell’aggregato di copertura

Incidono sulla riuscita di un trattamento:

–       la porosità della superficie stradale che interessa la quantità del legante e la pezzatura dei pietrischetto;

–       la durezza del materiale di base che interessa la pezzatura dell’aggregato ed il peso del rullo;

–       le condizioni ambientali;

–       il tipo, qualità e viscosità del legante e la quantità per mq;

–       le caratteristiche dell’aggregato di copertura (pezzatura, forma e natura);

–       il peso e tipo del rullo costipatore;

–       l’intervallo di tempo prima dell’apertura al traffico.

–       Il legante:

–       deve essere sufficientemente fluido da bagnare la superficie stradale ed il pietrischetto di copertura;

–       deve essere più viscoso se gli elementi dell’aggregato sono grossi, ad essiccamento più lento se teneri e polverosi;

–       va impiegato in quantità maggiore se gli elementi sono tondeggianti per la maggior quantità di vuoti e se la superficie da trattare è aperta od asciutta o ancora se si prevede un traffico leggero.

L’aggregato di copertura deve provvedere uno strato compatto in cui gli elementi debbono trovarsi spalla a spalla, il che richiede un leggero eccesso sulla quantità teorica prevista per tener conto della quantità asportata dal traffico. S’impiega, a seconda dei casi, pietrisco, ghiaietto, sabbia grossa e, a volte, polvere di cava.

E’ generalmente ammessa una larga tolleranza nella qualità; sono comunque preferibili elementi duri (massimo valore ammesso alla prova dello schiacciamento 21÷23), di forma cubica con una percentuale di elementi piatti non maggiore del 15% (un elemento dicesi piatto quando la sua massima dimensione è più di 5 volte la minima), granulometria uniforme ad impedire che il fine impedisca il contatto col bitume degli elementi più grossi. La pezzatura di 12 mm dà i migliori risultati in molti trattamenti per strade a traffico pesante.

Uso del diagramma: per determinare la quantità del legante: trova la linea di fattore o somma algebrica dei valori ottenuti dalle tabelle; entrare nel diagramma con l’orizzontale corrispondente alla media delle dimensioni minime dell’aggregato a disposizione fino ad incontrare la linea di fattore ricavata; la verticale condotta da quel punto fornisce, in basso, la quantità cercata. Per la quantità di aggregato, l’incontro della stessa orizzontale con la diagonale in grassetto individua la verticale che in alto dà il valore cercato:ad es.: se 12 mm è la media delle dimensioni minime dell’inerte i fattori ricavati dalle tabelle siano rispettivamente – 4, 0, – 1 e 0 per un totale di – 5, la quantità del legante è ~1 kg/m2 e del pietrischetto 12 l/m2 pari a 16.2 kg/m2.

Fig. 1.73 – Diagramma e tabelle per stabilire la quantità del legante e dell’aggregato di copertura nei trattamenti superficiali.

o a superficie tenera preferire però pezzature più grosse (20-25 mm); per strade a traffico veloce o superficie dura pezzature da 6-10 mm sono consigliabili per la tendenza degli elementi più grossi a staccarsi sotto le ruote e proiettarsi contro i veicoli che seguono.

La sabbia è raccomandabile solo per traffico leggero e nelle coperture di aderenza per fissare l’eventuale eccesso di bitume.

1.14.3 – Spandimento dell’aggregato e rullatura

Dopo lo spandimento del legante (ad impedire la formazione di una striscia più spessa alla fine ed inizio di ogni tratto bitumato) è opportuno stendere un foglio di cartone per ottenere un taglio netto) e quando è ancora fresco, si spande il pietrischetto a mano, con badili, oppure meccanica­mente. Nel primo caso la direzione dello spandimento deve essere parallela all’asse stradale e non trasversale.

Lo spandimento meccanico si effettua o con cassoni trainabili o con autocarri ribaltabili (muniti di apparecchiatura che regola l’uscita dell’aggregato) che procedono a retromarcia nella direzione di spandimento. E’ opportuno, quando il trattamento è eseguito su una metà per volta della carreggiata, lasciare nella prima passata di copertura una striscia di 15÷20 cm di bitume scoperto per meglio allacciare la metà seguente. La rullatura richiede rulli pneumatici con carico di ruota di almeno 1.5 t; sono da escludere i rulli a cilindri che, in presenza di irregolarità della superficie anche piccole, tendono a polverizzare il pietrischetto nei sovralzi.

S’inizia ai lati procedendo verso il centro con passate lunghe per ridurre al minimo le manovre, con azione continua e senza scosse.

1.14.4 – Apertura al traffico

II traffico è sempre dannoso in quanto, specie se veloce, sviluppa forze orizzontali che tendono a staccare il pietrischetto soprattutto se questo, alla posa, era troppo umido per cui il legame ha aderito con difficoltà.

In clima caldo l’adesione ha luogo in 15’÷60’ e se si deve aprire la strada al traffico è bene accertarsi in situ se ciò è possibile. Con temperature elevate anche leganti molto viscosi possono divenire fluidi ed in tale evenienza è bene attendere che la temperatura diminuisca.

In sostanza, il pericolo del traffico è sempre grande nelle prime ore che seguono il trattamento per l’alta % di volatili contenuta nel legante e decresce col tempo; dopo 24 h anche la temperatura ambiente elevata è relativamente dannosa. Si rivela consigliabile usare meno legante se il traffico previsto è intenso eccedendo invece nella viscosità.

1.14.5 – Tempo atmosferico

Le variazioni di temperatura alterano la viscosità del legante (specie i catrami): temperature elevate lo rendono troppo fluido e l’aggregato non più tenuto a sufficienza è facile a staccarsi sotto le ruote; all’opposto la bassa temperatura aumenta la viscosità e quindi il legante non copre sufficientemente gli elementi dell’aggregato con risultati analoghi.

I trattamenti superficiali vanno evitati nei mesi invernali in quanto la bassa viscosità richiesta condurrebbe alla perdita dell’aggregato di copertura nella primavera.

Analogamente non è consigliabile bitumare nei periodi molto caldi: con temperature ambiente di 28÷33°C. (corrispondenti a 50÷55°C sulla superficie stradale) anche elevate viscosità dei catrami possono risultare insufficienti.

Poiché il legante non aderisce ad un pietrischetto troppo umido, è opportuno sospendere i trattamenti quando piove o quando si prevede la pioggia; anche gli additivi che si mescolano ai catrami per favorirne l’adesione non hanno a volte effetti decisivi.

Spesso la pioggia non danneggia eccessivamente una copertura di aderenza o una prima mano ma si rivela invece esiziale se cade subito dopo i trattamenti successivi.

1.14.6 – Applicazione di aderenza o mano d’attacco

E’ anche chiamata oleatura. Esistono i corrispondenti termini inglesi lack-coat e prime-coat; col primo si intende la spruzzatura di un legante bituminoso sopra una vecchia superficie già bitumata per creare l’aderenza necessaria ad nuovo tappeto di usura; col secondo ci si riferisce allo stesso trattamento ma relativo ad una nuova struttura e cioè ad es.per legare alla sottobase lo strato bituminoso di base.

Nei lack-coat , per la limitata penetrazione, si usano leganti di media viscosità oppure emulsioni in ragione di 0.4÷0.7 l/m2 .

Nei prime-coats si impiegano invece leganti mollo fluidi e la quantità è maggiore: da 0.8 a 2,0 l/m2 a seconda della porosità della superficie da trattare.

E’ comunque preferibile in entrambi i casi mantenere la quantità in difetto per evitare che il legante non assorbito venga in seguito assimilato dallo strato seguente col risultato del trasudamento.

Entrambi i trattamenti non richiedono inerte di copertura: si neutralizzano con sabbia grossa e pulita (e dopo un certo tempo) solo i grumi di legante non assorbito.

E’ inoltre importante, per i tack-coats in particolare, lasciare trascorrere iI tempo necessario al legante per asciugare prima di stendere lo strato successivo; se troppo fresco, infatti, agirebbe da lubrificante con effetto opposto a quello cercato.

Per contro un’essiccazione prolungata ne limiterebbe l’effetto e faciliterebbe l’incorporamento di polvere specie se tira vento.

Il prime-coat si applica su superficie secca o leggermente umida, con temperatura ambiente > 12-13°C evitando tempo nebbioso ed umido.

Il tempo lasciato al legante per asciugare è normalmente di 48 h durante le quali il traffico deve essere escluso o, alla peggio, se ne potranno ridurre i danni stendendo un sottile velo di sabbia.

1.14.7- Trattamento superficiale monostrato

E’ un trattamento economico che si consiglia per migliorare l’impermeabilità di una superficie bitumata fessurata, per rafforzarla e renderla meno sdrucciolevole.

Oltre quanto esposto nei precedenti paragrafi, per quanto concerne il tipo di legante si preferisce l’emulsione acida al 66÷70% nella quantità di ~1 kg/m2 sparsa preferibilmente a caldo (70÷80°C) e coperta con 6÷8 l di graniglia 3/6 per m2; la quantità aumenta se la graniglia è di pezzatura maggiore. Il vantaggio dell’emulsione sul bitume puro è la sua rapida rottura che consente di aprire subito al traffico. Come già segnalato per i trattamenti superficiali in genere, essenziale è che la graniglia sia ben lavala all’impianto evitando il lavaggio sugli autocarri dove la polvere si accumula al fondo del cassone.

1.14.8 – Trattamenti superficiali multipli (2 o 3 strati)

Sono anch’essi, sia pure in forma più consistente, dei trattamenti di manutenzione della base di conglomerato anche se a volte possono essere utilizzati per migliorare una superficie stradale non bitumata. In ogni caso si dovranno prima riprendere buche ed avvallamenti con pietrischetto bitumato. Per quanto riguarda le caratteristiche e quantità dei materiali è opportuno utilizzare i riferimenti di Tab. 1.20. Molti trattamenti multipli si eseguono oggi utilizzando le emulsioni bituminose per i noti vantaggi di questo tipo di legante. Esistono diverse varianti di cui si riportano le più comuni:

Tab. 1.20 – Trattamenti multipli – Caratteristiche e quantità adottate in Francia.

aTrattamento doppio strato

– 1a mano con emulsione acida al 65% a caldo (50÷60°C) in ragione di 1.1 kg/m2;

–       spandimento pietrischetto 8/12 oppure 10/15 nella quantità di 16 l/m2.

–       seconda mano di emulsione acida a 1.2÷1.3 kg/m2;

–       spandimento graniglia 3/6 a 6 l/m2;

–       rullatura con rullo gommalo anche vibrante.

b)Trattamento ancorato

Si presta per superfici non trattate precedentemente con bitumi oppure molto deteriorate:

– 1a mano con emulsione al 55% sufficientemente viscosa, in ragione di 3 kg in modo da ottenere una penetrazione parziale (di qui il termine ancorato); per rallentare la rottura, se la stagione è calda, si inumidisce la massicciata prima del trattamento.

Qualora fosse da temere una dispersione di legante, la prima mano si può suddividere in 2 fasi: circa 2 kg/m2 di emulsione nel primo spandimento e subito dopo il 2° facendo sempre seguire ai trattamenti una leggera cilindratura; la graniglia di saturazione è normalmente un 10/15 ed un 5 mm, rispettivamente, per almeno 20 l/m2 complessivi; aperta la strada al traffico, per 8 giorni si dovrà provvedere a che la graniglia resti su tutta la superficie ricorrendo ad eventuali ricarichi; al termine si asporterà l’inerte non incorporato; dopo un mese, previa pulitura ed eventuali piccoli rappezzi con pietrischetto bitumato, si applica la seconda mano (o spalmatura) con funzione di manto di usura.

L’emulsione viene stesa in ragione di 1÷1.2 kg/m2 e quindi, anche dopo un certo intervallo se opportuno, si spande la graniglia (6/9) a 10 l/m2 con rullatura a rullo gommato, preferibilmente tandem.

E’ del tutto sconsigliato l’utilizzo nella seconda mano della graniglia ricuperata dalla prima. Una alternativa all’emulsione nella seconda mano è l’impiego di bitume a caldo (a 60÷180°C) in ragione di 1 kg/m2 con risultati certamente più duraturi; si richiede tuttavia clima caldo ed asciutto.

1.14.9 – Considerazioni sui trattamenti superficiali

– sono indubbiamente di tipo economico e pertanto meno durevoli (2÷5 anni max) dei tipi di pavimentazione descritti nei capitoli seguenti;

– alle emulsioni è preferibile il bitume a bassa viscosità che può essere steso a temperature relativamente basse (sempre comunque intorno ai 120°C) purché il clima sia caldo e secco;

Tab. 1.21 – Trattamenti superficiali: leganti tipici per superfici terrose.

 – nelle zone ombreggiate ed umide i trattamenti superficiali hanno una durata minore;

– nelle zone gelive si richiedono trattamenti molto chiusi, con bitumi ad indice di penetrazione vicino allo zero cioè molto elastici e quindi poco fragili durante il gelo;

– un errato dosaggio del legante ha riflessi molto negativi: l’eccesso provoca in estate i trasudamenti, dannosi e pericolosi per il traffico;

– il pericolo di una cattiva adesione del legante è grande se l’inerte è a reazione acida oppure è molto umido; un buon rullaggio facilita comunque l’adesione.

1.14.10- Considerazioni sull’impiego delle emulsioni bituminose

– applicare la quantità prescritta alla corretta temperatura;

– prendere atto delle caratteristiche fornite dal produttore; i vari tipi si diversificano chimicamente e sopratutto nei risultati: l’emulsione cationica o acida rompe(il bitume si separa, cioè, dall’acqua che evapora) chimicamente e oltre a minimizzare gli effetti della pioggia e del freddo essicca più rapidamente; richiede aggregato siliceo che ha carica negativa. L’emulsione anionica rompe nel tempo di 3÷6 h, è più adatta per tappeti sottili (non più di 5 mm) e trasuda meno della precedente in clima caldo;

– evitare che l’acqua contenuta nell’emulsione possa gelare o bollire oppure che ad essa si mescoli aria; le sue bollicine la rendono instabile;

– si diluisce l’emulsione aggiungendo (molto lentamente) l’acqua e non viceversa;

– evitare spandimenti a temperature molto basse e su aggregato pulverulento;

– nelle cosiddette sabbiature, la sabbia va stesa prima che l’emulsione rompa.

1.15 – Macadam a penetrazione

Questo tipo di struttura e ancora usato come strato di base per strade a traffico leggero oppure per sottobasi e consiste di uno strato di pietrisco a grossa pezzatura trattalo in profondità o con malta cementizia (colcrete) oppure con legante bituminoso. Se il colcrete è da ritenersi superato dalla stabilizzazione tipo road-mix l’impiego del bitume a caldo (bitume puro 60÷300 oppure cut-back 150/200 a 180°C) oppure delle emulsioni è ancora comune, ope­rando su spessori di 10÷12 cm per volta. Dopo lo spandimento del pietrisco ed una leggera rullatura si spande il legante che viene saturato con pietrischetto 15/20 in ragione di circa 20 l/m2; a distanza di una settimana (bitume a caldo) o 12 h (emulsione) seconda mano, saturando con graniglia 5/10 (10 l/m2) e rullatura a fondo. L’impiego di emulsione richiede spesso una terza mano saturata con un velo di sabbia.

Tab. 1.22 – Caratteristiche dei materiali impiegati nei macadam a penetrazione.

Nel caso di massicciate di strade secondarie, provviste di buona fondazione ma che necessitino di un ripristino, si può ovviare ad un ricarico di materiale lapideo nuovo qualora risultasse troppo oneroso, ricorrendo alla tecnica seguente:

– si scarifica e si sminuzza con adatto equipaggiamento lo strato superficiale senza intaccare il piano di fondazione;

– analizzato il materiale di risulta lo si integra eventualmente con le pezzature mancanti in modo da ottenere uno strato sciolto di 12÷15 cm di spessore con granulometria variante da 0.05 a 70 mm (nella pratica lo scopo è raggiunto spesso con l’aggiunta di tout venant di cava);

– regolarizzata col grader la miscela che dovrà essere leggermente umida specie con tempo secco, si spande una prima dose di emulsione bituminosa al 55% di bitume in ragione di 1 kg/m2; dopo rimescolamento ed erpicatura meccanica si spande una seconda dose di emulsione (2 kg/m2) oppure di bitume flussato (1.5 kg/m2);

– rimescolato lo strato trattato col grader e livellato si procede ad una leggera cilindratura preceduta, se non necessita inumidire, dallo spandimento di circa 5 l/m2 di pietrischetto;

– si spande la terza dose di legante (1 kg/m2 di emulsione o di bitume liquido) saturando con 5÷7 l/m2 di pietrischetto 5/10 mm e facendo seguire il rullo;

– nei giorni successivi si spinge a fondo il costipamento regolandosi con l’indurimento dello strato.

1.16 – Conglomerati bituminosi (Enrobés et betons bitumineux – Bituminous mixes)

Trovano larga applicazione negli strati di sottobase, base e di superficie delle pavimentazioni stradali e nelle aree di parcheggio, banchine, marciapiedi etc. sia nelle nuove costruzioni che nei lavori di ripristino. A seconda dei tipi offrono più o meno accentuati i seguenti pregi:

–       superficie antisdrucciolevole e nel contempo scorrevole;

–       -resistenza alle sollecitazioni verticali e tangenziali provocale dal traffico per il loro elevato attrito interno e per la coesione assicurata dal legante;

–       resistenza agli agenti esterni (sole, acqua, gelo, prodotti chimici) per la loro compattezza che assicura anche l’impermeabilità e quindi la protezione degli strali sottostanti dalle insidie dell’acqua.

I tipi sono numerosi diversificandosi le composizioni sia quantitativamente attraverso diversi rapporti tra le pezzature dell’inerte che qualitativamente; svariati sono inoltre i metodi di fabbricazione e gli impieghi. Ne consegue che anche le classificazioni sono diverse a seconda del criterio adottato. Si riportano in Tab. 1.23 due classificazioni adottate, rispettivamente, in Francia e in USA, diffuse anche in Italia.

Tab. 1.23 – Classificazioni per conglomerati bituminosi.

1.16.1 – Materiali

L’inerte, con una appropriata granulometria, costituisce lo scheletro portante e fornisce l’attrito interno che è massimo quando è ridotto il numero dei vuoti (conglomerali chiusi ) ed i granuli,ben frazionati nelle dimensioni, sono incastrati fra loro. La continuità della curva granulometrica è tuttavia necessaria solo per la parte fine (< 2mm) ed eventuali salti nell’ aggregato grosso non compromettono la densità della miscela.

L’impiego di materiale interamente di frantoio rende più difficile il costipamento che si raggiunge comunque adeguando spessore dello strato e potenza dei mezzi .

Il grosso, o ritenuto al setaccio n. 4 AASHO (4.8mm), proveniente dalla frantumazione di rocce o ghiaie, deve essere pulito, duro, durevole e compatto, di qualità uniforme ed esente da materie decomposte o di natura organica, da argilla e/o altre sostante dannose.

Deve contenere non più del 10% di elementi oblunghi e, una volta ricoperto dal bitume, deve superare favorevolmente la prova dello stripping .

Se proveniente dalla frantumazione di ghiaie, il materiale di origine deve essere prima vagliato in modo che non meno del 90% sia ritenuto al setaccio da 3/8″ (9.4 mm).

Il fine (o passante il n. 4) deve avere le stesse caratteristiche di pulizia etc. richieste per il grosso; se ottenuto dalla frantumazione di ghiaie, almeno il 70% in peso del ritenuto al n. 8 (2.4mm) deve presentare almeno una faccia fratturata.

Il filler (riempitivo) che va aggiunto alla miscela degli inerti quando questa è deficiente in materiale passante il n. 200, ha il compito di riempire lo scheletro formato dai granuli più grossi per aumentarne la compattezza e quindi l’impermeabilità, sostituendo in parte il legante che, in quantità elevata, renderebbe in parte plastica la miscela.

Può essere costituito da polvere di roccia calcarea, cemento e simili e deve presentarsi sciolto, esente da agglomerazioni e con la seguente granulometria:

–       passante il n. 30 AASHO (0.600mm) 100%;

–       passante il n. 50 AASHO (0.300mm) 95÷100%;

–       passante il n. 200 AASHO (0.075mm) 70÷100%.

La miscela, controllata dopo le diverse operazioni ma prima dell’aggiunta del legante, deve avere un minimo equivalente di sabbia di 45, un Indice di plasticità max di 6 ed una perdita di stabilità Marshall, comparando il campione sommerso in acqua a 60°C per 24 h ed immerso per soli 20’, non maggiore del 25%.

Per quanto riguarda il legante la sua influenza si esplica a seconda del tipo: i bitumi duri, cioè di modulo elevato, aumentano la resistenza alla rottura a trazione e riducono l’ornierage (formazione di ormaie) per effetto delle ruote.

Si esplica inoltre a seconda della sua percentuale: fino ad un certo limite, ad un suo incremento, corrisponde un aumento della compattezza della miscela; poi, al contrario, si ha una caduta delle resistenze meccaniche ed un’eccessiva deformabilità.

1.16.2 – Progetto della miscela (job-mix)

La miscela di cui è formato un conglomerato bituminoso deve essere tale che gli inerti ed il legante debbono trovarsi nelle seguenti proporzioni:

–       totale inerti                               96÷93 % del peso totale

–       totale legante bituminoso             4÷7 % del peso totale

Si richiedono inoltre i requisiti di cui alla Tab. 1.24. Nel progettare le proporzioni dei vari elementi componenti la miscela va tenuto presente che oltre alla curva granulometrica è importante la conoscenza del volume dei vuoti che può variare notevolmente tra miscele aventi la stessa granulometria; se gli spazi intergranulari sono ridotti, il bitume può riempirli completamente provocando trasudamenti dello strato durante la stagione calda, rendendo il conglomerato instabile e la superficie scivolosa mentre una scarsità di legante riduce la resistenza e favorisce l’usura del tappeto se non la sua

Ulteriori considerazioni:

– nei climi caldi e secchi il conglomerato tende a deteriorare rapidamente per l’effetto essiccante ed ossidante del sole; la miscela pertanto deve essere più chiusa, con una maggior quantità di fine e dì legante;

– per gli strati di base e cioè di un certo spessore si preferiscono bitumi duri per evitare pericolosi rammollimenti nella stagione calda al contrario dei tappeti d’usura che per il loro esiguo spessore sono più sensibili al freddo diventando fragili;

– l’impiego di bitumi liquidi per gli strali di base, col vantaggio di un più facile ed omogeneo rivestimento dei granuli fini e di una migliore lavorabilità del materiale deve essere riservalo alle granulometrie aperte e richiede precauzioni in fase di stesa tendenti a favorire l’evaporazione del solvente; in caso contrario si potrebbero verificare scorrimenti nella massa del conglomerato.

Tab. 1.24 – Requisiti dei conglomerati bituminosi per basi (B) e disintegrazione strati d’usura (U) nelle strade ordinarie.

Per progettare la miscela si parte quindi dal vaglio e pesatura degli aggregali che vengono selezionati per le combinazioni rispondenti alle specificazioni.

Si determina poi la densità dopo costipamento delle varie miscele secche ottenibili e quindi la percentuale dei vuoti che si deve aggirare sul 16÷19% per i calcestruzzi, sul 20÷28 % per le malte e 20-24% per le malte con pietrisco incorporato.

Allo scopo si può utilizzare la procedura Proctor modificata; noto il peso de! campione e misurato quindi il volume occupato nella fustella si ha il peso specifico apparente: γa = peso/ volume.

Stabilito col picnometro o altro metodo il peso specifico reale (γr), la % dei vuoti della miscela secca costipata è:

Va = 100 (γr – γa) / γr

Se tale % non corrisponde al richiesto si provvede alle opportune correzioni aggiungendo o togliendo aggregato fine.

Scelta la composizione ottimale si calcola la % del legante che dipende, come s’è detto, dal volume dei vuoti oltre che dalla forma dei granuli dell’aggregato, dalla porosità e rugosità delle superfici e dalla sua ricettività. I vuoti devono comunque restare per una percentuale del 3÷6 % nei calcestruzzi e 4÷8% nelle malte dei manti di usura per consentire un progressivo consolidamento dello strato sotto il traffico. L’accertamento della quantità ottimale del legante è oggi fatto prevalentemente con la prova Marshall.

Stabilita la miscela globale, l’impianto centrale dovrà essere regolato così da proporzionare gli aggregati, il filler ed il bitume in modo che il risultato finale non si scosti dal progetto più dei limiti fissati nella Tab. 1.24.

1.16.3 – Procedimenti costruttivi: il sistema road-mìx

E’ il sistema per il quale il legame entra a contatto degli clementi dell’aggregalo per miscelazione meccanica effettuata in situ; é usato solo per conglomerali aperti ed offre vantaggi economici sugli altri sistemi in quanto l’eventuale eccesso di umidità dell’aggregalo è rimosso dal sole e dal vento evitando l’essiccazione artificiale; ciò, evidentemente, comporta la necessità di operare in condizioni ambientali favorevoli. Il mescolamento può avvenire:

– a mezzo di livellatrice (grader): dopo che l’aggregato e stato sparso su di una corsia ed è ben asciutto, si alternano 3 successivi spandimenti del legante con altrettante passate del motorgrader così da omogeneizzare la miscela;

– a mezzo di mescolatori meccanici a pale multiple rotami; alcune moderne apparecchiature sono accoppiate al distributore del legante ed è spesso sufficiente un solo passaggio;

– mediante impianti mobili (travel mixing plants) che proporzionano automaticamente la miscela e la depositano pronta per il costipamento (Fig. 1.74).

Fig. 1.74 – Schema di impianto mobile: 1) grembiule; 2) coclea di alimentazione; 3) nastro elevatore; 4) alimentatore a rullo; 5)-6) serbatoio del legante; 7) spruzzatore; 8) miscelatore a pale; 9) pompa del legante; 10) coclea di spandimento; 11) barra battente per un primo costipamento.

Pur essendo evidentemente i risultati diversi a seconda del mezzo usalo, si richiede comunque:

– la superficie d’appoggio deve essere ben costipata, pulita coi corretti profili longitudinali e trasversali;

– lo spandimento di una mano di aderenza è facoltativo dipendendo dallo stato della superficie;

– il 2% di umidità dell’aggregalo rappresenta il massimo tollerabile per i bitumi mentre per le emulsioni è accettabile un 4÷5%;in caso di eccesso, l’inerte va aerato a mezzo di motorgrader o altro mezzo meccanico; l’applicazione del legante dipende dal sistema di mescolamento adottato; impiegando il motorgrader, ad ogni passata si impiegano 2.5÷3.5 l/m2 per un totale di ~1.2 l/m2 e per cm di spessore dello strato; il mescolamento deve seguire subito la prima applicazione di legante per evitarne la dispersione ed operando sull’intera larghezza trattata:

– la rullatura, con rulli a cilindri o gommati a seconda del tipo di inerte, si inizia dai lati verso il centro ed il tempo di attesa dallo spandimento è sempre frutto dell’esperienza: da pochi minuti a 24 h.

1.16.4 – Procedimenti costruttivi: sistema ad impianto centrale (plant-mix)

E’ oggi il metodo più diffuso nella esecuzione delle pavimentazioni bituminose e consiste nella preparazione della miscela in impianto fisso o centrale e nel suo spandimento, a caldo o meno di frequente a freddo, con macchine che vanno dal motorgrader alle macchine finitrici.

Tab. 1.25 – Tipi di legante usati nei road-mixa) mescolamento con motorgrader; b) con impianto mobile.

Si distinguono due procedimenti nella produzione del conglomerato in centrale: a miscela/ione continua e discontinua. Nel primo, i vari inerti essiccati, vagliati e pesati sono meccanicamente prelevati dai sili ed immessi col bitume e l’additivo nel mescolatore ad azione continua e da qui negli autocarri per successivi svuotamenti della tramoggia e ciò per evitare la segregazione.

Il procedimento discontinuo si diversifica solo per il fatto che si procede per cicli in ognuno dei quali la quantità prevista di conglomeralo è erogata per poi passare al ciclo successivo.

a) Trasporto del conglomerato sul luogo di impiego

La produzione di una centrale varia mediamente da 150 a 900 t/h. Un suo arresto significa:

–       diminuzione della qualità del prodotto;

–       perdita di materiale;

–       aumento delle spese.

E’ pertanto essenziale in un cantiere stabilire in base ai vari fattori (produzione oraria della centrale, distanze dei luoghi d’impiego, velocità di trasporto etc) il numero di automezzi al disotto del quale non sarebbe possibile una continuità di produzione.

E’ infatti da aggiungere che una crisi dei trasporti si ripercuoterebbe anche sull’efficienza della finitrice, un arresto della quale comporta:

– diminuzione di qualità dello strato;

– difetti nel profilo stradale;

– perdita di materiale se l’arresto è lungo;

– aumento delle spese.

Oltre al numero adeguato, è necessario che la flotta di automezzi sia omogenea per una più facile manutenzione e che il sistema di scarico delle benne e la loro capacità siano adeguati al tipo di finitrice. I cassoni degli autocarri debbono essere in metallo, a tenuta stagna, con pareti e fondo lisci; vanno tenuti oliati (olio di paraffina) ad evitare che la miscela vi aderisca. In caso di cattivo tempo vanno coperti con teloni e, nel caso di spandimento a caldo, la miscela deve raggiungere la finitrice ad una temperatura di almeno 120°C. Se si tiene conto, pertanto, che all’uscita dalla centrale la temperatura è di 150-170°C, il tempo di trasporto e le conseguenti misure di protezione vanno attentamente considerate nella programmazione del lavoro.

b) Applicazione

Una miscela bituminosa deve essere stesa su di una superficie accuratamente preparata per riceverla; in tal modo la fondazione o la sottobase sono conformi a quote e profili di progetto, drenate e costipate. Anche se trattasi di una superficie bituminosa esistente, deve essere rimossa ogni sostanza estranea assieme alla polvere. Salvo casi particolari la stesa del conglomerato é preceduta da una oliatura. Lo spandimento si può eseguire:

– a mano: evidentemente per piccoli lavori la miscela è depositata su piattaforme laterali e di qui prelevata con forche e stesa a mezzo di rastrelli i cui denti laterali debbono essere distanziati almeno 2 volte la dimensione max dell’inerte. Non si deve lavorare troppo la miscela perché il rastrello ne provoca la segregazione facendo salire in superficie gli elementi più grossi. Per facilitare la stesura è utile, a volte, riscaldare, senza arroventare, gli attrezzi costipando poi lo strato con mazzaranghe. Arrestare le operazioni in caso di pioggia ed evitare che il personale cammini sulla miscela sciolta;

– con la livellatrice (motorgrader) soprattutto per strati di base a caldo od a freddo anche se nel primo caso la macchina lavora con difficoltà e richiede un operatore abile per profilare rapidamente prima che la miscela raffreddi;

– con la finitrice (paver); essendo autolivellante, non risente delle eventuali irregolarità del sottofondo e permette applicazioni a velocità, spessore e larghezza variabili consentendo in modo di adeguarsi al ritmo dei rifornimenti senza subire rallentamenti.

Lo spandimento è normalmente effettuato lungo una corsia per volta escludendo dalla rullatura una fascia di ~15 cm sul lato interno che sarà rullata con la striscia adiacente; si lascia inoltre tra corsia e corsia un piccolo gradino (esagerato in Fig. 1.75 per evidenziarlo) al fine di  facilitare il drenaggio. La ripresa di un vecchio giunto richiede che questo sia preventivamente spalmalo con bitume (RC). Non si deve operare con temperatura ambiente < 4°C oppure con stagione piovosa o in presenza di nebbia umida od ancora sulla superficie bagnata.

Lo spessore dello strato deve essere almeno 1.5 volte la pezzatura massima e ciò per evitare strappi nel manto da parte della finitrice. I conglomerati di base, quando lo spessore finito supera i 12 cm, vanno stesi in 2 strati successivi. La velocità della finitrice deve essere quella ottimale per quel tipo di macchina tenendo conto del ritmo degli arrivi dei trasporti in modo da ottenere uno spandimento uniforme senza arresti. Negli strati successivi i giunti longitudinali in ciascuno strato devono essere spostati dai 15 ai 30 cm rispetto a quelli sottostanti. Essenziale è il controllo preventivo delle quote del piano di posa e la messa opera di punti di riscontro, del tipo idoneo alle caratteristiche della finitrice così che la superficie finita risulti uniforme ed ai livelli previsti. Anche i riferimenti dell’asse stradale vanno mantenuti fino a completamento.

Fig. 1.75 –  Gradino su fascia, lato interno.

1.16.5 – II costipamento

La durata del tappeto bituminoso dipende in buona parte dalla rullatura. Esistono teorie diverse sui tipi di costipatori da usare e sulle precedenze: tenuto conto, tuttavia, dei mezzi di controllo delle temperature oggi a disposizione, si può dire che tutte le procedure sono accettabili purché si operi quando la miscela è lavorabile tenendo presente che la superficie dello strato si raffredda rapidamente mentre a poca profondità la miscela si conserva plastica a lungo. Le condizioni ambientali assumono grande importanza al riguardo; nella Fig. 1.76 sono rappresentati due metodi validi di costipamento: il cosiddetto break-down, o rullatura iniziale, con poche eccezioni segue subito la finitrice a meno che la temperatura non sia molto elevata oppure se lo strato da costipare eccede i 4÷5 cm motivo per cui il rullo affonda eccessivamente.

I primi passaggi devono essere comunque molto cauti per evitare ondulazioni e fessurazioni; se il rullo, tuttavia, nella sua azione spostasse troppo la miscela è opportuno accertarsi della qualità di quest’ultima. Iniziando col rullo gommato (Fig. 1.76b) la pressione esercitata deve essere dell’ordine di 3÷6.3 kg/cm2. I rulli a cilindri, equipaggiati con palette e spruzzatori d’acqua per evitare che la miscela aderisca, devono risultare preferibilmente a 3 assi in quanto il peso tende a gravare sull’asse in posizione più alta rispetto agli altri riducendo così le possibili ondulazioni; dovranno inoltre compattare all’indietro e cioè con la ruota di sterzo dietro le altre.

Fig. 1.76 – Movimenti dell’operazione di costipamento.

Per gli strati di conglomerato di notevole spessore i rulli vibranti, per la loro azione in profondità, si rivelano i più idonei; sono consigliati quelli in cui entrambi i rulli, compreso quindi lo sterzante, sono a vibrazione controllata; si avanza in tal modo con lo sterzante statico per poi farli vibrare entrambi al ritorno ed in ultimo, nella fase di finitura, togliendo alla macchina ogni vibrazione.

La vibrazione è tanto più necessaria nel costipamento di strati di base; tuttavia deve sempre cessare automaticamente quando la macchina si ferma o cambia direzione di marcia per impedire che nel luogo d’arresto si verifichi una depressione dello strato che sarebbe poi molto difficile eliminare. Lo sforzo compattivo del vibratore è proporzionale alla sua velocità così che lo sforzo esercitato a 2.4 km/h è praticamente uguale a quello di due passaggi a 4.8 km/h operando con la medesima lunghezza d’onda; ne consegue che è meglio compattare a bassa velocità e comunque mai a velocità > 4÷5 km/h. Un altro vantaggio del rullo vibrante è di essere efficace anche a temperature della miscela relativamente basse (quella ideale per la macchina è 70÷100°C); resta peraltro discutibile se sia meglio un rullo pesante a bassa frequenza di vibrazioni o viceversa, quale sia il tipo di sospensione più idoneo e quale il rapporto velocità/frequenza. La risposta migliore è evidentemente quella che fornisce in situ la massima densità e la migliore finitura.

La rullatura, sia essa statica, dinamica o gommata, va sempre iniziata dal bordo verso il centro con sovrapposizione di mezza ruota ad ogni passaggio ed evitando di finire le successive passate sempre allo stesso punto.

Serrare una rullatura vuoi dire costipare subito il bordo libero affinché non si deformi; dopo un primo consolidamento, si può rullare anche diagonalmente o per traverso se ciò risultasse opportuno. In curva si inizia dal bordo interno. Si arresta il costipamento quando le tracce delle ruote non sono più riscontrabili. E’ opportuno evitare le soste del rullo sul tappeto ancora caldo. L’eccesso di bitume nella miscela viene evidenziato dal suo rifluire sotto il rullo e dall’aspetto grasso della superficie; all’opposto la miscela povera di legante tende a segregare in ammassi assumendo un aspetto opaco.

Concludendo, il costipamento deve essere uniforme senza eccessivi ritardi operativi tra una zona e l’altra e completo nel senso che deve essere raggiunta la densità richiesta ovunque.

1.16.6 – Inconvenienti più comuni nella posa dei tappeti bituminosi

Tra i più frequenti è il cracking o formazione di screpolature dovute o ad un eccesso di fine nella miscela oppure perché questa è troppo calda o fredda. Le fessure e gli ondeggiamenti sono quasi sempre imputabili a manovre errate del rullo; gli avvallamenti,a soste dello stesso sullo strato troppo caldo. Gli strappi possono dipendere:

–       dalla miscela troppo secca, o troppo ricca o dalla scarsità di fine;

–       dalla guida o dalla barra (tamper) della finitrice in cattivo stato;

–       dall’esaurimento dell’acqua nel serbatoio della macchina.

La segregazione, o presenza nel tappeto di aree a diversa granulometria, se non è attribuibile all’impianto centrale, può essere dovuta a troppi rimaneggiamenti. Le ondulazioni ed irregolarità della superficie sono da attribuire:

– a forti fluttuazioni della temperatura nella preparazione in centrale;

– ad un urto dell’automezzo rifornitore contro la finitrice;

– alle coclee sovraccariche;

– ai controlli di quota difettosi (es. fili di guida laterali non tesi);

– a soste del mezzo compattatore.

Le irregolarità in corrispondenza dei giunti longitudinali si attenuano operando il riscaldatore a raggi infrarossi posto sul lato della finitrice che ammorbidisce il bordo del tappeto cui ci si deve colIegare.

1.16.7 – Tolleranze geometriche nelle basi e nei tappeti di usura

Per controllare la regolarità delle superfici, presupponendo si siano rispettate le quote di progetto, si usa comunemente un’asta di 4 m.

Gli avvallamenti tra i punti di contatto dell’asta, posta sia longitudinalmente che trasversalmente, non devono superare in altezza i 6÷8 mm per le basi e 4÷5 mm per i tappeti sempre che gli errori di quota non superino 7 (o 4) mm. Tali valori sono indicativi dipendendo dall’importanza della strada. Lo spessore degli strati è controllato col prelievo di tasselli (uno per corsia ogni 300 m) e sono accettate deficienze fino a 5 (o 3) mm. Riscontrando deficienze superiori si devono intensificare i prelievi e fino a 15 mm si effettueranno le relative deduzioni contabili; deficienze maggiori, che potrebbero pregiudicare la stabilità della struttura non sono accettate.

Le prove di densità dello strato costipato seguono man mano il progresso dei lavori in ragione di due per strato e ogni 500 m lineari di strada utilizzando possibilmente densimetri elettronucleonici.

1.16.8 – Conglomerati bituminosi aperti

Si identificano coi pietrischi bitumati e costituiscono il tipo più semplice ed economico delle miscele bituminose per la maggior tolleranza nella granulometria degli inerti.

La loro stabilità non è basata sul basso contenuto di vuoti, caratteristica delle miscele dense, ma sulla chiusura meccanica del mosaico ottenuta col costipamento ed appunto per l’alto contenuto di vuoti (circa 15%) non sono adatti come tappeti di usura se è previsto un traffico pesante od in climi umidi e freddi sempre ché, in quest’ultimo caso, non si ricorra ad un successivo trattamento superficiale impermeabilizzante.

Tab. 1.26 – Miscele per conglomerati bituminosi aperti.

La loro principale utilizzazione è pertanto negli strati di base e, nelle strade ammalorate, come strato antistrappo, rappezzi etc. Sono detti antistrappo quegli strati ad alto tenore di vuoti (25÷35%)che vengono stesi su vecchie pavimentazioni specie del tipo rigido, in presenza di forti sbalzi di temperatura o fenomeni accentuati di gelo-disgelo con Io scopo di neutralizzare i diversi movimenti del piano di appoggio e del previsto tappeto sovrastante. Lo spessore di uno strato antistrappo è intorno a 10 cm e richiede solo un costipamento leggero con rullo a cilindri da 2÷4 t.

Composizione delle miscele

– l’aggregato grosso, proveniente da rocce semidure, pulito, cubiforme, deve avere elementi non più grossi dei 2/3 dello spessore dello strato costipato;

– l’aggregato fine (< 3 mm) deve contenere una % di filler (passante al n. 200 BS) pari a 2÷5% del totale; la sabbia può sostituire la polvere di cava ma in tal caso il filler deve essere al massimo della percentuale ammessa (5%);

– il legante: i bitumi puri richiedono temperature elevate e l’inerte deve essere pre-riscaldato; la miscela va stesa e costipata a caldo mentre i cut-backs per la presenza di solventi, permettono temperature di lavorazione più basse e quindi tempi più lunghi a disposizione. La quantità di legante è minima per inerti duri (granito, basalto) ed aumenta per quelli scadenti (Tab. 1.26).

Con riferimento al clima, sono da preferire i bitumi teneri o cut-backs di grado elevato in climi temperati riservando la media viscosità in climi caldi e secchi (con aggregato poroso e leggero) ed operando a temperatura ambiente.

Tab. 1.27 – Fuso granulometrico del conglomerato aperto antistrappo.

In inverno e per i rappezzi si impiegano bitumi 180/200. Per i piccoli lavori è frequente il problema della distanza dalla centrale di produzione col rischio che la miscela arrivi quasi fredda e comunque poco lavorabile. Lo si risolve con l’uso di bitumi liquidi del tipo 150/300.

Tab. 1.28 – Miscele per rappezzi anche estesi.

Oppure 350/700 a seconda della temperatura ambiente mentre per i rappezzi, se il clima è freddo ed umido, è preferibile il ricorso alle emulsioni del tipo cationico.

1.16.9 – Conglomerati bituminosi chiusi

Tali composti comprendono i calcestruzzi bituminosi (contenenti un 50÷60% di pietrischetto o graniglia) e le malte bituminose. Trattandosi di prodotti ad elevate caratteristiche per resistenza e durata, richiedono numerosi controlli sia sulla qualità dei materiali che sulla confezione ed inoltre più elevati tenori di bitume. Trovano il loro principale impiego nei manti di usura per strade di grande comunicazione e per aeroporti dove fondazione e strati di base sono adeguati ai loro costo. Le malte, che richiedono le più alle % di additivo e di bitume sono utilizzate prevalentemente nelle strade urbane in quanto forniscono tappeti scorrevoli e di estetica piacevole, mentre i calcestruzzi, per la loro scabrezza ed economicità, nelle strade extra-urbane.

Tab. 1.29 – Conglomerati chiusi per tappeti d’usura impiegati in Italia.

Nei calcestruzzi bituminosi la percentuale dei vuoti nella miscela secca (inerte+filler) non deve superare il 18÷22%, la prima cifra quando l’inerte ha la massima pezzatura di 20÷25 mm con il 5÷7% di legante previsto (bitumi duri). La miscela corretta, entro ì limiti dei fusi granulometrici, è ottenuta attraverso le prove di stabilità. Un tappeto di usura, una volta in opera, deve avere una % di vuoti (3÷6) sufficiente per assorbire eventuali eccessi di legante che, in caso contrario, provocherebbero trasudamenti rendendo il tappeto instabile; nel contempo deve assicurare l’impermeabilità dello strato.

Tab. 1.30 – Granulometria della miscela secca per tappeti di usura.

Contribuisce notevolmente ad accelerare il decadimento di un tappeto di usura, la cui durata media è di 3÷4 anni, la presenza di gomme chiodate molto comuni nelle regioni soggette ai geli; d’altro lato, le Amministrazioni contrastano la formazione del gelo sulla superficie stradale (verglas) con lo spandimento di antiderapanti che deve essere tempestivo e comunque costoso.

Per ridurre la portata dei due problemi e garantire una maggiore sicurezza al traffico nei tratti stradali soggetti al fenomeno, specie se in pendenza, si ricorre al cosiddetto cloutage e cioè all’amaraggio, su di una matrice di malta bituminosa a tessitura fine, di pietrischetto prebitumato pezzatura 15/25 in ragione di 6÷10 kg/m2. Il pietrischetto, che deve avere un coefficiente di frantumazione < 100, è trattato in centrale con circa il 2% di bitume 280/200 opportunamente flussato affinché i granuli non aderiscano tra loro prima dell’uso.

Tab. 1.31 – Penetrazioni consigliate dei bitumi nei conglomerati a seconda del clima (Asphalt Institute).

Stesa con vibrofinitrice la malta bituminosa di supporto (4÷4.5 cm di spessore) si procede a un breve intervallo alla caduta del pietrischetto a mezzo di una tramoggia semovente provvista di rullo dentato a taratura elettronica che consente un dosatura calibrata e quindi uno spandimento uniforme. Segue poi la rullatura, ad opportuna distanza di tempo con tandem a cilindri da 8-9 ton così da lasciare una superficie rugosa che migliora il coefficiente di attrito radente riducendo sensibilmente l’usura del tappeto.

Tab. 1.32 – Spessori minimi dei tappeti dì usura (U), collegamento (C) e di base (B) (Asphalt Institute).

1.16.10 – Conglomerati bituminosi semidensi o chiusi economici

Comprendono una vasta gamma di miscele bituminose che si differenziano dai conglomerati chiusi per le maggiori tolleranze granulometriche. Tra i più noti sono:

a) Miscele di sabbia (dry-sand mix): Sono malte a basso costo composte da sabbia naturale (89%) mescolata con cut-back (6,5%) e filler (4,5%) ed impiegate come tappeto di usura per strade a traffico medio-leggero nei Paesi caldi ed asciutti dove la sabbia e facilmente reperibile.

Fig. 1.77 – Sezione di una pavimentazione in conglomerato bituminoso di una autostrada in USA. 1) tappeto di usura (40 kg/m22) binder (70 kg/m2); 3) calcestruzzo bituminoso di base spessore 18 cm; 4) sottobase in aggregato di frantoio (15 cm); 5) fondazione con materiale avente un CBR minimo di 30 e di spessore variabile (15÷30 cm); 6) terreno vegetale.

b) lo slurry-seal: E’ un conglomerato simile al precedente, composto di aggregato fine a fuso granulometrico molto chiuso, asfalto emulsionato ed acqua. Se applicato con criterio riempie connessure. giunti, screpolature di superfici bituminose ammalorate formando un tappeto della durata di 2÷3 anni. E’ usato con fini analoghi, anche su vecchie pavimentazioni di cemento. Lo slurry-seal è prodotto e steso da una macchina montata su un comune autocarro a bassi rapporti di velocità. Lo spessore dello strato è di 5÷7 mm e si presenta appena steso come una malta molto plastica che non richiede particolari finiture. E’impiegato anche nelle aree di parcheggio, banchine etc.

Tab. 1.33– Valori limite per l’accettazione dei conglomerati bituminosi (norme USCE)

1.16.11 – Conglomerati freddi (grave-émulsion)

Sono mescolanze a freddo di uno scheletro minerale molto vicino a quello dì un conglomerato bituminoso normale, con emulsione bituminosa a rottura lenta, cationica o anionica a seconda dei casi. L’inconveniente principale cui si può andare incontro è l’eventuale necessità a rimuovere l’eccesso di umidità mentre il principale vantaggio è lo spandimento a freddo. Un altro vantaggio è la possibilità di preparare la miscela in impianti mobili di piccole dimensioni, di facile spostamento così da poter utilizzare giacimenti di inerte del luogo risparmiando quindi notevolmente sui trasporti; infine la miscela è stoccata

Tab. 1.34 – Composizione dello slurry-seal. L’emulsione é realizzata o con asfalto lento (minimo residuo 57%) con pen. 60÷70 se ii clima è caldo, oppure dilazionato nel tempo, con bitume 180/200 o 80/100.

Per la stesa, la macchina ideale è il grader che rende facile il rimescolamento e l’aerazione della miscela quando alla fabbricazione o per effetto di una pioggia, l’umidità e in eccesso.

Il costipamento viene eseguito non appena regolarizzata la superficie dal grader a mezzo di rulli gommati oppure vibranti a seconda dello spessore dello strato e della composizione. Il grader continua la sua azione di finitura mentre il rullo é operante. La loro principale utilizzazione è nelle riprofilature, ricarichi etc. e richiede sempre un sovrastante tappeto di usura.

1.16.12 – Asfalti colati

Sono malte bituminose ottenute miscelando aggregato medio e sabbia con mastice di asfalto e bitume (quest’ultimo in % molto minore).

Si usano oggi per lavori particolari: ricopertura di vecchie massicciate in pietra naturale, marciapiedi, campi di gioco etc. Possono essere stesi anche durante la stagione fredda, purché non geli, e consentono il ricupero del materiale per un suo riutilizzo previa aggiunta dell’1÷2 % di bitume fresco. Due tipiche composizioni sono riportale nella Tab. 1.35.

Richiedono alla posa una temperatura di 160÷180°C e quindi il trasporto dalla centrale richiede caldaie a rimorchio con focolare e mescolatore.

Tab. 1.35 – Miscele per asfalti colati.

1.16.13 – Conglomerati anti-kerosene

Per ridurre i danni causati dal percolamento di prodotti petroliferi sugli strati di usura soprattutto in aree di stazionamento, parcheggi ecc. si sostituisce nella miscela al bitume il catrame che è molto più resistente sopratutto se mescolato a prodotti di sintesi (es. il cloruro di polivinile) che aumentano la resistenza alla ossidazione ed agli sforzi statici. Si ricorre inoltre a miscele che portano ad una forte compattezza per rendere la penetrazione del liquido, per ridurre la circolazione dell’aria nei pori (che invecchia il catrame) e per rendere più rigido lo strato.

Tab. 1.36 – Principali inconvenienti e probabili cause nella posa dei conglomerati bituminosi.

1.16.14 – Impiego della gomma nei conglomerati bituminosi

I vantaggi conseguibili con l’aggiunta di gomma sintetica (od anche ricavata da vecchi copertoni) nei conglomerati bituminosi sono diversi:

–       maggiore resistenza all’abrasione, alla flessione ed all’urto;

–       minore sensibilità termica dello strato;

–       maggiore adesione del legante agli elementi lapidei;

–       miglioramento del coefficiente di attrito della superficie.

La gomma sintetica è un prodotto derivante dalla polimerizzazione di sostanze quali il butadiene, lo stirene etc. ed il suo lattice è una emulsione acquosa in cui le particene di gomma hanno dimensioni dell’ordine dei decimillesimi di mm. Nei lattici sintetici, appositamente approntati per le pavimentazioni stradali (soprattutto in corrispondenza dei ponti), il polimero in esso contenuto ha elevata elasticità, resiste adeguatamente alle temperature di lavorazione ed è molto compatibile col bitume così che la miscela riesce molto omogenea. La quantità di lattice deve essere tale che la gomma, rispetto al bitume, si trovi nella % dell’1.5÷3 in peso. Indicativamente, la % della gomma in una malta bituminosa si aggira su valori ~ 0.5%. La Shell fornisce una miscela (Cariphalte-DM) di due componenti;

– bitume altamente compatibile ai polimeri;

– gomma termoplastica di stirene-butadiene-stirene (SBS) molto stabile per lo stoccaggio.

1.16.15 – L’impiego dello zolfo nei conglomerati bituminosi

Allo scopo di risparmiare bitume si è già sperimentalo con successo lo zolfo thè lo sostituisce per una % ≤ 30% in quanto altrimenti la miscela indurita sarebbe troppo fragile. L’aggiunta di zolfo dà al conglomeralo un colore rosso-bruno e l’odore tipico. La bassa viscosità della miscela ne consente lo spandimento a temperature basse; l’operazione deve essere tuttavia rapida per evitare possibili emanazioni di H2S e SO2 entrambe dannose. Per evitare modifiche all’impianto lo zolfo può anche essere addizionato in sito provvedendo la finitrice di apposito serbatoio distributore. Tuttavia è preferibile la miscelazione in centrale in una speciale unità miscelatrice da cui il composto viene poi mescolato all’aggregato coi sistemi usuali. Possibili inconvenienti: se l’aggregato ha elevate proprietà assorbenti, il composto zolfo-bitume o zolfo-asfalto non densifica a sufficienza lasciando un elevato numero di vuoti. La temperatura di posa del conglomerato deve essere di 130°C in spessori di 5 cm: il costipamento ha luogo dopo 8 ore impiegando un rullo vibrante.

1.17 – Comportamento reologico del conglomerato bituminoso

Il comportamento reologico di un conglomerato bituminoso è legato alle proprietà visco-elastiche del legante, per cui lo studio meccanico del conglomerato non può disgiungersi da quello del bitume. Per quest’ultimo si è già mostrata la possibilità di una più completa analisi visco-elastica mediante la prova di creep compliance e la definizione del modulo di rigidezza Sm, per la determinazione del quale è stato presentato il nomogramma di Van der Poel.

Lo studio delle proprietà meccaniche del conglomerato bituminoso, per contro, oltre a mettere in evidenza l’influenza dei vari fattori che intervengono, deve tendere a determinare gli elementi necessari a pervenire ad un razionale dimensionamento delle pavimentazioni.

Il primo problema, oltre che con le prove normalizzate (ad es. Marshall), può essere affrontato con prove statiche (fluage o prova di creep), le quali permettono di apprezzare più chiaramente la stretta dipendenza fra le caratteristiche meccaniche del conglomerato e quelle del bitume.

II secondo problema, collegato al dimensionamento, riguarda invece lo studio visco-elastico dei materiali con legante bituminoso al fine di definire le relazioni esistenti fra gli sforzi e le deformazioni e stabilire la resistenza a rottura sotto l’azione di sollecitazioni ripetute.

Allo scopo di avere gli elementi necessari per un corretto dimensionamento delle sovrastrutture, alcuni autori hanno ritenuto di ottenere utili indicazioni servendosi di prove di simulazione con modelli sperimentali, in cui, mediante una ruota gommata o con un carrello a più ruote opportunamente caricate fatte girare con data velocità su una pista circolare di dimensioni molto ridotte (Ø ~10 m), si sollecitano strati di materiale bitumato.

Si ha così modo di osservare le impronte più o meno profonde, lasciate dalle ruote (ornierage) per dato numero di passaggi, nelle previste condizioni sperimentali.

In ogni caso i risultati di queste ricerche, per quanto interessanti, non hanno trovato quei larghi consensi attesi.

1.17.1 – La rigidezza dei conglomerati bituminosi mediante prove di Creep Compliance

Come per i bitumi anche per i conglomerati bituminosi è possibile definire il modulo di rigidezza Sm mediante il rapporto fra la sollecitazione σm, costante nel tempo, e la deformazione εm funzione del tempo t di applicazione del carico e della temperatura T alla quale si opera:

Sm = σm/ε(t,T)        (N/m2)

Per temperatura T costante, in una prova di compressione a carico σ, anch’esso costante, su un cilindretto di conglomerato bituminoso, la legge di variazione εm risulta simile a quella indicata nella Fig. 1.78 (prova di creep).

Note le funzioni Sm(t) ed Sb(t) a data temperatura, è abbastanza semplice individuare la relazione (SmSb) in corrispondenza dello stesso tempo di carico tessendo sufficiente leggere nei due diagrammi Sm(t) ed Sb(t) i corrispondenti valori con i quali si trova un punto del diagramma (SmSb). Facendo variare il tempo t si determina per punti l’intera curva (Fig. 1.78); la freccia sta ad indicare che all’aumentare dei tempi di carico i punti rappresentativi (SmSb) si spostano verso il basso. Come già avvertito, il valore della εm dipende, oltre che dal tempo di carico t, dalla temperatura T, per cui anche il valore del modulo Sm viene influenzato da T.

Fig. 1.78 – Diagrammi σm,t e Sm,Sb.

Il tipo di rappresentazione adottato permette, perciò, di correlare il modulo Sm del conglomerato a quello Sb del bitume considerando come variabile un fattore (tipo del bitume, temperatura di prova, sollecitazione) e mantenendo costanti gli altri; la Fig. 1.79 si riferisce a prove eseguite su uno stesso conglomerato facendo variare soltanto la temperatura. Analogamente si è constatato sperimentalmente che il diagramma (Sm,Sb) consente un’unica rappresentazione degli effetti del tipo di legante per date tensione applicata e temperatura di prova (Fig. 1.79).

Fig. 1.79 – Relazione (Sm,Sb) operando su un medesimo conglomerato a T diverse(in alto) e operando a temperatura e carico costante utilizzando bitumi a diversa penetrazione (in basso).

Fig. 1.80 – Rappresentazione del carico σ variabile con t (legge sinusoidale) fra i valori σmax e σmin di compressione e della corrispondente legge di deformazione; da notare lo sfasamento fra εσ.

Infine le prove di Fig. 1.80 si riferiscono a provini di uno stesso conglomerato cui sono stati applicati valori diversi di σ (T = cost). Risulta evidente, quindi, che il metodo di rappresentazione esposto fornisce, in una certa misura, il modo di svincolarsi da taluni fattori sperimentali.

1.17.2 – Le sollecitazioni a fatica nei conglomerati bituminosi

Volendo tener conto del comportamento a fatica degli strati in conglomerato bituminoso è necessario studiare lo stato di sollecitazione ripetuta, assimilabile a quanto avviene nella pavimentazione, e definire un modulo, che risulterà caratterizzato dalla frequenza f delle sollecitazioni e che, nello stesso tempo, metta in evidenza il comportamento reologico del materiale. Il modulo complesso, definito a tal fine, ha nel piano complesso una componente reale associata al comportamento elastico mentre il coeffi­ciente dell’immaginario interpreta le caratteristiche viscose che sono responsabili delle perdite di energia, sotto forma di calore, che intervengono durante la deformazione ciclica.

Se si applica ad un provino cilindrico un carico assiale (di trazione e compressione) sinusoidale di ampiezza σ0 e con frequenza f = ω/ (nella fase di dimensionamento della pavimentazione si deve correlare la frequenza sinusoidale adottata nelle prove di laboratorio con la velocità dei mezzi sulla strada; di solito si adotta una frequenza 10 Hz ritenuta corrispondente ad una velocità dei veicoli pari a 25 km/h → Legge di Klomp):

σ(t) = σ0 sen ωt

si ottiene una deformazione che varia anch’essa con legge sinusoidale ma che, per le proprietà visco-elastiche del materiale, risulta sfasata in ritardo rispetto al carico:

ε(t) = ε0 (sen ωt – φ)

dove φ è l’angolo di sfasamento.

La Fig. 1.80, in particolare, si riferisce ad una sollecitazione sinusoidale di sola compressione fra i valori σmax e σmin.

II modulo complesso resta quindi definito dal rapporto fra σ(t) ed ε(t) :

il cui valore assoluto (costante nel tempo per data frequenza e temperatura di prova) è dato dal rapporto fra le ampiezze delle due sinusoidi:

È anche possibile raffigurare il modulo complesso E(t) in un diagramma polare: il raggio vettore |E| rimane costante mentre l’anomalia φ varia in funzione della frequenza. In forma vettoriale, con la nutazione dei numeri complessi, può scriversi:

E = E‘ + iE

Le due componenti E‘ ed E” prendono rispettivamente il nome di componente elastica e di componente viscosa (|E| = √E2+E2 e tg φ = E”/E’)

È evidente che al variare di ω varia φ ed in conseguenza la componente E‘ (elastica) rispetto alla E” (viscosa).

La conoscenza dell’angolo di sfasamento φ fra carico e deformazione è molto importante poiché il valore di tg φ risulta uguale al rapporto fra componente viscosa e componente elastica del modulo complesso; conseguentemente l’andamento di φ alle varie frequenze di carico è indice del comportamento visco-elastico del conglomerato. Ad es. il decrescere di φ indica una diminuzione di E” rispetto ad E’, ossia un miglioramento delle caratteristiche di risposta elastica del materiale.

Nelle Figg. 1.81 e 1.82 sono riportati i risultati di esperienze a sollecitazioni ripetute eseguite su provini di conglomerato bituminoso per manto di usura alla temperatura di 20°C e per varie frequenze di carico ; all’aumentare di f lo sfasamento φ diminuisce mentre aumenta |E|.

Fig. 1.81 – Variazione dello sfasamento φ in funzione della frequenza f con cui si esegue la sollecitazione (T costante) in un provino di conglomerato bituminoso.

La determinazione del modulo complesso e delle sue componenti elastica e viscosa viene effettuata mediante prove in cui si fanno variare gli sforzi (compressione, trazione, flessione o taglio, secondo il particolare tipo di apparecchiatura) con legge sinusoidale di data frequenza fra un valore massimo ed uno minimo, a temperatura costante, rilevando in funzione del tempo sia gli sforzi che le deformazioni, e quindi lo sfasamento φ. La prova può essere condotta fino a rottura così da ottenere il relativo numero di cicli che occorre compiere, nelle prestabilite condizioni sperimentali, perché il provino, la cui forma si sceglie in relazione alle modalità della sollecitazione, si rompa.

Fig. 1.82 – Variazione del modulo complesso |E| con la frequenza f in prove a fatica eseguite su conglomerato bituminoso per manto d’usura, a temperatura costante.

Eseguendo più esperienze con provini dello stesso materiale si possono ricavare i valori del modulo E in funzione della frequenza dei cicli e della temperatura.

Queste indagini si rivelano di notevole interesse per lo studio del comportamento degli strati bitumati sotto l’azione di carichi ripetuti, poiché consentono di valutare, in linea teorica, lo stato di accumulo del danno per fatica nella sovrastruttura, in una data fase di esercizio quando siano note le entità dei carichi e la loro frequenza. Benché il comportamento a fatica dei conglomerati bituminosi sia molto complesso è stato possibile esprimere la funzione che lega il valore massimo della sollecitazione sinusoidale σN con il numero N dei cicli di carico da effettuare per pervenire alla rottura; dalle esperienze svolte si ritiene accettabile la legge espressa dalla relazione:

che lega la sollecitazione σN, la temperatura T, la frequenza f ed il numero di cicli per la rottura N.

In un diagramma bilogaritmico (σNN), per date T ed f, la relazione è rappresentata da una retta.

Le prove condotte da Verstraeten (Fig. 1.83) sono state effettuate a sollecitazione controllata, usando, cioè, carichi ad ampiezza di sforzo costante.

Fig. 1.83 – Legge che lega εN con il numero N dei cicli di carico per pervenire alla rottura (Verstraeten).

Dividendo l’espressione di σN ricavata in ciascuna prova per il corrispondente modulo E(T,f) ottenuto nella medesima prova, si ottiene la relazione:

ossia:

in cui il termine D non dipende né dalla temperatura né dalla frequenza. Verstraeten ha proposto per il parametro D un’espressione generale che fa dipendere questo dalle caratteristiche del conglomerato:

per cui risulta:

β dipende dalla % di asfalteni; δ dal rapporto Vi/(Vb+Vv) in cui Vi è la % in volume degli inerti, Vb del bitume e Vv la % dei vuoti del conglomerato.

Si ritiene che il campo di validità della relazione risulti accettabile per frequenze comprese fra 3 e 100 Hz e per temperature variabili da – 20°C a +30°C.

Si osserva che la formula di Verstraeten non tiene conto degli effetti prodotti da una variazione di ampiezza della sinusoide del carico, cioè nel fissare il valore di σmax (picco della sinusoide) non risultano determinabili gli effetti prodotti da una eventuale variazione di σmin.

Fig. 1.84 – Determinazione dei coefficienti β e δ necessari per pervenire alla valutazione del parametro D (legge di Verstraeten).

È opportuno, a tal proposito, ricordare che, al limite, per σmin = σmax, il carico dinamico ciclico diventa statico; motivo per cui avvicinando i due valori si passa da valutazioni di resistenza a fatica a determinazioni di Creep Compliance. E’ da notare come le condizioni di sollecitazione cui sono sottoposti i provini nelle prove a fatica si differenzino abbastanza da quelle che possono verificarsi sulla strada, soprattutto per 3 circostanze:

–       mentre in laboratorio i provini sono sottoposti a sollecitazioni sinusoidali con valori costanti di σmin e σmax, sulla sovrastruttura le sollecitazioni sono distribuite con legge del tutto casuale, sia come valore del carico che come frequenza;

–       nelle prove il materiale è sollecitato sempre nello stesso punto mentre sulla strada i carichi sono distribuiti nell’ambito della corsia;

–       in laboratorio non si tiene conto delle variazioni termiche e dell’invecchiamento naturale del materiale.

Queste considerazioni indicano che le prove di laboratorio inducono sul materiale condizioni più severe di quanto poi non avvenga sulla strada. Rimane, quindi, pressoché impossibile simulare mediante prove di laboratorio situazioni di carico e di deformazione che si avvicinino a quelle che realmente si verificano, tuttavia i risultati delle ricerche consentono di introdurre nel calcolo valori che rispondono in maniera soddisfacente alle prevedibili sollecitazioni di lavoro.

In particolare è interessante ricordare come il valore assoluto del modulo complesso aumenti con la frequenza (per una data temperatura), ossia con la velocità dei mezzi che transitano sulla strada mentre per una data frequenza diminuisca all’aumentare della temperatura.

Dalle esperienze finora svolte su conglomerati bituminosi chiusi, alla frequenza di 10 Hz, risultano valori di |E| variabili entro 50÷60 t/cm2 per temperature compresa fra 5÷15°C mentre per temperature entro 30÷40°C si ha |E| = 15÷20 t/cm2.

1.18 – Il drenaggio in superficie

1.18.1 – La baulatura della piattaforma stradale

La baulatura è una misura intesa ad allontanare le acque dal pavimento facendole defluire alle spalle e quindi, con una pendenza più accentuata, alle cunette laterali. La baulatura deve essere ridotta allo stretto necessario per evitare il ristagno dell’acqua che, oltre ad ostacolare il traffico, può penetrare nel pavimento; un suo eccesso è infatti dannoso ai veicoli che slittano più facilmente sulla superficie bagnala (soprattutto non bitumata) per l’irregolare consumo dei pneumatici in particolare quelli accoppiati degli autocarri che danno luogo peraltro a maggiori sollecitazioni della pavimentazione. Il valore della pendenza trasversale dipende dalla scabrezza della superficie stradale e soprattutto dal grado di finitura della stessa: una superficie liscia e ben finita, ossia senza avvallamenti, richiede una baulatura minima.

1.18.2 – Cunette e fossi di guardia

Cunette e fossi di guardia hanno il compito di raccogliere l’acqua piovana proveniente dalla formazione stradale e da aree laterali sovrastanti per convogliarla altrove. Il problema viene studiato in modo diverso a seconda se la strada è in terreno aperto o in centro abitato; in questo secondo caso infatti lo studio va effettuato in connessione con quello delle fognature sia che si intenda riunire le acque di rifiuto delle abitazioni con quelle di scolo oppure tenerle separate.

Fig. 1.85 – Tipi diversi di cunette stradali.

Dove la strada è di riporto risulta pratica operativa comune lasciar scorrere l’acqua del pavimento oltre le spalle e lungo le scarpate fino al terreno naturale; l’erosione è minima se le scarpate sono ricoperte d’erba oppure se l’acqua scorre lungo di esse in un velo uniforme. Pertanto il periodo critico sotto questo aspetto è quando il rilevato è ancora nudo essendo allora che l’acqua, specie se copiosa, provoca profonde erosioni nelle spalle e nelle scarpate mettendo a volte in pericolo l’integrità del pavimento stesso. La zona più pericolosa è sempre alla base dei raccordi verticali (valli) ed ovviamente dove il rilevato è alto.

Un rimedio all’inconveniente consiste nella costruzione di piccoli argini al bordo delle spalle che contengono l’acqua per farla defluire ad intervalli in quei punti in cui la scarpata è stata preventivamente protetta. Dove la strada è in taglio le cunette laterali, oltre a raccogliere le acque della piattaforma stradale e delle scarpate, assolvono anche il compito del drenaggio degli strati portanti mediante la evaporazione che ha luogo sulla loro sponda interna. Sono quasi sempre non rivestite e vengono formate dal grader in fase di preparazione della piattaforma per l’appoggio della base. Se il terreno è di natura coesiva è preferita la sezione trapezoidale (Fig. 1.85a) con un fondo Iargo 40 cm circa ed una profondità variabile da un minimo di 25÷30 cm .

Nei paesi aridi si preferisce la sezione triangolare (Fig. 1.85b) salvo omettere la cunetta in presenza di terre sabbiose o ghiaiose a forte assorbimento in ogni periodo dell’anno.

La pendenza longitudinale varia da un minimo dello 0.3% per cunette in roccia, argilla o rivestite a valori più elevati; dove la strada presenta un’accentuata pendenza, le cunette vanno progettate secondo i calcoli idraulici suddividendole in tratti di uguali sezione e tenendo conto, in ogni tratto successivo, dell’accumulo d’acqua proveniente dai tratti a monte.

Se si tratta della cunetta a valle e se la medesima non è rivestita è comunque opportuno scaricare lontano dalla strada ovunque possibile mediante fossi divergenti; l’acqua della cunetta a monte, se non esiste la possibilità di deviarla in una depressione o in una vecchia cava di prestito (ci si deve in tal caso garantire che l’eventuale tracimazione non provochi dannose erosioni) viene raccolta ad opportuni intervalli in pozzetti e di qui, mediante tombini, dispersa sul lato a valle.

Quando per effetto della eccessiva pendenza la velocità dell’acqua, in una cunetta a fondo naturale è > 0.6 m/s l’erosione è sempre possibile (Tab. 1.87).

Tab. 1.37 – Velocità dell’acqua (m/s) consentita nelle canalizzazioni. Per il terreno naturale i valori si riferiscono a materiale assestato.

Per controllare il fenomeno possono essere impiegati, separatamente od insieme, due accorgimenti:

–       rivestire la cunetta con materiale resistente oppure sostituirla con una tubazione;

–       ridurre la pendenza a mezzo di briglie o scalini (Fig. 1.86 e Fig. 1.89) la cui altezza non deve eccedere 0.8÷0.9 m ad evitare cunette troppo profonde.

Nel primo caso si preferisce possibilmente il pietrame al calcestruzzo in quanto la superficie scabrosa riduce la velocità; per le briglie è da tener presente che quando la pendenza della cunetta eccede il 5% il loro costo è superiore a quello del rivestimento.

Concludendo, la strada ideale da drenare è quella con pendenza longitudinale intorno all’1% che rappresenta l’ottimale per lo scarico della cunetta naturale, con fossi divergenti o caditoie mediamente ogni 50÷70 m col vantaggio di un dislivello quasi costante tra pavimento e fondo cunetta. I fossi di guardia o di intercettamento hanno il compito di intercettare le acque provenienti dai versanti sovrastanti la strada evitando ad esse di scorrere in velocità lungo le scarpate in taglio provocando erosioni, frane e comunque intasando la cunetta stradale; al piede del rilevato (Fig. 1.86) ne facilitano il drenaggio evitando pericolosi ristagni d’acqua. Hanno normalmente sezione trapezoidale dimensionata quando è il caso con calcoli idraulici in cui si tiene conto dell’ampiezza del bacino versante. Il materiale di risulta dello scavo è comunemente utilizzato nella formazione di un arginello a valle che aumenta la capacità del fosso se questo è a protezione di una scarpata in taglio oppure per livellare la depressione che si crea a) piede del rilevato.

Fig. 1.86 – Distanziamento delle briglie in cunette a forte pendenza.

La pendenza longitudinale non deve essere tale da provocare l’erosione del letto; in mancanza di alternative si può interrompere frequentemente il canale principale con deviazioni che portino l’acqua o alla cunetta stradale lungo canalette di cemento disposte ad intervalli sulla scarpata in taglio oppure, più economicamente, la disperdano lontano dalla sede stradale lungo fossetti che corrono secondo le curve di livello; la distanza dell’unghia dalla scarpata non deve essere inferiore ai 4÷5 metri ad evitare pericolose infiltrazioni; se il terreno naturale è ricoperto da un fitto tappeto erboso è preferibile non disturbarlo formando il fosso di guardia con la costruzione di un arginello a valle mediante materiale di riporto.

Fig. 1.87a – Fossi di guardia al rilevato e al taglio.

1.18.3 – II dimensionamento delle cunette e dei fossi di guardia

Le cunette stradali, i fossi di guardia e diversivi, i canali aperti in genere così come gli acquedotti (se il deflusso non è a gola piena) possono essere dimensionati con la formula di Manning; tuttavia si deve tener conto, oltre che della quantità d’acqua, della natura del terreno e della pendenza considerate nella formula, di altre esigenze di progetto.

Si preferiscono le profondità maggiori nelle terre compatte e quindi poco permeabili allo scopo di ridurre l’area occupata; nelle terre sciolte, la dispersione dell’acqua è in rapporto diretto con la profondità. Una base della cunetta troppo larga facilita l’erosione in quanto una portata ridotta d’acqua tende a raccogliersi in un proprio letto più ridotto

Pertanto si adotta possibilmente la sezione trapezia di minima resistenza che cioè a parità di area ha il minimo contorno bagnato e quindi il massimo raggio idraulico :

Fig. 1.87b – Sezione trapezia.

Fig. 1.88 – Nomogramma per il calcolo dei valori idraulici in un canale largo m 0.6 alla base e scarpate 1 su 2 (FHA).

Dell’acqua che fluisce in un canale a debole pendenza si dice che ha una corrente sub-critica o lenta mentre se la pendenza è forte, la corrente è detta super-critica o veloce ed il corretto dimensionamento del canale dipende da questa distinzione. La corrente è sub-critica se la profondità dell’acqua nel canale è maggiore della profondità critica (Pc) e viceversa; in pratica la profondità critica è rappresentata dallo spessore dell’acqua su di una briglia mentre analiticamente, definendo profondità media il rapporto tra la superficie bagnata e la larghezza al pelo acqua, la profondità è critica quando la metà di quella media Pm risulta:

Pm = V2/2g

risultando pertanto indipendente dalla pendenza longitudinale, dalla scabrezza della superficie ed è sempre la medesima con deflusso e sezione trasversale costanti.

Gli effetti della profondità critica sono evidenziati nella Fig. 1.90: dove il fondo del canale aumenta la pendenza la corrente passa da sub-critica a super-criticaed il suo livello già si abbassa a monte del cambiamento; dove la pendenza ridiventa debole il ritorno in fase sub-critica ha luogo bruscamente con un risalto che riduce appunto la velocità.

Fig. 1.89 – Canalette con briglie e pozzetti di deviazione a valle delle acque da cunette troppo lunghe.

Un ulteriore appiattimento del fondo riduce ancora la velocità ed aumenta la profondità dell’acqua a partire da un punto k a monte del cambio di pendenza che prova che con corrente lenta la profondità dell’acqua di una dalla sezione può essere influenzata dalle circostanze a valle della stessa. Per quanto riguarda le scarpate di un canale, se si esclude la roccia o il rivestimento, non devono mai superare il valore di 1 su 2 e si può dire che la sezione migliore è sempre quella che unisce i costi minimi di scavo e manutenzione.

Fig. 1.90 – Effetti della profondità critica sulla corrente di un canale o di un acquedotto a pelo libero: in A la pendenza è debole e la corrente sub-critica; in B la pendenza è forte e la corrente super-critica.

Nel progetto di un canale si deve sempre prendere in considerazione l’eventualità dell’erosione controllando se la velocità dell’acqua supera i valori ammessi per quel tipo di terreno (Tab. 1.37) in questa eventualità si offrono tre alternative :

–       allungare il percorso per ridurre la pendenza e quindi la velocità;

–       ricorrere alle briglie che raggiungono Io stesso scopo;

–       rivestire il canale eventualmente con l’inerbimento, sempre efficace ed economico.

L’inconveniente opposto all’erosione è rappresentato dall’insabbiamento del canale per effetto della pendenza poco accentuata che consente alle particelle in sospensione di depositarsi al fondo riducendo col tempo la sezione e quindi la portata.

Il problema viene risolto, per quanto riguarda le cunette laterali, durante la progettazione del profilo stradale, evitando lunghe livellette orizzontali dove la cunetta è in taglio. Meno economicamente si ricorre ai rivestimenti molto lisci o frequenti caditoie (e relativi tombini) che permettono nei tratti intermedi di accentuare la pendenza della cunetta.

1.18.4 – Pozzi assorbenti

Quando lo smaltimento delle acque meteoriche lungo trincee molto lunghe diventa problematico e comunque quando è difficoltoso disporre di tali acque confluenti nella sede stradale, si può ricorrere, sempre che la natura del terreno lo consenta, ai cosiddetti pozzi assorbenti o perdenti ai quali si indirizzeranno cunette laterali e fossi di guardia.

Fig. 1.91 – Attraversamento della sede stradale con una canaletta.

Premesso che la loro efficacia è evidentemente legata alla permeabilità del terreno ed all’altezza della falda, le ricerche preliminari sono volte all’individuazione di quest’ultima procedendo poi per gradi nella costruzione dell’opera d’assorbimento risultando sovente l’applicazione di formule di progetto poco pratiche. Affinché l’efficacia di un pozzo perdente si protragga nel tempo consentendo alle acque di disperdersi nel mezzo permeabile, è importante che esse siano libere da limi ed argille che andrebbero ad intasare col tempo i meati del terreno. Di conseguenza un pozzo deve essere costituito:

–       da una vasca di decantazione;

–       dalla tubazione verticale, ispezionabile, per lo smaltimento delle acque meteoriche nel mezzo permeabile.

Le vasche hanno dimensioni massime di 2÷3 m di lato e m 1.5÷2.0 m di profondità ed è opportuno dividerle in scomparti per consentire un primo deposito degli elementi più pesanti trasportati dalle acque. Nei pozzi perdenti in cls l’elemento smaltitore è realizzato per sovrapposizione di anelli di cls vibrato alti 50 cm e del diametro di 1÷1.5 m. Ogni anello è provvisto di una decina di fori (Ø 10 cm) ed all’esterno degli anelli è opportuno uno spessore di materiale filtrante di opportuna granulometria.

I pozzi in cls sono adatti nei terreni molto permeabili quali la ghiaia e la sabbia. Possono essere ubicati sotto la banchina stradale laterale o mediana nel qual caso devono essere coperti da adeguata soletta con chiusino d’ispezione oppure, preferibilmente, fuori del corpo stradale.

Una griglia sovrapposta al primo tubo impedisce alle foglie ed altri detriti grossolani di penetrare nel pozzo. Si rivela utile, se le acque trasportano molto materiale fine, la interposizione di filtri di tessuto non tessuto che dovranno essere ogni tanto lavati o sostituiti.

Quando si è in presenza di terre con un coefficiente di percolazione verticale molto basso e per contro è elevato il coefficiente di filtrazione laterale, si può ricorrere a pozzi perdenti riempiti con materiale ad elevata permeabilità così che l’acqua ad essi confluente possa rapidamente percolare verso il fondo.

Evidentemente la loro efficacia è tanto maggiore quanto più profonda è la falda. Il materiale drenante di riempimento deve avere particolari caratteristiche granulometriche così da consentire un facile passaggio dell’acqua trattenendo nel contempo il fine da essa trasportato e che alla lunga intaserebbe il pozzo rendendolo inefficace.

L’impiego infatti di soli ciottoli o pietrame che lasciano vuoti notevoli nel filtro causerebbe un rapido intasamento del pozzo e la formazione di cavità nel terreno da drenare ad esso adiacente.

La soluzione più idonea anche se di più difficile realizzazione è l’adozione di due diverse granulometrie (Fig. 1.92) col materiale più fine all’esterno.

Fig. 1.92 – Sezione verticale ed orizzontale di pozzo assorbente con materiale filtrante.

In alternativa, al filtro di materiale lapideo, si sostituisce uno stoppino di tessuto non tessuto che può essere più facilmente lavato o sostituito. Infine, quando lo strato drenante del terreno naturale o la falda acquifera sono a grande profondità (20 m ed oltre) si possono utilizzare tubazioni metalliche (Ø < 1 m), finestrate nello strato di assorbimento e da infiggere con tecniche simili a quelle adottate per i pali trivellati.

Essendo di difficile manutenzione a causa della loro profondità, i pozzi metallici, oltre alla griglia di imbocco, debbono essere provvisti di un cestello costituito da un tubo in lamiera, alto ~1 m e con al fondo una rete inossidabile, che può essere sfilato con un arganello durante le operazioni di ripristino. La distanza tra due pozzi successivi deve essere tale da eliminare ogni influenza reciproca. Normalmente 50÷60 m è la misura minima.

1.19 – II drenaggio del sottosuolo

I vari sistemi di drenaggio di profondità hanno il compito di eliminare l’eccesso d’acqua esistente nel terreno interessato dalla strada e più in particolare:

–       intercettare l’acqua d’infiltrazione proveniente dalle scarpate in sterro;

–       abbassare il livello della falda freatica così da prevenire la saturazione della fondazione;

–       allontanare l’acqua meteorica non raccolta dai drenaggi di superficie che potrebbe infiltrarsi nella struttura;

Sono pertanto applicati nei seguenti casi:

–       quando la strada attraversa terreni ricchi di acqua;

–       quando nelle sezioni in sterro le scarpate laterali, di natura erosiva, sono soggette o per la loro natura o per l’andamento degli strali all’azione dell’acqua proveniente da zone sovrastanti;

–       nelle strade a tre e più carreggiate con banchine mediane dove le contro-pendenze e la notevole larghezza della piattaforma non consentono la completa utilizzazione degli scoli superficiali.

1.19.1 – La neutralizzazione degli effetti dell’acqua del sottosuolo (Fig. 1.93)

Si ottiene ricorrendo ad una o più delle tecniche seguenti:

a) – elevando il livello del pavimento mediante il rilevato;

b) – interponendo uno strato impermeabile o di intercettamento;

c) – costruendo drenaggi di profondità sottoforma di tubazioni.

Fig. 1.193 – Tre metodi per evitare la risalita della acque del sottosuolo.

a) Nello stabilire il livello del pavimento si deve tener conto del probabile periodo di tempo nel corso dell’anno in cui il sottosuolo è saturato; ciò dipende soprattutto dalle condizioni climatiche della zona e della natura del terreno. La Tab. 1.38 fornisce indicazioni al riguardo: in ◊ è fornita la minima sopraelevazione della base rispetto al previsto livello della falda, in ● rispetto al piano di campagna nei tratti di strada in cui il drenaggio naturale di superficie è inadeguato.

Tab. 1.38 – Altezza minima del rilevato per l’isolamento dalla umidità del sottosuolo.

b) L’isolamento del pavimento mediante una membrana impermeabile; ad es. un foglio di politene posto ad almeno 60÷90 cm (quest’ultimo valore dove più elevata è l’umidità) dalla superficie del pavimento ha già dato buoni risultati.

Meno sicura è l’applicazione di una mano di bitume o lo stendimento di uno strato di terra stabilizzala con bitume per la possibilità di infiltrazioni attraverso fessure e la formazione tra pavimento e membrana di pericolosi accumuli di umidità. Dove è disponibile sabbia grossa o ghiaietto fine, di uniforme granulometria, si può interporre uno strato di questi materiali per uno spessore dai 10 cm (se il sottofondo é sabbioso e normalmente non saturo) fino a 35÷40 cm per sottofondi argillosi molto umidi.

La contaminazione dello strato con la penetrazione del fine portato dalla circolazione dell’acqua e evitato proteggendone le due superfici con paglia, muschio, piote erbose e più rapidamente, per quella superiore, con sottili fogli di plastica. L’altezza della membrana, comunque sia la sua composizione, rispetto al livello della falda, non deve essere < 20 cm.

La protezione degli strati portanti dalle acque d’infiltrazione provenienti dalle banchine (il cosiddetto effetto di bordo che può interessare fino a 3÷4 m di pavimento) è ottenuta bitumando le banchine stesse per una larghezza di almeno m 1.5; l’operazione è tanto più necessaria se la banchina è stabilizzata.

c) L’abbassamento della falda sotto il corpo stradale può essere ottenuto con lo scavo di un fosso longitudinale molto profondo, non sempre attuabile, o con la posa di un tubo di drenaggio seguendo la tecnica indicata in Fig. 1.94.

   

Fig. 1.94 – Drenaggio di profondità.

Una tale costruzione effettuata sotto la cunetta stradale ha pure la funzione di intercettare le eventuali acque laterali dirette verso la strada ed è comunque indispensabile quando la formazione posa su di uno strato inclinato impermeabile.

Studi recenti sull’efficacia di queste tubazioni raccomandano:

–       l’impiego di tubi in cemento poroso od in plastica con fessure di 1 mm aventi una superficie di almeno 50 cm2 per mlin di tubo;

–       il materiale funzionante da filtro attorno al tubo deve essere sufficientemente fine da impedire che il terreno adiacente penetri nel tubo; a titolo di es., in presenza di terreno limoso, si deve usare sabbia (e possibilmente materiale più grossolano verso il centro); in generale, aggregato naturale 0/30 a grani regolari, minimo equivalente di sabbia 40, passante il setaccio da 0,2 mm < 10% (Fig. 1.95);

–       la sommità del drenaggio deve essere sigillata con materiale argilloso ad impedire la infiltrazione dell’acqua di superficie;

–       la pendenza longitudinale deve essere tale da evitare il deposito dei detriti lungo il tubo:

–       tubi Ø fino a 20 cm: 0,002 se argille: 0,003 se terre sabbiose;

Fig. 1.95 – Caratteristiche del materiale drenante secondo Terzaghi (adottata da norme CNR).

Quando il pavimento stradale raggiunge una notevole larghezza e le condizioni ambientali sono tali da richiedere il drenaggio sotto a! pavimento stesso, una tecnica comune è quella di disporre i dreni trasversali a spina di pesce con un collettore centrale che a sua volta scarica ad intervalli fuori della formazione. I dreni sono oggi prevalentemente costituiti da tubi in PVC forati coperti con ghiaietto od anche con pietrame.

1.20 – Opere relative ad instabilità riguardanti la sede stradale

L’argomento, dal punto di vista tecnico specifico stradale, è sicuramente più puntuale della trattazione relativa alle instabilità in genere di cui si è trattato La classificazione generale, di conseguenza, non si presta ad essere seguita nello studio delle opere, motivo per cui si è ritenuto opportuno distinguere questo in tre parti, riguardanti:

–       opere per instabilità preesistenti alla costruzione della sede stradale;

–       opere per instabilità che sono determinate dalla costruzione della sede stradale stessa;

–       opere riguardanti direttamente la stabilità del corpo stradale e dei sottofondi.

Prima di eseguire queste opere è sempre opportuno svolgere uno studio generale e completo della situazione geologica interessante la zona prossima a quella in dissesto, procedendo al prelievo di campioni, in profondità ed in estensione, mediante sondaggi.

Oggi queste indagini sono rese più semplici da dispositivi ad hoc; rientrano fra questi le sonde a radioisotopi, per la misura della densità e del contenuto d’acqua, i sondaggi elettrici per individuare andamento e posizione della superficie di scorrimento di una falda franosa, i sondaggi geosismici studiati e preordinati con opportuno criterio.

1.20.1 – Opere per instabilità preesistenti alla costruzione della sede stradale

Quando ci si trova nelle condizioni nelle quali un tracciato stradale investa zone di cui si conosce già la preesistenza d’instabilità in atto o potenziali, è necessario che le indagini geognostiche e geotecniche siano svolte con particolare attenzione, in modo da stabilire l’estensione dell’ammasso instabile e la causa stessa dell’instabilità. È chiaro che, in queste circostanze, l’apertura di una trincea, ovvero la creazione di un rilevato, produrranno, oltre che per le variazioni del peso proprio tolto od aggiunto, anche per l’azione dei carichi mobili, sicuramente un effetto negativo sulle condizioni generali dell’equilibrio, per cui sarebbe consigliabile allontanare il tracciato prescelto da queste zone. L’adozione di varianti comporta, in genere, maggiore lunghezza e tortuosità del tracciato, perciò, in molti casi, e finché permane possibile, è preferibile risanare la zona creando le opere necessarie a ristabilire l’equilibrio dell’ammasso oppure, in un pendio soggetto alle erosioni, allontanandolo dalla condizione limite superficiali.

Fig. 1.96 – Piantagioni e gradonature in un pendio soggetto ad erosioni superficiali.

Per le corrosioni od erosioni superficiali il rimedio, che si è palesato più conveniente, è costituito da piantagioni e da protezioni (gradonature, graticciate) come mostrato in Fig. 1.96. Il rivestimento erboso viene eseguito con coltivazioni, sulle falde erose, di erbe e piante dalle radici profonde ed a rapida crescita.

L’attecchimento delle piante sull’argilla è difficile per la mancanza di una sufficiente aerazione delle radici, e quindi sulle falde argillose è necessario scarificare uno strato superficiale di modesto spessore onde sistemarvi uno strato di terra vegetale. Talvolta, sempre per facilitare lo sviluppo delle piante sulle scarpate, si adottano le viminate e graticciate.

Si infiggono sul terreno lungo le linee di livello una serie di paletti di legno intervallati di 60÷70 cm e della lunghezza di cm 60÷100, in modo che fuoriescano per circa cm 30÷40; poi fra le teste di detti paletti si intessono delle verghe flessibili di castagno o salice, formando un graticcio di vimini capace di trattenere uno strato di terra vegetale sulla quale si può agevolmente porre il seme o la piantina (Fig. 1.97).

Fig. 1.97 – Esempio di graticciata per la protezione di una falda dalle erosioni superficiali.

Inoltre, le erosioni possono essere evitate mediante rivestimenti in muratura. Sono, però, da escludere le strutture rigide in calcestruzzo o in muratura con malta poiché, in questi casi, non potendosi impedire completamente il contatto delle acque meteoriche con la massa argillosa ad essa sottostante, questa si renderà prima plastica poi fluida, rigonfiando ed agendo contro il rivestimento con spinte di tale entità da provocare irrimediabili lesioni in tutta la struttura.

Per il rivestimento di scarpate si usano sovente materiali aridi, che hanno, sia pure in modo scarso, una certa proprietà legante. Ad es., in Sicilia si adoperano a tale scopo i rosticci di zolfo, ossia i residui del minerale solfifero provenienti dai calcaroni o dai forni Gill, oggi del tutto sostituiti da moderni mezzi d’estrazione; rimangono, tuttavia, notevoli riserve di tale materiale accumulatosi, per molti anni attorno alle miniere.

L’estrazione con questi metodi s’effettuava facendo bruciare il minerale in assenza di aria, in modo che la sua fusione avvenisse mediante la combustione di una parte dello zolfo contenuto; si otteneva così una parziale calcinazione del materiale che costituiva la ganga, formata in massima parte da calcio sotto forma di carbonato o di solfato, per cui esso acquistava proprietà simili a quelle possedute da una calce idrata.

Costipando uno strato di rosticci, il cui costo praticamente è rappresentato soltanto dalle spese di trasporto, dopo averlo preventivamente umidificato, si ottiene un ottimo manto di protezione.

Fig. 1.99 – Sistemazione con gabbionate per proteggere una strada da possibili fenomeni di instabilità a monte.

Opere ben diverse, invece, devono essere previste qualora si tratti di instabilità le cui cause sono da ricercare nell’azione di acque di infiltrazione o nell’effetto del ritiro. Tali cause, separatamente o in combinazione fra loro, producono quei fenomeni normalmente chiamati smottamenti, in cui si rilevano movimenti di masse non molto estese con velocità variabile, in genere crescente con il tempo. E’ possibile, allora, provvedere con tre diversi tipi di opere: gabbionate o muri, inerbimento, cunettoni di guardia. In realtà i cunettoni di guardia rappresentano un provvedimento che va adottato anche in molti altri casi d’instabilità. Quando è necessaria una grande urgenza si collocano in modo opportuno alcune gabbionate al piede della falda in smottamento, sempre che sia facile l’accesso nella zona (Fig. 1.99).

In molti altri casi l’uso delle gabbionate è da preferire alle strutture rigide, specialmente in ammassi dissestali per plastificazione, almeno finché questi non abbiano raggiunto un nuovo equilibrio, perdendo l’umidità in eccesso ed adattandosi al nuovo regime idraulico derivante dai dreni e dalle opere realizzate. Una struttura rigida, come un muro, durante questo periodo di transizione, che non di rado dura anche più anni, potrebbe risultare non idonea, e provocare dei nuovi, più gravi, squilibri.

Per quanto riguarda le gabbionate, è opportuno che queste abbiano estensione ed altezza (anche se a più file) non eccessive, per non aumentare il peso gravante sul terreno; la superficie di appoggio di una gabbionata dovrà essere scelta sempre al disotto di quella di scorrimento. Per questa scelta occorre una approfondita conoscenza del tipo di movimento dato che, in molti casi, lo scorrimento avviene su superfici di neoformazioni, ossia non corrispondenti a superfici di separazione fra strati di diversa struttura geologica.

I fattori che concorrono a stabilire la formazione di queste superfici di distacco sono molteplici, perciò, tornando al problema relativo alla scelta del piano d’appoggio delle gabbionate, non sempre è consigliabile spingerne la ricerca fino allo strato impermeabile, che potrebbe essere molto profondo, col risultato che l’opera divenga antieconomica.

In tali casi è più conveniente, viceversa, preoccuparsi di evitare le infiltrazioni nella zona a monte. Le instabilità dovute alle acque freatiche o di falda, quasi sempre accompagnate da cause dovute a condizioni geologiche e/o strati-grafiche, rivestono notevole importanza in quanto interessano grandi masse, e perciò sono chiamate comunemente scoscendimenti di massa, o frane vere e proprie. La falda freatica, scorrendo su una superficie impermeabile, crea le condizioni idonee allo scivolamento, formando sul piano di separazione un velo di argilla plastificata che funziona da incentivo agli effetti dello scivolamento della massa soprastante.

Se la massa instabile è di notevole entità, le opere di pronto intervento risultano, quasi sempre, inadeguate ed antieconomiche. È opportuna, viceversa, la costruzione di opere quando la situazione non sia compromessa ed il movimento di guardia non sia già in atto; per tale motivo è consigliabile che si svolga dapprima uno studio generale e completo della situazione geologica, procedendo a in profondità ed in estensione mediante sondaggi diretti e indiretti.

Fig. 1.100 – Opere di protezione di una scarpata.

Le opere da eseguire variano, pertanto, da caso a caso, e possono essere costituite da: drenaggimasse resistenti (muri e banchettoni di controspinta,che si oppongono alle masse in movimento) sistemazioni di terrazzamentibriglie etc. Esempi di tali opere sono indicati nelle Figg. 1.100, 1.101 1.102.

La prima opera da eseguire, in ogni caso, consiste nella sistemazione idraulica della zona a monte, in modo da intercettare le acque meteoriche prima che esse raggiungano la zona instabile. Si costruiscono, perciò, fossi di guardia o cunette in modo da circondare la zona in movimento o in equilibrio limite, e si convogliano le acque mediante dei canali (rivestiti o non) che seguano le naturali linee di impluvio, fino ai canali di scolo. Per intercettare le acque provenienti da vene o da falde sotterranee, come visto, si ricorre a drenaggi che, per ben funzionare, devono spingersi fino al disotto del piano di scorrimento.

Fig. 1.101 – Sistemazione di drenaggi per l’intercettazione di acque provenienti da falde sotterranee in zona instabile.

Talvolta, quando il fenomeno è molto limitato, specialmente in profondità, possono riuscire utili dei manufatti come contrafforti o speroni, impiantati sugli strati che si trovano a profondità maggiore di quella del piano su cui avviene il movimento; queste opere hanno la funzione di contrastare la spinta della massa.

Fig. 1.102 – Consolidamento di un rilevato ferroviario con drenaggi longitudinali e trasversali con banchettoni al piede.

È interessante accennare anche alle opere stradali di protezione lungo i corsi dei torrenti, che tendono a scalzare i terreni degli alvei. In questo caso le opere che si consigliano sono:

– le briglie, che, come visto, hanno la funzione di rialzare il letto del corso d’acqua e di difenderlo dalle erosioni di fondo, moderando la velocità della corrente e trattenendo una parte del materiale solido (tronchi, ciottoloni, trovanti rocciosi, sabbia etc.),

– difese di sponda, per salvaguardare i fianchi dell’alveo.

Fig. 1.103 – Consolidamento e protezione di una scarpata di rilevato da un torrente; sezione in corrispondenza del drenaggio trasversale.

Si usano due tipi di briglie: uno, più frequente, è destinato a gradonare l’alveo ripido di un corso d’acqua in modo da ridurre la velocità della corrente e, conseguentemente, l’erosione ed il trasporto solido. L’altro tipo è usato nelle tratte in cui l’alveo ha scarsissima pendenza e tende a vagare; in questo caso le briglie hanno sempre la soglia sagomata e, generalmente, sono accoppiate con difese di sponda; hanno lo scopo di dare alla corrente una via fissa, riducendo o annullando la possibilità di vagare.

Le briglie sono più opportune negli alti bacini dei corsi d’acqua mentre si ricorre alle opere di sponda nei medi e bassi bacini. Le due soluzioni possono, ad ogni modo, adottarsi insieme, ove necessario. Nella pratica realizzazione occorre badare, in modo particolare, all’azione dinamica esercitata dalla corrente ed ai pericoli di scalzamento ai fianchi ed al piede. È necessario, ad es., che le briglie abbiano una solida fondazione, sempre protetta a valle da una robusta platea destinata a ricevere l’urto dello stramazzo, e l’usura del materiale solido trascinato dall’acqua che tracima (Fig. 1.104).

Le briglie possono eseguirsi in muratura di pietrame e malta ovvero in conglomerato cementizio; per piccole altezze si può usare la muratura a secco, disponendo alla base (fondazione) una platea protetta, talvolta, da tronchi d’albero o fascine. Il numero, l’altezza e l’ubicazione dei diversi salti sono scelti in funzione della pendenza dell’alveo naturale e della erodibilità del terreno (Fig. 1.05).

Fig. 1.104 – Sistemazione di briglie lungo l’alveo di un torrente per ridurre la velocità della corrente d’acqua.

1.20.2 – Opere per instabilità determinate dalla costruzione della sede stradale

Instabilità di questo tipo ricorrono in strade che si costruiscono su terreni argillosi, i quali non appalesano, a priori, manifesti sintomi di ammaloramenti; ciò dipende, evidentemente, dalla stagione nella quale si esegue l’opera.

Fig. 1.105 – Sistemazione di briglie lungo l’alveo di un torrente per ridurre la velocità della corrente d’acqua.

I provvedimenti che in queste circostanze si è soliti adottare non sempre riescono di sicura efficacia; ad es., nel caso di costruzione di un rilevato, può non essere sufficiente la sola sistemazione del piano di posa mediante costipamento e taglio del pendio a gradoni.

Certamente occorre aggiungere altre opere quali fossi di guardia o cunettoni a monte, rivestimento delle scarpate, oppure inerbimento delle stesse previa sistemazione di uno strato di terra vegetale, costruzione al piede di unghie in pietrame a secco etc.

II rivestimento erboso va esteso nelle zone a valle e a monte delle scarpate del rilevato o della trincea, se queste si presentano nude e quindi suscettibili ai processi di degradazione.

In genere, però, le instabilità dovute all’esecuzione della sede stradale sono dovute a infiltrazioni diffuse ed i mezzi per prevenirle si riducono ai seguenti:

–       opportuno ristabilimento dell’equilibrio di forze, se questo è venuto a mancare per l’apertura di una trincea o la esecuzione di un rilevato, mediante la costruzione di un altro rilevato o la formazione di un’altra trincea;

–       sistemazione idraulica in modo da non modificare il regime delle acque preesistente a monte ed a valle della strada, mediante fossi di guardia, cunette, tombini, drenaggi etc.

Per altri casi particolari si provvedere con opere accessorie già descritte (inerbimento, protezioni superficiali etc.)

1.20.3 – Opere riguardanti direttamente la stabilità del corpo stradale e dei sottofondi

Per quanto si riferisce ai rilevati, se questi sono eseguiti con terreni idonei e con le modalità specificate in precedenza, non devono sussistere condizioni d’instabilità sempre che il terreno di impianto sia sufficientemente stabile e che si sia provveduto alla rimozione dello strato di terra vegetale ed al costipamento meccanico del piano di posa.

Volendo usare per la costruzione di rilevati terreni limo argillosi (A4A6A7), è opportuno limitare la loro altezza a 4÷5 m, curando in modo particolare il costipamento, la protezione delle scarpate con uno strato di terra vegetale per favorire l’inerbimento e tutte le opere di scolo (fossi di guardia, tombini etc.).

Se il piano di posa è soggetto ad ascesa di acque capillari dovrà provvedersi all’asportazione di uno strato di opportuno spessore (30÷60 cm) del terreno ed alla creazione di un diaframma di materiale arido, preferibilmente con IP< 4, con granulometria compresa fra 0.2 e 10 cm (Fig. 1.106).

Fig. 1.106 – Opere per la stabilità di un rilevato su un ammasso in cui sono da temere le risalite d’acqua per capillarità.

Qualora si tratti di rilevati costituiti da terreni limo argillosi su terreni di posa potenzialmente instabili per risalita capillare da falda freatica, è consigliabile adottare drenaggi trasversali (larghezza 1.0÷1.4 m), con trincee a partire da detto piano di posa per profondità da 2 a 4 m, ed intervallati da 12 a 16 m.

In molti casi si completa l’opera con un drenaggio longitudinale a monte (profondità 2÷5 m) e con le classiche opere idrauliche per le acque di superficie (fossi di guardia, cunettoni, tombini).

Per le trincee, i provvedimenti da prendere sono analoghi (muri di controripa con drenaggi profondi, strati anticapillari al disotto della pavimentazione, fossi di guardia etc.), e devono avere lo scopo di allontanare le acque, in modo da mantenere la stabilità delle scarpate e del piano di sottofondo su cui poggia la pavimentazione (Fig. 1.107).

Fig. 1.107 – Opere di difesa dalle acque sotterranee in una trincea.

Il processo di consolidamento di sottofondi molto compressibili, eliminando gli inconvenienti che si producono, spesso, a causa di un assestamento deficitario, può essere accelerato adoperando pozzi o pali verticali di sabbia. Si tratta di veri e propri pozzi trivellati di piccolo diametro (30÷40 cm), che vengono riempiti di materiale granulare (Fig. 1.108).

Il meccanismo drenante dei pozzi è il seguente: l’acqua contenuta nei pori dell’ammasso terroso al disotto del piano di posa, non appena questo sarà caricato, tende a spingersi verso le zone in cui la permeabilità è più elevata, cioè verso i pozzi, rendendo, così, possibile un più rapido consolidamento.

È opportuno raccogliere i drenaggi verticali, nella parte superficiale, in uno strato drenante orizzontale di spessore uniforme, il quale deve servire a mettere in comunicazione l’acqua dei dreni con l’ambiente esterno. Se possibile, inoltre, i pozzi di sabbia si prolungano fino a raggiungere uno strato permeabile sottostante. La distanza di questi pozzi, il loro diametro, la loro profondità etc., dipendono da molti fattori: natura dell’ammasso compressibile, sua stratificazione, azione del carico, grado di consolidamento che si vuole raggiungere.

Fig. 1.108 – Pozzi verticali di sabbia per accelerare il processo di consolidamento del piano di posa di un rilevato.

Per il riempimento dei drenaggi si adotta materiale sabbioso di appropriata granulometria; la California Division of Highway prescrive quanto segue:

–       passante al setaccio 3/4″              = 100,0%;

–       passante al setaccio n. 10 ASTM =   40,0%;

–       passante al setaccio n. 40 ASTM =   15,0%;

–       passante al setaccio n. 200 ASTM =   1,5%.

Applicazioni di questo tipo sono state fatte anche in Italia per il consolidamento di piani di posa di rilevati, con risultati abbastanza soddisfacenti; non si sono rilevati, viceversa, risultati accettabili quando si è trattato di terreni torbosi.

In Germania, ad es., sono stati realizzati, per il consolidamento di terreni molto cedevoli, drenaggi formati da strati di cartone impregnato di sali di arsenico, onde evitare l’azione distruttrice di insetti ed animali, e di resina melaminica, per conferire una maggiore resistenza all’azione dell’acqua.

Infine, fra le opere riguardanti direttamente la stabilità del corpo stradale si devono includere i muri di rivestimento delle scarpate, per proteggere queste dalle erosioni superficiali, oppure le protezioni con reti metalliche e le gallerie paramassi, al fine di evitare la caduta di massi sulla carreggiata.

Quanto esposto è stato racchiuso nella Tab. 1.39 in cui si è riportata una suddivisione delle instabilità in base alle cause, con i relativi collegamenti uniti alle principali opere consigliabili.

Tab. 1.39 – Classificazione delle instabilità degli ammassi terrosi ed opere relative.

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